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RASSEGNA STAMPA mercoledì 23 luglio 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO PUBBLICO IL MANIFESTO L’UNITÀ AVVENIRE IL FATTO IL RIFORMISTA PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Adn Kronos del 22/07/14 Festival: musica e teatro a Lampedusa con 'Sabir' Roma, 22 lug. (Adnkronos) - Dall'1 al 5 ottobre prossimi si terrà a Lampedusa 'Sabir', il 'Festival diffuso delle culture mediterranee', promosso da Arci, Comitato 3 ottobre e Comune di Lampedusa, con il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri e della Rai. La direzione artistica della parte musicale del Festival è affida a Fiorella Mannoia, quella della parte teatrale ad Ascanio Celestini che ha anche prodotto e diretto lo spot promozionale del Festival. Il Sabir, che dà il titolo al festival, era un idioma parlato in tutti i porti del Mediterraneo dal Medioevo fino a tutto il XIX secolo; uno strumento di comunicazione in cui confluivano parole di molte lingue del Mediterraneo e che consentiva ai marinai e ai mercanti dell'area di comunicare fra loro. Il titolo ha l'intento di evocare la vocazione storica dell'isola di Lampedusa, che le deriva dalla sua collocazione geografica e che ha visto, nel corso dei secoli, il passaggio delle grandi civiltà mediterranee. "Oggi -scrivono gli organizzatori in una nota- Lampedusa, nell'immaginario collettivo, è soprattutto legata ai grandi flussi di migranti, alle tragedie che nel canale di Sicilia si sono consumate, a un'accoglienza quasi sempre fornita in condizioni di emergenza, nonostante la solidarietà di cui spesso hanno dato prova, in condizioni difficili, i suoi abitanti". L'intento di Sabir "è quello di restituire all'isola un'immagine diversa, di valorizzarne il potenziale sociale, economico e culturale, di rafforzarne il ruolo di ponte tra le due sponde del Mediterraneo, per la costruzione di uno spazio aperto e solidale tra i paesi che vi si affacciano". Durante i cinque giorni del festival si alterneranno dibattiti con ospiti internazionali, laboratori, eventi teatrali e musicali, spazi dedicati alla letteratura. Il 3 ottobre ci saranno varie iniziative in ricordo del tragico naufragio in cui persero la vita 368 migranti, iniziative di cui saranno protagonisti i familiari delle vittime e i superstiti. Da Cronache di Ordinario Razzismo del 22/07/14 Sabir: a Lampedusa il festival diffuso delle culture mediterranee Si chiamerà Sabir il Festival diffuso delle culture mediterranee, che si terrà dal 1 al 5 ottobre a Lampedusa. Sabir, come la lingua parlata nei porti del Mediterraneo dal Medioevo fino a tutto il XIX secolo, che consentiva ai marinai e ai mercanti di comunicare fra loro. E l’intento del festival, promosso da Arci, Comitato 3 ottobre e Comune di Lampedusa, con il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri e della Rai, è proprio quello di evocare la storia di incontro e scambio di culture, tradizioni e saperi di cui è intrisa l’isola di Lampedusa, che oggi nell’immaginario collettivo è legata soprattutto ai grandi flussi di migranti, alle tragedie che nel canale di Sicilia si cono consumate, a un’accoglienza quasi sempre fornita in condizioni di emergenza. Il festival vuole invece 2 restituire all’isola un’immagine diversa, valorizzarne il potenziale sociale, economico e culturale, rafforzarne il ruolo di ponte tra le due sponde del Mediterraneo. Durante i 5 giorni del festival si alterneranno dibattiti con ospiti internazionali, laboratori, eventi teatrali e musicali, spazi dedicati alla letteratura. Il 3 ottobre ci saranno varie iniziative in ricordo del tragico naufragio in cui persero la vita 368 migranti, iniziative di cui saranno protagonisti i familiari delle vittime e i superstiti. La direzione artistica degli eventi teatrali è affidata ad Ascanio Celestini, mentre per gli eventi musicali la direzione sarà di Fiorella Mannoia. Le finalità e il programma completo del festival verranno illustrate nella conferenza stampa a cui parteciperanno Fiorella Mannoia, Ascanio Celestini, Giusi Nicolini sindaca di Lampedusa e Linosa, Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci, Laura Biffi e Tareke Bhrane del Comitato 3 ottobre. Introdurrà Filippo Miraglia, vicepresidente Arci. L’appuntamento per la conferenza stampa è per venerdì 25 luglio, ore 12, presso la Libreria Fandango, via dei Prefetti 22, Roma. http://www.cronachediordinariorazzismo.org/2014/07/sabir-lampedusa-festival-diffusodelle-culture-mediterranee/ Da Repubblica.it (Torino) del 22/07/14 La spiaggia lungo il Po Ecco i nuovi Murazzi Sono state inaugurate le spiagge in riva al Po e il campo di beach volley. Saranno organizzate qui le attività di Arci e Aics che dovrebbero far vivere i Murazzi anche di giorno. Dopo il taglio del nastro dell'Arcipelago Beach e del Turin Plage, stasera è prevista una festa su uno dei battelli del Gtt. La musica cesserà a mezzanotte, ma si potrà restare a bere lungo il Po fino alle 2. http://torino.repubblica.it/cronaca/2014/07/22/foto/la_spiaggia_lungo_il_po_ecco_i_nuovi_ murazzi-92154078/1/#1 3 ESTERI del 23/07/14, pag. 12 Hamas spara sull’aeroporto stop ai voli su Tel Aviv delle compagnie Usa e Ue Un razzo “buca” l’Iron Dome. Ma Israele: Ben Gurion è sicuro I morti palestinesi sono più di 600. Ban Ki-moon da Netanyahu DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME . Un missile sparato dalla Striscia ieri ha “bucato” il sistema Iron Dome e si è schiantato su un’abitazione a poca distanza dall’aeroporto di Tel Aviv spingendo l’Agenzia statunitense dell’aviazione (Faa) a vietare tutti i voli su Israele per 24 ore e l’Agenzia europea per la sicurezza aerea (Easa) a sconsigliarli. Tutte le compagnie aeree americane hanno perciò sospeso i voli verso il “Ben Gurion”, seguite da Air France, Klm e Lufthansa. Alitalia ha deciso di cancellare i voli di ieri sera e di posticipare quello previsto stamattina. British Airways e EasyJet continuano a volare. Una misura di sicurezza «estrema», l’ha definita il ministro dei Trasporti israeliano Katz che difende la sicurezza dello scalo, ma che mostra il rischio di danni economici per Israele. L’ultima sospensione dei voli per Israele risale alla Guerra del Golfo nel 1991. L’escalation militare prosegue. Non si ferma il lancio dei missili sulle città israeliane della costa. Israele ha aumentato la pressione sul Nord della Striscia colpendo ancora una volta un centro dell’Onu per rifugiati e portando a oltre 135mila il numero degli sfollati. È stata una notte di terrore per gli abitanti dei rioni di Sheikh Zayed e di Tel Zaatar, attigui a due aree (Beit Hanun e Beit Lahya) dove da giorni le forze terrestri israeliane e i miliziani di Hamas sono impegnate in duri scontri. Il numero dei morti palestinesi ha superato quota 600 e quello dei feriti è vicino ai 4mila; 27 i soldati israeliani caduti finora e un centinaio i feriti. Eppure Hamas nonostante le spaventevoli distruzioni a Gaza insiste nel proclamare di aver sconfitto il nemico. E nelle strade di Gaza i combattenti di Hamas si sono guadagnati un alone di rispetto che due settimane fa non avevano. Mentre proseguivano i raid sulla Striscia e il lancio dei missili islamici il premier Benjamin Netanyahu ha incontrato Ban Ki-moon. Israele ha già respinto una tregua umanitaria chiesta dall’Onu per assistere la popolazione civile che è stata respinta da Israele, ma il segretario generale dell’Onu ha detto — mentre era in collegamento video da Ramallah con il Consiglio di Sicurezza riunito a New York — di «avere speranze » che un cessate-il-fuoco possa essere presto raggiunto. Dopo Obama, ieri è stata la Francia a chiedere la cessazione delle ostilità. Ma nessuna delle due parti sembra ascoltare le richieste arrivate anche dall’Egitto. Israele vuole farla finita con i missili e i tunnel di Hamas, gli integralisti annunciano che è «iniziata la battaglia per la liberazione della Palestina» con i suoi “metodi”: per la seconda volta sono stati scoperti dei missili nascosti in una scuola dell’Onu. ( f. s.) del 23/07/14, pag. 8 135mila in fuga dalle bombe Michele Giorgio 4 Striscia di Gaza. Per l’ambasciatore israeliano negli Usa, Ron Dermer ,le Forze Armate del suo paese starebbero combattendo con «inimmaginabile contenimento». I dati dell'Unicef sui bambini palestinesi morti dicono l'esatto contrario. Ha superato 600 il totale dei palestinesi uccisi. Caduti in combattimenti anche 28 soldati israeliani Il premio Nobel per la pace alle Forze Armate israeliane. A lanciare la candidatura è Ron Dermer, giovane politico israeliano destinato a una brillante carriera. In quota Likud, ex consigliere del premier Benyamin Netanyahu, è ora ambasciatore nel paese più potente al mondo e stretto alleato di Israele, gli Stati Uniti. Partecipando ieri a Washignton a una conferenza dei “Cristiani Uniti per Israele”, Dermer si è scagliato contro le Nazioni Unite, i centri per i diritti umani e le agenzie umanitarie internazionali che accusano Israele di crimini di guerra a Gaza. Per l’ambasciatore israeliano le Forze Armate israeliane meritano il premio Nobel per la pace perchè starebbero combattendo con «inimmaginabile contenimento» nei confronti di un nemico spietato, responsabile di tutto e di più. Poi ha pronunciato una frase che rimarrà scolpita nella storia dell’operazione “Margine Protettivo”: «Non tollero le critiche che sono rivolte al mio Paese nel momento in cui i soldati israeliani stanno morendo per far vivere i palestinesi innocenti». Leggendo quelle dichiarazioni ci viene da pensare ai quattro bambini Bakr, uccisi da due colpi sparati dalla Marina israeliana contro la spiaggia di Gaza city. Oppure a quella madre con in braccio il figlio e il terrore scolpito sul suo volto che abbiamo visto domenica mentre scappava da Shujayea sotto le cannonate. O ancora ai 27 membri della famiglia Abu Jami sterminati, bambini inclusi, da missile a est di Khan Yunis. Tutto falso, non è mai avvenuto, una menzogna lunga due settimane raccontata dai giornalisti, palestinesi e stranieri, colpevoli di riferire cosa accade nella Striscia di Gaza. E’ questa versione che si sta cercando di far passare ovunque per infangare chi fa informazione a Gaza e, più di tutto, per gettare nell’oblio oltre 600 vite umane palestinesi. Dirà bugie anche l’Unicef, che riferisce che un totale di 121 bambini e ragazzi palestinesi sono stati uccisi dai raid israeliani a Gaza dall’8 al 21 luglio, di età tra i 5 mesi e i 17 anni. Due bambini su tre hanno meno di 12 anni. 904 bambini risultano feriti. A chi è scampato alla morte, serve urgente sostegno psicosociale specializzato per affrontare il trauma che stanno vivendo in seguito alla morte di parenti o il loro ferimento o la perdita della propria casa. Il portavoce dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, Jens Laerke (sarà un bugiardo anche lui?) descrive una situazione devastante sul fronte della protezione per la popolazione. A Gaza, meno di 400 kmq, dice Laerke, «non c’è letteralmente alcun posto sicuro per i civili». Pesano anche le carenze di forniture ospedaliere e medicinali. Diciotto strutture sanitarie – come l’ospedale al Aqsa di Deir al Balah, colpito da una cannonata due giorni fa — sono state danneggiate, inclusi tre ospedali, denuncia l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Senza dimenticare che 1,7 milioni di palestinesi di Gaza non hanno accesso o solo un accesso limitato all’acqua. Come si attendevano un po’ tutti, dopo il massacro di dozzine di civili e il massiccio bombardamento tra sabato e domenica a Shujayea, i civili palestinesi scappano non appena apprendono di movimenti di reparti corazzati israeliani. Ieri nel giro di poche ore, i centri abitati di Sheikh Zayed e Tel Zaatar, a nord di Gaza, si sono svuotati sotto la furia dei cannoneggiamenti israeliani a ridosso delle case. Mentre i combattimenti tra truppe israeliane e miliziani palestinesi si avvicinano al campo profughi di Jabalya (70 mila abitanti). La gente fuggendo nel panico, dirigendosi verso le scuole dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi. Fonti giornalistiche locali stimano che a Gaza gli sfollati siano 135 mila, 90 mila dei quali ospiti dell’Unrwa. Una richiesta di aiuto viene lanciata in queste ore proprio dall’Unrwa. L’agenzia comunica di non poter più sfamare le 5 decine di migliaia di palestinesi che in questi giorni ha accolto nelle proprie strutture nella Striscia. Sono necessari aiuti immediati per 60 milioni di dollari. A dare un aiuto alle Nazioni Unite, ci sono anche le organizzazioni non governative. Il coordinamento di quelle italiane che operano in Palestina ha lanciato una campagna di raccolta di medicinali, acquistate a Ramallah grazie a donazioni di tanti italiani, e poi portate a Gaza dal Palestinian Medical Relief (non senza difficoltà). Contribuisce anche l’ufficio di Gerusalemme della Cooperazione governativa italiana che ha stanziato fondi per l’emergenza. «Collaboriamo con il Centro Italiano e varie associazioni locali per acquistare materassi, coperte e prodotti di prima necessità per gli sfollati – spiega Meri Calvelli, dell’Acs di Padova che in questi giorni sta coordinando per conto delle ong italiane gli aiuti ai civili palestinesi – La nostra distribuzione avviene in alcune delle scuole dove hanno trovato alloggio gli sfollati e direttamente alle famiglie che hanno perduto tutto, che non hanno più la casa e che sono ospitate in stabili qui a Gaza city. A darci una mano ci sono tantissimi volontari palestinesi, giovani soprattutto, che ci aiutano anche nella compilazione degli elenchi delle famiglie da aiutare». Il Cairo potrebbe dare un contributo importante nell’accoglimento degli sfollati, sul versante egiziano della frontiera di Rafah ad esempio, e per allentare la pressione sugli ospedali palestinesi schiacciati sotto il peso di oltre 3mila feriti (senza contare che gli obitori non riescono più a contenere i cadaveri che arrivano in continuazione). Ma dalle autorità egiziane arriva un’assistenza limitata. Il regime del presidente Abdel Fattah al Sisi è tenacemente schierato contro Hamas, perchè parte dei Fratelli Musulmani, ma attua misure che colpiscono soltanto la popolazione civile palestinese. Sino ad oggi solo 47 feriti palestinesi hanno potuto raggiungere gli ospedali egiziani e nei 15 giorni di offensiva militare israeliana ci sono stati appena 2.230 ingressi di palestinesi in Egitto e 1.194 di loro passaggi dal territorio egiziano alla Striscia. Numeri molto bassi rispetto all’emergenza di Gaza ma che comunque consentono a Sisi di smentire chi denuncia che l’Egitto per il blocco del passaggio di feriti attraverso il valico di Rafah. Secondo il Cairo sarebbe addirittura Hamas, a fini propagandistici, a non inviare i feriti per ottenere una internazionalizzazione del valico. Il braccio armato di Hamas ha sferrato ieri sera un nuovo attacco sparando una salva di razzi verso le città israeliane di Ashdod e di Ashqelon. Altri razzi erano stati sparati in precedenza. Non ci sono stati danni o feriti. Il numero complessivo dei lanci da Gaza è comunque calato in maniera significativa ma ciò non ha impedito a diverse compagnie aeree statunitensi ed europee di sospendere i voli per Tel Aviv, chi a tempo indeterminato e chi solo per poche ore. Non calano d’intensità invece i raid aerei israeliani e i cannoneggiamenti. In via Baghdad a Shujayea ieri sono stati estratti altri cadaveri, rimasti sotto le macerie da domenica scorsa. I morti palestinesi ieri sono stati una sessantina, in totale 616 e 3750 i feriti. Il Canale 10 israeliano ha confermato che la matricola del soldato disperso, Oron Shaul, corrisponde a quella dichiarata domenica da Hamas che afferma di aver fatto prigioniero il militare. Ieri è stata comunicata la morte di altri due soldati (sono una trentina in totale). Israele però va avanti e secondo i media locali l’offensiva durerà ancora per una o due settimane. del 23/07/14, pag. 9 Gli attivisti israeliani contro Tel Aviv Chiara Cruciati 6 Israele. Le manifestazioni in solidarietà con il popolo palestinese attaccate da gruppi neofascisti. Parlano gli attivisti israeliani I sondaggi sull’offensiva in corso sono impietosi: il 93% della popolazione israeliana si dice soddisfatta dell’operazione militare “Barriera Protettiva”, il 71% approva l’attacco via terra e il 77% non vuole un cessate il fuoco (il sondaggio è stato realizzato il 20 luglio da New Wave Research e dal quotidiano Israel Hayom). Se non bastassero i numeri, basta fare un giro nei social network, sintonizzarsi su una tv israeliana o sfogliare un quotidiano: la campagna anti-araba iniziata con la morte dei tre coloni trova linfa vitale nell’attacco contro la popolazione gazawi e, ancora una volta, cementa il sentimento nazionalista israeliano. Poche le voci di dissenso, ma non per questo meno significative: cresce il fronte antisionista e antimilitarista israeliano, attira un numero maggiore di attivisti e lavora per fornire un’informazione alternativa. Lunedì sera sono scesi in piazza a Jaffa, nel martoriato quartiere di Al Ajami, circa 800 persone organizzate dal movimento islamico, al cui appello hanno aderito organizzazioni pacifiste, partiti anti-sionisti di estrema sinistra e la sinistra moderata sionista (i partiti Meretz e Hadash). «Gruppi fascisti si sono organizzati per aggredire la manifestazione – spiega al manifesto l’attivista israeliana Tamar Aviyah – Sono sempre più strutturati, si organizzano nei social network. La polizia ha cercato di dividerci chiudendo le strade. Sembrava ci fosse il coprifuoco». Il fronte si sta però allargando, grazie anche all’informazione alternativa fornita su Facebook e Twitter dagli attivisti e da siti come +972mag, fonte indispensabile di immagini, analisi e notizie che