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Vito Cagli
GIACOMO CASANOVA
E LA MEDICINA
DEL SUO TEMPO
Prefazione di
Federico Di Trocchio
ARMANDO
EDITORE
SOMMARIO
Prefazione di FEDERICO DI TROCCHIO
7
Introduzione
11
Capitolo I
27
Capitolo II
65
Capitolo III
101
Appendice
127
Bibliografia
129
Indice analitico
139
PREFAZIONE
Federico Di Trocchio
Prima che venisse riconosciuto un valore letterario alla Histoire de
ma vie Casanova venne considerato semplicemente come un memorialista e venne letto con cura e attenzione solo da studiosi come Gugitz,
D’Ancona o Croce interessati a ricostruire, a partire da dettagli e dalla
viva voce dei contemporanei, il clima della cultura e della vita del Settecento. Per il grande pubblico, interessato più alle avventure erotiche
del protagonista che alla storia, vennero prodotte a più riprese versioni
“spurgate”, molto più agili e vendibili, dalle quali la storia era stata
accuratamente esclusa per lasciare posto solo al piccante. Ma il grosso
della letteratura casanoviana resta costituito dall’opera degli storici che
hanno voluto controllare, ricostruire e illustrare ogni dettaglio, personaggio o circostanza della vita di Giacomo Casanova per vedere in essi,
come in un ologramma, un’intera epoca.
Solo gli storici della medicina hanno trascurato la grande massa di
informazioni sull’uso e l’esercizio dell’arte sanitaria nel Settecento che
sono contenute nell’Histoire de ma vie. Pochi articoli e nessun quadro
d’insieme: questo è quanto è stato prodotto; mentre il testo contiene
molto di più; non solo perché Casanova ha raccontato le sue malattie
(e quelle di altri) con altrettanta cura delle sue avventure ma anche perché si considerava medico e forse questo, tra i tanti mestieri che tentò
soltanto e poi abbandonò, sarebbe stato quello più adatto a lui se avesse deciso di guadagnarsi da vivere e non di vivere di espedienti come
invece preferì.
Vito Cagli mette insieme per la prima volta tutte queste informazioni, le ricostruisce criticamente e le commenta da medico e storico della
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medicina, in modo da colmare finalmente questo vuoto, senza tuttavia
scadere nell’erudizione storica o nel tecnicismo medico. Ricostruisce
così un quadro vivo di come la malattia venisse affrontata nel Settecento e di quale fosse il poco potere e i molti limiti della medicina, quali e
quanto fossero fondate le cure, come operassero in concreto i medici e
quanta fiducia avessero in loro e nella loro arte i pazienti. Era una medicina incerta e rischiosa che imponeva innanzitutto al medico, come
Casanova capì molto presto, di seguire il precetto di Giorgio Baglivi:
“pensare molto e agire poco” e al paziente di essere il primo medico
di se stesso. A rigore, anzi, la medicina neppure esisteva: mentre era
ancora insidiata da ciarlatani e visionari era impegnata, proprio allora,
nella faticosa genesi di se stessa che sarà resa possibile, negli anni immediatamente successivi alla morte di Casanova, dall’incontro con la
biologia tenuta a battesimo da Treviranus e Lamarck.
È una ricostruzione viva ma anche critica questa di Cagli e non solo
perché mette qui a frutto la sua perizia di storico della medicina ma
anche perché ha saputo leggere criticamente il testo delle memorie casanoviane. Pur non essendo un casanovista di vecchia data ha capito subito che di Casanova non ci si può mai fidare completamente perché il
suo racconto è sempre incline all’affabulazione e all’esagerazione ed ha
operato di conseguenza: ogni descrizione di sintomi e terapie è vagliata
alla luce di quanto la medicina sapeva nel Settecento ma anche di quanto sappiamo oggi e ci offre alla fine il quadro completo di un aspetto
in fondo inedito della vita dell’avventuriero veneziano che arricchisce,
con brani di vita e di medicina vissuta, la nostra conoscenza della storia
della salute in un’epoca critica e significativa.
Poiché l’autore si è attenuto scrupolosamente al testo dell’Histoire,
la cui narrazione si ferma al 1774, il lettore si chiederà forse come Casanova abbia affrontato la vecchiaia e se e quando la sua prorompente
sessualità abbia incontrato un limite.
L’ultima avventura di Casanova è del 1787, quando si avvicinava
ormai ai settanta anni. Sedusse la figlia ventenne di Jacob Kleer, portiere del Castello dei Waldstein a Dux dove si era ridotto a fare il bibliotecario. La vicenda fu molto più prosaica di quella narrata da Arthur
Schnitzler ne Il ritorno di Casanova. Anzi persino un po’ patetica e
alcuni sospettano addirittura che in realtà non vi fu alcuna seduzione e
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che Casanova se ne assunse la responsabilità solo per tener viva la sua
fama. Spese comunque tutto quello che aveva per convincere un giovane pittore a sposare la ragazza, come aveva fatto tante volte nei suoi
anni migliori. Ma dopo quell’episodio, attaccò al chiodo la parrucca
incipriata, smise i panni del seduttore, indossò opportunamente la maschera del narratore e del filosofo e si gettò nella scrittura, con la stessa
foga con la quale aveva devastato le alcove di mezza Europa. «Voglio
che il pubblico sappia – confessò agli amici – che quell’io che fe’ tanto
parlare l’Europa per imbrogli, fughe e duelli si meschia anche di scrivere». E scrisse molto negli undici anni che gli restarono da vivere.
