ARBERY The Elegance.qxd

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ITALIA
MALCOM
Massimo Cuomo
MALCOM
Edizioni e/o
via Camozzi, 1
00195 Roma
[email protected]
www.edizionieo.it
Copyright © 2011 by Edizioni e/o
I fatti e i personaggi rappresentati nella seguente opera e i nomi e i dialoghi
ivi contenuti sono unicamente frutto dell’immaginazione e della libera espressione
artistica dell’autore. Ogni similitudine, riferimento o identificazione con fatti,
persone, nomi o luoghi reali è puramente casuale e non intenzionale.
L’autore ha citato all’interno del volume le seguenti canzoni:
Djobi Djoba
(Baliardo M., Baliardo T., Bouchikhi J., Reyes N., Reyes P., Baliardo B., Reyes P.)
La prima cosa bella
(Reverberi G., Di Bari N., Mogol)
Universal Music Publishing
YMCA
(Morali J., Belolo H., Willis V.)
Vagabondo
(Morina A., Tomassini A., Vicari M., D’Ercole G., Morina A.)
Universal Music Publishing
Sito web dell’autore:
www.massimocuomo.com
Grafica/Emanuele Ragnisco
www.mekkanografici.com
Illustrazione in copertina di Alessandro Gottardo
ISBN 978-88-6632-014-2
A Diana, perché senza di lei non sarebbe stato possibile.
A mio padre Giuseppe, che ci ha sempre creduto.
E alla piccola Chiara, per quando leggerà.
ESTATE 2008. MESE DI LUGLIO
DOMENICA
Ore 14.07
ono nudo, raccolto sopra la sedia di plastica della cucina.
Un esile riflesso rosa che rimbalza sul metallo lucido del
frigorifero. Riesco a intravedere lo scuro dei peli sul petto, del ciuffo tra le gambe, il contrasto della barba incolta, dei
capelli neri appallottolati in una bolla unta di solitudine e malinconia.
Sono arrivato in questa stanza, in questa posizione, cercando superfici fresche su cui poggiare il corpo, però serve a poco.
Sento un rivolo di sudore lungo le spalle, scivola dal collo sulla
schiena, tenta di cavalcare la spina dorsale.
Ma ce l’avrai una spina dorsale, Zanzini, mezza sega?
Ultimamente lo faccio spesso: mi offendo. A bassa voce, nei
pensieri, il più delle volte chiamandomi per cognome.
S
Qualche giorno fa
«Pronto? Il dottor Zanzini?».
«Sì. Chi parla?».
«Buongiorno dottore, sono Gianfranco Rupetti, concessionaria e carrozzeria Rupetti & Figli. Mi scusi per il disturbo,
volevo solo segnalarle che non abbiamo ricevuto l’accredito
mensile per il finanziamento della sua Mercedes Benz SLK. C’è
per caso qualche problema?».
«Sta cercando di dirmi che il pagamento della rata non è andato a buon fine?».
«Per l’appunto, dottore».
«È senz’altro un disguido della banca. Abbia pazienza, si-
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gnor Rupetti, le faccio sapere a breve».
«Molto bene. Grazie, dottor Zanzini. Buona giornata!».
Mi sono accasciato dov’ero, sul tappeto del salotto, odiando
Rupetti e i suoi parenti. Ho chiuso gli occhi. Ci resto per sempre
su questo tappeto, ho pensato. Invece poco dopo mi sono sollevato con un movimento vigliacco lentissimo. Ho attraversato il
corridoio, sono approdato nella stanza da letto, mi sono gettato sul computer portatile come su una boa in mezzo all’oceano.
Serve un modo per guadagnare qualcosa, in fretta.
Stavo per digitare una roba del genere sul motore di ricerca, mi ha distratto il lampeggiare della chat di Skype. Ho aperto la finestrina di dialogo. Vicino al nickname “Tonno” c’era il
solito primo piano dell’occhio di Francesco Tonnarelli e lo slogan: “Il tonno non è un pesce. È una scatoletta”. Sotto il nick,
la sua scritta per me:
Tonno: Come butta, Zan?
