Venezia, nella bottega d`arte del pittore

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Venezia, nella bottega d`arte del pittore
Venezia, nella bottega d’arte del pittore Giambattista Tiepolo, un giorno di maggio dell’anno di grazia 1759.
“Ghe vol più luce qua drento, più luce, i visi i xé in
ombra, voggio più ceri!” sbraitava il gran pintor, al momento in auge nella Serenissima, che di pintori talentuosi
ne sfornava in abbondanza e con regolarità, specie in quel
secolo detto dei ‘lumi’. Ma lui, Giambattista, il siòr Tiepolo, il gran ‘frescante’, era senz’ombra di dubbio il migliore, arrivato fino alle lontane corti d’Ungheria e Austria a
portare il suo talento creatore di cieli roseo-dorati quali si
potevano ammirare sui soffitti delle splendenti cupole veneziane, e magico artefice di quei riflessi di porcellana dei
volti delle Madonne che, seducenti e luminose, emergevano dall’ombra delle navate.
Ora il ‘gran frescante’, mentre strapazzava Biagio, il
giovane di bottega – “Quanto tempo te ghe vol per portarme do strazeti, can d’un fiol? E per portar do ceri?” –, era
intento a ritrarre una famiglia nobile veneziana nella sua
bottega al sestiere Castello. La luce naturale del giorno filtrava dai finestroni affacciati sui canali, fondendosi con
quella dei molti candelabri accesi. Ed era proprio questo
l’effetto che ricercava, con quel gusto che aveva del fantastico e del teatrale. Ora stava valutando con lo sguardo
esperto il gioco delle luci e delle ombre: bisognava dire
che quel gruppo di famiglia era proprio bello, con i genitori sfarzosamente vestiti in abiti di seta moiré azzurro cinerino e la putela in rosa pallido, con quella giusta trasparenza di pizzi. Si soffermò sulla bambina, notando i suoi
capelli raccolti in un piccolo torchon alto sul capo, da cui
sfuggivano due boccoli alla moda del tempo, con le mar-
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gherite appuntate sulle tempie e i nastri verdi annodati a
fiocco: la graziosa acconciatura dava proprio quel giusto
‘morbin’ all’insieme. “Ah, che delizia ’sta putela!” commentò il pittore e, sorridendo, le chiese: “Come te ciami,
bela bimba?”.
“Violante,” rispose graziosamente lei, inclinando il capo da una parte.
“Speta, Violante, che gò un’idea.” Il ritrattista si allontanò brevemente per poi tornare con un mazzo di violette.
“Le gavevo zusto de là e le te starà ben su quel vestido: xé
in onor del tuo nome.” Gliele mise tra le mani, sorridendole compiaciuto, mentre lei rimaneva con lo sguardo attonito a contemplarle per qualche istante, per poi iniziare a
tremare convulsamente e infine scivolare a terra svenuta
come un piccolo fiore disfatto.
“Violante!” gridò la madre mentre il viola dei piccoli
fiori sembrava farsi incandescente contro il rosa pallido del
vestito.
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Dove finalmente rimetto piede a Venezia, provando non
poca emozione nel rivedere la città della mia infanzia e
giovinezza. Ma, essendomi in tutto questo frattempo ridotto al verde, sono costretto a ricorrere ai vecchi trucchi per
convincere una locandiera dai capelli rossi a concedermi
vitto e alloggio senza l’anticipo dovuto.
Dopo circa dieci anni di esilio – o di latitanza, per meglio dire –, tornavo a Venezia a bordo di un mercantile, sul
quale mi ero imbarcato a Costantinopoli tre giorni prima.
Ora, dopo tre giorni di disagevole navigazione e dopo un
ultimo scalo a Corfù, ci stavamo avvicinando a vele spiegate alla città che mi diede i natali e in cui, ad onta di tutto,
avevo trascorso i momenti più felici e spensierati della mia
vita.
Il vecchio galeone trasportava prevalentemente merci:
di passeggeri, ne eravamo una decina scarsi, e tra questi,
per mia somma sventura, c’era un commerciante di Treviso, al quale ebbi l’imprudenza di presentarmi con il mio
vero nome e cognome: Giacomo Casanova. Al quale, spinto da chissà che guizzo di sciocca vanità, aggiunsi pure il
titolo di cui mi fregiavo: Cavaliere di Seingalt – anche se,
devo dire, l’origine di tale titolo non mi è stata mai ben
chiara: ma è meglio sorvolare sulla mia complicata genealogia, di cui l’unico dato certo è che fui frutto di una relazione adulterina, sicché, al di là di tutto, posso tranquillamente definirmi un bastardo; quanto al suddetto titolo, del
quale mi ero forse indebitamente appropriato, questi doveva appartenere al mio presunto padre naturale, essendo i
miei genitori legittimi soltanto dei teatranti, privi di qualsivoglia ascendenza nobiliare.