Ma già nel 1783 le sue capacità di seduzione avevano subito un
grave colpo: la perdita dei denti lo aveva costretto a usare una vistosa e
scomoda dentiera di porcellana e del resto già a partire dai cinquant’anni soffrì di una fastidiosa uretrite, lascito delle molte infezioni veneree
che Cagli ha accuratamente enumerato e analizzato. Dopo il suo rientro a Venezia comparvero disturbi di minzione che si aggravarono
nel tempo e che preludevano all’affezione prostatica che lo tormentò
negli ultimi anni. Non gli venne diagnosticata e, fortunatamente per
lui, neppure curata dato che la medicina dell’epoca non era in grado di
distinguerla dalla blenorragia e dalla calcolosi vescicale e proponeva
interventi molto cruenti e rischiosi. Secondo alcuni la prostatite venne
complicata, negli ultimi anni, da un tumore vescicale, ma è difficile
farsi un’idea precisa della patologia e del suo decorso. Le condizioni del vecchio seduttore si aggravarono verso metà febbraio del 1798
con idrope e disturbi vescicali; secondo Salvatore Di Giacomo, medico
oltre che insigne casanovista, si trattò di ipertrofia prostatica accompagnata da iscuria paradossa. In questo modo si spiegherebbero i disturbi
digestivi, l’inappetenza e la gran sete che Casanova lamentò in quegli
ultimi giorni. La causa diretta della morte sarebbe stata, secondo Di
Giacomo, una intossicazione urinaria.
Non so se questo quadro sia compatibile con la tradizione che vuole
Casanova morto in poltrona perché incapace di resistere a letto, ma ancora in grado di comunicare solennemente agli astanti: “gran Dio e tutti
voi qui presenti vissi da filosofo e muoio da cristiano”. Certo nell’ultima delle tre stanze che accolgono, nel castello dei Waldstein a Duchcov
in Cecoslovacchia, un piccolo museo a lui dedicato, è conservata una
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poltrona con braccioli presentata al pubblico come quella che lo sostenne morente. Se è vero si può concludere che Casanova chiuse in modo
poco ordinario la sua altrettanto poco ordinaria esistenza e che Cagli ha
ragione: fu buon medico di se stesso, e riuscì fino alla fine a gestire la
propria salute nel modo migliore, ricorrendo alla medicina quando essa
poteva effettivamente servire ed evitandola quando poteva nuocere.
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INTRODUZIONE
Che cosa ha a che vedere Giacomo Casanova con la medicina? Probabilmente è questa la prima domanda che molti si porranno di fronte
al titolo di questo libro. Per ben altri interessi è conosciuto quest’uomo:
avventure galanti, seduzione di donne le più diverse. Questo è quanto
tramanda la vulgata e quanto ritiene la generalità delle persone. Non
che Casanova non sia stato davvero gran donnaiolo e libertino, ma certo fu molto di più che questo. E crediamo che il lettore, prima di addentrarsi negli aspetti medici della sua vita, non possa fare a meno di
conoscerlo almeno un po’ e di conoscere, con lui, quella società in cui
egli si è mosso.
Giacomo attraversò quasi tutto il Settecento: era nato a Venezia nel
1725 e morì a Dux, in Boemia, nel 1798: tra queste due date una vita
piena di viaggi, di avventure d’ogni genere, di donne, ma anche di rapporti sociali e intellettuali con personaggi illustri per scienza o per rango, addirittura con regnanti.
Era, per sua fortuna, un uomo di complessione robusta, dal fisico
possente: una figura imponente con la sua altezza di un metro e ottantasette, come ci racconta a proposito del suo incarceramento ai Piombi
(II/7 e n.)1, una delle più difficili circostanze in cui venne a trovarsi e,
anche per la sua rocambolesca evasione, uno tra i capitoli più affascinanti della sua autobiografia. Le numerose malattie veneree furono il
prezzo da pagare per un uomo che non soltanto ricercava attivamente
1 Le indicazioni in parentesi di un numero romano seguito da un numero arabo,
qui come nel resto del libro, si riferiscono rispettivamente al volume e alla pagina di
Giacomo Casanova, Storia della mia vita, Introduzione di Piero Chiara, a cura di Piero Chiara e Federico Roncoroni, Arnoldo Mondadori Editore, I edizione I Meridiani,
Milano 1983.
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il piacere sessuale ma che, trovando le sue occasioni il più spesso tra
quelle che sono state chiamate filles de vertu mourante, si esponeva ad
un rischio davvero molto alto. I continui viaggi, iniziati in giovanissima
età, con le disagiate condizioni del tempo e, le traversie che comportavano, i quindici mesi di detenzione ai Piombi, le ferite riportate nel
duello con Branicki (cfr. p. 107)2; le abitudini alimentari non proprio
spartane, tutto questo non poteva che influire negativamente sulle sue
condizioni di salute e lo troviamo così a quarantasette anni, durante il
suo secondo soggiorno ad Ancona, a lagnarsi:
Era stato proprio ad Ancona, infatti, che avevo cominciato a godere
intensamente la vita, e mi stupivo che da allora fossero passati quasi
trent’anni, un tempo immenso, e che, nonostante tutto, mi sentissi ancora giovane. Ma che differenza quando paragonavo la mia condizione
fisica e spirituale di quella prima età all’attuale! Trovavo che ero un
altro, uno completamente diverso e quanto più sentivo di essere stato,
allora, perfettamente felice, tanto più dovevo ammettere di essere ormai
un povero infelice, anche perché alla mia immaginazione non brillava
più la prospettiva di un più felice avvenire (III/934-35).
