COME IL PIANOFORTE MI HA SALVATO LA VITA

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COME IL PIANOFORTE MI HA SALVATO LA VITA
PROLEGOMENA
COME IL PIANOFORTE MI HA SALVATO LA VITA
Ho scoperto di far parte della stretta cerchia dei dislessici subito dopo il liceo.
Effettivamente i sintomi c’erano tutti.
Non ho mai gattonato, sono sempre stata molto distratta e ho iniziato a parlare molto tardi, abbastanza tardi
da riuscire a ricordarmelo.
Frequentavo le scuole materne, a quei tempi sulla dislessia e i disturbi del linguaggio non si sapeva quasi
niente e il mio ritardo nel pronunciare suoni fu preso da medici e specialisti come un fattore di pigrizia.
Papà era seduto sul divano quando decisi di dire la mia prima parola.
In realtà ciò che uscì dalla mia bocca fu una frase di senso compiuto, per essere più precisa, un dubbio:
“Papà, il giornale della televisione si chiama telegiornale?”. Già. Un dubbio. Da allora i dubbi non hanno mai
abbandonato la mia esistenza.
Voglio partire dunque, dal raccontarvi la mia storia seppur con qualche difficoltà, dato che parlare di me non
mi è mai piaciuto e soprattutto, leggere davanti a tutti voi potrebbe crearmi qualche scompiglio.
Ho tante immagini della mia infanzia e una di queste, come quella della maggior parte di ognuno di voi, è
l’immagine della scuola che ricordo, in realtà, da un punto di vista inusuale: da dietro la lavagna.
Sono sempre stata una ragazza vivace. A scuola non ero mai attenta, mi piaceva parlare e ridacchiare con i
compagni, scarabocchiare su fogli di carta e inventare passatempi per sconfiggere la noia delle lezioni. Per
questi motivi finivo sempre in punizione.
Il mio primo maestro era uno di quei maestri di “vecchia data”, per intenderci gli mancava solo la bacchetta.
Si chiamava Dario. Il suo nome è stato fonte di terrore per parecchi studenti.
Il maestro Dario era un uomo di mezza età, cattivissimo. Quando in classe si faceva il dettato, passava
sempre tra i banchi e appena notava un errore dava uno schiaffo dietro la nuca ai poveri malcapitati e con
grande rigore urlava “cos’hai scritto lì?”. Tra quei malcapitati c’ero anche io. Facevo molti errori di scrittura e
non ricordavo mai quando, nelle parole, bisognava inserire la lettera “H”. Per andare sul sicuro le inserivo
dappertutto, nella parola “scarpe”, “scatola”, “bosco”, “gioco”…ovunque, di ceffoni dietro la nuca, infatti, ne
ho presi parecchi!
Comunque sia, lasciai il maestro Dario e i miei compagni di classe molto presto, la mia famiglia doveva
spostarsi spesso per motivi di lavoro e così mi sono trasferita in una nuova scuola.
L’incubo del maestro Dario sembrava finito ma in realtà gli insegnanti di lettere mi hanno sempre
perseguitata.
Nella nuova scuola ho incontrato, di italiano, una maestra. Donna di mezza età anch’ella e altra causa di
incubi notturni per me e molti dei miei compagni. Con lei le “H” era impossibile dimenticarsele. Per
costringerti a ricordare l’esatta ortografia delle parole le faceva scrivere cento volte.
Per quanto riguarda la matematica invece, avevamo da poco imparato le tabelline e ricordo ancora il
momento in cui la maestra, una supplente, puntando il dito a caso verso di noi, chiedeva “quanto fa…”.
Chissà perché, a me chiedeva sempre quelle più difficili. Sette per otto. “Angela, quanto fa sette per otto?”.
In quel momento la mia mente si annebbiava, cercavo di ricordarmi la voce della mia mamma che mi aiutava
a ripetere le tabelline ogni sera ma…ahimè, nella mia mente regnava il vuoto assoluto. Le tabelline erano un
tormento. Nonostante gli sforzi, i tanti metodi e trucchetti non riuscivo a ricordarmele.