Ho avuto la sensazione che scambiare due parole con lui mi
avrebbe fatto bene. Tirato un sospiro ho scritto:
Zan: Da schifo, Tonno. Devo trovare un modo veloce per fare qualche soldo che non sia andarli a rubare o chiederli in prestito.
Schiacciato il tasto “invio” mi sono pentito quasi subito di
quello che avevo digitato. In attesa della risposta ho cercato di
non pensare.
Tonno: Zan, non saranno mica questi i problemi della vita! Quanto ti serve?
La replica di Tonno mi ha regalato un brivido di leggero
benessere.
Zan: 450 euro per la rata della macchina. Altri 900 per l’affitto e
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qualcosa per cibo e bollette. Che ti viene in mente?
Dubitavo che Tonno possedesse più denaro di me sul suo
conto corrente. Non ero nemmeno sicuro che lo avesse, un
conto in banca, ma sono rimasto a guardare il rettangolo di
Skype come fosse la finestra del Papa. Tonno stava scrivendo,
lo vedevo dall’icona della penna in movimento accanto al suo
avatar. Ho smesso di respirare.
Tonno: Vai su eBay. Metti in vendita qualcosa. Inserisci una data
di scadenza vicina e un prezzo di vendita buono ma fisso, così ti
eviti lunghe aste. L’opzione si chiama “compro subito”.
Zan: E cosa vendo?
Tonno: Roba che non ti serve, Zan. Sei attorniato da oggetti inutili.
Zan: Oggetti inutili?
Tonno: Quel televisore che ti sei fatto l’anno scorso. Quanto l’hai
pagato?
Zan: Il quarantasei pollici al plasma? Ma scherzi?
Tonno: Quanto?
Zan: Circa 1600…
Tonno: Bene. Piazzalo a metà prezzo.
Zan: Metà prezzo? Ma è praticamente nuovo!
Tonno: Zan, li vuoi in fretta i soldi?
Zan: Sì…
Tonno: Allora fai come ti dico. Il letto dietro le tue spalle?
Zan: Cosa?
Tonno: Quanto vale?
Zan: Un botto! È un modello giapponese ecologico, un due piazze in massello di faggio evaporato, montato completamente a
incastro, senza parti metalliche. Mi è costato uno stipendio e
mezzo.
Tonno: Mettilo a 800 euro al massimo o non te lo prende nessuno.
Zan: Ma stai scherzando? E poi dove cazzo dormo?
Tonno: Zan, stendere il materasso su quel coso è come stenderlo
a terra. Non ho mai capito come ti sei potuto fumare tutti quei
quattrini per dormire su una panca.
Zan: Vabbe’, Tonno, ho capito. Grazie lo stesso.
Tonno: Figurati, fratello. A disposizione.
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Sono uscito dalla sessione di chat più sfiduciato di prima.
Ho navigato in rete cercando modi veloci per fare denaro.
Sono incappato in ogni sorta di proposta di collaborazione e
catena di Sant’Antonio e affiliazione multilivello, risultati eccezionali garantiti nel giro di “pochi mesi”. Comunque troppi.
Ho scaricato la posta per vedere se c’erano risposte da parte
delle decine di aziende a cui avevo inviato il curriculum. Sono
stato investito da una desolante sfilza di mail promozionali su
viagra e pasticche allunga-pene.
A quel punto mi sono fatto forza. Ho digitato l’indirizzo di
eBay, lanciando uno sguardo malinconico verso il letto giapponese: ho avuto l’impressione che mi fissasse con un velo di delusione impotente, sfatto da giorni com’era, terribilmente affascinante e indifeso.
La home page di eBay è apparsa davanti ai miei occhi.
Ho cliccato su “Camere e letti”.
Ore 14.17
Qualcosa si muove: l’ombra rosa svanisce dal frigorifero, la
linea piatta del mio cuore si rimette a zigzagare, piano.
Ho bisogno di uscire da questa cucina, da questa casa.
Mi trascino fino in camera da letto. Dalla finestra spalancata filtra la luce bollente del sole di luglio. Mette voglia di pioggia, di acqua sulla faccia.