Insomma, ancora abbastanza giovane Casanova sente approssimarsi
la vecchiaia e sembra ricevere dal corpo il messaggio di un benessere di
qualità diversa rispetto a quello di un tempo. Ha riempito la propria vita
di “cose”: viaggi, donne, avventure di ogni genere, ma se si sofferma a
riflettere sembra divenir preda di uno scoramento che somiglia alla depressione. E, a maggior ragione, sarà così nel suo ultimo rifugio di Dux,
in Boemia (1785-1798). Se pure la sua vita in quel volontario esilio fu
meno infelice di quanto alcuni vorrebbero far intendere, resta però vero
che, come ha concluso in un suo bellissimo saggio Helmut Watzlawick,
per lui «la tranquillità del suo ritiro è una malattia che si aggiunge a
quella di una vecchiaia mal vissuta. Sempre eccellente medico di se
stesso egli cercò una terapia che, per nostro grande godimento, trovò
nella scrittura delle sue memorie».
2
Le indicazioni del solo numero di pagina, precedute da cfr., si riferiscono sempre
al presente libro.
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Libertino perché libertario, massone per convenienza, baro per necessità, truffatore per sfida, ma anche e nello stesso tempo partecipe
dello spirito illuminista della sua epoca, come ha notato Vincenzo Ferrone, fu fortemente conservatore in politica ed è lui stesso a darcene
testimonianza:
Oh!, mia cara Francia, dove tutto in quel tempo andava bene nonostante
i rescritti regi, le corvées3 e la miseria dei contadini, l’arbitrio del re e
dei ministri, che cosa sei diventata oggi? Tuo sovrano è il popolo, il più
brutale, il più pazzo, il più indomabile, il più briccone, il più incostante
e il più ignorante di tutti i popoli. Ma tutto tornerà al suo posto prima
che finisca di scrivere queste memorie. Nel frattempo, Dio voglia tenermi lontano da questo paese colpito dal suo anatema (III/410).
Ma poco conta se nelle sue previsioni Casanova sbagliò: iniziò a
scrivere l’Histoire nel fatidico ’89, quando in Francia esplodeva la rivoluzione. Personalità composita, egli ebbe però come costante una visione della vita centrata su se stesso: cercava il proprio piacere, la propria
convenienza, il soddisfacimento dei propri desideri. Eppure nelle sfaccettature della sua personalità quanti aspetti diversi, quanti echi di quel
secolo dei lumi! Casanova avrebbe voluto che tutto tornasse “al suo posto” ma, nello stesso tempo, era contrario ai privilegi, alle consorterie,
alle corporazioni. Fu insofferente della vita ecclesiastica quando, per
breve tempo, prese i voti minori e vestì l’abito dell’abate. Fu insofferente della vita militare quando vestì la divisa e a Corfù si occupò piuttosto di donne che di cose militari. Indossò dunque vesti diverse ma usò
anche nomi diversi: a Parma, nel 1749, mentre viveva con Enrichetta,
il suo grande amore, si servì del nome Farussi, che era quello della famiglia di sua madre, più tardi si autoproclamò cavaliere di Seingalt e fu
anche Paralis nei suoi interventi cabalistici. Uno, nessuno e centomila
verrebbe voglia di dire con Pirandello. Quello che gli pesò, lo mosse e
in larga misura ne fece il Casanova che conosciamo fu proprio quell’es3 Obbligo di origine medievale che imponeva ai contadini francesi il lavoro non
retribuito per la costruzione e la manutenzione delle strade. Fu soppresso nell’agosto
del 1789.
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sere “nessuno”, con un padre legale, marito di sua madre e come lei
teatrante, e un padre naturale, il patrizio Michele Grimani.
Viaggiatore instancabile attraversò «quell’Europa – come ha scritto
Piero Chiara – che era stato il suo campo d’azione e la patria senza confini della sua inquietudine». Disse di sé:
Nella mia lunga carriera di libertino, nel corso della quale la mia invincibile propensione per il bel sesso mi ha fatto usare tutti i mezzi possibili di seduzione, ho fatto girar la testa a qualche centinaio di donne, le
cui bellezze si erano impadronite della mia ragione. Ma sempre in ogni
occasione, mi sono attenuto scrupolosamente a un principio che non ho
mai tradito: non attaccare mai le novizie, quelle in cui i principi morali
o pregiudizi sono un ostacolo al successo dell’impresa, se non in compagnia di un’altra donna (II/1141).
Una sintetica lezione di strategia della seduzione e di morale utilitaristica, insieme al riconoscimento della propria incapacità di resistere
al fascino di una bella donna. E sugli altri aspetti della sua vita confessa: «Teatro, vita mondana, case da gioco dove litigo con la fortuna
che qualche volta mi è propizia, qualche volta avversa» (I/966). Ma
dimentica di aggiungere “truffatore” e non soltanto perché baro, ma
anche nel senso più proprio del termine, come dimostra l’episodio culminante della sua relazione con la marchesa d’Urfé: il procedimento
della cosiddetta “rigenerazione”, che sarebbe consistito nel ricondurre
un essere umano all’età infantile. Il personaggio da sottoporre a questo
procedimento, la marchesa d’Urfé, appunto, è un’anziana, ricchissima
nobildonna, appassionata di astrologia e di alchimia che compare più
volte nella vita di Casanova. Già nel primo incontro, a Parigi nel 1757,
Giacomo poté ammirare in casa della marchesa una fornitissima biblioteca di testi alchemici e iniziatici e poté vedere in un attrezzato laboratorio «una sostanza che era sul fuoco da quindici anni e che sarebbe
dovuta restarci per altri quattro o cinque. Era una polvere di proiezione,
atta a trasformare in un minuto qualsiasi metallo in oro»4 (II/239). La
4 La polvere di proiezione era, in tutto o in parte, identificabile con la pietra filosofale di cui avrebbe posseduto tutte le capacità compresa quella di conferire all’operatore
l’onniscienza.