Per quanto riguarda la lettura, invece, a parte i primi tempi, non ho avuto molte difficoltà ma, nonostante
ciò, avevo sempre paura di sbagliare e così ho sempre evitato di leggere ad alta voce.
Le scuole elementari, ad ogni modo, passarono in un lampo, sebbene ricordo di averle terminate con
qualche dubbio, appunto.
Incominciai a chiedermi il perché non riuscissi a concentrarmi e infatti i maestri, dopo anni di impegno,
iniziarono a scrivere sul mio diario o sul quaderno la frase “puoi fare di più”. Era, forse, un modo per non
darmi l’insufficienza.
Ma è stato alle scuole medie, i tre anni per me più terribili, il momento in cui probabilmente la mia dislessia
aveva raggiunto il suo climax.
La mia concentrazione, infatti, era calata in maniera spaventosa e la mia vivacità si trasformò in una totale
mancanza di reazione agli stimoli. Studiavo. Tantissimo. Non andavo mai a scuola impreparata, o per lo
meno, raramente rischiavo la mia sorte di studente. Nonostante il mio impegno, le verifiche e le
interrogazioni erano un disastro. Andavo male in tutte le materie, tanto che i professori mi obbligarono a
frequentare il doposcuola. Adoravo invece le materie artistiche. Ero la prima della classe, i miei disegni erano
appesi ovunque, le mie “opere” create con materiali di recupero erano dei piccoli gioiellini.
Ma la musica era, in realtà, la mia più grande passione. Come si sa in molte scuole la musica era ed è
studiata malissimo. Nella mia, come in tante altre, si studiava il flauto dolce. A me non piaceva ma per
fortuna nell’orchestra dei flauti io suonavo il tenore e questo mi incoraggiava di più nella partecipazione alle
attività musicali. Fuori dalla scuola invece, studiavo la musica per conto mio. Suonavo il flauto traverso ma
ho iniziato a provare adorazione per il pianoforte sentendo la Sonata n.23 K488 di Mozart per due pianoforti,
una meraviglia, una folgorazione e così ho deciso di studiare anche quello.
Tornando alla scuola, tra le materie che odiavo c’erano la matematica, la geometria, la storia e la
grammatica. Imparare le formule, i passaggi, le date, i verbi e le regole grammaticali erano un’impresa
impossibile.
Voto? Insufficiente, sempre.
Il mio comportamento passivo e, per gli insegnanti, lo scarso impegno, mi portarono ad essere fonte di
scherzi e prese in giro da parte dei miei compagni. Dalle femmine in particolare.
Andare a scuola era quindi una punizione, entravo nell’atrio dell’edificio impaurita e piena di ansia, ansia
verso i miei compagni, verso i professori e verso lo studio.
A casa, ero comunque “seguita”. In famiglia si parlava molto di attualità e cultura. A me piaceva ascoltare le
diverse opinioni che venivano fuori da quei discorsi, ma nel momento in cui dovevo concentrarmi su un libro
provavo molta fatica.
“…Con tutte le diverse scuole e città che le abbiamo fatto cambiare, è possibile che sia un po’ disorientata…”
dicevano mia madre e mio padre ai colloqui con gli insegnanti.
Terminati i tre anni mi sono iscritta al liceo delle Scienze Sociali, i miei insegnanti delle scuole medie erano
contrari giustamente, a questa mia scelta ma la mia famiglia mi ha comunque appoggiata: le materie che
riguardavano lo studio dell’uomo mi hanno da sempre affascinata. In effetti, gli anni del liceo sono stati i più
belli della mia vita.
A sedici anni, rischiando di essere rimandata e notando che in me qualcosa non funzionava, ho sospettato di
avere qualche problema anche con la memoria e, a volte, con il richiamare nella mia mente una parola
qualsiasi, anche semplice.
Per fortuna, ciò che mi salvava dai brutti voti erano i miei “interventi originali” – così definiti dalla mia
insegnante di Scienze Sociali.