Raccolgo vestiti sparsi: la maglia rossa col toro nero sul petto, i pantaloni di lino, un paio di mutande diventate rosa per un
lavaggio sbagliato, le infradito vecchie. Non mi sto vestendo: più
che altro osservo il mio corpo che copre la propria nudità.
In testa ho pensieri azzerati. In una tasca un pacchetto di
sigarette quasi vuoto. Nell’altra una bustina di plastica trasparente che uso come portafogli: contiene patente, carta d’identità, un biglietto da visita che non serve più e un paio di monete da due euro. Cioè, tutto il denaro che mi rimane.
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Il mio corpo si sposta ancora. Lo lascio fare, mentre si abbandona alle spalle la porta dell’appartamento e scivola come
un liquido sporco giù per i quattro piani di scale.
Nella piazza sotto il condominio è tutto vuoto e fermo, fossilizzato nel caldo bollente. La fontana al centro dello slargo
manda uno scrosciare leggero di sottofondo. La sola anima
visibile è quella di un barbone che se ne sta accartocciato lì
accanto, gambe incrociate, a leggere un quotidiano. Attraverso
la strada. Il mio campo visivo si restringe un passo per volta
attorno a lui. Porta una camicia di almeno un paio di taglie più
grande, le maniche lunghe arrotolate fin sotto le ascelle.
Solleva la testa dai fogli quando gli sono praticamente addosso: lo lambisco, passo oltre, sollevo una gamba, poi l’altra.
Sono nella fontana, mi ci siedo dentro. L’acqua mi accarezza le
natiche attraverso i pantaloni di lino, un brivido fresco mi strizza i testicoli.
L’uomo resta zitto il tempo che gli occorre per mettere a
fuoco la situazione, ne percepisco i pensieri.
«Caldo, eh?» domanda.
Annuisco con un movimento del capo.
Mi osserva. Riprende a leggere il giornale. Rialza la testa
dopo qualche istante.
«Senti un po’… Com’è che ti chiami?»
Non capisco il senso della domanda. Mi volto a guardarlo.
Avrà una quarantina d’anni ma portati male, capelli unti e lunghi con delle striature bianche che sembrano dipinte. Li tiene
incollati in ordine dietro le orecchie.
«Marcello».
«E di cognome?».
«Zanzini. Marcello Zanzini. Perché?».
«Mah, così. Ce l’hai una sigaretta, Zanzini?».
Ho trent’anni domani e fumo da un mese, ma aspiro pochissimo e tengo la sigaretta fra le dita senza passione. In genere
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accendo, faccio la prima tirata piena, tossisco, butto fuori, proseguo fingendo di saper fumare finché la sigaretta non è che un
filtrino umido e senza vita fra le mie labbra incerte. Affondo la
mano nell’acqua, tiro fuori il pacchetto, glielo allungo.
Il tizio recupera tre sigarette fradice e le stende ad asciugare sul bordo della fontana.
Io chiudo gli occhi, faccio un respiro lungo, scivolo più giù.
«Senti un po’… Come si vive a fare la tua vita?» domando.
«In che senso?».
«Nel senso, come te la passi? Ti manca niente?».
Ci pensa un attimo.
«Questa risposta non è gratis…».
Mi volto di nuovo per capire se dice davvero. È serio.
Mi piego su un fianco, sfilo dalla tasca il portafogli. La plastica ha tenuto asciutto il contenuto. Prendo entrambe le monete da due euro, gliele passo e divento più povero di lui. Da un
po’ di giorni dormo su un materasso steso a terra e non guardo
più la televisione, ma ho pagato la rata della macchina e l’affitto del mese.
«È tutto quello che ho» aggiungo.
Lui fa sparire i soldi in un taschino della camicia. Riflette
sulla mia domanda.
«Se vuoi sapere la verità, non mi manca niente a parte una
cosa».
Un moscone passa in volo sopra le nostre teste.
«Mi manca un bacio con la lingua».
L’insetto fa un paio di giri a vuoto, si appoggia sul bordo
della vasca.
«Le donne con cui mi capita di andare non danno baci con
la lingua. Non sulla bocca almeno…» conclude con una breve
risata.