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Ma, come vi dicevo, saputo che ero nientemeno che
Giacomo Casanova, l’avventuriero veneziano resosi famoso per essere evaso dalla terribile prigione dei Piombi,
oltre che per la sua esistenza dissoluta e per le sue innumerevoli conquiste amorose, costui, il commerciante trevisano – di nome faceva Mantegazza –, appena mi scorgeva sul ponte o in qualsiasi altro punto di quella vecchia e
malandata carretta del mare, mi abbordava e prendeva a
tempestarmi di domande petulanti e non scevre da una
qualche morbosità, né mollava la presa finché non gli
avessi sciorinato un po’ di aneddoti pruriginosi circa le mie
trascorse avventure erotiche, delle tante che avevo vissuto
vagabondando per l’Europa e oltre. Di questi episodi di vita
vissuta, infatti, ne avrei potuto raccontare a iosa, tali e tanti
me ne erano capitati. Non di rado, del resto, mi mostravo
disponibile in tal senso, persino compiacendomi delle mie
prodezze. Nella specifica circostanza, però, provavo grande noia a causa dell’insistenza asfissiante e appiccicosa di
questo tale passeggero occasionalmente conosciuto.
Stamani, di buon’ora, mentre facevo una misera colazione a base di gallette e fette di lardo stantio nella saletta
del ponte di prua, ospite del comandante della nave – un
greco, il cui aspetto era più simile a quello di un pirata che
di un capitano di marina, – appresi da costui, non senza
una certa sorpresa dato che non se n’era mai fatto cenno
fino a quel momento, che saremmo approdati a Venezia
nel giro di un paio d’ore, non più.
Scesi perciò sotto coperta, nel bugigattolo fetido e soffocante che era la mia cabina, e mi affrettai a fare il bagaglio, ficcando alla svelta le mie poche cose in una vecchia
valigiotta di cuoio floscio, spellata e unta da far schifo, ma
tant’è. In Europa, negli ambienti aristocratici, esibire un
bagaglio sciupato dall’uso continuo era segno distintivo:
equivaleva ad aver viaggiato molto, ed era risaputo che
soltanto le persone provviste di larghi mezzi se lo potevano permettere: non era il caso mio, tuttavia, almeno mo-
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mentaneamente, essendomi da tempo ridotto in uno stato
di quasi indigenza, tanto che me ne andavo in giro con indosso l’unico abito decente che mi era rimasto, un completo di giubba e braghe di fustagno nero, liso ai polsi e lucido ai gomiti e al fondo delle culotte; senza dire del tricorno di feltro, ammaccato e sdrucito.
Con la valigia in mano, percorsi il buio corridoio e risalii la ripida scaletta che mi riportava in coperta. Come
spesso mi era capitato durante quel viaggio, lungo il tragitto assestai alcuni calci nel vano tentativo di centrare uno
dei tanti ratti immondi che mi sfrecciavano veloci davanti:
per la cronaca, la scatasciata nave ne era abbondantemente popolata, tanto che circolavano a bordo più topi che passeggeri e uomini di equipaggio.
Ed ecco che, sbucando sul ponte di poppa, vidi venirmi incontro l’ammorbante signor Mantegazza, di professione importatore di spezie.
“Guardate là, messer Casanova!” mi gridò sporgendosi dal parapetto della nave e indicando l’orizzonte: si vedeva già la terra, una strisciolina pallida, quasi invisibile.
“La nostra bella e gloriosa Repubblica di Venezia! Eccola
laggiù, la vedete?!”
“Gloriosa mica tanto,” puntualizzai, appoggiato alla
sponda della nave, scrutando anch’io in quella direzione.
“In Europa non è più ritenuta la potenza che fu. Ormai è in
piena decadenza, amico mio.” Cavai dal taschino del panciotto un orologio a catena placcato d’oro. “Per mezzogiorno dovremmo esserci,” commentai intenerito. “Magari già seduti al tavolo di qualche osteria, davanti a una bella zuppa di pesce e a un quartino di chiaretto...”