Non avevo metodi di studio ma ripensandoci bene, i miei primi e unici strumenti compensativi sono state le
mie compagne di classe. Ascoltando le loro interrogazioni e i loro ripassi a voce alta mi accorgevo che
riuscivo ad immagazzinare tutto. Trovavo che studiare ascoltando era una tattica vincente. Con questo
metodo sono riuscita a finire il liceo con una votazione più che buona e non mi vergogno nel dirvi che ho
studiato la storia, la filosofia, la matematica attraverso l’aiuto dei miei genitori fino all’età di 18 anni.
E’ stato subito dopo la maturità che ho deciso di approfondire l’argomento dislessia. E infatti ho avuto la
diagnosi: discalculia severa e lieve dislessia, associate ad importanti deficit visuo-spaziali, della memoria a
breve termine, e marcate difficoltà di attenzione e di concentrazione.
Ma la diagnosi è arrivata dopo. Prima di essa c’erano solo tante domande che può porsi un’ adolescente
qualunque nel momento in cui nota di non essere all’altezza delle situazioni a differenza dei propri coetanei.
Cosa mi ha salvato e cosa mi sta salvando? Lo studio della musica. Del pianoforte in particolare.
Non avevo idea di cosa fosse la dislessia prima della diagnosi, facevo fatica a concentrarmi è vero,
dimenticavo in poco tempo i termini specifici che studiavo, durante un discorso mi bloccavo perché non
trovavo la parola giusta, insomma, c’era qualcosa in me che non andava ma le mie difficoltà, tutto sommato,
riuscivo a nasconderle abbastanza bene. Ma in musica no. Sono musicale, questo è quello che mi dicono, ma
le note sul pentagramma a volte si trasformano in piccole rondini appese ai fili della corrente.
E’ stata la mia passione che mi ha portato a perseverare.
Un primo scoglio è stato lo studio del solfeggio. Siccome non riuscivo a studiarlo così come mi veniva
spiegato, decisi di comprare diversi libri fino a trovare un metodo di studio tutto mio. Sono riuscita a
superare l’esame in maniera più che soddisfacente.
La mia prima conquista.
Come tutto il resto, trovavo impossibile anche lo studio del pianoforte che si sa, è uno strumento difficile,
richiede impegno, concentrazione e coordinazione. Tutti aspetti per me molto difficili, ma ho sempre amato
le sfide, ho sempre amato la musica e, soprattutto, adoro il mio strumento. Fallire, quindi, non era per me
ammissibile e così il mio intuito mi ha spinto ad annotare ogni sintomo ed ogni difficoltà su un pezzo di carta
per poi, con varie ricerche, arrivare alla soluzione del mio caso: DSA.
Il mio primo dubbio e una prima conferma nella mia difficoltà ad acquisire gli automatismi è stato studiando
le scale. Ho ben chiaro in testa le tonalità ma il procedimento del passaggio del pollice dopo il terzo e dopo il
quarto dito l’ho sempre trovato un enigma impossibile. Ore, ore e giorni di studio sulla scale che ancora
adesso continuo a sbagliare.
Un’altra perplessità è stata la lettura del doppio pentagramma, notavo che i miei occhi si perdevano spesso e
non leggevano simultaneamente i due righi musicali, a volte era come se le note “scappassero” via.
I miei occhi, infatti, non seguono un movimento coordinato.
Mi sono accorta, ancora, studiando gli esercizi al pianoforte di non avere una buona padronanza delle mie
dita. I dislessici, è possibile che abbiano una poca percezione di esse?
Ma nonostante tutto ciò, la tastiera per me era un luogo da esplorare, da conquistare. La tastiera non è che
uno spazio, lo spazio dove io non sono mai riuscita a muovermi, nel quale non ho mai del tutto interagito. Ed
ora che lo studio musicale non è quasi più un problema, posso affermare che il pianoforte per me, è stata
una cura, una fonte di salvezza.
La mia vita è stata salvata dalla musica e studiarla mi ha portato a capire tante cose di me e della mia
dislessia e del mio modo di interagire con essa. Io e lei siamo due entità diverse, lei è la mia rivale tutta da
conoscere e accettare.
Ogni mio progresso è un passo verso la libertà, una catena distrutta ed una conquista verso il mondo.
Angela Basile