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marchesa è persa dentro quel mondo misterico, Giacomo l’asseconda e
ha tutta l’aria di preparare il terreno per la truffa che verrà. Accadrà a
Marsiglia nell’aprile del 1763 (II/1373-97). La procedura della “rigenerazione” si svolgeva attraverso un rapporto sessuale, effettuato in determinate coincidenze astrali e in specifiche condizioni, come l’immersione in un bagno, in presenza di particolari Geni (rappresentati in questo
caso da Marcolina, l’amante dello stesso Casanova). Questa operazione
avrebbe dovuto condurre, a distanza di nove mesi, al parto di «un’altra se stessa, mutata nel sesso». Insomma, con la “rigenerazione”, la
marchesa d’Urfé doveva rinascere uomo, ma – contraddittoriamente,
almeno per la nostra logica – non sarebbe scomparsa nella sua forma
primigenia, tanto che, a cerimonia avvenuta, lei propone a Casanova:
«mi sposi e potrà essere il tutore del mio bambino, che sarà suo figlio».
Ha ben ragione il Nostro di vedere «incongruenze e assurdità nei ragionamenti di quella povera donna», e nelle proprie parole ciò che lui
riconosce essere «falsità e stupidaggini che non avevano nessun fondo
di verità e di verosimiglianza». Ma aveva ragione anche il nipote della
defunta marchesa d’Urfé quando asserirà che Casanova gli costava almeno un milione, rubato a sua zia (III/406).
Nei suoi comportamenti in società Giacomo prende a modello quella parigina: ne ama la vita mondana, i salotti, le giornate campestri, i
giochi di ruolo, i pranzi e le cene; gusta i cibi, ama i «piatti dal sapore
forte», come scriverà nella sua Prefazione alla Storia della mia vita. Ma
soprattutto predilige la conversazione intelligente, brillante, spumeggiante. Lo spirito del tempo vuole che tutto si sappia dire in maniera
gradevole e leggera, così le bazzecole, come le idee; la ragione vi ha
diritto di cittadinanza, soltanto a condizione di saperla immergere in
un eloquio elegante. Era questo ciò che distingueva la bonne compagnie dalla mauvaise compagnie con i suoi modi volgari più propri della
provincia, anche se poi nei grandi balli non si disdegnava di invitare in
mezzo alle dame anche delle donnine allegre per animare la festa.
La giornata della signora dell’alta società è stata così ricostruita dai
Goncourt, un secolo dopo:
La signora esce, passa a prendere il cavaliere che l’accompagnerà al
corso di anatomia; lungo la strada incontra la marchesa che ha bisogno
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del suo consiglio sulla cosa più importante del mondo e la porta dalla
sua modista. A tre porte dalla modista, un servo del barone ferma la
carrozza delle dame già in ritardo per un piccolo incidente: il barone
propone loro di vedere gli esperimenti sull’aria infiammabile. «Non c’è
cosa che mi piaccia di più» risponde la dama «ma mi garantite che non
ci saranno esplosioni? Montate barone».
Poi i pappagalli che dicono licenziosità, la stamperia dei ciechi, il
Jardin des plantes, la visita all’architetto: «una perpetua distrazione da
sé». A carnevale le cose cambiano: arrivano i balli mascherati, soprattutto quello dell’Opéra: è il momento in cui ci si prendono delle libertà, le si accettano, magari seguite dalle scuse. E gli uomini? «Il loro
passatempo, il loro divertimento è di soggiogare con la loro autorità
una fanciulla, una bambina, disonorarla scherzando, corromperla per
noia». Ma «la donna eguagliò l’uomo (se non lo superò addirittura) in
questo libertinaggio della cattiveria galante». Si poteva senza dubbio
affermare, come scrisse Choderlos de Laclos, che le lettere che componevano il suo romanzo epistolare trasmettevano due verità e alcuni
insegnamenti:
La prima, che ogni donna la quale consenta ad ammettere nella sua
compagnia un uomo immorale finisce presto o tardi per diventarne la
vittima; e la seconda, che è, per dir poco, imprudente la mamma che
confida ad altri che a se stessa la propria figliola. I giovani dell’uno e
dell’altro sesso potranno apprendervi altresì quale pericolosa trappola
tesa alla loro felicità non meno che alla loro virtù, sia la facile amicizia
che le persone scostumate offrono loro con tanto slancio.
In una tale società, indubbiamente corrotta, sia pure per cause e in
modi differenti tra ceti ricchi (per noia) e ceti poveri (per bisogno),
emerse tuttavia una filosofia ottimistica, quella dell’illuminismo, fondata sull’uso critico e costruttivo della ragione. Nasceva il “secolo dei
lumi” in cui soltanto la ragione avrebbe dovuto illuminare il mondo.