Il moscone si rialza in volo e si allontana.
«Un bacio con la lingua…» ripeto sottovoce.
Poi non diciamo più niente. Restiamo così, seduti in silen-
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zio, di spalle, stesi nell’acqua e sull’asfalto. La voce della fontana sembra appena un sussurro nella piazza e non c’è più nessun rumore in tutta la città. Forse nessun altro rumore sulla
faccia della terra.
Un bacio…
Penso che è più di un mese che non bacio con la lingua.
Penso che sono passati trentasei giorni da quando Arianna mi
ha tradito. Penso che anche adesso potrei calcolare precisamente i minuti e i secondi esatti che mi separano dall’istante in
cui sono entrato in casa e l’ho colta a capo chino fra le cosce di
quel venditore di aspirapolvere.
864 ore, 19 minuti, 42 secondi fa
Si era trasferita qui da alcuni giorni, per lavorare più tranquilla alla sua tesi di laurea. Sono rincasato dal lavoro in anticipo e per terra, nel corridoio, ho incontrato un borsone pieno di
tubi, filtri, spazzole e bocchettoni.
Non mi hanno nemmeno sentito entrare: lui, seduto sul tavolo con i pantaloni alle caviglie; lei, appena poggiata con il
sedere sulla sedia, le gambe accavallate come se stesse compilando una pratica d’ufficio, precisa e misurata nel saliscendi, il
caschetto castano dei capelli impeccabile.
Ho sfilato un fazzolettino di carta dalla tasca per soffiarmi
il naso: una colata liquorosa e amara, abbastanza rumorosa da
avvertirli della mia presenza. Non mi è uscito altro.
Si sono girati verso il corridoio, guardandomi. A quel punto ho messo sul pianerottolo la sacca del rappresentante e, raccolta la borsetta di Arianna dal comodino, ce l’ho buttata sopra. Infine ho dato un calcetto al tutto, per allontanarlo dalla
linea della porta.
Ho fatto segno con la mano di uscire.
Sono usciti.
Prima lui, a calzoni slacciati, con quei baffetti neri sottili che
glieli avrei tolti a strappi. Poi lei, poco dietro, a testa bassa, il
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rossetto sfatto, nemmeno il coraggio di un ultimo sguardo.
Ho richiuso la porta su questa immagine.
Mi è venuta voglia di fumare, per la prima volta in vita mia.
Ore 16.37
Quando mi rimetto in piedi ho le dita lessate e il pomeriggio ha un colore diverso. Qualche macchina si muove sulla
strada, le poche persone nella piazza mi osservano uscire dalla
fontana con i vestiti inzuppati, sgocciolanti: alcuni fanno finta
di nulla, altri mi fissano incuriositi.
Sono di nuovo solo. Il barbone si è dissolto da una mezz’ora o forse più, salutandomi senza troppe cerimonie, scivolato
via mentre ero assorto nel flusso della fontana e dei pensieri.
Sul bordo della vasca, dove le aveva messe ad asciugare, le
tre sigarette non ci sono più. In compenso spicca una pagina
del quotidiano, piegata su se stessa in una specie di pacchetto.
Lo raccolgo.
Cerco l’immagine del barbone nella piazza, ma non c’è. Allora apro la confezione, sollevando una piega per volta, piano,
fino a quando mi resta sul palmo della mano un mezzo foglio
aperto. Al centro, piccola e piatta, c’è una scheda telefonica.
La prendo fra due dita. È una normale Sim card, forse con
del credito residuo. Marchiata “Simco”.
Ha voluto sdebitarsi per le sigarette e i quattro euro.
Tiro fuori il portafogli e ci spingo dentro l’omaggio del barbone. Mi muovo verso il portone del condominio. Dietro di me
lascio una scia bagnata che macchia l’asfalto.
Ore 17.29
Insieme al caldo mi ha travolto di nuovo la malinconia. Non
ho potuto fare altro che trascinarmi fino al salotto e abbandonarmi zuppo sul divano. Ci affondo da una ventina di minuti.