i media mainstream tacciono: «Non seguo molto la stampa israeliana, ma posso dirvi che giornali e tv si focalizzano quasi esclusivamente sulla solidarietà all’esercito, nel tentativo di rafforzare il sentimento anti-arabo. Nessuno parla delle legittime richieste di Hamas, nessuno mostra immagini del massacro in corso. Le vittime gazawi? Le chiamano ‘danni collaterali’. La terminologia è molto sterile, machista, esclusivamente volta a giustificare le violenze». Una pratica che si rispecchia nei comportamenti e i discorsi della maggioranza del popolo israeliano. Ma quello che preoccupa, ci spiega un altro attivista che chiede di restare anonimo, è la crescita repentina dei gruppi fascisti e di estrema destra, oltre al controllo capillare da parte dei servizi segreti interni delle attività dei gruppi anti-sionisti e di sinistra. Per questo, alcuni attivisti si stanno organizzando per monitorare le attività dell’estrema destra, seguendone i movimenti nei social network e le azioni in programma. Alcuni hanno messo in piedi forze di difesa che operano durante le manifestazioni per evitare aggressioni. «Siamo in parte soddisfatti – continua Tamar – perché il movimento di base israeliano anti-sionista è in crescita. Numeri come quelli di questi giorni – 800 persone a Jaffa, oltre mille a Tel Aviv – non erano mai stati raggiunti. A questo si aggiungono le azioni del BDS, la campagna di boicottaggio dello Stato di Israele, e quelle degli Ebrei contro il Genocidio [movimento di ebrei israeliani e stranieri contro il genocidio del popolo palestinese, ndr]: oltre a lanciare petizioni che hanno portato a vittorie a livello internazionale, in questi giorni hanno fatto parlare di sé con azioni di fronte all’ambasciata Usa e al Museo dell’Olocausto a Gerusalemme, dove hanno posto una piramide di bambole a rappresentare le vittime di Gaza. Le hanno ricoperte di vernice rossa, il sangue versato, e poi gli hanno dato fuoco». Di nuovo sotto il sole del minoritario attivismo israeliano c’è una nuova unità tra le varie forze, di solito politicamente divise: «Oggi l’obiettivo è unico, tentiamo di mettere da parte le differenze e inviare un messaggio comune, no al massacro – ci spiega l’attivista di BDS from Within, Ronnie Barkan – Un blocco unico è necessario sia per far girare più informazioni possibile che per reagire agli attacchi delle squadracce fasciste e naziste. Voglio essere chiaro: la società israeliana è tendenzialmente fascista, non c’è nulla di nuovo nei discorsi pubblici. Ciò che è cambiato è l’escalation di violenza, che da verbale è 7 diventata pratica a causa dell’eccitamento provocato dalle dichiarazioni di parlamentari e politici che invocano il genocidio dei palestinesi. Semplicemente oggi non si vergognano più: razzismo e fascismo oggi sono più visibili, ma sono sempre esistiti, dal 1948, da Ben Gurion». «È sempre più pericoloso dichiararsi antisionisti o anche solo di sinistra – conclude Ronnie – Anche un partito sionista e moderato come Meretz è chiamato traditore, eppure non mossero un dito contro l’operazione Piombo Fuso». Alla fine, niente di nuovo sotto il sole israeliano. del 23/07/14, pag. 12 Shaul, il soldato disperso e i tormenti FABIO SCUTO DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME È STATO chiarito dall’esercito israeliano il mistero del sergente Shaul Oron. Hamas aveva rivendicato la sua cattura mostrando alla tv Al Aqsa la sua piastrina di riconoscimento e altri oggetti sostenendo che era stato preso prigioniero durante la battaglia di Shajaya, suscitando la felicità dei palestinesi di Gaza, della Cisgiordania e anche di Gerusalemme Est. Le auto suonavano i clacson e fuochi d’artificio sono stati sparati dai quartieri arabi come Silwan. Un’effimera e macabra soddisfazione per una giornata che è stata fra le più drammatiche di questa nuova guerra di Gaza, conclusa con oltre cento civili palestinesi uccisi nella Striscia e più di cinquecento feriti. Il sergente maggiore Oron è morto nella battaglia per la conquista di Shajaya, è ufficialmente “disperso” perché il suo corpo non è stato recuperato. Hamas ancora una volta ha fatto solo della macabra propaganda. Lo dimostrano la ricostruzione e l’analisi di quella battaglia notturna fra le viuzze e i vicoli di quel quartiere abitato da cinquantamila persone, dove sono morti 15 soldati israeliani. Il blindato che aveva a bordo Oron e sei commilitoni, un vecchio Apc uscito di fabbrica nel 1970, si è bloccato in una stradina di Shajaya e ha chiesto aiuto via radio. Un gruppo di miliziani è però sbucato da un tunnel e un razzo anticarro ha centrato in pieno l’Apc sventrando la blindatura. Altri soldati della Brigata Golani hanno cercato di raggiungere il mezzo per soccorre i feriti o portare via i caduti ingaggiando battaglia con i miliziani, mentre dall’alto solo arrivati due droni, uno armato di telecamera e l’altro di missili per tenere lontani gli uomini di Hamas. Il Rescue Team ha recuperato i resti dei soldati e si è ritirato perché le immagini del drone dimostravano che non c’era nessun segno di vita attorno al mezzo. La battaglia di Shayaja, il cui nome significa “Quartiere dei valorosi” per l’esito di una battaglia persa dai Crociati nel XIII° secolo, è stata finora la più sanguinosa per Tsahal. Per quasi due settimane Israele si è sentito orgoglioso e tranquillo dei successi dell’Iron Dome nell’intercettare i missili di Hamas e dei bombardamenti dal cielo, ma poi ci sono stati gli attacchi via terra dai tunnel ed è iniziata l’operazione terrestre: in quattro giorni sono morti 28 soldati e oltre cento sono stati feriti, un risultato prevedibile ma mozzafiato per tutto Israele. In un paese dove il servizio militare è obbligatorio per la maggior parte dei cittadini, le perdite militari sono tragiche come quelle civili. Tv, giornali, siti internet sono dominati dalle immagini e dai racconti sui militari caduti, scorrono i volti giovani di ragazzi appena usciti dalle scuole superiori, le famiglie in lacrime, migliaia di persone ai riti funebri che molte stazioni danno in diretta. Il più alto numero di caduti dalla guerra del Libano nel 2006 8 suscita un’ondata di forti emozioni. Da un lato c’è una corrente determinata a portare avanti gli attacchi contro Gaza finché Hamas non cesserà il lancio dei missili e degli attacchi dai tunnel, dall’altro la sensazione che l’affondamento dentro una palude è davvero a portata di mano. «Sapevamo che non era una passeggiata nel parco», dice sbrigativamente il ministro della Difesa Moshe Yaalon, «ma dobbiamo andare avanti fino al raggiungimento degli obiettivi altrimenti i nostri soldati saranno morti invano ». Ma il quotidiano Haaretz ha messo in guardia il governo sugli esiti di queste operazioni militari e «l’uccisione all’ingrosso dei civili palestinesi». «Le sabbie morbide di Gaza potrebbero trasformarsi in sabbie mobili, non ci può essere nessuna vittoria a Gaza, Israele deve limitare il suo tempo di azione nella Striscia». C’è sempre consenso pubblico fra gli israeliani sugli attacchi aerei per fermare i missili sparati contro le città e le vittime palestinesi sono attribuite al fatto che Hamas nasconde le sue rampe nei centri abitati, nelle scuole e nelle moschee. Ma operazioni di terra sono tutta un’altra storia, per questo il governo Netanyahu aveva esitato a correre questo rischio. Combattimenti casa per casa, tank bloccati nelle strade della Striscia, il pericolo di soldati rapiti da scambiare con migliaia di prigionieri palestinesi dopo anni di trattative, sono un vero incubo per Israele e il suo governo. Se i soldati israeliani continueranno ad essere uccisi a questo ritmo, il consenso di cui gode ora il premier Netanyahu sarà sostituito da un crescente senso di urgenza nel fermare l’escalation nella Striscia. Il primo ministro è consapevole che la fine politica del suo predecessore Ehud Olmert, nel 2006, avvenne quando l’opinione pubblica arrivò alla conclusione che troppi soldati erano stati uccisi in quella guerra e che l’esercito non era preparato abbastanza per combattere gli Hezbollah, la cui potenza di fuoco era quasi intatta — come quella di Hamas adesso — anche dopo un mese di guerra. Del 23/07/2014, pag. 9 Gaza, Netanyahu dice di no all’Onu Il premier israeliano: «Operazione finché non distruggeremo i tunnel» Ban Ki-Moon: «Ora trattate» Stop ai voli principali su Tel Aviv Nessuna tregua umanitaria. A Gaza si continua a combattere. E a morire. All’alba del quindicesimo giorno dell’offensiva «Margine protettivo», Israele ha lanciato nuovi raid aerei sulla Striscia di Gaza, provocando sette vittime, secondo quanto riferito dal portavoce dei servizi di soccorso palestinesi, Achraf al-Qodra. Tra i morti sono cinque membri di una stessa famiglia, quattro dei quali donne. È salito a 620ilnumerodi palestinesi uccisi,mentre i feriti sono 3.752 secondo il portavoce del ministero della Salute di Gaza, Ashraf al-Qedra. Sul fronte israeliano sono diventati 28 i soldati uccisi in combattimento. Gli attacchi di ieri mattina si sono concentrati nel Sud della Striscia, a Deir el-Balah, Khan Younes e Nousseirate. Secondo quanto affermato da Ayman Batnijil, un portavoce della polizia di Gaza, sono stati presi di mira 70 bersagli, tra i quali alcune moschee, uno stadio e la casa di un leader del braccio militare di Hamas.Poco prima delle 9, invece, le sirene d’allarme sono risuonate a Tel Aviv e nella zona centrale di Israele. Per l’Unicef, fino a ieri i bambini palestinesi vittime del conflittosono121. Si tratta di84 ragazzi e 37 ragazze di età tra i 5 mesi e i 17 anni. Due bambini su tre hanno meno di 12 anni. L’Unicef stima inoltre che più di900bambinirisulterebbero feriti. La tensione non accenna a calare e la Federal 9 Administration Aviation Usa sospende tutti i voli americani verso Israele per 24 ore. Lo ha comunicato la Faa, sottolineando che la decisione è in risposta al razzo caduto a un miglio dall’aeroporto di Tel Aviv.Prima,invece,la Casa Bianca aveva detto che la decisione di annullare i voli per Israele era stata presa dalle singole agenzie e che non c’era stata alcuna indicazione dalla Faa. Anche Lufthansa e Air France hanno fermato i voli. CAOS ARMATO Migliaia di abitanti dei rioni di Sheikh Zayede di Tel Zaatar,anorddi Gaza, sono fuggiti l’altra notte dalle loro abitazioni. Fonti giornalistiche locali stimano che a Gazagli sfollati siano 135mila, 100miladei quali ospiti dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i profughi. E proprio secondo l’Onu a Gaza «non vi è letteralmente alcun posto sicuro per i civili» ha affermato a Ginevra il portavoce dell’Ufficio per gli affari umanitari (Ocha), Jens Laerke evocando una situazione «devastante». «Più di 100mila persone risultano sfollate in 69 scuole gestite dall'Unwra». Cronaca di guerra. Il capo di Stato Maggiore Benny Gantz afferma che è stata scoperta «la maggioranza dei tunnel di Hamas ». In serata, Israele ha annunciato che il soldato di cui Hamas aveva rivendicato il rapimento a Gaza è morto, anche se non è stato possibile identificare il suo corpo. «Il sergente Oron Shaul, soldato della brigata Golani di 21 anni originario di Proria, è il soldato il cui procedimento di identificazione non ha potuto essere portato a termine », ha precisato l’esercito. Poco prima Tsahal aveva dichiarato che fra i 13 soldati uccisi domenica, sette erano morti in un attacco al loro blindato e che il corpo di uno di loro non aveva potuto essere identificato. Secondo media israeliani, Hamas potrebbe detenere parti del corpo del giovane soldato. «C’è uno sforzo comune internazionale. Smettete di combattere, cominciate a parlare e andate alla radice del conflitto»: è l’invito rivolto dal segretario generale dell’Onu Ban KiMoon, che ha incontrato ieri a Gerusalemme il premier israeliano Benjamin Netanyahu. «Nessuna attività militare - ha aggiunto il numero uno del Palazzo di Vetro - servirà a raggiungere questo scopo. Troppi palestinesi e troppi israeliani stanno perdendo i loro figli,dobbiamo intensificare gli sforzi per la pace». Poi ha insistito:«Capisco che molti si sentano minacciati, ma non c'è altra soluzione che quella basata su due Stati. Nessuna barriera può separare israeliani e palestinesi dalla verità che dovete condividere un futuro comune, perché ci sia una sicurezza duratura e si possa vivere in pace». «Hamas è come l’Isil, al Qaeda e Boko Haram. Loro non vogliono una soluzione a due Stati. La loro lagnanza è che noi esistiamo », ha replicato il premier, che ha insistito sul dovere di un Paese di difendersi. La tensione che ha portato agli attacchi, ha detto Netanyahu, non è stata causata da Israele: «Non volevamo questa escalation. Abbiamo accettato la proposta egiziana, sostenuta da Lega Araba e dagli Usa. Ma Hamas l’ha respinta. La nostra è un’autodifesa. Il popolo di Gaza è vittima del brutale regime di Hamas che si nasconde dietro di lui. La comunità internazionale deve ritenere Hamas responsabile per i suoi crimini». Del 23/07/2014, pag. 9 L’impasse diplomatica dovuta all’assenza di mediatori A differenza delle crisi del 2008 e 2012 (risolte dall’intervento di Morsi) Egitto, Turchia, Qatar Stati Uniti ed Ue non hanno un riconoscimento univoco 10 Quella che si sta consumando a Gaza non è solo una tragedia umanitaria. È anche una tragedia diplomatica. Il cui titolo potrebbe essere questo: alla ricerca del mediatore perduto. Un mediatore accettabile da le parti in conflitto. Dotato della necessaria autorevolezza e al tempo stesso di un equilibrio che lo possa rendere accettabile non solo dai belligeranti ma anche dai loro sponsor esterni.Insomma, ilmediatore che non c’è. Non lo è, il nuovo «faraone d’Egitto», il presidente-generale Abdel Fattah al Sisi, che sta bene a Israele per le stesse ragioni per cui è inviso ad Hamas: per aver defenestrato il presidente islamistaMohamedMorsi, ritenuto, da al Sisi, un pericolo per la sicurezza dell’Egitto, in combutta con gli islamisti di Gaza, Hamas in testa. E poco o nulla importa agli attuali attori internazionali, che fu proprio il defenestrato Morsi ad aver mediato l’ultima tregua a Gaza, novembre 2012, con il plauso dell’allora segretaria di stato Usa, Hillary Clinton. Questo mediatore non funziona. Ma non funziona neanche la mediazione che sarebbe gradita ad Hamas: quella della Turchia di Erdogan e del munifico Qatar, l’emirato del Golfo in cui si è rifugiato il leader in esilio di Hamas, Khaled Meshaal. BOCCIATURE MULTIPLE Turchia e Qatar vengono giudicate da Israele come gli sponsor, politico l’uno (la Turchia), economico l’altro (il Qatar), degli sparatori di razzi. Resterebbe l’America. Se non fosse che oggi, la fu iper potenza mondiale non solo non è molto ascoltata nelle capitali arabe, come non trova orecchie sensibili a Gerusalemme, ma ciò che più conta è che non è neanche temuta più di tanto. Quanto all’Europa, semplicemente non ha voce. Perché continua a parlare 29 lingue diverse, senza riuscire a mettere assieme uno straccio di strategia comune. Annota in proposito Roberto Aliboni, consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali (IAI): «Che la diplomazia internazionale abbia fallito non stupisce, poiché nel contesto attuale - come la maggior parte dei commentatori ha sottolineato - la differenza con le crisi del 2008 e 2012, entrambe risolte dalla mediazione egiziana, è precisamente l’assenza di questa mediazione. Gli Stati Uniti, avendo messo Hamas sulla loro “black list” dei movimenti terroristici e avendocela lasciata, non sono mai stati in grado di mediare né nei conflitti precedenti né in questo...».E ancora: «Mentre Israele entra con le sue forze a Gaza, senza questa volta avere alcuna copertura politica alle spalle (per un’azione che non ha alcuna soluzione militare reale perché Hamas non riconoscerà alcuna sconfitta), emerge con evidenza la realtà di un equilibrio regionale più rigido, assai meno duttile che impedisce ai governi della regione e dell’Occidente di poter anche solo gestire la crisi permanente e multiforme che è diventato il Medio Oriente. Altro che strategie di off-shore balancing! L’amministrazione Obamaindica a sostegno del ritiro statunitense dal Medio Oriente una strategia di gestione indiretta degli equilibri regionali, che si affida agli alleati e ai partner - quella che durante la crisi di Libia nel 2011 fu definita «leading from behind». Ma l’attuazione di una strategia di questo genere, per essere efficace, deve essere accompagnata da una moltiplicazione degli sforzi diplomatici e, soprattutto, da obiettivi politici chiari. Questi obiettivi invece mancano - annota ancora Aliboni - sia negli Usa che in Europa, con il risultato che il ritiro militare non si accompagna alla maggiore iniziativa politica che sarebbe necessaria e i rischi provenienti dal Medio Oriente, lungi dall’attenuarsi, stanno crescendo e potrebbero diventare un giorno o l’altro delle vere e proprie minacce. Lo si vede ora a Gaza e inIraq, come lo si è visto nei tre anni passati in Siria, in Libia, nello Yemen e, a conti fatti, in Egitto». Il vuoto di una efficace iniziativa diplomatica, non può essere mascherato dalla raffica di appelli che si susseguono senza soluzione di continuità. Tanti, e inutili. Inutili perché non sono supportati da una visione strategica di ciò che è e dovrebbe essere in futuro il Medio Oriente. Inutili perché i destinatari sanno bene che agli appelli non faranno seguito azioni concrete di pressione. Tra i più solerti facitori di appelli è il segretario di Stato Usa, John Kerry. L’ultimo, ieri: dal Cairo, Kerry si è appellato ad Hamas perché 11 accetti l’iniziativa di cessate il fuoco egiziana, pur sottolineando la necessità di «affrontare le tematiche incredibilmente complesse alla base della crisi». «Hamas deve fare una scelta, che avrà un impatto decisivo sulla gente di