Qualcosa che si addiceva a Casanova più di quanto egli stesso non credesse. Giacomo voleva infatti scavalcare i privilegi di nascita, di nobiltà, di casta, non perché li disprezzasse, ma perché ambiva a costruirsi
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una figura che potesse farne a meno; voleva poter essere “qualcuno”
costruendosi una propria identità, una propria storia, una propria fama.
Non fu tuttavia, il Nostro, consapevolmente e razionalmente guidato
dalla filosofia illuministica: la sua «felice incoerenza – come ha scritto
Di Trocchio – gli consentì di vivere con più saggezza di quanto prevedesse la filosofia libertina, e di correggere dall’interno le ingenuità e le
perversioni intellettualistiche della morale illuministica, fino a trasformarlo nell’unico vero, autentico libertino del suo secolo». Si affiliò alla
nascente massoneria francese, forse per approfondire quelle conoscenze occulte che aveva tratto dalla cabala, ma certo per facilitare i suoi
contatti con personaggi influenti. Per il suo contenuto etico e culturale,
in armonia con le concezioni illuministiche dell’epoca, la massoneria
si era diffusa tra la borghesia colta. Non solo sosteneva il proposito di
combattere l’ignoranza e la superstizione, ma l’epiteto di “Compagnia
di Gesù dell’illuminismo” diceva abbastanza sul potere che le si accreditava. Il motto kantiano dell’illuminismo «abbi il coraggio di servirti
del tuo proprio intelletto» – anche se certamente sconosciuto al Nostro
– era in sintonia con il suo modo di pensare e di agire. Casanova sfiorò
appena uno dei protagonisti dell’illuminismo francese, Jean d’Alembert che, insieme a Denis Diderot, fu uno dei padri dell’Encyclopédie.
Quando nel 1757, durante il suo secondo soggiorno a Parigi, il Nostro
deve presentare alla Scuola militare il suo progetto di lotteria, trova che
«in qualità di grande esperto di matematica era stato invitato D’Alembert» (II/163) di cui egli dirà di «non aver mai conosciuto un uomo
più naturalmente modesto» (II/399). Ma da dove aveva tratto Giacomo
quelle conoscenze di matematica che gli consentivano di progettare e
di proporre un gioco simile a quello del nostro lotto? Sappiamo che
egli trascorse la Quaresima del 1742 (aveva dunque diciassette anni)
nel Convento della Salute di Venezia dove si dedicò allo studio della
fisica; successivamente ricevette gli insegnamenti del matematico Simone Stratico, professore nell’Università di Padova. Nel 1764, a Berlino, Casanova assunse un domestico, che egli chiamava Lambert, il
quale gli rivelò di avere nel proprio sacco «due camicie e una ventina
di libri di matematica» (III/178), ma da lui certamente non poté trarre
insegnamenti, poiché lo ebbe al proprio servizio soltanto per poco più
di quattro mesi e, inoltre, era spesso ubriaco.
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Sul piano scientifico, comunque, Casanova possedeva un discreto
corredo di conoscenze e, soprattutto, un genuino interesse. Quanto alle
prime basterà ricordare l’episodio dell’aumento di volume del mercurio
(I/219 e ss.): il risultato ottenuto da Casanova è stato nella sua sostanza
confermato sperimentalmente in anni vicini a noi. Quanto poi al suo
interesse, ne fa fede il suo romanzo “fantascientifico” Icosameron, ou
Histoire d’Edouard e d’Elisabeth qui passèrent quatre-vingt ans chez
les Mégamicres, habitants aborigènes du Protocosme dans l’intérieur
de notre globe, da lui pubblicato nel 1788. Un altro esempio di interesse
scientifico, sia pure non disgiunto da una certa propensione alla magia,
lo troviamo in un episodio accaduto a Cesena nel 1749. Il Nostro è al
teatro dell’Opera quando viene abbordato da un giovinetto che gli suggerisce di visitare il gabinetto di storia naturale di suo padre, presidente
degli esattori cittadini. Il giorno dopo, Casanova, scortato dal ragazzo,
effettua la visita, e può constatare che il contenuto del museo di proprietà dell’esattore consisteva:
nella genealogia della sua famiglia, in alcuni libri di magia, in alcune
reliquie di santi, in monete antidiluviane, in un modello dell’arca di
Noè, in alcune medaglie tra cui una di Sesostri e un’altra di Semiramide, e in un vecchio coltello di forma barocca tutto roso dalla ruggine.
Sotto chiave, invece, il presidente teneva tutto l’armamentario della
massoneria.
«Mi dica, ma che rapporto c’è tra la storia naturale e questo museo? Qui
non vedo nulla di ciò che riguarda i tre regni».
«Ma non vede – mi rispose – il regno antidiluviano, quello di Sesostri5
e quello di Semiramide6?» (I/616).
La storia prende evidentemente le mosse da un autentico interesse
di Casanova per le scienze naturali e ci mostra, anzitutto, la confusione
culturale di chi ha raccolto oggetti tanto disparati con l’ambizione di
farne un museo di storia naturale. Poi, a mano a mano che il Nostro
prosegue il colloquio con il ragazzo, cui ben presto si affiancherà il
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Vi furono diversi re egiziani, con questo nome, intorno al 1800 a.C.