Sento la stoffa sopra i cuscini che prende acqua dai miei vestiti, se ne impregna poco alla volta. La macchia umida si allarga
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sotto le natiche.
Credevo di stare meglio, invece no. E ho una voglia fottuta di fumare. Ma non ho più sigarette, il tabaccaio è chiuso, il
distributore automatico a parecchi chilometri e in ogni caso,
riflettendoci, non ho più un centesimo. Solo acqua dappertutto.
I vestiti mi pesano addosso.
Mi sollevo dal divano e comincio a spogliarmi.
Mi sfilo la maglietta rossa, c’è una riga a segnare il punto
fino a cui mi sono immerso. Spezza in due le corna del toro e
le mette in evidenza. Le corna. Mi libero delle infradito e mi
slaccio i pantaloni, che cadono al suolo a peso morto raccogliendosi attorno alle caviglie. Sto per levarmi anche le mutande quando suona il campanello.
Ci resto un po’ male, come se mi avessero beccato a fare qualcosa di brutto. Esco svogliatamente dal gomitolo dei calzoni, vado alla porta, non chiedo nemmeno chi è. Apro e basta.
Sull’uscio spunta l’immagine fresca di Federica, con una maglietta bianca aderente e la scritta “Faith” cucita sul davanti con
fili dorati, la borsetta minuscola, una specie di gonnellina che la
copre fino a metà cosce. Probabilmente non porta le mutandine.
Federica Persiceti ha ventiquattro anni e fa la commessa in
un negozio di intimo femminile. Lei e Tonno si sono conosciuti
in un corridoio dell’università, perché la ragazza vorrebbe iscriversi a Ingegneria di qualche cosa. Da allora Tonnarelli ci ha provato senza pudore e senza successo in svariate occasioni.
Me l’ha presentata qualche tempo fa a una festa. Dice che,
secondo lui, con me la Persiceti ci starebbe. In effetti mi ha
mandato tre o quattro sms con vari puntini di sospensione e
fatto un paio di telefonate a tarda sera in cui confessava, con
incantevole leggerezza, che in verità lei la biancheria intima la
odia. Ma non mi ha mai trovato dell’umore giusto, ho finito più
che altro per rovesciare nell’apparecchio le sfumature penose
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del mio conto in banca e del mio cuore svuotati insieme, senza
pensare a lei come a una possibile consolazione. Appena la rivedo sull’uscio mi domando istintivamente: Perché?
Sembra più alta del solito, calza dei sandali di tela con la
zeppa e ha i capelli neri raccolti in una coda.
«Disturbo?» chiede squadrandomi nudo dentro le mutande rosa bagnate. Le scappa una risatina leggera come zucchero a velo.
«Hai una sigaretta?» le domando.
«Fumi? Da quando?».
«Ce l’hai?».
«Sì».
Mi scosto, la lascio entrare.
Chiudo la porta e mi ci appoggio sopra, di schiena.
Federica infila una mano nella mini borsa, ne tira fuori una
sigaretta slim e un accendino e mi spinge la sigaretta fra le labbra.
«Stavi facendo la doccia, Zanzini?» sussurra con la sua voce
sottile.
«In un certo senso…» rispondo a bocca stretta per non far
cadere la slim. Lei è praticamente su di me. Con la mano destra
tiene l’accendino, con la sinistra mi sfiora la pancia. Un gesto
che sembra casuale.
«Accendo?» chiede. Risatina.
Annuisco. Avvicina la fiamma alla punta della sigaretta e stavolta mi appoggia decisamente il palmo della mano sull’addome. L’unghia del dito medio di Federica Persiceti affonda nel
mio ombelico umidiccio.
Aspiro con decisione. In un attimo la sigaretta è accesa e io ho
un fuoco nelle mutande, nonostante l’umidità. Soffio fuori il primo fumo, che le passa giusto sopra la fronte, e stavolta non tossisco neppure, sembra quasi che sappia fumare. Afferro d’impulso il polso della mano che Federica mi tiene premuta addosso.
«Andiamo a fare la doccia» dichiaro mentre la trascino in
bagno. Lei replica con l’ennesima risatina, ma più piena e lunga