L’amico non sembrò sedotto dall’idea: era stato attratto dal mio orologio, lo fissava neanche fosse un oggetto
raro, misterioso. “Dove l’avete acquistato quel prezioso
marchingegno?” domandò.
Sospirai. “Fu il dono di Phoebe, una graziosa inglesina con la quale convissi circa un anno durante il mio sog-
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giorno a Londra: era figlia di un Lord, faceva la poetessa,”
m’inventai là per là. L’orologio, invece, l’avevo barattato
con un anello di zaffiro vinto al gioco: un pessimo affare,
al quale fui indotto dal gestore di un banco dei pegni, un
astuto giudio. Ma era troppo banale una tale versione per
il mio amico, sempre avido di particolari intriganti. “Un
giorno mi trovavo a Versailles,” buttai là. “Me lo notò anche Sua Maestà Luigi XV, il re di Francia.”
“Il re di Francia?!” allibì il commerciante trevisano.
“Sì, lui. Era un vero intenditore d’orologi. Mi propose
di venderglielo... Maestà, gli dissi, sarei onorato di cedervelo, anche per nulla, ma voi vi privereste mai, seppure in
cambio di una somma allettante di denaro, del dono di una
damigella molto amata?” Anche questo particolare mi uscì
così, di getto: ero dotato di una fantasia sfrenata, soprattutto quando si trattava di vantare gesti nobili, cavallereschi.
“Scommetto che avete conosciuto anche la Pompadour” m’incalzò lui con la voce strangolata da non so quale malsana curiosità.
“Fui spesso il suo accompagnatore alle prime dell’Opera.” Questa non era del tutto un’invenzione, ad onor del
vero. “Aveva un palco tutto per sé nel piccolo teatro dell’Eliseo.”
“Ma l’avete...?” azzardò Mantegazza col fiato sospeso, intendendo se mi ero accoppiato con la famosa cortigiana.
Estrassi dalla giubba la tabacchiera, fiutai una presa di
trinciato. “Più di una volta. Lì, nel palco stesso,” risposi
dopo aver starnutito.
Mentre confidavo al Mantegazza le mie performance
più o meno inventate, e comunque colorite di particolari
inediti, si avvicinò a noi un signore di mezza età, allampanato, che indossava un elegante tabarro e un tricorno di
seta. Dall’aspetto, dal modo di parlare, dai tratti, ne intuii
d’emblé lo stato sociale, il genere di professione che svol-
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geva e la città di provenienza: doveva trattarsi di un funzionario di Stato, abitante a Padova, di probabile ascendenza nobiliare.
“Scusate la licenza che mi prendo,” mi si rivolse, il
tono garbato e rispettoso, “ma a bordo si sussurra con insistenza che siate il famoso Giacomo Casanova. Chiedo
ancora venia per questa mia curiosità, un po’ importuna, lo
ammetto. Me lo confermate?” Formulata la compita domanda, si affrettò a declinare le proprie generalità. “Permettete che mi presenti, sono il Conte Dolfin, notaio nella
città di Padova. Mi sono imbarcato a Corfù ed è da allora
che continuo a chiedermi se voi siete effettivamente messer Casanova da Venezia...”
Il nuovo venuto mi alleggerì parzialmente del peso della molesta e invadente compagnia del Mantegazza.
Gliene fui grato. “Sono perlappunto Giacomo Casanova,”
risposi di buon grado, con un accenno d’inchino. “Onorato di conoscervi. Per me è una piacevole occasione poter
conversare con gentiluomini come voi,” sottolineai a mo’
di stoccatina nei confronti del rozzo commerciante di spezie. “Torno dopo dieci anni a Venezia: sfortunate circostanze, ahimè, mi costrinsero ad abbandonarla: seguirono
anni di lunghi peregrinaggi per l’Europa, con qualche puntatina anche in Asia Minore. Vengo giustappunto da Costantinopoli,” dissi. Poi, dopo una breve esitazione, con un
sorriso fatuo... “Dove, lo ammetto, non mi sono mancate
piacevoli e inconsuete esperienze, dato anche il carattere
esotico del luogo, della sua gente, e dei loro costumi assai
singolari, invero, decisamente diversi da quelli di noi occidentali,” proseguii con linguaggio affettato, scendendo
nei dettagli: del resto, quella era la musica che volevano
entrambi sentire, sia il gentile notaio padovano, che il più
grossier commerciante di Treviso.
“Di Istambul, non mi avete mai parlato,” saltò su il
Mantegazza. “Chissà cosa vi è capitato in quella città corrotta e cosmopolita...”
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