Regina assira, circa 800 a.C.
padre, ecco affiorargli l’idea di una truffa che si svilupperà intorno al
coltello presente nella collezione e che veniva identificato con quello
adoperato da San Pietro per tagliare l’orecchio a Malco7. Con il consueto intervento di un oracolo, Giacomo imprime all’episodio una svolta
verso la frode. Non seguiremo gli ulteriori avvenimenti: ci pare infatti
sufficiente aver messo in rilievo uno dei non rari episodi in cui scienze
naturali, scienze occulte e inclinazione truffaldina si trovano tra loro
strettamente intrecciate, a dimostrazione di quali fossero sia lo spirito
del tempo, sia le propensioni di Casanova.
E veniamo, infine, ai caratteri salienti della medicina del Settecento
alla cui luce sarà possibile comprendere meglio le esperienze “mediche” del Nostro. Il Settecento si connota, in medicina, per la potente influenza che la filosofia da un lato e le scienze fisico-matematiche
dall’altro hanno esercitato su di essa. Ciò indusse i medici a teorizzare
anche al di là del lecito e a costruire i “sistemi”, edifici teorici che organizzavano il sapere medico intorno a un principio generale da cui tutto
discendeva. E tuttavia, non dimentichiamolo, il XVIII secolo in medicina è anche il secolo di Giovanbattista Morgagni (1682-1771), grande
anatomo-patologo e clinico, figura di spicco dello Studio padovano, ma
soprattutto grande perché, a differenza dei sistematici, indirizzerà la medicina lungo una via feconda, quella dello studio anatomo-clinico delle
malattie e del malato, una via che ancor oggi dà i suoi frutti. Casanova incontrò, come vedremo, medici del calibro di Hermann Boerhaave
(1668-1738) e di Albrecht von Haller (1708-1777). Ma cosa facevano
sul piano pratico i medici del XVIII secolo? Prendiamo i due “fari di
Halle” come vennero chiamati due insigni professori di medicina di
quella università. Georg Ernst Stahl (1660-1734) apparteneva al gruppo
degli “emorroidisti” – Casanova ne incontrerà uno a Pietroburgo (cfr. p.
106) – di quanti, cioè, ritenevano che fossero utili le perdite di sangue
periodiche che potevano derivare dalla presenza di emorroidi, in quanto
consentivano l’eliminazione di un surplus di umori che avrebbe avuto
una valenza patogena. Si tratta di una caratteristica di quella “medicina
aspettante” che affidava, ippocraticamente, la guarigione alla vis medicatrix naturae. Missione del medico sarebbe dunque, nella maggior
7
Servo del sommo sacerdote, presente all’arresto di Gesù.
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parte dei casi, attendere che la natura faccia il suo corso, talvolta favorendolo con l’impiego del salasso. L’altro “faro di Halle” era Friedrich
Hoffmann (1660-1742) il quale consigliava al medico di tener sempre
presenti quattordici precetti, tra cui figuravano: l’osservazione del decorso, l’intervento più precoce possibile, la facilitazione delle escrezioni critiche e salutari, l’uso di pochi farmaci ma ben selezionati, il ricorso
a presidi dietetici, l’astensione dal cambiare farmaci troppo frequentemente, più altri suggerimenti che richiederebbero un discorso troppo
lungo per essere intesi dal lettore di oggi. Insomma due impostazioni
differenti che giustificavano la sorda lotta reciproca ingaggiata dai due:
un quadro della medicina accademica, non troppo diverso da quello dei
secoli successivi, fino al nostro.
Si comprende facilmente come tra impostazioni puramente teoriche,
quali quelle sistematiche, e pratiche ispirate ancora a Ippocrate e Galeno (l’evacuazione degli umori in eccesso), il potere reale di intervento
dei medici del tempo non fosse gran cosa. Di qui lo scarso credito di
cui – fatti salvi i pochi in posizioni eminenti – godevano i medici del
Settecento e gli scarsi guadagni che essi potevano aspettarsi. Nella Storia della mia vita abbiamo più di un esempio di medici che accorrono
prontamente, promettono, garantiscono, fanno di tutto, insomma, per
tenersi il cliente. E le raccomandazioni dei Galatei medici, che ebbero
fortuna in quegli anni, ce ne forniscono indirettamente una conferma.
Alessandro Knips Macoppe (1662-1744), professore all’università di
Padova, che visitò Casanova giovinetto (cfr. p. 29) scriveva nel Galateo
da lui redatto:
Careggia8 gli infermi, né con essi mostra austero troppo o troppo compiacente contegno. Procacceratti odio la somma severità, derisione
l’eccedente piacevolezza. Havvi una via di mezzo tra questi estremi,
e tu calcare la devi: quando opporti è forza agli appetiti loro, fallo;
ma mitiga la ripulsa promettendo future concessioni: tu aspirar devi
al ristabilimento di loro salute, non a saziarne la ghiottoneria; abbiano
eglino ragioni di crederti ansioso di lor salvezza più che di secondarne
le passioni.
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Vezzeggia.
Insomma, fare di tutto per piacere al cliente. E Giuseppe Pasta
(1742-1823) protomedico dell’ospedale di Bergamo raccomandava che
il medico:
“Non accedat nisi vocatus”, è l’assioma il più bello per salvare il decoro
dei Medici.
La virtù fa conoscere e fa chiamare. Ha più bisogno l’infermo del Medico, che questi di lui. Una spontanea visita fa scemare il rispetto e la
confidenza che al Medico si dee, e fa talvolta nascere nel cuor degl’infermi e degli astanti dei poco onorevoli sospetti.
Era evidente che non dovevano mancare allora coloro che moltiplicavano le visite per impinguare i propri introiti!