Gaza», ha rimarcato il segretario Usa. Peccato che queste tematiche «incredibilmente complesse» non sono mai state affrontate di petto da Washington, e che il «Nuovo Inizio» vagheggiato da Barack Obama, agli albori della sua prima presidenza, in Medio Oriente non sia mai iniziato. Ecosì, la speranza ha lasciato il passo al disincanto. Il disincanto alla rabbia. La rabbia alla violenza. del 23/07/14, pag. 7 47 morti nella battaglia per l’aeroporto di Tripoli Giuseppe Acconcia I miliziani di Zintan, vicini all’ex agente Cia Khalifa Haftar, e i jihadisti Scudo di Misurata non hanno fermato i combattimenti per la conquista dell’aeroporto di Tripoli. Lo scalo è stato quasi completamente distrutto. I tentativi di un cessate il fuoco sono andati disattesi la scorsa domenica. Le milizie, nei combattimenti, hanno fatto uso di missili, razzi e carri armati. «L’aeroporto è stato attaccato da mortai e carri armati», ha confermato l’ufficiale di sicurezza, Al-Jilani al-Dahesh. Il militare ha aggiunto che per ore velivoli di varie compagnie aeree sono stati dati alle fiamme. I combattimenti di lunedì, che hanno coinvolto anche le strade intorno all’aeroporto, sono stati i più intensi dallo scoppio degli scontri per il controllo dello scalo, iniziati lo scorso 12 luglio. Secondo il ministero della Salute, gli scontri hanno causato 47 vittime, mentre si contano anche 120 feriti. Il ministero ha precisato di non aver ricevuto un rapporto completo sulle vittime e il bilancio potrebbe quindi essere più grave. Sarebbe invece superiore al miliardo di dollari il danno economico per il danneggiamento dei luoghi e lo stop al traffico aereo. A causa della battaglia che ha coinvolto gli aeroporti di Tripoli e Misurata, la Libia è isolata da una settimana. Per ovviare alla crisi, la città di Zuwara si sta preparando ad accogliere voli nazionali e internazionali. Ma le violenze non si placano neppure in Cirenaica, dove sedici persone, per la maggior parte soldati, sono rimaste uccise ed altre 81 ferite ieri in scontri tra l’esercito regolare e gruppi islamisti, svoltisi a Bengasi. «La maggior parte dei morti e dei feriti sono militari. Tre civili, tra cui un egiziano, sono stati uccisi da un razzo caduto sulla loro casa», ha spiegato una fonte ospedaliera. E così, venerdì, il ministro degli Esteri libico, Mohamed Abdel Aziz ha chiesto l’intervento dei caschi blu, per evitare che gli scontri degenerino. Tuttavia, il parlamento uscente, a maggioranza islamista, duramente criticato per aver esteso il suo mandato oltre la scadenza di giugno, ha chiesto che nessun paese intervenga, nonostante il perdurare della crisi. «Il popolo libico è contro un intervento straniero», è quanto si legge in un comunicato del Congresso generale nazionale libico. «Il governo attuale dovrebbe consultarsi con il parlamento riguardo a questioni di sovranità nazionale», aggiunge il testo rispondendo direttamente alle richieste di Abdel Aziz di favorire ingerenze straniere. «Il dialogo resta l’unico modo per risolvere le divergenze tra i libici», si legge nel comunicato. Nel 2012, la Nato ha attaccato la Libia determinando la seguente morte violenta dell’ex presidente Muammar Gheddafi e uno stato di profonda instabilità che dura fino a oggi con intere regioni fuori dal controllo del governo di Tripoli. 12 Anche il confine sud-orientale con l’Egitto appare estremamente fragile. Infine, l’Alta commissione elettorale ha annunciato ieri i risultati del voto per le parlamentari del 25 giugno, che hanno registrato una bassissima affluenza alle urne. Sono stati assegnati 188 seggi, mentre per altri 12 sono state registrate irregolarità. In attesa dell’insediamento e della formazione dei gruppi parlamentari, i candidati laici e liberali avrebbero prevalso, ottenendo 50 seggi tra gli indipendenti, solo 30 andrebbero agli islamisti. del 23/07/14, pag. 10 Ora la Ue si compatta contro Mosca Nel mirino capitali, energia e difesa Verso la «fase 3» delle sanzioni. Mogherini: è un conflitto globale DALLA NOSTRA INVIATA BRUXELLES — È il giorno della solidarietà. Dopo un minuto di silenzio in memoria delle 298 vittime del volo MH17, è il ministro olandese Frans Timmermans ad aprire i lavori del Consiglio degli Esteri a Bruxelles, la prima occasione per concordare una linea comune tra i 28 Paesi Ue dopo il disastro aereo che, nelle parole della responsabile della Farnesina Federica Mogherini, «ha trasformato la crisi ucraina in un conflitto globale». Non dovevano mostrarsi divisi, i capi delle diplomazie europee, di fronte all’abbattimento dell’aereo sul quale viaggiavano civili olandesi, malesi, australiani, indonesiani, britannici. E il vertice ha confermato l’accelerazione delle pressioni sulla Russia, accusata di aver armato e addestrato i separatisti dell’autoproclamata Repubblica di Donetsk, il territorio dal quale è partito il missile terra-aria che ha centrato il velivolo. Le conclusioni del Consiglio hanno una valenza soprattutto simbolica e politica, dimostrando la volontà degli Stati di imprimere concretezza ai moniti inviati nei giorni scorsi al presidente russo Vladimir Putin. Di fatto, la decisione operativa su un ulteriore inasprimento delle sanzioni approvate la scorsa settimana è rinviata a domani, quando la Commissione e il servizio di Azione esterna presenteranno ai 28 ambasciatori permanenti del Coreper una proposta circostanziata su nuovi provvedimenti nei confronti di individui e società che abbiano fornito «supporto materiale o finanziario alle autorità russe responsabili dell’annessione della Crimea o della destabilizzazione dell’Ucraina orientale o che beneficino di tali decisioni»: misure come il blocco dell’accesso ai mercati dei capitali, alle attrezzature ad uso militare-civile e alle tecnologie sensibili (difesa ed energia). La parola passerà quindi a un nuovo Consiglio degli Esteri o a un vertice dei capi di Stato e di governo da convocare in tempi strettissimi. Un cambio di passo che apre alle sanzioni economiche invocate dagli Stati Uniti e finora identificate con la «fase 3». «Ma questo Consiglio supera la logica delle fasi — spiegano fonti interne —. Il nodo era trasformare la semplice possibilità di estendere le sanzioni in una richiesta concreta. Lo abbiamo fatto». I nuovi provvedimenti restano subordinati agli sviluppi sul terreno: le prossime ore saranno cruciali per verificare la collaborazione di Mosca e l’effettiva disponibilità dei separatisti a favorire l’inchiesta internazionale indipendente. Come ha detto Mogherini, ci si muove per assicurare alla giustizia i responsabili materiali, ma occorre considerare anche più ampie «responsabilità politiche». Il primo vertice coordinato dalla presidenza italiana, che doveva rilanciare l’immagine di un’Europa chiamata a un imponente sforzo diplomatico in un contesto geopolitico devastato dall’Ucraina al Medio Oriente, si era aperto tra dure polemiche, che compromettevano la credibilità degli avvertimenti al Cremlino. Dopo l’ultimatum di Parigi, 13 Londra e Berlino, era emersa tutta la difficoltà di approntare una risposta che tenesse conto delle relazioni economiche e strategiche con Mosca di Paesi come Italia, Germania, Francia. In particolare il caso delle navi da guerra vendute da Parigi alla Russia è finito al centro di una dura campagna guidata dal Regno Unito — che ospita gli affari di diversi oligarchi russi ma non ha con Mosca vincoli di dipendenza energetica. La parola chiave diventa ora «sostenibilità»: sarà il Consiglio ad assicurare che eventuali nuove sanzioni siano sostenibili per gli Stati, come sottolineato dalla stessa Mogherini. Nel ridisegnato panorama delle alleanze, Londra si è ritrovata al fianco dei Paesi del Centro-Est, con la presidente lituana Dalia Grybauskaite arrivata a paragonare l’atteggiamento francese alle politiche di appeasement che negli anni Trenta permisero l’ascesa del fascismo. A rischio i rapporti tra la Francia e l’Est — in bilico dai tempi del celebre idraulico polacco. Maria Serena Natale del 23/07/14. pag. 15 Texas, emergenza immigrati Guardia Nazionale al confine Rick Perry, il governatore repubblicano, schiera mille soldati alla frontiera DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK — Contro la nuova ondata di immigrati illegali che arrivano negli Stati Uniti dal Centro America — stavolta soprattutto ragazzi e, addirittura, bambini privi di genitori — il governatore del Texas Rick Perry schiera alla frontiera la Guardia Nazionale. Il leader conservatore ieri ha dato disposizione affinché mille soldati della Guardia vengano dislocati nella valle del Rio Grande, la zona attraversata più di frequente dai clandestini. Non è ben chiaro a fare cosa. Né è chiaro chi pagherà i 12-15 milioni di dollari al mese necessari per il mantenimento di questa forza militare. In base alla legge, tanto il governo federale quanto i singoli Stati hanno il potere di attivare la Guardia Nazionale. Ma chi lo fa se ne deve assumere anche gli oneri. Rick Perry, però, non ha alcuna intenzione di finanziare l’operazione coi fondi del Texas e si dice pronto a fare causa all’Amministrazione di Washington per ottenere il rimborso, se a pagare non sarà il governo federale. Un’aperta provocazione nei confronti di Barack Obama al quale i repubblicani avevano già chiesto più volte nelle ultime settimane di mobilitare la Guardia nazionale: invano. Il presidente ha sostenuto che quella dei bambini che arrivano dall’America Centrale è un’emergenza umanitaria che va affrontata con altri strumenti. Anche se poi ha chiesto al Congresso (senza ottenerli) 3,7 miliardi di dollari che dovrebbero servire a rafforzare gli sbarramenti alla frontiera oltre che a finanziare i centri di accoglienza per dare un tetto ai ragazzini che varcano la frontiera. Ieri la Casa Bianca ha minimizzato il caso sostenendo, col nuovo portavoce del presidente, Josh Earnest, che quello del governatore del Texas è solo un gesto simbolico, pensato per produrre titoli sui giornali e in tv: una chiara allusione alle ambizioni politiche di Perry che, governatore del grande Stato del Sud da oltre 14 anni (lo ereditò da George Bush quando questi andò alla Casa Bianca), ha deciso di non ricandidarsi per un quarto mandato alle elezioni del prossimo novembre. Segno evidente che vuole correre di nuovo per le presidenziali del 2016, dopo l’insuccesso delle primarie repubblicane di due anni e mezzo fa. Perry non smentisce e, anzi, a chi gli contesta l’esito disastroso della sua precedente campagna elettorale (partito in pole position, finì ben presto fuori strada per la 14 pessima figura fatta nei dibattiti televisivi e per alcune gaffe come l’incapacità di ricordare i nomi degli enti e delle amministrazioni che si proponeva di sopprimere), risponde di aver imparato la lezione e di essere, oggi, molto più preparato. Gli analisti non sono affatto convinti che abbia buone chance: se non ce l’ha fatta nel 2012 quando i candidati, da Santorum allo stesso Romney, erano tutti deboli, come può pretendere di emergere oggi tra personaggi dal profilo politico ben più spiccato come Marco Rubio, Jeb Bush e lo stesso Chris Christie, pur se azzoppato dallo «scandalo del ponte»? Oltretutto, inventandosi un’operazione della Guardia Nazionale molto costosa e priva di uno scopo preciso, Perry rischia di partire col piede sbagliato. Probabilmente il governatore l’ha fatto per cercare di recuperare consensi nell’elettorato conservatore: la destra oltranzista, infatti, non gli ha mai perdonato certe prese di posizione del passato a favore di una sanatoria per i clandestini che lavorano negli Usa e che per il Texas rappresentano una risorsa economica insostituibile. Allora Perry aveva addirittura accusato chi lo attaccava da destra di essere senza cuore. Quella della mobilitazione della Guardia Nazionale rimane un’enormità, se guardata dall’esterno. Ma Perry, il governatore più longevo della storia del Texas, sa bene che nello Stato della «stella solitaria», nostalgico della condizione di repubblica indipendente di un passato ormai remoto, il desiderio di intervenire alla frontiera col Messico è molto forte. Più battagliero ancora di Perry è l’Attorney general Greg Abbott, il ministro della Giustizia dello Stato che correrà per succedere a Rick come governatore: è lui che vuole trascinare in tribunale Obama per non aver fatto abbastanza per proteggere la frontiera del Rio Grande. Ma anche la candidata dei democratici, l’ormai celebre Wendy Davis, per criticando la richiesta di far intervenire la Guardia Nazionale, prende le distanze dai suoi compagni di partito che vorrebbero solo interventi umanitari e propone, invece, di mandare al confine più vicesceriffi e poliziotti. Massimo Gaggi Del 23/07/2014, pag. 8 Indonesia, il riformista Widodo vince le presidenziali Il più grande Paese musulmano volta pagina: con il 53% battuto l’exgenerale Prabowo Subianto GABRIEL BERTINETTO La via indonesiana alla democrazia non passa attraverso gli effimeri sommovimenti libertari «primaverili» di altre nazioni di cultura islamica. In Indonesia, che con i suoi 250 milioni di abitanti è il più grande Paese musulmano al mondo, per la terza volta dalla caduta di Suharto i cittadini sono stati chiamati alle urne per scegliere la persona che dovrà governarli nei prossimi cinque anni. Il conteggio delle schede è durato dodici giorni, fra denunce di frodi e minacce di non riconoscere il responso delle urne da parte del candidato poi risultato sconfitto, l’ex-generale Prabowo Subianto. Che ieri ha finalmente alzato bandiera bianca di fronte a un verdetto popolare abbastanza chiaro, che gli assegna almeno otto milioni di voti in meno rispetto al rivale Joko Widodo, detto Jokowi. Sostanzialmente il 53,15% del vincitore e il 46,85% del perdente sono le stesse percentuali già indicate dalla maggior parte degli exit-poll alla chiusura dei seggi il 9 luglio scorso. Non è retorico dire che con l’ascesa di Widodo alla presidenza, l’Indonesia volta pagina. Per la prima volta alla guida dello Stato arriva un personaggio estraneo alla 15 cerchia delle élites tradizionali, il cui potere si era mantenuto intatto anche dopo la caduta del dittatore Suharto. Widodo, alias Jokowi, 53 anni, è un ex-fabbricante di mobili, cresciuto in una famiglia di condizioni modeste nella città di Solo. Per esperienza diretta conobbe sin dai primi anni l’arbitrio di autorità pubbliche che rispondevano del loro operato solo a se stesse. Assieme ai genitori e ai fratelli fu cacciato con un atto di imperio dalla casa che abitava sulla riva di un fiume. La sua adesione ai valori democratici e il suo impegno in difesa dei poveri e degli emarginati data da allora. Ma l’ingresso ufficiale in politica avviene con l’elezione a sindaco proprio nella natia Solo nel 2005. La sua attività di amministratore onesto e dinamico, prima a Solo e poi a Jakarta, di cui diventa governatore nel 2012, lo fanno apprezzare in tutti gli ambienti sociali. La corruzione e il nepotismo sono un male endemico indonesiano e la comparsa sulla scena politica di un individuo immune dal morbo nazionale colpisce l’immaginazione popolare, nonostante contro Jokowi si scatenino feroci campagne ostili dei grandi media allineati con il conservatore Subianto. Quest’ultimo cerca di estendere la propria area di consensi facendo appello ai valori religiosi e al nazionalismo. Ma il Paese è evidentemente pronto per un salto verso il futuro. Se la fama di integrità etica permette a Widodo di mietere consensi a 360 gradi, la sua immagine di modernizzatore ne fa il campione dei ceti medi urbani e dei giovani in particolare. Che apprezzano il suo piano di de-burocratizzare la macchina statale, promuovere la tecnologia digitale, sostenere i piccoli e medi imprenditori, riorganizzare il welfare in favore dei ceti più deboli. Il successo di Widodo sembra soddisfare le aspettative degli investitori internazionali, che lo considerano un riformatore aperto alla collaborazione politica ed economica sia con i Paesi asiatici vicini sia con l’Occidente. La prospettiva di un’eventuale vittoria del suo avversario aveva invece suscitato un certo allarme. Per il timore che mettesse in atto le politiche protezionistiche ventilate in campagna elettorale. Per il sospetto che potesse favorire un parziale ritorno ai metodi di governo autoritari del passato. E anche per il suo torbido passato di militare coinvolto in gravi violazioni dei diritti umani commesse al servizio del dittatore Suharto, suo suocero. 