Abbiamo cercato nelle pagine che precedono di descrivere, sia pure
sinteticamente, quale fosse lo sfondo in cui si inserirono la vita e le
avventure di Giacomo Casanova.
Ora, per introdurre il lettore a quelli che furono i suoi incontri con
situazioni o personaggi di rilevanza medica, ci sembra opportuno dar
conto di quanto sia stato scritto a questo proposito da studiosi – prevalentemente medici – che hanno indagato questo stesso tema.
Le occasioni di incontro tra Casanova e la medicina in tutti i suoi
aspetti furono davvero numerose. Il Nostro sperimentò, infatti, come
qualsiasi altro mortale, la sofferenza fisica e, nello stesso tempo, da
uomo curioso di ogni forma di sapere e non digiuno di conoscenze
scientifiche, intervenne con i suoi consigli, osservò il comportamento
dei medici e ne dette giudizi talora lusinghieri e talaltra sprezzanti, tacciandoli da ignoranti e – quanto ai chirurghi – da macellai.
Appare quindi un po’ strano che pochissimi tra gli studiosi e i “casanovisti” si siano occupati degli aspetti medici della vita di Casanova.
Nella letteratura oltre a un breve saggio di Romano Forleo e Federico
Di Trocchio, che però è limitato alle ostetriche, soltanto A. Rabino, socio del Centro Piemontese dell’Accademia di Storia della Medicina e il
medico inglese J.D. Rolleston (1873-1946), infettivologo e storico della
medicina, hanno rivolto la propria attenzione all’argomento.
Il lavoro di Forleo e Di Trocchio si vale di due diversi punti di vi21
sta: quello ostetrico-ginecologico del primo autore e quello di storico
della scienza del secondo. Dal loro saggio possiamo ricavare informazioni e rilievi che meritano di essere segnalati. Durante il periodo dei
suoi studi padovani di giurisprudenza Giacomo avrebbe seguito alcune
lezioni di Giovanbattista Morgagni, che insegnava anatomia patologica e medicina, e del botanico e farmacologo Giulio Pontedera. Furono
probabilmente questi insegnamenti a fornirgli quelle nozioni mediche
da lui sapientemente applicate in più d’una circostanza. Sulle malattie veneree sofferte da Casanova viene citata l’opinione di Jean-Didier
Vincent secondo il quale esse assommerebbero al numero di undici. Per
la loro cura, come per molte altre malattie, grande importanza il Nostro
assegnava alla dieta. La dieta era per lui, come per la generalità dei medici del tempo, una sorta di terapia di base che aveva rilievo in tutte le
condizioni morbose. Lo proverebbe anche la guarigione dell’affezione
cutanea della duchessa di Chartres (cfr. pp. 53-55), ottenuta in seguito
al mantenimento di un regime dietetico e su cui viene avanzata l’ipotesi
di un’origine allergica. Molti riferimenti riguardano poi aspetti relativi
al concepimento, ai contraccettivi, alla formazione e attività professionale delle levatrici.
L’unico ampio lavoro che descrive numerose malattie proprie e altrui con cui Casanova si confrontò nel corso della sua vita è quello di A.
Rabino, in cui gli eventi medici vengono riferiti spesso con virgolettati,
riportati però senza precisa indicazione di volume e di pagina ad una
citata, ma non meglio specificata, edizione francese dell’Histoire. Si
tratta comunque di un contributo rilevante perché offre un panorama
sugli eventi patologici sofferti da Casanova non limitato alle malattie
veneree e un quadro complessivo sufficiente a far intuire l’interesse e
una certa competenza del protagonista nei confronti della medicina.
Quanto a Rolleston il suo lavoro più importante per il nostro tema
s’intitola The medical interest of Casanova’s mémoires e venne pubblicato nel 1917 sulla rivista «Janus» (vol. XXII, p. 115). Si tratta probabilmente del più importante contributo sull’argomento apparso finora,
tenuto conto che proviene da un medico che fu nel suo tempo autorevole per una vasta produzione scientifica sia sulle malattie infettive, sia
in ambito di storia della medicina. Sfortunatamente, nonostante ogni
sforzo, questo articolo è risultato introvabile e dobbiamo quindi accon22
tentarci di informazioni di seconda mano. Abbiamo, infatti, potuto consultare un altro scritto dello stesso Rolleston, in cui l’autore cerca di
precisare il numero e il tipo di malattie veneree sofferte da Casanova.
Almeno una fu probabilmente la sifilide, in quattro occasioni si sarebbe
trattato di gonorrea, in cinque di un’affezione che viene indicata come
“cancroide”, termine con cui veniva designata l’ulcera venerea (o ulcera molle). Per queste diagnosi Rolleston si appoggia a un articolo
di A. von Notthaft («Dermat Woch» 1913, LVII, 1359). Non vengono
riportati tuttavia precisi riferimenti che consentano di attribuire una determinata diagnosi ai singoli episodi raccontati nell’Histoire. Anche un
articolo apparso anonimo sul «British Medical Journal» del 1924, citando il lavoro di Rolleston indica le malattie cui Casanova è andato incontro – principalmente malattie veneree – e accenna alle condizioni della
pratica medica del tempo, soffermandosi su due aspetti che vale la pena
di considerare più da vicino. Anzitutto l’episodio di cui fu protagonista
una ballerina e cortigiana veneziana di nome Ancilla (cfr. pp. 59-60).
Nell’articolo anonimo di cui ci stiamo occupando viene anche messa in
luce l’opinione di Rolleston circa il giudizio complessivo di Casanova
sui medici, un giudizio assai poco lusinghiero che coincide con quello
che abbiamo già riferito, senza che ciò gli abbia impedito di ricorrere ai
medici in sei delle undici occasioni in cui andò incontro a una malattia
venerea, secondo uno schema che è stato seguito da sempre e continua
ad essere seguito, in medicina e non solo, di criticare qualcosa cui poi
non siamo disposti a rinunciare.
Un ultimo riferimento bibliografico riguarda un breve lavoro sulle
malattie veneree sofferte da grandi personaggi, tra i quali trova posto
anche Casanova, cui vengono attribuite conquiste femminili prevalentemente tra le “donne di strada”, con la conseguenza di quattro attacchi
di blenorragia, cinque di cancroide, uno di sifilide e uno di herpes prepuziale. Anche qui non vi sono elementi che consentano di assegnare
queste diagnosi a determinati episodi della vita del nostro. Nella bibliografia, con riferimento a Casanova vengono indicati due lavori di
Rolleston, di cui uno è quello su «Janus», sopra ricordato, e l’altro è
un contributo intitolato Sexology and venereal diseases in Casanova
Mémoires (pubblicato su «Urol Cutan Rev», 1917, 21:260) che, al pari
del primo, non siamo riusciti a reperire.
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Vanno poi segnalate tre voci bibliografiche che riguardano l’oculista itinerante Tadini (di cui si dirà a p. 120 e ss.). Di queste tre voci, di
cui abbiamo soltanto potuto consultare gli abstracts tramite Pub Med,
riportiamo i riferimenti bibliografici: «Prost M», Did the idea of intraocular lens implantation originate on Polish territory?; «Klin Oczna»,
1995, 97:308 (articolo in polacco); «Henning A», From Tadini to Svjatoslav N. Fedorov. Difficulties of ophtalmologic surgery; «Gesnerus»,
1990, 47 Pt1: 95-104 (articolo in tedesco); «Fechner PU», «Fechner
MU», Tadini, the man who invented the artificial lens; «J Am Intraocul
Implant Sos», 1979, 5:22-23. Ciascuno di questi tre lavori contiene un
esplicito riferimento a Casanova e alla sua autobiografia.
In sostanza, le voci bibliografiche che trattano degli aspetti medici
della casanoviana Storia della mia vita sono molto poche e per di più
quasi introvabili; da esse risulta un numero variabile di malattie veneree
sofferte dal Nostro comprese tra 10 e 11, con l’indicazione concordante di quattro infezioni blenorragiche, una infezione sifilitica, quattro o
cinque di ulcera venerea (“cancroide”) e con quella in un unico lavoro
di un episodio di herpes del prepuzio.
Ciò che emerge dalla nostra ricognizione è riassunto in una tabella
posta in Appendice.
Nei tre capitoli che seguono analizzeremo gli episodi attinenti alla
medicina che sono narrati nella Storia della mia vita. Avremmo potuto
isolarli dal loro contesto e limitarci strettamente ad essi senza per nulla
sconfinare nella vita del protagonista. Confessiamo di non essere riusciti a sottrarci al fascino che la figura di Giacomo Casanova ha esercitato su di noi come su tanti altri. E così gli episodi “medici” verranno
qui esaminati non partendo dalla malattia o dalla teoria scientifica o da
un determinato personaggio della medicina ma, con qualche eccezione,
nella sequenza in cui sono inseriti all’interno della vita del nostro eroe.
Ne è risultata una sorta di nuova e diversa summa biografica di Casanova, perché vi è stata la necessità di raccordare i diversi episodi presi in
esame con brevi flash su ciò che è accaduto tra l’uno e l’altro di essi, ed
anche la necessità di fornire quelle coordinate di tempo e di luogo che
consentissero di seguire lo straordinario succedersi di paesi e di fatti
che costituisce la vita di Casanova. Biografia “impropria”, dunque, se
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mai ve ne fu una, ma consapevolmente impropria. Un piccolo omaggio
al grande personaggio che Giacomo, lui figlio di teatranti, portò non sui
palcoscenici, ma sulle strade, le città, gli alberghi, le case, le regge e le
stamberghe d’Europa.
Ci soffermeremo sulle malattie che colpirono Casanova e su quelle
che interessarono taluni personaggi del suo racconto; sulle pratiche terapeutiche, sui medici che vi si incontrano e sulle teorie mediche di cui
si è parlato nelle pagine della Storia della mia vita. Non trascureremo
neppure alcuni episodi più vicini alla magia e alla stregoneria che non
alla medicina. Poiché nel tempo di Casanova medicina e magia, chimica e alchimia, astronomia e astrologia non erano così separate e distinte
come noi riteniamo oggi che debbano essere, si è creduto opportuno
tenerne conto per non distorcere il quadro di una realtà che merita il
nostro rispetto e soprattutto il nostro interesse.
A Voltaire, che visitò nel 1760, Casanova disse: «finalmente conosco
il mio maestro» (II/634). Un modo elegante per mettersi nella cerchia di
un uomo famoso, per uscire da quella incerta condizione che fu insieme
la spina di tutta la sua vita e la molla del suo inesausto abbeverarsi a
qualsiasi fonte. Ma anche un modo per riconoscersi figlio di quell’illuminismo che, come sempre accade, chiese del tempo per mettere la
sordina a ciò che lo precedeva.
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