16 INTERNI del 23/07/14, pag. 2 Napolitano, asse con Renzi “Nessun autoritarismo il Senato deve cambiare” Allarme del Colle: stop estremismi o rischio naufragio “Ma la legge elettorale è destinata ad essere ridiscussa” UMBERTO ROSSO ROMA . Lancia il suo forte allarme per le riforme finite nella palude degli ottomila emendamenti, perché «se prevalgono diffidenze e contestazioni rischiano di naufragare, ancora una volta». E sposa in pieno la linea Renzi, sottoposto all’ostruzionismo fra i banchi di Palazzo Madama, accusato dai grillini perfino di puntare ad un bavaglio istituzionale: «Non si agitino - avverte allora - spettri di insidie e macchinazione autoritarie». Giorgio Napolitano scende in campo e fa scudo al governo alle prese con la battaglia del nuovo Senato, sconfessa come «estremizzazioni » certe polemiche, constata che nell’iter non c’è stata «né improvvisazione né improvvisa frettolosità», spinge per superamento del bicameralismo paritario che è «una anomalia tutta italiana». Poi, a sorpresa, ecco che arriva anche il disgelo del Colle con Berlusconi che non attacca più i giudici, «forse ora – osserva il capo dello Stato - si delineano le condizioni per una condivisione finora mancata sulla riforma della giustizia». Le parole di Napolitano – che parla durante la tradizionale consegna del Ventaglio al Quirinale da parte della stampa parlamentare - sono insieme un «pacato e fermo » appello ai partiti per la più larga convergenza in Parlamento sulle riforme ma anche un alzare velo sulla manovre che vede agitarsi dietro lo scontro: «Non si miri a determinare in questo modo un nuovo nulla di fatto in materia di revisione costituzionali». Un sospetto enunciato quasi in sincrono anche da Matteo Renzi: «C’è chi tenta di bloccarle, ma le riforme le faremo comunque, e a viso aperto». Sull’Italicum invece Napolitano immagina che possa cambiare. Il testo della riforma elettorale varato in prima lettura alla Camera è «destinato ad essere ridiscusso con la massima attenzione per criteri ispiratori e verifiche di costituzionalità, che possono indurre a concordare significative modifiche». Nel passaggio in Senato, in sostanza, i punti bocciati dalla Corte costituzionale – liste bloccate, premi e soglie di sbarramento – andranno scritti in modo da superare senza rischi l’asticella della Consulta. Parole che probabilmente confortano il fronte che ha innalzato la bandiera delle preferenze. Il presidente della Repubblica denuncia dunque il tentativo di affossare la riforma di Palazzo Madama, e sul banco degli indiziati siedono in primo luogo grillini e Sel ma il richiamo di Napolitano si estende - anche se non li cita direttamente – ai siluri che partono dall’interno stesso del Pd, e di Forza Italia. Così, sull’ «approvazione, nei tempi programmati e in un clima più disteso» vigila l’inquilino del Colle, che perciò fa sapere di non aver avere alcuna intenzione per il momento di lasciare anzitempo il suo posto. Si rivolge ai giornalisti, ma l’annuncio vale per così dire erga omnes, per chi lo spinge a restare e chi preme per un addio al Quirinale: «Vorrei dissuadervi dal giuoco sterile delle ipotesi sull’ulteriore svolgimento delle mie funzioni di presidente». Tutte «premature e poco fondate». Non mette scadenze Napolitano, deciderà lui quando e come lasciare, «sulla base dei dati obiettivi che hanno a che vedere con la mia età, a voi ben nota». Di sicuro, intanto, c’è da seguire dal Quirinale il semestre di presidenza italiana della Ue. «Io 17 sono concentrato sull’oggi: e ho innanzitutto ritenuto opportuno e necessario garantire la continuità ai vertici dello Stato in una fase così impegnativa». E nel suo discorso per il Ventaglio, ecco anche le aperture. A Berlusconi, di cui Napolitano registra il cambio di passo nei confronti della magistratura che lo ha assolto in appello per Ruby, citando le parole dell’ex premier: «Finalmente è stato espresso il riconoscimento da interlocutori significativi per “l’equilibrio e il rigore ammirevoli” della grande maggioranza dei magistrati italiani». E una sponda del Colle arriva anche per Mrs Pesc, la ministra Mogherini candidata agli “Esteri” nella Ue, in un ruolo in cui «l’Italia si considera in grado di concorrere con una sua personalità». del 23/07/14, pag. 2 La sfida di Matteo: non contano i tempi GOFFREDO DE MARCHIS ROMA . Nessuna mediazione è possibile. Anche perché «a ogni giorno di ostruzionismo corrisponde, per me, un punto guadagnato nei sondaggi», spiega Matteo Renzi ai suoi fedelissimi. Per il momento va bene così. «Siamo alla prova di forza finale. Vogliono andare fino al 15 agosto? Ok, tanto io non vado in ferie ». Il punto semmai è un altro: «Questo Parlamento è a un bivio: o dimostra di essere capace di cambiare facendo le riforme o si condanna da solo e si torna a votare ». La trattativa non è un’ipotesi sul campo. Il premier la snobba senza mezzi termini: «Figuriamoci ». Ieri ha sbattuto la porta in faccia persino all’alleato principale, Forza Italia. La nuova giornata di totale impazzimento, conclusa con zero voti sulla legge costituzionale, Renzi la racconta ai suoi collaboratori offrendo una versione che disegna un triangolo tra Camera, Senato e Palazzo Chigi. È il voto sull’arresto di Giancarlo Galan a rallentare i lavori di Palazzo Madama. Di prima mattina il sottosegretario Luca Lotti, braccio destro del premier, riceve la telefonata di un dirigente di Forza Italia. La richiesta è molto semplice: rinviamo il voto sul carcere per l’ex governatore veneto di una settimana. Galan è in ospedale, diamogli la possibilità di difendersi in aula. Lotti riferisce a Renzi, il quale non si formalizza: «Si può fare». Ma alla conferenza dei capigruppo Renato Brunetta, che rema contro il patto del Nazareno, la mette giù dura: «O votiamo il rinvio o saltano le riforme ». Il capogruppo del Pd alla Camera Roberto Speranza informa Palazzo Chigi dell’ultimatum. «Se la mettono così, niente rinvio. Non accetto ricatti da nessuno, nemmeno da loro», risponde Renzi. E la trattativa, come dire, “umanitaria” fallisce. Infatti alla Camera l’arresto viene votato, Galan si trasferisce al carcere di Opera e al Senato Forza Italia si vendica votando contro le tappe forzate del nuovo calendario dei lavori. Calendario che passa con appena 5 voti di scarto. «Sapete che c’è - dice Renzi nei suoi colloqui -, gli abbiamo dato una lezione. Posso dimostrare che le riforme si fanno anche senza Berlusconi e senza la Lega». Renzi è dunque nella versione “guerra contro tutti”. Ad eccezione degli elettori: effettivamente i sondaggi continuano a dare il Pd in crescita. Quella del premier è una sfida a tutto campo: sui tempi, sulle mediazioni negate, sul dialogo con i partiti. Alla domanda di qualche suo collaboratore “perché non vai in Senato” la risposta è secca: «Io sto lavorando ». Ma a Palazzo Chigi sono consapevoli che le trappole sono ovunque. La questione del calendario non è affatto secondaria. Chi conosce bene i meccanismi parlamentari esclude che i senatori saranno al loro posto nella settimana di Ferragosto. «Non succederà mai», dicono i tecnici. Ed è una previsione che si ritorce tutta contro la 18 maggioranza delle riforme perché è Renzi a dover portare a casa il risultato. Agli altri basta uno scivolone, un rinvio. Il pericolo si annida anche nell’orario no stop deciso ieri da Piero Grasso e dalla conferenza dei capigruppo. Tenere i parlamentari inchiodati al loro banco dalla 9 alle 24, farli lavorare sabato e domenica, non sarà affatto un’impresa semplice. Significa che quando si comincerà finalmente a votare, il rischio se lo prende tutto Renzi. La maggioranza dovrà essere presente in massa a tutte le votazioni, non sbagliare una mossa, controllare uno per uno i senatori e i loro movimenti, persino quelli verso la toilette. Alle opposizioni, agli ostruzionisti o secondo la terminologia renziana “ai gufi e rosiconi”, basterà invece un solo piccolo successo, con l’esecutivo che va sotto e un loro emendamento approvato, per cantare vittoria. È uno scenario davvero da Vietnam, secondo alcuni sostenitori della riforma «ingestibile e incontrollabile». Tanto è vero che ieri al Senato persino qualche renziano si domandava: «Matteo vuole davvero approvare la riforma prima della pausa? ». Renzi continua a ripetere che «non si impicca a una data». Attende i prossimi sviluppi per immaginare altre accelerazioni, come la ghigliottina ossia il contingentamento dei tempi. Decisione delicata, che farebbe la gioia di chi urla alla svolta autoritaria e che comunque è in capo al presidente del Senato. Anche il Quirinale, dopo l’intervento chiarissimo di ieri, guarda con attenzione alle scelte di Grasso: punta a tempi veloci, compatibilmente con il regolamento. Ma più che la minaccia di un conclave chiuso a chiave anche a Ferragosto, diventa ogni giorno più concreta, più vera, persino più plausibile proprio per lo scenario complicato del voto ad oltranza, l’altra minaccia: quella del voto anticipato. Usato finora come ballon d’essai , come strumento per ammansire parlamentari e frenatori fuori e dentro il Pd che con le elezioni andrebbero a casa, si sta trasformando in una prospettiva che ritorna nelle discussioni tra i fedelissimi renziani. Andare alle urne con la legge proporzionale uscita dalla Consulta e contare sul consenso del presidente del Consiglio. Roberto Giachetti è tornato ieri a indicare questa strada. E Giachetti conosce a menadito le insidie dei lavori parlamentari. Ma a sorpresa l’opzione è stata rilanciata dal presidente del Pd Matteo Orfini, esponente della minoranza lealista, dirigente che ormai si confronta ogni giorno con il premier. «Tutti devono sapere che comunque si vota - ha detto Orfini a In Onda su La7O le riforme o alle elezioni anticipate. Sappiamo che questa legislatura è legata alle materie istituzionali. Se non vanno in porto, la legislatura finisce». Se i sondaggi dicono la verità, il Pd può puntare alla maggioranza assoluta in entrambi i rami del Parlamento. Certo, senza premio e con le preferenze. Ma anche con le soglie di sbarramento lasciate intatte dalla Corte costituzionale che eliminerebbero i partitini, spesso citati come un male da Renzi. del 23/07/14, pag. 5 Renzi senza uscite: urne subito non è più tabù I FEDELISSIMI DEL PREMIER IPOTIZZANO ELEZIONI IN AUTUNNO: LUI PUNTA AD ANDARE AVANTI, MA NON SCARTA L’IPOTESI. E IN SERATA VA DA RE GIORGIO di Wanda Marra 19 Caro Matteo, non amo il ruolo del grillo parlante ma l’evoluzione delle resistenze al cambiamento conferma la mia previsione che questo Parlamento non è in condizione di fare le riforme. E allora torno a dirti: andiamo a votare”. La lettera aperta di Roberto Giachetti, vice presidente della Camera renzianissimo, al premier, viene diffusa nella tarda mattinata. Il Senato è un pantano incontrollabile, le riforme costituzionali sembrano entrate in una palude senza via d’uscita e l’ingorgo parlamentare rischia di fare arenare insieme a loro praticamente tutti i decreti. “Meglio votare con il Consultellum che insistere con questo ostruzionismo che colpisce e uccide la speranza di milioni di italiani”, insiste Giachetti. La sua non è una voce nel deserto. E l’orizzonte del voto viene preso in considerazione pure a Palazzo Chigi. “Il Presidente del Consiglio non ha paura delle elezioni”, ripetono i suoi. Certo, il sistema proporzionale non è il massimo, e certo in questa fase Renzi dovrebbe chiedere agli italiani un consenso sulla base di cose non ancora fatte. Ma non è detto che l’alternativa non sia peggiore del male. “Meglio andare a votare adesso, subito, in autunno. Meglio additare ai cittadini chi è che ha fatto crollare le riforme. Meglio non lasciare agli altri il tempo di riorganizzarsi. Fanno ostruzionismo? È tutta benzina per Matteo”, commenta a Montecitorio un renziano doc. E allora, ecco che tra gli scenari possibili per il voto non si parla più solo della prossima primavera, ma addirittura si valuta l’ipotesi autunno. Minacce a quella che il segretario regionale della Toscana, Dario Parrini, anche lui ultra-renziano, definisce “vetocrazia e non democrazia”. Minacce più che reali intenzioni, per ora: perché la posizione ufficiale di Renzi è un’altra. Punta ai 1000 giorni, al 2018. E si mostra ancora una volta fiducioso: “Non capiscono che ogni giorno di ostruzionismo in più è un’ulteriore iniezione di consenso per il governo”, commenta a sera parlando con i suoi. Per chiarire il concetto, ha coniato l’hashtag #mentreloro: “loro” sarebbero i Palazzi, Camera e Senato, contrapposti all’esecutivo che lavora. “Sulle riforme, l’importante è arrivare al traguardo”, commenta il premier. Ma l’appello di Giachetti lo registra: in altre parole lo tiene presente. Anche se a Palazzo Chigi si fa notare che i parlamentari non saranno mai disposti a suicidarsi, e dunque alla fine cedereanno, consegnando al premier le riforme che vuole. Su questo presupposto, Renzi continua ad agitare l’ipotesi elezioni. Pensando che alla fine comunque è lui il più forte. E a sera va da Giorgio Napolitano: si parla quasi esclusivamente di Europa. IL PREMIER sa che il Presidente non sarebbe d’accordo con un’ipotesi di voto anticipato. Ma sa anche che tutto dipende dalla possibilità di portare a casa quelle riforme alle quali Re Giorgio ha legato sia l’inizio che la fine del suo mandato. E infatti il monito-appello di ieri in materia lo recepisce come un assist al suo lavoro. E dunque, Renzi se si dovesse rendere conto che non ce la fa ad andare avanti, che questo Parlamento non lo segue, non dovrà far altro che scegliere il momento per lui migliore e indicare al Colle e all’Italia i colpevoli “frenatori”. Per chi non avesse capito ci pensa il presidente del Pd, Matteo Orfini in serata a chiarire a In Onda: “O si vota per le riforme o per le elezioni”. del 23/07/14, pag. 2 La tentazione della ghigliottina Andrea Colombo Senato. Il governo non tratta su nulla, e rifiuta ogni tentativo di mediazione. Il possibile contingentamento, preludio della mannaia. In aula nuova giornata di tensione, nessun voto sulle riforme. La capigruppo decide: da lunedì aula in seduta permanente 20 Se il buongiorno si vede dal mattino, la Terza repubblica sarà uno sfacelo. Il dibattito parlamentare che dovrebbe dare alla luce la sua legge fondativa, la riforma della Costituzione, si svolge in un clima peggio di come non si può. Alla fine, dopo un’altra giornata senza neppure un voto, la conferenza dei capigruppo decide di andare avanti a oltranza a partire da lunedì prossimo: aula dalle 9 alle 24, sabato e domenica inclusi. A sopresa, però, Forza italia si pronuncia e vota contro il calendario. Per approvare, tra urla e proteste, il nuovo calendario, peraltro, l’aula impiega un paio d’ore: colpa, o merito, dell’ostruzionismo dei senatori pentastellati, ognuno dei quali propone un diverso calendario alternativo e si prende il tempo concesso dal regolamento per illustrare la proposta. Alla fine il calendario “a passo di carica” viene approvato, ma nessuno si illude che basti a raggiungere il risultato che Renzi pretende a tutti i costi, la prima approvazione della sua riforma prima della pausa estiva. Non sarà sufficiente neppure se sommato al previsto “canguramento”, l’applicazione cioè della regola per cui la bocciatura di un emendamento si porta dietro la cancellazione di tutti quelli simili. La somma passerebbe così da 8 a 5mila emendamenti. Restano un’enormità. Quando chiedono a Roberto Calderoli, il più esperto in materia, se pensa che il governo ce la farà entro la prima metà di agosto quello risponde secco: «E’ più facile che si voti in novembre». La forzatura di ieri non sarà dunque l’ultima. Il contingentamento dei tempi è dietro l’angolo, e non è neppure detto che basti. Per quanto inconcepibile sia in una riforma costituzionale, la tentazione di ricorrere alla ghigliottina c’è tutta. E’ la degna conclusione di una giornata iniziata malissimo. Il governo non tratta su nulla, neppure sulle richieste più ragionevoli e condivise da un’amplissima e trasversale parte del Senato. Renzi non vuol solo fare di corsa. Vuole anche fare del tutto a modo suo. Non è una riforma della Costituzione: è una prova di forza, un esercizio d’autorità. Anzi del peggior autoritarismo che si sia visto in Italia da decenni. Di ritorno dall’Africa, l’emulo di Fanfani detta la linea dura: «Avanti a testa alta e viso aperto», dice. E poi, su Facebook: «C’è chi con l’ostruzionismo prova a bloccare l’Italia. Avanti senza paura». Il sottosegretario Pizzetti, in rara prova di analfabetismo istituzionale, va persino oltre e in un’intervista quasi annuncia la ghigliottina, che «non sarebbe uno scandalo», poi esclude che ci possa essere il voto segreto su nessun emendamento. Come se la faccenda riguardasse il governo e non il Parlamento. Ma andare avanti, con o senza paura, non è facile. Passano le ore, e la riforma avanza di centimetri. I senatori illustrano la grandinata di emendamenti, dieci minuti per ciascuno. Il capogruppo Pd Zanda fa due conti: di questo passo non basterà l’intero 2014. Imperversa la voce di una imminente richiesta di ricorso alla ghigliottina, anche se in realtà Renzi aveva già deciso lunedì di non passare alle maniere fortissime prima della settimana prossima. Il boato sembra però prendere corpo quando il presidente Grasso convoca per il primo pomeriggio la conferenza dei capigruppo e subito dopo lo stesso Zanda, sulla scorta dell’entrata in campo a gamba tesa di Napolitano, chiede un intervento drastico sui tempi: «Abbiamo già discusso 50 ore!». Ma l’umore dell’aula non è rassicurante. Non c’è solo Loredana De Petris (Sel), che gli rinfaccia il voltafaccia rispetto a quando la riforma era firmata Berlusconi e di fatto gli dà a muso duro del “riciclato”. Non è solo il M5S, che replica citando ampiamente il discorso di Angius, Ds, ai tempi della succitata riforma Berlusconi. La Lega suggerisce di prendere tempo e riflettere bene. Anche Fi suggerisce una mediazione e persino il capogruppo dell’Ncd Sacconi invoca «un’iniziativa politica di Renzi». In concreto l’avvio di una trattativa volta a migliorare il testo della riforma. Niente da fare. Nella lunghissima conferenza dei capigruppo la ministra Boschi non si scosta dalla linea rigida già adottata in commissione. La riforma deve passare così com’è. Non solo non ci sono spiragli sull’elezione diretta dei senatori, ma, almeno per ora, 21 neppure sullo scandaloso innalzamento delle firme necessarie per indire referendum abrogativi o proporre leggi di iniziativa popolare. Perché Matteo Renzi non deve riformare. Deve vincere. Da lunedì prossimo, dunque, il Senato sarà riunito in seduta permanente fino all’8 agosto. La principale paura del governo è qualche voto segreto. Grasso avrebbe già garantito a Renzi che non ne concederà alcuno, ma De Petris gioca d’anticipo: «Non accetteremo che si ignorino i regolamenti del Senato per compiacere il governo». del 23/07/14, pag. 3 E Palazzo Madama ora va a oltranza sedute no-stop anti-ostruzionismo SILVIO BUZZANCA ROMA . Il Senato da lunedì prossimo discuterà ad oltranza delle riforme costituzionali. Sabato e domenica compresi. Si inizierà alle nove del mattino e si chiuderà a mezzanotte, con l‘obiettivo di approvare il testo prima delle ferie estive che dovrebbero scattare l’8 agosto. Lo ha deciso la conferenza dei capigruppo dopo un’altra mattinata segnata dall’ostruzionismo delle opposizioni che, impegnate nell’illustrazione degli emendamenti, non hanno permesso il passaggio ai voti. Il capogruppo il capogruppo democratico Luigi Zanda ha fatto due conti e ha capito che così il via libera del Senato sarebbe arrivato solo a fine anno. Ha così chiesto di riunire nel pomeriggio la conferenza dei capigruppo per trovare una via di uscita. Questo ha scatenato ulteriori polemiche e scontri verbali in aula perché il presidente Grasso aveva già convocato la capigruppo e la richiesta di Zanda è arrivata dopo. Con le opposizioni che hanno accusato Renzi di fare pressioni indebite sulla presidenza del Senato. Ma alla fine si è deciso di andare ad oltranza, aprendo delle finestre per discutere dei decreti legge e ascoltare il ministro degli Esteri Mogherini su Gaza. La decisione è stata votata dall’aula nel tardo pomeriggio dopo due ore di dibattito con i grillini sulle barricate. E alla fine è passata con soli 5 voti di scarto. Forza Italia, infatti, si è “sfilata” perché non condivide questa procedura. Il nuovo calendario trova invece il pieno appoggio di Renzi che ha lanciato il nuovo hashtag #mentreloro# dove ha scritto: «Fanno ostruzionismo per provare a bloccare il cambiamento, noi ci occupiamo di posti di lavoro». Il premier vuole andare «avanti senza paura» e questo alimenta i dubbi e i timori delle opposizioni su tagliole e ghigliottine per bloccare il dibattito. Con l’aggiunta del “canguro”, cioè l’accorpamento non solo degli emendanti uguali, ma anche di quelli di contenuto analogo. Votato il primo gli altri cadrebbero tutti e secondo i calcoli del presidente Piero Grasso questo sfoltirebbe del 40 per cento gli emendamenti. Il governo vuole dunque procedere e non concede nulla alle opposizioni. Nonostante gli inviti al dialogo di Roberto Calderoli e Pier Ferdinando Casini, il ministro Boschi ha tenuto duro nelle conferenza dei capigruppo. E sullo sfondo riappare l’idea di elezioni anticipate. Roberto Giachetti, vicepresidente dem della Camera, invita infatti Renzi a prendere atto dell’ostilità del Parlamento e andare al voto con la legge uscita dalla sentenza della Consulta. E anche Matteo Orfini, presidente del Pd, ammonisce: «O si vota per le riforme, o si vota perché si va ad elezioni». 22 del 23/07/14, pag. 5 Dialogo con Forza Italia, Ncd si spacca E Alfano frena: non vedrò Berlusconi Nuovo centrodestra a rischio scissione. I berlusconiani al contrattacco ROMA — «Il progetto di ricomposizione del centrodestra va avanti. Ma dico io, che cosa bisogna fare con questi qua?». A metà pomeriggio, quando i suoi uomini gli portano i lanci d’agenzia sullo psicodramma che sta andando in scena dentro il Nuovo Centrodestra, Silvio Berlusconi scuote la testa. Aveva ed ha ancora in testa una rapida marcia verso la ricomposizione dei moderati. E invece la sua accelerazione — al momento — provoca una guerra fratricida all’interno del partito di Angelino Alfano. Sul tavolo dei due leader, ieri mattina, c’è l’ipotesi di organizzare un summit già in questa settimana. E ci sono anche le parole affidate ieri al Corriere da Nunzia De Girolamo, capogruppo ncd alla Camera, che auspica un «congresso entro l’anno» che porti a una «federazione» o, nella migliore delle ipotesi, alla rifondazione di «un partito unico». Apriti cielo. Renato Schifani — che insieme a Beatrice Lorenzin, Gaetano Quagliariello e Fabrizio Cicchitto guida la corrente di chi si oppone a un ritorno dall’ex Cavaliere — chiama il titolare del Viminale. È critico sia per le voci del pranzo imminente, sia per le parole della De Girolamo. Che, però, viene difesa a spada tratta da Maurizio Lupi (privatamente) e da Barbara Saltamartini (pubblicamente). Roberto Formigoni, che sta coi primi, invia di buon mattino un tweet che sa di benservito diretto alla De Girolamo. «Se qualche ex-ministra vuole andare in Forza Italia può farlo subito, non c’è bisogno di alcun Congresso. Buon viaggio». Ed Enrico Costa, sulla stessa falsariga, scrive una lettera a tutti i deputati del gruppo per contestare la posizione della capogruppo, che dalla sua rivendica il sostegno di «pezzi significativi del partito che stanno sul territorio». Prima del tramonto, quella che doveva essere la ricomposizione da una vecchia scissione rischia di trasformarsi in una nuova, di scissione. Il «gruppo De Girolamo», se non si procede sulla strada del centrodestra unito, è pronto a tornare in Forza Italia. E invece gli altri, se questo succede, sono pronti alle barricate. Ad Alfano non rimane che suonare il gong. «L’assoluzione di Berlusconi non ci riunirà a Forza Italia». E ancora: «Incontro con Berlusconi? Vediamo prima come si comporta FI sulla legge elettorale». Neanche il tempo di far finire il verbo alfaniano sulle agenzie di stampa che, da Palazzo Grazioli, i berlusconiani reagiscono. «Questi del partito di Alfano sono invidiosi di Scelta Civica. Vogliono battere il record del mondo dei montiani nella categoria “scissioni dell’atomo”», scandisce Giovanni Toti. Che aggiunge: «Ovviamente noi non abbiamo fretta di riunirci ad Alfano. Saliamo nei sondaggi mentre lui scende. Per cui, faccia pure con tutta calma...». Di calma, invece, ce n’è pochissima al summit del Nuovo Centrodestra che Alfano convoca per la serata. «Io suggerirei di non fidarci di Berlusconi. Dobbiamo essere duri con Renzi», apre le danze Schifani. La Lorenzin aveva già detto la sua a SkyTg24 : «Il dibattito di questi giorni ha un sapore di accelerazione di cui non capisco i motivi e le ragioni». E così, per la seconda volta in poche ore, il ministro dell’Interno è costretto a chiamare un time out: «Chiarisco che qua dentro il presidente sono io. Rallentiamo pure con Berlusconi, vediamo che cosa succede prima con l’Italicum. Comunque sia, ve lo dico. Noi siamo alternativi sia a Renzi che alla sinistra». L’ex Cavaliere, intanto, tace. In una giornata di luci e ombre — l’amarezza per il voto su Giancarlo Galan da un lato e la gioia per le parole di Giorgio Napolitano sulla giustizia 23 dall’altro — le uniche tracce sono quelle dell’intervista doppia rilasciata (al settimanale Oggi ) insieme alla fidanzata Francesca Pascale, all’indomani di una sentenza che lo ha «profondamente commosso». «Abbiamo un Pd al 38 per cento, Grillo al 23 e il centrodestra, frammentato, al 30», è la premessa. «Ecco perché», aggiunge, «occorre ricostruire l’unità del centrodestra e far sì che i moderati, che sono la maggioranza nel Paese, acquistino consapevolezza e si trasformino in una maggioranza politica organizzata». Morale? «Noi stiamo tentando di farlo con le nostre “Comunità azzurre”». E mentre la fidanzata Francesca loda «la credibilità della magistratura» a suo dire confermata dalla «sentenza» di venerdì, l’ex premier torna a parlare di Renzi. «Ha la fortuna dalla sua. E questa è una grande qualità per un politico». Tommaso Labate Del 23/07/2014, pag. 4 La leghista anti-immigrati che bussa al Pd TONI JOP E che problema c'è se ha avuto noie con la giustizia per aver partecipato a una manifestazione leghista contro la nuova moschea? Che problema c'è, se come segretaria provinciale del partito di Bossi, ha sostenuto e difeso le ronde anti-immigrati? Che problema c'è se ha cambiato casacca molte volte, passando, ma sempre ai piani alti, dalla Volkspartei alla Lega a Forza Italia? Non ci sarebbe alcun problema, se la signora Elena Artioli – famiglia di ricchi imprenditori, sudtirolese – non rischiasse di entrare nella segreteria provinciale del Pd bolzanino mentre ancora, in consiglio provinciale, difende i colori di una sua formazione politica lanciata all'ombra di Berlusconi. Perché questo sta accadendo: la sportivissima politica altoatesina è stata recentemente nominata coordinatrice provinciale di Liberal Pd, la sola associazione – ora molto magra – che abbia posto statutariamente nella rappresentanza del Pd. Promossa da Enzo Bianco con una mossa fantastica, la signora Artioli entrerà nel roofgarden del partito. Lassù, il Pd sta friggendo: comprensibilmente, non la vuole nessuno. In generale, si dubita che l'inclusività del partito sia in grado di misurarsi con una storia politica e culturale costantemente estranea ai territori della sinistra. Tuttavia, lei sostiene di avere il placet di Renzi che ha avvicinato nei giorni scorsi e, con infinito tatto, di non aver alcuna intenzione di chiedere la tessera. Ottimo, adesso vogliamo anche Borghezio, per morire felici. Eutanasia di un partito. del 23/07/14, pag. 6 La mamma di Aldrovandi: «Il questore sapeva del pestaggio, ma ha taciuto» «Lui sapeva del pestaggio, sapeva dei manganelli rotti. In quel momento ci stava prendendo in giro, ci stava imbrogliando, quasi schernendo. Sapeva come era ridotto Federico e perché». Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto in seguito alle botte dopo un controllo di polizia nel 2005, attacca l’allora questore di Ferrara. Senza mai nominarlo — all’epoca il questore era Elio Graziano — la donna, intervistata da Matteo Caccia nel corso della trasmissione «Dalla A a laeffe» in onda stasera alle 21 sul 24 canale digitale Laeffe, afferma che «lui sapeva tutto, noi no, noi ancora credevamo che fosse stato investito da una macchina… Erano tutte bugie. Sono emerse chiaramente come tali, ma lui in quel momento le ha dette e lui era un pubblico ufficiale. Ha preso in giro noi e credo che abbia preso in giro il suo ruolo e tutta la città sicuramente». Moretti parla anche del senso di solitudine e disperazione che ha colto la sua famiglia nei giorni successivi alla morte di Federico: «Man mano che emergevano elementi che ci facevano capire la responsabilità degli agenti che avevano tolto la vita a Federico, questo senso di solitudine era veramente una disperazione». 25 LEGALITA’DEMOCRATICA del 23/07/14, pag. 7 Il Colle bacchetta il Csm e frena la nomina del procuratore di Palermo LIANA MILELLA ROMA . Un sasso contro una cristalliera avrebbe fatto meno rumore. Il Qurinale scrive al Csm e lo invita, visto che questa consigliatura scade e la prossima sarà «diversa» per numeri e appartenenze, a nominare i capi uffici in ordine cronologioco. Dalle più vecchie in attesa, tipo il procuratore dei minori di Caltanissetta (maggio 2012), via via a scalare. Niente da fare per il procuratore di Palermo, il cui posto si libera il 1° agosto. Peccato che la quinta commissione sia pronta a inviare al “concerto” del Guardasigilli le tre proposte già votate, Guido Lo Forte (oggi procuratore a Messina) con 3 preferenze, una per Sergio Lari (capo a Caltanissetta), una per Franco Lo Voi (Eurojust). Apriti cielo al Csm. La lettera del segretario generale del Colle Donato Marra, per conto di Napolitano, arriva a Vietti, che la gira al presidente della quinta commissione Roberto Rossi. Serpeggia lo scontento per un passo considerato anomalo. Durante un convegno sul bilancio dei quattro anni, il togato Riccardo Fuzio (Unicost) fa un accenno indiretto alla lettera, che a quel punto diventa di pubblico dominio. Che fare? Dice un togato: «Una direttiva di Napolitano è un ordine. Si può anche non condividere, ma bisogna obbedire ». Si riunisce la quinta commissione ed esplode uno scontro che si conclude con un rinvio a lunedì, sostenuto dal presidente Rossi, prodromico di fatto a un rinvio del caso Palermo. Ma finisce tre contro tre. Si affastellano voci legate soprattutto ai futuri «diversi equilibri». Nel nuovo Csm, di cui sono stati eletti i togati perché il Parlamento è in panne sui laici, la sinistra avrebbe un netto predominio, garantito dai 7 togati di Area (oggi 6) che potrebbe allearsi con i Pd, ben 4 su 8. Area sostiene Lari, mentre Mi cresciuta di un’unità (da 3 a 4)potrebbe insistere su Lo Voi. Lo Forte perderebbe chance, ma a questo punto gli si aprirebbe una facile via per un ricorso al Tar. Napolitano, che sarà futuro testimone al processo sulla trattativa a Palermo, non vuole Lo Forte? Molti lo sussurrano, ma l’ipotesi non può trovare riscontri. Nelle poche righe di Marra un punto è chiaro, «il rispetto di un ordine cronologico nelle nomine consigliato dall’opportunità di evitare scelte riferibili a una composizione del Csm diversa da quello che sta per insediarsi ». L’altra singolarità, bisbigliata al Csm, è che mentre si sollecitano le nomine, passa la proroga dell’attuale Csm al 2 settembre. In carica ne resta uno Csm, su cui il presidente dell’Anm Sabelli dice: «Questa proroga, che non c’è mai stata, ci preoccupa soprattutto per via del pensionamento anticipato che richiede nomine tempestive ». del 23/07/14, pag. 9 Il giornalista registrato a sua insaputa dal personal trainer: “Dell’Utri sa e lo sta mangiando, ha 70 conti all’estero” Lui smentisce: “L’ho denunciato per calunnia”. E ai pm racconta: “Il Cavaliere disse: ricordiamoci della famiglia Mangano” 26 Fede: “La storia di Silvio? Soldi e mafia” SALVO PALAZZOLO PALERMO . Nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia irrompono le parole dell’ex direttore del Tg4 Emilio Fede. Suo malgrado. I pubblici ministeri di Palermo l’hanno convocato in gran segreto nel maggio scorso per chiedergli conto di una curiosa registrazione nascosta fatta dal suo personale trainer, Gaetano Ferri. «La vera storia della vicenda Berlusconi — gli spiegava Fede nel luglio di due anni fa — mafia, mafia soldi, mafia, soldi». E ancora: «Era tutto Dell’Utri che faceva girare la cosa... era praticamente quello che investiva soldi mafiosi... Chi può parlare? Solo Dell’Utri». Così, fra un caffè e un cappuccino, dopo una seduta di ginnastica, scorreva la storia segreta di Silvio Berlusconi secondo uno dei suoi più cari amici. Quella registrazione è stata inviata al pool di Palermo dalla procura di Monza nel mese di aprile scorso. Fede sembra sapere molte cose sull’origine dei rapporti fra Dell’Utri, Berlusconi e Cosa nostra. Dice: «C’è stato un momento in cui c’era timore...loro hanno messo Mangano attraverso Marcello». Inizia da qui il racconto dell’ex direttore del Tg4, dai timori di Berlusconi di essere sequestrato, all’inizio degli anni Settanta, e dell’arrivo del boss Vittorio Mangano nella villa di Arcore. Anche per i magistrati che hanno condannato Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa è questo l’inizio della storia. Fede mostrava però di sapere molto di più su Dell’Utri, oggi in carcere per scontare una condanna a sette anni: «Guarda a Berlusconi cosa gli sta mangiando. Perché lui è l’unico che sa... Ti rendi conto che ci sono 70 conti esteri, tutti che fanno riferimento a Dell’Utri». È il vero mistero su cui i magistrati di Palermo hanno cercato di indagare più volte, il tesoro di uno dei padri fondatori di Forza Italia. La registrazione del personal trainer interessa parecchio il pool di Palermo, che ipotizza un ruolo dell’ex senatore oggi in carcere nella seconda fase della trattativa, partita all’indomani dell’arresto di Totò Riina, fra il 1993 e il 1994. Dopo i soldi, Fede torna ancora sul capomafia arrivato da Palermo alla villa di Arcore nel 1974. Per le sentenze è la chiave dei rapporti fra Milano e Palermo durati fino al 1992. Anche in questo caso, Fede dimostra di sapere molto di più dei magistrati e delle sentenze. A Ferri racconta di un incontro molto particolare fra Berlusconi e Dell’Utri, proprio sul boss stalliere. Eccole, le parole intercettate: «Mangano era in carcere. Mi ricordo che Berlusconi arrivando... “Hai fatto?”. “Sì sì... gli ho inviato un messaggio... gli ho detto a Mangano: sempre pronto per prendere un caffè”». Commentava Fede: «Era un messaggio per rassicurare lui su certe cose che non so... E devo dire che questo Mangano è stato un eroe. È morto per non parlare». Il 28 maggio, Fede viene convocato nelle sede della Dia di Palermo e si trova davanti al procuratore aggiunto Vittorio Teresi, ai sostituti Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene. Comprende subito il motivo della citazione e cerca di sminuire il significato del suo insolito monologo accusando l’ormai ex personal trainer di aver manipolato la registrazione. Anche ieri Fede ha ribadito le accuse a Ferri: «L’ho già denunciato per calunnia». Ma nell’interrogatorio davanti ai pm di Palermo, adesso depositato agli atti del processo trattativa, Emilio Fede ha ammesso che almeno uno dei fatti raccontati a Ferri è vero. Si tratta del racconto di quel dialogo fra Berlusconi e Dell’Utri, a casa Arcore, nella prima metà degli anni Novanta. Dice Fede a verbale: «Mi sono trovato una sera che era arrivato Dell’Utri da Palermo... lo scambio di frasi è stato brevissimo fra lui e Berlusconi: ma hai avuto notizie? Ricordiamoci della famiglia di sostenerla, diceva Berlusconi a Dell’Utri». La famiglia da sostenere era 27 quella del boss Vittorio Mangano, appena arrestato dalla procura di Palermo. Mangano che Berlusconi ha chiamato «eroe» dopo la sua morte, perché durante la detenzione aveva “resistito” alle domande dei pm di Palermo. del 23/07/14, pag. 20 La confidenza del superboss a un detenuto “Disse al telefono: mamma, vengo domani Fui geniale a collegare la bomba al citofono” Riina: “Borsellino era intercettato poi lui suonò e scoppiò tutto” SALVO PALAZZOLO PALERMO . Per sette mesi l’hanno intercettato nell’ora d’aria, dal luglio 2013 al gennaio scorso. Salvatore Riina si vantava continuamente delle bombe del 1992. Soprattutto, della strage Borsellino, quella che ancora oggi resta la più misteriosa: per la scomparsa dell’agenda rossa del giudice sul luogo del delitto, e perché è ancora senza nome l’uomo che il pentito Spatuzza vide caricare l’autobomba. «Un colpo geniale», si vantava il capo di Cosa nostra con il suo compagno di passeggiate nel carcere milanese di Opera, il boss pugliese Alberto Lorusso. «Minchia come mi è riuscito, una vita ci ho combattuto là a Marsala...». Riina svela adesso che il suo asso nella manica fu un’intercettazione. «Sapevamo che doveva andare là perché lui gli ha detto: “Domani mamma vengo”. Va bene, sta bene... corre, corre, corre, corre, corre, pam... pa... pa... troppo bello. Sapevo io che ci doveva andare alle cinque. Piglia, corri e gliela metti... pigliala... pigliala, mettigli un altro sacco, un sacco in più. Mettigliene un sacco in più». E mentre lo dice, la telecamera piazzata dagli investigatori della Dia di Palermo ritrae il padrino mentre ride di cuore. I pm dell’inchiesta trattativa hanno inviato queste altre intercettazioni ai colleghi di Caltanissetta che indagano sulle stragi. I misteri di via d’Amelio sono destinati ad aumentare. Perché già in una prima fase dell’indagine era stata ipotizzata un’intercettazione di Cosa nostra nel condominio della madre di Borsellino. Una nipote del magistrato aveva visto dei movimenti sospetti. Poi, però, era arrivata l’assoluzione per il tecnico telefonico finito sotto accusa, Pietro Scotto. Suo fratello Gaetano, ritenuto l’anello di collegamento fra mafia e servizi, è stato invece condannato, ma di recente la sua posizione è tornata ad alleggerirsi dopo la revisione del processo. Cosa accadrà adesso? Riina ribadisce pure che il telecomando della strage era piazzato nel campanello del condominio: «Il giudice va a suonare e si spara la bomba lui stesso. È troppo forte questa». Riina a ruota libera. Ce n’è anche per il suo compagno di sempre, Bernardo Provenzano, accusato di aver deciso la sospensione delle stragi, nel 1993: «Mi dispiace prendere certi argomenti, questo Binnu chi è che gli dice di non fare niente? Qualcuno ci deve essere che glielo dice. Perché non devo fare niente? Quindi tu collabori con questa gente a fare il carabiniere». Per i magistrati è la prova che una trattativa ci fu fra Provenzano e alcuni esponenti delle istituzioni. Commento di Riina: «Provenzano è un bambino che adesso si è ammalato, non capisco... come lo hanno fottuto, disgraziati». Ora, i pm di Palermo indagano sul passato del generale Mario Mori al Sid. Dagli archivi del vecchio servizio segreto militare sarebbero già emersi i nomi di uomini delle istituzioni legati alla stagione della trattativa. 28 del 23/07/14, pag. 6 Rifiuti e ’ndrangheta, valanga di arresti Alessandro De Pascale Calabria. L’inchiesta anche in Veneto e Francia Anche quando si trovava in carcere, il boss Matteo Alampi continuava a gestire gli affari delle imprese del settore dei rifiuti “Edil Primavera” e “Rosato Sud”, attive in Calabria nella gestione delle discariche e dei servizi ecologici. Nonostante queste due aziende fossero sotto sequestro preventivo già dal 2007. Le manette sono così scattate anche per Rosario Spinella, l’amministratore giudiziario delle due aziende nominato dal Tribunale. Il professionista reggino è accusato di aver fatto partecipare il clan a tutte le scelte strategiche delle società. Attraverso la sovrafatturazione delle prestazioni, Spinella avrebbe inoltre costituito un fondo nero al quale gli ‘ndranghetisti potevano attingere per gestire gli affari di “famiglia”. Arrestati anche i due storici avvocati del boss, Giulia Dieni e Giuseppe Putortì, accusati di aver fatto da staffette e portaordini del capocosca, approfittando della possibilità di avere con lui colloqui in carcere (intercettati dagli inquirenti). L’inchiesta di ieri, durata due anni e coordinata dal procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, assieme ai pm Giuseppe Lombardo e Sara Ombra, ha portato i carabinieri del Ros all’arresto tra Calabria, Veneto e Francia, di 24 persone, accusate di associazione mafiosa, turbativa d’asta, intestazione fittizia di beni e sottrazione di cose sottoposte a sequestro. Aggravati dalle finalità mafiose. Oltre al sequestro di beni aziendali e quote societarie per un valore complessivo di 18 milioni di euro. Dietro le sbarre è così tornato anche lo stesso Matteo Alampi, catturato assieme alla moglie mentre si trovava a Villefranche Sur Mer (Costa Azzurra), dove si era rifugiato appena uscito dal carcere nel marzo scorso, sottraendosi alla notifica della sorveglianza speciale. Ribattezzato dagli investigatori un «imprenditore ‘ndranghetista», è ritenuto la mente economica dell’organizzazione, già capeggiata dal padre Giovanni Alampi, arrestato nel 2010 nel corso dell’operazione “Il Crimine”, che ne aveva delineato il ruolo di capo del «locale» di Trunca, attivo nell’omonima frazione del capoluogo reggino. Questa operazione è la naturale prosecuzione dell’inchiesta “Rifiuti spa” del 2006, dalla quale era emersa l’esistenza di un accordo trasversale tra le cosche Libri e Condello finalizzato alla ripartizione degli ingenti profitti derivanti dalla gestione illecita delle discariche calabresi. Invasi spesso «non a norma», in quanto non adeguatamente impermeabilizzati né dotati di sistemi di captazione del biogas. Inoltre, come denunciava l’ultima relazione della commissione parlamentare d’inchiesta (febbraio 2013), nonostante 11 commissari governativi nominati dal lontano 1997 e milioni di euro statali spesi, tuttora vi è «carenza di discariche pubbliche», poiché «tutto il sistema è rimasto affidato ai privati», mancano gli impianti di compostaggio (l’unico, a Vibo Valentia, è ad esclusivo servizio dell’azienda Callipo) e «la raccolta differenziata del tutto inesistente sul 90% del territorio calabrese» è ferma al 13,8% (dati Ispra 2013), al penultimo posto tra le regioni italiane (peggio fa solo la Sicilia), nonostante l’obbligo di legge a raggiungere il 65% entro fine 2012. Le indagini hanno riguardato anche i lavori di bonifica e la successiva riapertura della discarica di Calanna (Rc). Questo appalto, secondo l’accusa, sarebbe stato ottenuto grazie alla compiacenza dell’ex sindaco Luigi Catalano e del funzionario comunale Salvatore Laboccetta, che avrebbero fatto redigere un bando di gara con parametri concordati con l’impresa mafiosa. 29 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 23/07/14, pag. 6 Uccisi e buttati a mare Leo Lancari ROMA Immigrati. Sono 180 migranti morti nel barcone soccorso sabato. Scafisti scatenati contro chi tentava di uscire dalla stiva Una battaglia per non morire. Con i più forti sul ponte dell’imbarcazione e gli altri, i più deboli e più poveri tanto da non potersi permettere di viaggiare all’aria, chiusi nella stiva a morire soffocati per il caldo e le esalazioni del motore. E quando hanno provato a ribellarsi gli scafisti non hanno esitato a ucciderli con bastoni e coltelli. E’ quanto accaduto a bordo del barcone salvato sabato scorso 65 miglia a sud di Lampedusa e ritrovato con i corpi ormai senza vita di 30 immigrati in fondo alla stiva. Un bilancio che sembrava giù drammatico, ma che ora si scopre essere solo una parte dell’inferno scoppiato a bordo dell’imbarcazione dopo la partenza della Libia e che, stando ai racconti dei superstiti, avrebbe provocato almeno altri 141 morti tra quanti sono affogati dopo essere caduti in acqua e quanti invece sono stati uccisi dagli scafisti solo perché tentavano di uscire dalla stiva dove stavano soffocando. «Il barcone era strapieno, dalle testimonianze ci sarebbero stati almeno 700 migranti», ha spiegato ieri il capo della squadra mobile di Messina, Giuseppe Anzalone. «Le persone di nazionalità araba avevano pagato di più, da 1.000 a 2.000 dollari ed erano sul ponte, mentre gli africani che erano nella stiva avevano pagato da 250 a 500 dollari». La polizia ha arrestato cinque uomini ritenuti gli scafisti dell’imbarcazione. Si tratta di un siriano, due marocchini, un palestinese e un arabo saudita accusati di omicidio plurimo. Il racconto fatto dai sopravvissuti spiega bene il clima di razzismo e disperazione che spesso si ritrova a bordo delle carrette dei mari. Con i subsahariani trattati come merce senza alcun valore perché più poveri e quindi non in grado di soddisfare le richieste esose degli scafisti. E anche per questo costretti a prendere posto nella stiva, accanto ai motori e senza aria. E guai a ribellarsi. Decine e decine di persone ammassate senza alcuna pietà. «E’ stata tolta la scala interna e chiusa la porta dall’esterno eliminando così l’unica presa d’aria alla stiva», hanno spiegato gli investigatori che hanno raccolto i racconti dei superstiti. «In pochi minuti il calore è diventato insopportabile e l’aria irrespirabile a causa dei gas di scarico del motore. La disperazione ha spinto quindi i prigionieri a forzare la porta e salire in coperta dove si è consumata la tragedia». I cinque scafisti hanno colpito alla rinfusa chiunque tra gli africani, uomini, donne o bambini che fossero, fosse riuscito a salire sul ponte. Armati di coltelli e bastoni hanno colpito e ucciso, buttando poi i cadaveri a mare. Sotto gli occhi degli altri immigrati. Ora i cinque scafisti devono rispondere di omicidio plurimo. Gli investigatori della squadra mobile di Messina li hanno individuati appena in tempo, prima che riuscissero a fuggire visto che tre di loro avevano già in tasca un biglietto del treno per recarsi al nord. «Ormai al situazione dei migranti del Mediterraneo è insostenibile», ha detto ieri il presidente della Camera Laura Boldrini intervenendo al convegno «Prima che prendano il mare » che si è tenuto alla Camera. Una situazione, quelle delle migliaia di disperati che in fuga dalla guerra, che per i presidente Boldrini non riguarda solo il nostro paese ma l’Europa. che deve agire per togliere i migranti dalle mani dei trafficanti di uomini. «Si potrebbe consentire ai migranti di fare domande di asilo nei paesi di transito», ha detto la 30 Boldrini ricordando come il Mediterraneo sia «una frontiera europea, c’è da rivedere Frontex e c’è bisogno di attuare un nuovo sistema». Presente al convegno anche il ministro degli Interni Angelino Alfano, che è tornato a chiedere un maggior impegno da parte di Frontex. «Occorre chiudere Mare nostrum e sostituirla con Frontex, per fare questo, però, serve una decisione politica degli Stati membri ed è necessario aumentare le risorse». Intanto sorgono le prime polemiche sul sistema di accoglienza messo a punto dal Viminale, e che prevede una divisione dei profughi tra le regioni. Il governatore del Veneto, il leghista Luca Zaia, si è detto indisponibile a ospitare altri profughi. «Abbiamo già dato», ha detto. «Contrariamente a quanto affermano tanti tromboni, più del 10% della nostra popolazione è formata da immigrati ben integrati». del 23/07/14, pag. 6 A rischio i piccoli rom del campo di Giugliano Adriana Pollice NAPOLI Napoli. Malattie respiratorie e convulsioni. Già due i bambini ricoverati. Il campo sorge da anni su una discarica Un neonato di appena un mese domenica è stato ricoverato all’ospedale pediatrico Santobono di Napoli per la broncopolmonite. Tre settimane fa era toccato a un bambino di due anni con problemi cronici a cui si sono sommate broncopolmonite e convulsioni. La comunità rom di Giugliano vive su una discarica e i bambini si stanno ammalando: difese immunitarie basse, problemi cronici alla pelle e alle vie aeree sono il risultato delle esalazioni tossiche che respirano ogni giorno. I gitani sono arrivati in zona trent’anni fa, hanno carte d’identità italiane con luoghi di nascita dell’hinterland partenopeo e nazionalità bosniaca. Erano quasi novecento divisi in 19 campi, avevano occupato un pezzo di terra che, dopo, è diventata zona Asi: all’interno imprese, panifici e persino un impianto Stir per tritovagliare l’immondizia. Nel 2011 il comune decide che rovinano l’immagine delle attività industriali così vengono divisi. Gruppi di famiglie cominciano a peregrinare intorno all’Asse mediano ma un nucleo di 400 persone (di cui la metà sotto i 12 anni) viene sistemato nell’area attrezzata in località Masseria del Pozzo grazie ai fondi Ue per l’emergenza rom: un appezzamento di terra tra Taverna del Re (la cittadella dove dal 2008 si stanno mummificando 6milioni di tonnellate di ecoballe) e la Resit, una delle discariche più inquinate gestite direttamente dai Casalesi, all’interno della cosiddetta «area vasta» dove insistono 30 discariche in 7 chilometri quadrati. Su circa 200 minori, dieci sono nati con gravi ritardi, ulteriori dieci hanno già sviluppato malattie croniche all’apparato respiratorio, nell’arco di 20 giorni sono finiti in tre all’ospedale. Rappresentanti della comunità e volontari hanno più volte chiesto uno screening Asl senza risultato. Per allestire il campo vennero spesi 400mila euro per un po’ di ghiaia sullo sterrato, l’allacciamento alla rete idrica locale e a quella elettrica, che salta continuamente. «Da L’Aquila – spiega Antonio Esposito, ricercatore universitario — erano stati portati dei container, uno doveva servire alla Croce rossa per allestire un ambulatorio. Rimasto vuoto, è stato occupato da una famiglia. Dai bagni esce ogni genere di liquami, i 90mila euro promessi per rifare le fogne non sono mai arrivati a destinazione. Il campo legale, ma provvisorio, doveva essere superato l’autunno scorso». 31 La discarica di fronte al campo ha un impianto di smaltimento di biogas, dopo le 18 non regge più la produzione e i geyser sfogano direttamente tra i rom. Il commissario alle bonifiche delle aree inquinate dai rifiuti della regione Campania, Mario De Biase, ha disposto per settembre i lavori per la perimetrazione, caratterizzazione e messa in sicurezza di Masseria del Pozzo. Ma i lavori partiranno con ritardo: «I terreni intorno e la strada di accesso sia alla discarica che al campo – spiega Jasmine, dell’associazione Garibaldi 101 – pare siano di tale Mucillo, che ha vinto la causa. Bisognerà aprire una nuova strada di accesso allo sversatoio, intanto dal primo agosto il campo diventerà una prigione». Nell’ultima riunione tenuta al camune di Giugliano è stato deciso di costruire un nuovo villaggio per i rom entro settembre 2015, ufficialmente non è stata indicata l’area né il capitolo di spesa. Ufficiosamente dovrebbero essere due milioni da impiegare nella vicina Varcaturo, una zona difficile dove rischia di esplodere una nuova bomba sociale: «I villaggi e i campi sono solo nuovi ghetti. I rom chiedono di essere aiutati a fittare case, come succede già in altre parti d’Italia – prosegue Jasmine -. Ogni volta ci rispondono che il ministero stanzia fondi solo per i villaggi, una fesseria, mentre la comunità europea ci ammonisce da tempo perché non sfruttiamo gli ingenti fondi per l’emergenza rom». Intanto però si spende. Non si investe per fare in modo che i bambini vadano a scuola, ma per un paio di mesi è stato finanziato un progetto di prescolarizzazione dove le maestre andavano a Masseria del Pozzo a intrattenere i bambini, tutti insieme a prescindere dall’età e lontano dai coetanei italiani. E si pianifica di lasciare 400 persone per almeno altri 14 mesi in un’area che De Biase ha definito «la più pericolosa in assoluto in termini di rischio per la salute, incompatibile con la creazione di un insediamento umano». 32 SOCIETA’ del 23/07/14, pag. 1/30 Anno 2030 la maledizione dell’Aids è finita NATALIA ASPESI CE LI ricordiamo tutti gli amici che nei primi anni Ottanta si ammalavano, il loro sguardo vuoto e disperato, la discesa inarrestabile e violenta lungo il precipizio di un male sconosciuto e perciò spaventoso: colpiva solo loro, i ragazzi più belli, con le professioni più prestigiose, sempre in viaggio verso New York, che le ragazze sognavano inutilmente come fidanzati. Morivano uno a uno, di un virus che pareva colpire soltanto loro e che subito divenne il cancro dei gay, la peste omosessuale, la punizione divina per il peccato abominevole. Una scelta sessuale che raramente si era dichiarata come gesto libertario e politico, che era stata tranquillamente promiscua, protetta dall’ipocrisia familiare e sociale, divenne un’ignominia, un pericolo pubblico. Come ai tempi di altre epidemie la scienza non sapeva cosa fare: pareva che colpisse soltanto i gay, che si trasmettesse solo per via sessuale tra maschi, si sparsero leggende nere. I parenti si allontanavano, gli amici scomparivano, i compagni vivevano nella paura del contagio; gli ospedali rifiutavano gli amma-lati, i medici non osavano toccarli. Ma ci furono pionieri anche in Italia, come Umberto Tirelli che scelsero di dedicarsi a quella che poi venne chiamata Hiv/Aids. CE LI ricordiamo tutti gli amici che nei primi anni Ottanta si ammalavano, il loro sguardo vuoto e disperato, la discesa inarrestabile e violenta lungo il precipizio di un male sconosciuto e perciò spaventoso: colpiva solo loro, i ragazzi più belli, con le professioni più prestigiose, sempre in viaggio verso New York, che le ragazze sognavano inutilmente come fidanzati. Morivano uno a uno, di un virus che pareva colpire soltanto loro e che subito divenne il cancro dei gay, la peste omosessuale, la punizione divina per il peccato abominevole. Una scelta sessuale che raramente si era dichiarata come gesto libertario e politico, che era stata tranquillamente promiscua, protetta dall’ipocrisia familiare e sociale, divenne un’ignominia, un pericolo pubblico. Come ai tempi di altre epidemie, la spagnola, la poliomielite, la scienza non sapeva cosa fare: pareva che colpisse soltanto i gay, che si trasmettesse solo per via sessuale tra maschi, si sparsero leggende nere, che poteva contagiare chiunque a ogni contatto, anche solo sedendosi sulla stessa sedia, sfiorando una mano, asciugando una lacrima. I parenti si allontanavano vergognosi e spaventati, gli amici scomparivano, i compagni vivevano nella paura del contagio; gli ospedali rifiutavano gli ammalati, i medici non osavano toccarli. Ma ci furono pionieri anche in Italia, come Umberto Tirelli che oggi dirige il Dipartimento di Oncologia Medica dell’Istituto Nazionale Tumori di Aviano, che scelsero di dedicarsi a quella che poi venne chiamata Hiv/Aids: una diagnosi di sieropositività allora era una condanna a morte, poi a poco a poco non ci fu grande diva come Elizabeth Taylor che non raccogliesse fondi per la ricerca e i ricoveri, visto che i governi stentavano a farlo. Da quei primi anni spaventosi, mentre anche le donne si infettavano e morivano, e si infettavano e morivano quelli che facevano uso promiscuo di siringhe per iniettarsi in vena la droga, si ricordano gli orrori degli anatemi religiosi e politici, il terrore del sangue, la solitudine e l’isolamento di chi si ammalava. Adesso, dall’annuale conferenza mondiale sull’Aids a Melbourne, annunciano che questa trentennale tragica epidemia che sta ancora uccidendo milioni di persone (in certe regioni africane soprattutto giovani donne), forse, FORSE, tra 15 anni sarà debellata nel mondo. 33 Notizia meravigliosa per tutti, come quando si scoprì la penicillina che non cancellò un’altra malattia sessuale, la sifilide, ma impedì di morirne. Ma allora si potranno bruciare i preservativi, e magari far coppia gay ma non così fedele, (e si sa che le coppie etero non lo sono gran che) e addirittura fare a meno di sposarsi? Si potrà tornare all’amata promiscuità, ad essere se stessi, a divertirsi con un po’ più agio e sicurezza, come nei nostri anni Cinquanta, quando l’Aids non esisteva (vedi il libro Quando eravamo froci di Andra Pini)? Secondo il professor Tirelli, in Italia e comunque in Occidente, non è che i costumi gay (e non solo) siano molto cambiati da allora, anche se si marcia per ottenerne gli ovvi diritti civili; si continua a contrarre l’HIV come trent’anni fa (per via sessuale, scomparso quello da siringa infetta) ma l’uso dei farmaci mai innocui (manca ancora un vaccino) impedisce che si sviluppi, perciò sono di molto diminuiti i morti, ma non il contagio. Solo che si sa di potersi curare, quindi non se ne parla più. La bella notizia vera quindi non è che nel 2030 scomparirà l’Aids, ma che finalmente le Nazioni Unite troveranno il denaro per curare i milioni di infetti dei paesi poveri, impedendone la morte e rallentandone la diffusione. 34 BENI COMUNI/AMBIENTE del 23/07/14, pag. 5 La sagra dei «gratta e vinci» per il via libera al gasdotto salentino Federico Cartelli LECCE Salento . I regali estivi della multinazionale Tap Entro la fine di luglio la Commissione Via del ministero dell’Ambiente si pronuncerà sul progetto della multinazionale Tap che prevede l’approdo del gasdotto sulla costa di San Foca, nel leccese, per far giungere in Europa il gas naturale dell’Azerbaigian. Al progetto, il cui impatto è ritenuto invasivo, si oppongono i comitati regionali «No Tap» i quali hanno sensibilizzato le popolazioni sui possibili danni ambientali per il territorio pugliese. Negli stessi giorni in cui il presidente azero Ilham Aliyev era a Roma per una serie di accordi col governo Renzi in materia energetica, è stato aperto a Lecce un ufficio (rappresentante gli interessi delle società internazionali del progetto Tap — Trans adriatic pipeline) il cui responsabile ha illustrato un programma di manifestazioni sponsorizzate dalla multinazionale per l’estate salentina. Con un budget di circa 350 mila euro (evidente l’intento propagandistico con elargizioni di prebende per addomesticare posizioni oltranziste) sono finanziate varie iniziative che, come in ogni provincia che punta sul turismo, solitamente decollano durante la stagione. Un carnet di appuntamenti, in paesi e paesini, che vanno dalla sagra a base di prodotti mangerecci alla festa patronale con allestimento di luminarie, dalla discoteca sul mare al concerto da stadio, dal concorso-vacanza in hotel della zona alla partecipazione presso la radio locale, fino ai gratta e vinci distribuiti sulle spiagge con in palio portacellulari, teli da bagno, palloncini e gadget, contrassegnati col marchio Tap ovviamente. «Energia a vocazione turistica» è lo slogan con cui si fa passare il tutto come un calendario di eventi culturali. Culturali perché la Tap ha tentato di coinvolgere, elevandone lo spessore, la città capoluogo? Al consigliere delegato dal Comune al comitato preposto alle manifestazioni estive, è infatti giunta l’offerta, per la tre giorni festaiola dell’ultima settimana d’agosto in onore dei santi patroni, di una somma di 20 mila euro targata Tap. Ma vendere, o peggio svendere, i nomi di Oronzo, Giusto e Fortunato (i patroni di Lecce) per appena 20 mila euro è forse sembrato poco dignitoso. Fatto sta che arcivescovo e sindaco della città si sono defilati, per poi declinare l’offerta. Anche per non prestare il fianco al tourbillon di polemiche, che si sarebbe rovesciato, accettando quel denaro che alla cittadinanza è apparso un obolo, non proprio generoso peraltro. Un obolo per comprarsi il consenso sociale e tacitare le resistenze di quanti contestano il passaggio del gasdotto nel Salento. Intanto la querelle ha attraversato repentinamente città, paesi e spiagge. Ma se sulle prime la multinazionale ha fatto breccia sponsorizzando un paio di manifestazioni (il nome Tap è stato acceso da una miriade di lampadine al led in una serata di sagra, con un contributo di appena 5000 euro), ora le comunità cominciano a prendere distanze e a rifiutare le offerte. Con buona pace del marchio Tap programmato per un’estate al top. Alla commissione Via dell’ambiente, che deciderà a giorni sulla criticità del progetto, i responsabili Tap in Salento, pur privilegiando l’approdo della condotta a San Foca, hanno indicato una decina di siti alternativi e compatibili lungo la costa che corre da Brindisi a Otranto. Il gasdotto transnazionale che porterà il gas azero in Europa (avrà una portata 35 fino a 20 miliardi di metri cubi all’anno) è un’opera imponente il cui costo si aggira sui 40 miliardi di euro. La condotta attraversa regioni della Turchia europea, della Grecia settentrionale e dell’Albania, prima di tuffarsi nel Canale d’Otranto lungo 117 chilometri sottomarini. Raggiunta la costa adriatica pugliese percorrerà alcuni chilometri sul territorio salentino. Il terminale infine si collegherà all’infrastruttura a rete della Snam gas. 36 INFORMAZIONE del 23/07/14, pag. 14 Chiacchiere sulla Rai Vincenzo Vita Settimana fondamentale ad Hit parade! Diceva all’inizio di ogni puntata della famosa trasmissione radiofonica il compianto Lelio Luttazzi. E settimana almeno altrettanto fondamentale per la Rai. È in programma tra oggi e domani, infatti, il consiglio di amministrazione, da cui forse emergeranno alcune scelte sul riordino del servizio pubblico. E sottolineo se, cantava Mina. Appunto, visto che in questi ultimi mesi sono sì sbocciati – secondo una tardiva lezione maoista — cento fiori, ma un’opzione ancora non è emersa. Aspettando Godot (Renzi….). Iniziative, convegni, da ultimo l’interessante «Pallacorda» promossa dal Dipartimento di comunicazione e ricerca sociale della Sapienza di Roma, diretto da Mario Morcellini. Vale a dire un ciclo di cinque seminari tesi ad aggiornare il tema, liberandolo da inerzie e mere ripetizioni. Ma con quale percorso? Infatti, dopo qualche promessa del sottosegretario Giacomelli su una consultazione di massa e l’anticipazione alla fine di quest’anno il rinnovo della convenzione con lo stato, una coltre di nebbia ha avvolto le effettive intenzioni del governo. Mentre sul nodo cruciale dei servizi pubblici, retti –tra l’altro– dal trattato di Amsterdam del ’97– una parola sarebbe lecito attendersi dal semestre europeo a guida italiana. Anzi. Una ridefinizione moderna e impegnativa del servizio pubblico nell’era della Rete e delle tecniche numeriche (a quando quelle quantiche?) è necessaria per costruire la cittadinanza digitale. Questa è la sfida. Altro che ridimensionamento del servizio pubblico, come vorrebbe la farisaica corrente privatistica. Al contrario, si tratta di «espandere» il concetto di servizio pubblico, come carta cognitiva del nuovo universo . E dentro l’area pubblica prende piede il pre-concetto del bene comune, vero traguardo della democrazia partecipata. Ecco. Serve un salto di qualità nel dibattito, superando i mille rivoli senza sbocco che non interagiscono (almeno un blog comune, no?) e non trovano un filo conduttore. Eppure, un anno fa Articolo 21 lanciò una consultazione nelle scuole per una nuova carta d’identità per la Rai e l’associazione «MoveOn» ha lavorato per due anni attorno a un articolato normativo che domani verrà presentato alla sala stampa della camera dei deputati. Così, la felice iniziativa – ancora un po’ generica — dell’università di Roma potrebbe a sua volta divenire un riferimento. Si operi una scelta. Sempre che si voglia davvero studiare idee e progetti di sviluppo e di cambiamento coraggiosi e non – al contrario — dare luogo ad una danza della morte. È troppo aspettarsi dal cda della Rai un piano di evoluzione dell’azienda? Un programma non recessivo: di transizione da un apparato subalterno ideologicamente alla logica partitica a una società multi-piattaforma indipendente e protagonista dell’industria culturale? Il tempo corre e il panorama mediatico è in via di rivolgimento profondo: alleanze e scelte strategiche prefigurano una foto di gruppo assai diversa dagli anni passati. A proposito, mai una volta che il governo scopra un’altra verità. Nessuna vera riforma nascerà se non si metterà mano a quel puro anagramma del potere berlusconiano che fu la legge Gasparri. Se non interverrà il parlamento, qualcuno potrebbe persino lanciare l’idea del referendum abrogativo. Insomma, la questione non sta nel difendere quel che resta di un brand, quanto piuttosto nell’avere il coraggio di pensare al futuro, come sta avvenendo ovunque. L’Italia è sempre più l’anello debole del villaggio globale. 37 CULTURA E SCUOLA Del 23/07/2014, pag. 10 Così poco Paritarie In quelle scuole resistono anche le divisioni di genere SONO 13.960 GLI ISTITUTI NON STATALI MA FINANZIATI CON I SOLDI PUBBLICI FRA LORO ANCHE QUELLI DELL’OPUS DEI L’indignazione è stata generale. O forse no. Perché il caso della professoressa senza più contratto in una scuola paritaria di Trento in seguito a voci sulla sua presunta omosessualità mette in evidenza «una delle contraddizioni di fondo» della legge che in Italia regola il variegato mondo degli istituti paritari. Un esercito, a guardare i numeri: quasi 14 mila dall’infanzia alle superiori anche se poi il tasso di copertura è inferiore a quello delle scuole statali, per il basso numero di sezioni in ciascuna realtà. Il dito nella piaga lo mette Bruno Moretto, “veterano” della battaglia contro le paritarie, uno dei protagonisti del referendum contro il finanziamento alle scuole materne parificate che a Bologna aveva spaccato la maggioranza di centrosinistra, diviso il Pd e la Cgil. «C’è un problema costituzionale », accusa dunque il portavoce del comitato Scuola e Costituzione. Perché, riassume, «non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca: se vuoi la piena libertà in una scuola religiosa non puoi pretendere di avere anche dei finanziamenti pubblici». Mentre proprio questo sarebbe il caso del Sacro Cuore di Trento. In Italia, secondo l’anagrafe del Miur gli istituti non statali e paritari sono 13.960 (dati che risalgono però al 2009/10), dove la parte del leone la fanno le 9.899 materne, ci sono poi 1.525 primarie, 692 secondarie di primo grado e 1.844 di secondo grado ovvero superiori. Numeri che però comprendono, va subito detto, anche gli istituti gestiti direttamente dagli enti locali. Dunque soprattutto scuole dell’infanzia, molto presenti in particolare in alcuni territori, vedi l’Emilia culla degli asili nido. Un quadro della copertura garantita dalle paritarie lo dà invece la Cgil: quella assicurata sull’infanzia, spiega Massimo Mari della Flc, è del 29% (del 40% se si considerano appunto anche le scuole comunali), del 5% con le primarie, del 4% alle medie e del 5% sulle superiori. Tolti gli istituti degli enti locali, si tratta in gran parte di scuole confessionali. A distinguere un istituto paritario da uno del tutto privato sono i finanziamenti pubblici, e la sottoscrizione di una convenzione in base a cui le scuole si impegnano a erogare un servizio con «requisiti di qualità ed efficacia» fissati dallo Stato. È il cosiddetto sistema integrato, salito agli onori delle cronache con l’istituzione di una legge ad hoc sulla parità, la 62 del marzo 2000, quando ministro della Pubblica Istruzione era Luigi Berlinguer nel secondo governo D’Alema. Tra i requisiti fissati da quella legge, ci sono anzitutto «un progetto educativo in armonia con i principi della Costituzione; un piano dell’offerta formativa conforme agli ordinamenti e alle disposizioni vigenti; attestazione della titolarità della gestione e la pubblicità dei bilanci». Ma anche «l’iscrizione alla scuola per tutti gli studenti i cui genitori ne facciano richiesta», «l’applicazione delle norme vigenti in materia di inserimento di studenti con handicap o in condizioni di svantaggio », e ancora l’offerta di «corsi completi» (di un intero ciclo formativo insomma). Lo Stato richiede poi - e qui sia arriva proprio al nodo del personale docente - insegnanti «forniti del titolo di abilitazione », e «contratti individuali di lavoro per personale dirigente e insegnante che rispettino i 38 contratti collettivi nazionali di settore». Questi i “paletti” fissati, al di là dei quali alle scuole paritarie «è assicurata piena libertà per quanto concerne l’orientamento culturale e l’indirizzo pedagogico-didattico». Ed è in questa «piena libertà» che sembra nascondersi il cuore del problema. «Di fatto non c’è nessun obbligo per le paritarie a rispettare certi diritti» spiega Adele Orioli, responsabile delle iniziative legali della Uaar, che da sempre punta anche il dito contro le tante agevolazioni fiscali di cui queste realtà usufruiscono. Nel caso di Trento, poi, la questione si complica perché «purtroppo è tutto da dimostrare, finché non c’è nulla di scritto è difficile dimostrare che la vera ragione dell’allontanamento sia stata una discriminazione. Anche perché non si tratta di un licenziamento ma di un mancato rinnovo». «Il caso di Trento è molto grave perché non riguarda i contenuti dell’insegnamento - insiste Moretto -, ma i comportamenti personali, oltretutto presunti, della docente. Posso anche immaginare che qualche genitore si sia lamentato, abbia fatto delle domande ed è questo il punto: la scuola pretende di scegliere non solo cosa l’insegnante dice ma come è, perché sia del tutto aderente alla propria ispirazione religiosa». Può anche succedere che un istituto parificato e dunque obbligato ad accogliere tutti respinga un alunno in quanto «non gradito»: questo fece anni fa il San Luigi di Bologna, collegio “vip” nel cuore della città, rifiutando l’iscrizione al figlio di Massimo Ciancimino, testimone di giustizia. «Poi ci sono le scuole dell’Opus Dei - rincara Scuola e Costituzione - con la loro divisione tra maschi e femmine a partire dai 6 anni, alcune sono addirittura solo maschili e solo femminili», dunque le iscrizioni vengono accettate o meno in base al sesso «e questa è una discriminazione. E come tale è stata riconosciuta in Spagna, dove questi istituti proprio per questo sono stati esclusi dai finanziamenti pubblici». Quando allora si dice che le scuole paritarie hanno diritto alla piena libertà e si citano esempi esteri «bisognerebbe ricordare anche che altrove, vedi la Francia, istituti religiosi hanno sì accesso a fondi pubblici ma i loro docenti devono essere scelti attraverso un concorso pubblico». 39 ECONOMIA E LAVORO del 23/07/14, pag. 4 Cig, danno e beffa per un esercito di lavoratori. A rischio 65mila posti Il caso. Finora si è coperto il 2013: per il 2014 ci sono soltanto le promesse di Poletti e Padoan. Il viceministro De Vincenti: i fondi per ora non risultano. I sindacati: «65 mila lavoratori a rischio» Antonio Sciotto Dove siano, e soprattutto se saranno stanziati a breve, i 400 milioni per la cig in deroga promessi dal governo è diventato un vero giallo. La settimana scorsa, firmando un decreto interministeriale in pompa magna, i dicasteri guidati da Giuliano Poletti e Pier Carlo Padoan – cioè Lavoro ed Economia – avevano tamponato con 400 milioni un buco del 2013, e promesso che a breve si sarebbe reperita una nuova tranche, dello stesso valore, utile per il 2014. Ma ieri, su quest’ultima promessa, un altro componente dell’esecutivo – il viceministro allo Sviluppo economico, Claudio De Vincenti – ha raggelato le speranze: «Non risulta», si è lasciato scappare, seppure in una dichiarazione non ufficiale. Ma è bastato per confermare i dubbi di tanti: le risorse, su cui si fa pressione ormai da diversi mesi – più volte è stato lanciato l’allarme della mancanza di 1 miliardo di euro per la cig in deroga – ancora non si sono concretizzate. I 400 milioni da utilizzare per cominciare a coprire le esigenze del 2014 dovrebbero essere inseriti come norma specifica in un decreto legislativo prossimo venturo (il più vicino potrebbe essere il dl competitività), ma nulla, per dirla con De Vincenti, è certo. O meglio, «non risulta». Eppure la questione non è affatto un gioco, anzi. Riguarda decine di migliaia di persone in carne e ossa, che se non vedranno finanziata a breve la cassa, potrebbero finire senza alcun paracadute in mezzo a una strada. Lo hanno ricordato ieri Cgil, Cisl e Uil, con un presidio davanti a Montecitorio: quei palazzi della politica che in questo periodo stanno trascurando le emergenze del lavoro per dedicarsi quasi esclusivamente alle riforme istituzionali. Per coprire il fabbisogno del 2014 mancano dunque all’appello circa 1 miliardo di euro, mentre il rischio licenziamento riguarda almeno un quarto dei 148 mila lavoratori attualmente “protetti” dalla cassa in deroga: in bilico dunque ci sarebbero tra i 48 e i 65 mila “derogati”, ma la cifra potrebbe velocemente salire a 150 mila unità, se il governo dovesse sdoganare la bozza di decreto interministeriale che riforma i criteri di accesso agli ammortizzatori sociali. Infatti ieri sia diverse forze politiche che lo stesso sindacato hanno chiesto al governo di mettere prima di tutto mano alle risorse, per una copertura completa, per non rischiare di lasciare qualcuno in grossi guai al momento che verranno riformati i criteri di accesso. Lo chiede ad esempio Stefano Fassina, del Pd: «La cig in deroga non può essere ridimensionata senza aver prima introdotto un ammortizzatore sociale ampio in grado di coprire per via assicurativa i lavoratori e le lavoratrici di tutte le imprese e di tutti i settori produttivi». Ma l’allarme è condiviso anche da Cesare Damiano (Pd), presidente della Commissione Lavoro della Camera, secondo il quale «i fondi per la cig non sono sufficienti». Lo stesso 40 afferma Giorgio Airaudo (Sel), che chiede all’esecutivo dove prenderà «non solo i 400 milioni per il saldo della cig del 2013, ma anche gli 1,5 miliardi necessari per il 2014, e poi quelli del 2015». Paolo Ferrero, di Rifondazione comunista, chiede non solo i fondi per la cassa, ma anche, urgentemente, «un piano per il lavoro». Secondo Lucio Malan, di Forza Italia, «il governo Berlusconi ha sempre garantito la copertura degli ammortizzatori sociali, anche quelli in deroga. Ora che il partito egemone è l’ex partito dei lavoratori, accade il contrario». Insomma, non c’è più tempo. E lo ripete, ormai da giorni, la segretaria della Cgil Susanna Camusso: «O il governo mette subito in agenda i temi prioritari della disoccuazione e del lavoro o tutti i ragionamenti sulla crescita sono inutili. Le riforme istituzionali sono importanti ma sul campo non c’è un solo tema». Che su questo tasto attacca il premier Matteo Renzi da venerdì scorso. «Legge elettorale, riforma costituzionale… Nessuno si occupa più di economia», conclude Raffaele Bonanni, segretario della Cisl. Del 23/07/2014, pag. 12 Nuova Cig, nuovi esclusi: in 60mila senza tutele I criteri per gli ammortizzatori in deroga si fanno più restrittivi e per molti lavoratori scatta il licenziamento I sindacati al governo: «Ci ripensi» «Da quando hanno chiusa la mia fabbrica ho fatto tre corsi di formazione regionali: uno per Gestione magazzino, uno per Carrellista e ora uno per Operatrice socio- sanitaria. Ho mandato migliaia di curriculum a cui nessuno ha risposto. Gli ultimi soldi li ho visti a febbraio e sono fortunata: sono i sei mesi finali di cassa in deroga del 2013, la bellezza di700 euro al mese. Vado avanti così da due anni, il mio compagno è disoccupato e così sono tornata a vivere con i miei: volevamo dei figli ma non ce li possiamo permettere». Maria, maglia e capello nero come il cielo romano che ha accolto lei e i suoi «colleghi di sventura», ha 42 anni e vive nel Mantovano, non nel profondo meridione. Lavorava in un’azienda del legno, la cui produzione è stata spostata da Quistello a Bastia Umbra (Perugia).Se il nuovo decreto sulla cassa in deroga passerà - 8 mesi di copertura annuale al posto degli attuali 12 - a settembre sarà licenziata. Come lei altre decine di migliaia di lavoratori. Un numero preciso nonc’è: c’è chi dice 60mila, chi 150mila. «VIVERE CON 700 EURO AL MESE» Ieri mattina era davanti a Montecitorio per chiedere lo sblocco dei fondi per gli ammortizzatori in deroga. Insieme a lei, lavoratori da tutto il Nord Italia, mentre domani si replica con i lavoratori del Sud. Ognuno ha la sua storia, la sua agonia lavorativa. In comune ci sono la dignità e la voglia di lottare per «qualcosa che ci spetta, perché noi non rubiamo niente: se trovassimo un lavoro, lo prenderemmo subito, invece di andare avanti con 800 euro al mese». A parlare è Vincenzo, 41enne trapiantato a Torino che racconta una delle storie più beffarde, quella della De Tomaso. «Rossignolo ci ha imbrogliato e ha truffato la Regione, così da anni dobbiamo scendere a Roma per chiedere di avere i soldi che lo Stato ci ha promesso, firmando un Accordo al ministero del Lavoro ». La storia di Vincenzo è ancora più amara. «Sono separato e ho due figlie. Ma mia figlia grande ha deciso di tornare a vivere con me: con la mia ex moglie abbiamo dovuto modificare l’affidamento. Ma adesso con i ritardi dei pagamenti di almeno tre mesi 41 sicuramente perderò l’affido ». Altre storie sono arrivate sul piccolo palco che dava le spalle all’entrata della Camera dei deputati. Palco dal quale hanno concluso la manifestazione - prima di un nubifragio che ha disperso la folla - i tre segretari generali. «Le incertezze sui finanziamenti e sui tempi hanno già portato molte aziende a decidere di non fare più domanda per gli ammortizzatori in deroga, portando quindi ai licenziamenti dei lavoratori. E noi sappiamo che se un’azienda chiude, poi non riapre più», ha attaccato Susanna Camusso. «Sono mesi interi che questo governo si occupa di riforma del Senato, di riforma costituzionale, della riforma qui e lì. Ci fosse un barlume di iniziative sull'economia, che poi è ciò che dà da vivere agli italiani», l’aveva preceduto Raffaele Bonanni. «Il governo è grandemente colpevole, ha stimato la metà delle risorse necessarie per coprire la cassa integrazione in deroga e poi non le ha erogate», aveva esordito Luigi Angeletti. A metà giugno l’Unità calcolò - tramite i dati delle Regioni - che 138mila lavoratori (65mila in cigd e 72mila in Mobilità) erano in attesa di pagamenti del 2013. Dopo pochi giorni il ministro Giuliano Poletti ha sbloccato 400milioni (le Regioni stimavano in 566 i milioni necessari per terminarei pagamenti) e nei giorni scorsi ha annunciato l’imminente stanziamento di altri 400 milioni. Ma quest’ultima tranche è legata al via libera del nuovo decreto interministeriale che cambia le regole e stringe i paletti di concessione: i mesi di copertura scendono da 12 a 8, «calcolati tenendo conto di tutti i trattamenti concessi dal primo gennaio 2014», con una retroattività assai discutibile. Per fruire della nuova Cig bisognerà avere un’anzianità lavorativa aziendale dialmeno12mesi. Il sussidio in deroga non potrà più essere concesso in caso di cessazione, in tutto o in parte, dell'attività d'impresa. L’opposizione di sindacati e Regioni è totale. Dal governo arrivano timidi segnali in vista dell’incontro con le Regioni del 30 luglio: i mesi potrebbero tornare 12 ma ad invarianza di risorse, diminuendo il valore dell’assegno. Una richiesta definita «irricevibile» da Cgil, Cisl e Uil. Il rischio che i sindacati vedono all’orizzonte è la volontà del governo di trasformare cassa e mobilità in deroga nel solo Aspi, l’ammortizzatore sociale introdotto da Elsa Fornero che è acarico della fiscalità generale, al netto di un contributo introdotto sui contratti a termine pagato delle aziende. Il sindacato infatti chiede invece il superamento della cig in deroga attraverso di un altro istituto mutualistico. Lo schema sarebbe quello dei Fondi di solidarietà, lanciati sempre dalla riforma Fornero, ma finora falliti per i pochi accordi di settore sottoscritti tra organizzazioni imprenditoriali e sindacati che hanno portato ad un sostanziale stop al progetto. del 23/07/14, pag. 10 Il ministro preoccupato per la frenata tedesca “Servono incentivi per realizzare le riforme” Ue: debito italiano al 135,6% del Pil Padoan: regole Ue ma con flessibilità ANDREA BONANNI BRUXELLES . I debiti pubblici in Europa riprendono a salire. Eurostat, l’ufficio statistico europeo, ha diffuso ieri i dati relativi al primo trimestre dell’anno secondo cui il debito pubblico dei Paesi dell’eurozona è salito al 93,9% del Pil, contro il 92,7 che aveva raggiunto a fine 2013. L’Italia registra un debito pari al 135,6%, con un aumento di tre punti rispetto all’anno scorso. Di tre punti aumenta anche il debito del Portogallo, al 132,9. La Spagna aumenta di 2,9 punti al 96,8. La Francia di due punti, al 96,6. La Germania registra invece una 42 riduzione del debito che scende dal 78,4 al 77,3%. Ma i buoni dati tedeschi non bastano a compensare una tendenza generalizzata al rialzo. É su questo sfondo non certo incoraggiante che ieri il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan è venuto a Bruxelles per presentare al Parlamento europeo il programma del semestre di presidenza italiana dell’Ue. Un discorso in cui non ha nascosto la sua preoccupazione per la debolezza della ripresa economica: «i recenti dati macroeconomici che arrivano dalla Germania sono deludenti, fanno suonare un campanello d’allarme, indicano che la debolezza è persistente nel tempo e più ampia rispetto a sei mesi fa». Interrogato ripetutamente dai deputati sull’interpretazione che il governo italiano dà della flessibilità in materia di bilancio, Padoan ha rassicurato che «le regole non devono essere modificate, ma devono essere applicate. Le regole prevedono già un certo grado di flessibilità». Tuttavia l’applicazione delle norme concordate sul risanamento dei bilanci deve essere perseguita “con lungimiranza”, tenendo presente che le riforme richiedono tempi lunghi per far sentire il loro effetto e che questa discrepanza temporale deve essere tenuta in considerazione. «Flessibilità significa sfruttare al meglio le misure vigenti di riduzione del debito con le riforme strutturali a favore della crescita. Questo doppio approccio ha funzionato in molti paesi. Ogni riforma deve essere analizzata alla luce del significato che ha in termini di crescita e sviluppo. Le riforme portano frutti a lungo termine ma possono non portare benefici immediati. Per vederne i frutti occorre aspettare almeno 1, 2 o 3 anni». Secondo Padoan «occorre un’azione condivisa e affinché le riforme strutturali si facciano vanno rafforzati gli incentivi: le riforme comportano costi politici, sociali ed economici immediati mentre i benefici in termini di crescita e di occupazione sono differiti nel tempo. Le riforme servono a rimuovere gli impedimenti strutturali alla crescita e sono necessarie. Sono fortemente convinto che il modo per uscire dal debito sia la crescita. Non c’è nessuna scorciatoia». Il ministro dell’economia ha poi insistito molto sulla necessità per l’Europa di rimettere in moto gli investimenti. «Oltre a riforme strutturali servono incentivi agli investimenti. In questa direzione molte misure specifiche che non fanno notizia le stiamo già attuando ma prevediamo di fare molto molto di più in questo campo». Dunque, «programma di riforme forte e aggressivo e misure di sostegno a famiglie e imprese preservando la stabilità finanziaria». Insomma, secondo il governo italiano, pur nell’ambito delle regole esistenti, è necessario ripensare alla strategia comune per uscire dalla crisi. «La Ue è stata in grado di creare un modo per affrontare la crisi, quei Paesi che hanno avuto aiuti ora stanno tornando sui mercati ed è una buona notizia, ma è possibile ora considerare come può essere migliorato l’apparato di risposta alla crisi», ha detto Padoan. Per esempio «ci può essere una fase di riconsiderazione e dialogo su come le situazioni di crisi sono state gestite finora dalla Troika e come potranno essere gestite nel futuro». del 23/07/14, pag. 1/29 Quei privilegi da tagliare TITO BOERI L’ULTIMO bollettino economico di Banca d’Italia ha messo nero su bianco quanto ormai risulta evidente a tutti: il 2014, invece della tanto annunciata ripresa, ci porterà solo 43 crescita zero, stagnazione. Il bonus di 80 euro non sembra aver avuto effetti apprezzabili sui consumi. ED È illusorio aspettarsi nell’immediato stimoli a livello europeo. Del tutto fuori luogo l’entusiasmo con cui molti politici nostrani hanno celebrato il discorso di investitura di Juncker al Parlamento Europeo. Vero che il Presidente in pectore della Commissione ha detto che crescita e lavoro sono le priorità. Ma quando mai un politico europeo è stato, a parole, contrario alla crescita? In un momento in cui tutto il continente rallenta e ha un tasso di disoccupazione superiore alle due cifre chi potrebbe mai pensare di evitare di esser preso a pomodori esprimendosi contro la crescita? Il vero volto dell’Europa, oggi come oggi, è quello di Katainen, il nuovo commissario agli Affari economici, la cui prima dichiarazione è stata «il patto di stabilità non si tocca». Ancora più lontana dalla realtà la pretesa di alcuni di abolire l’austerità con un referendum, che abroghi il nuovo articolo 81 della Costituzione, quello che vincola il nostro paese, con tanti se e ma, a tenere il bilancio in pareggio. Com’è possibile attribuire a un articolo che non è stato ancora applicato le colpe delle politiche di austerità degli ultimi anni? Quando mai la Costituzione italiana ha imposto l’austerità? Ricordiamoci che negli anni di esplosione del debito pubblico in Italia, questa imponeva che ogni « legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte » . Perché allora sprecare soldi dei contribuenti per organizzare un referendum e abrogare con voto popolare qualcosa che viene sistematicamente disatteso? Tutte le energie disponibili devono invece essere concentrate attorno all’obiettivo di rendere strutturale il bonus di 80 euro. Deve risultare credibile come un taglio permanente delle tasse finanziato da tagli alla spesa pubblica e non da nuove tasse che graverebbero sulle famiglie. Per farlo, senza incorrere nella procedura di disavanzo eccessivo, il governo deve sulla carta trovare 23 miliardi nel 2015. L’audizione alla Camera del ministro Padoan della scorsa settimana fa pensare che l’esecutivo sia ancora in alto mare. E l’impressione è che nella compagine di governo si stia rafforzando il partito delle nuove tasse su quello dei tagli alla spesa. Il governo Renzi, in verità, ha già aumentato delle tasse, dalle banche alle rendite finanziarie. Sotto la reggenza del presidente del Consiglio gli italiani hanno cominciato anche a pagare la Iuc, facendo conoscenza del trittico Imu, Tari e Tasi. I decreti attuativi della delega fiscale prevedono l’eliminazione di molte detrazioni. Al di là del merito di questa scelta, si tratta pur sempre di tasse più alte. La sbandierata riforma del terzo settore vuole ampliare i trasferimenti alle imprese sociali definendo in modo più ampio che in passato i perimetri del terzo settore (allargato a imprese con partecipazione rilevante di aziende con fini di lucro). Si tratta di nuove spese che dovranno essere coperte da nuove tasse. A quanto pare, questi soldi andranno a finanziare il servizio civile per i giovani quando, fra 18 mesi, si esauriranno le risorse per la Garanzia Giovani. Ma quando mai un servizio civile ha migliorato le prospettive di lavoro dei giovani? Perché allora spendere soldi pubblici? Solo per far finta di aver offerto qualcosa ai giovani? E non si sentiranno presi in giro, gli under 25, se viene loro chiesto di lavorare gratis? La riforma del pubblico impiego, ammesso che ne esista una, non porta risparmi, semmai aggravi di spesa date le promesse di assunzioni e scivoli verso la pensione del ministro Madia. Si mormora che il commissario Cottarelli sia stato commissariato. Quel che è certo è che gli viene chiesto di tagliare le spese con soli atti amministrativi, senza passaggi parlamentari. Il problema è che c’è un limite a quanto si riesce a tagliare accentrando le autorizzazioni di spesa o intervenendo sulle società partecipate, senza toccare il numero dei dipendenti. Tra l’altro, con le nuove regole Sec molte società partecipate (e relativi debiti) finiranno nel perimetro pubblico. Questo avverrà presumibilmente dopo la pubblicazione della nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza, perché 44 l’Istat ha annunciato che metterà in pratica le nuove definizioni solo dal 3 ottobre. Avremo così una nota di aggiornamento che viene a sua volta aggiornata nel giro di pochi giorni! Siccome siamo gli unici a essere così in ritardo nell’adeguamento contabile, il rischio è quello di alimentare sospetti sui livelli del nostro debito pubblico, la spesa e la pressione fiscale. Renzi ha già incassato il suo bonus con gli 80 euro. Era dai tempi di De Gasperi che un governo non godeva di un consenso popolare così vasto. Deve essere utilizzato per costruire supporto a un’operazione sistematica e coraggiosa di riduzione della spesa pubblica, che apra la strada a nuovi tagli di imposte. Si possono fin da subito tagliare i cofinanziamenti statali ai fondi strutturali, senza contravvenire alle regole europee. Al contrario, il cofinanziamento è responsabilizzante solo se fatto da chi utilizza i fondi europei, dunque le Regioni. E poi ci sono leggi con tagli normativi alle spese da varare oggi ed attuare gradualmente. Perché un’operazione di razionalizzazione della spesa pubblica potrebbe permetterci di invocare la cosiddetta “clausola delle riforme” guadagnando tempo prezioso per l’aggiustamento. Dopotutto, quale migliore riforma strutturale della ristrutturazione della spesa pubblica? Se mostrasse di saper colpire le rendite annidate ai confini tra pubblico e privato, questa operazione risulterebbe più popolare di quanto si pensi. È questo il vero banco di prova dell’esecutivo. Oggi i partner europei chiedono dimostrazioni delle capacità del ministro Mogherini, che abbiamo candidato alla guida, sulla carta, della politica estera europea. Il ministro ha una grande occasione per mostrarsi all’altezza di questo compito: tagli davvero i privilegi della Farnesina, anziché far solo finta di farlo. Dopotutto investire nella politica estera comune significa saper ridurre le spese diplomatiche dei singoli paesi. 45