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RASSEGNA STAMPA giovedì 17 luglio 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO PUBBLICO IL MANIFESTO L’UNITÀ AVVENIRE IL FATTO IL RIFORMISTA PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da il FattoQuotidiano.it del 16/07/14 “Questa è l’acqua”, a Reggio Emilia il primo Festival sonoro della letteratura Dal 16 al 19 luglio prossimo andrà in scena la manifestazione ideata dallo scrittore Paolo Nori dedicata alla narrazione orale. Tanti gli ospiti attesi, da Ermanno Cavazzoni a Calro Lucarelle e Mariangela Gualtieri di Silvia Bia Esplorare la letteratura attraverso il suono, andando al di là della parola scritta, per ritornare al piacere di ascoltare le storie. Lo facevano i grandi autori come Kafka, Gogol, Puškin e Tolstoj, che prima di arrivare sui libri, leggevano i loro racconti in pubblico, declamandoli per farli ascoltare e per riportare la narrazione alla magia corale del riunirsi intorno ai cantastorie. Ora quelle impressioni potranno tornare in una rassegna dedicata alle parole, ma soprattutto alla musica e al sapore di tutto questo mescolato insieme. Dal 16 al 19 luglio a Reggio Emilia va in scena “Questa è l’acqua – Festival sonoro della letteratura”, una manifestazione nata da un’idea dello scrittore Paolo Nori per riportare al centro del palcoscenico la narrazione orale. “Ermanno Cavazzoni e io – ha spiegato Nori – non volevamo fare un festival letterario ma un archivio, l’archivio sonoro della letteratura. Avevamo, e abbiamo, l’impressione che ci sia molto materiale letterario non scritto, sonoro, che tutti i giorni si produce in Italia, in letture, conversazioni, presentazioni di libri, e che nessuno classifica e conserva. L’idea del festival – conclude ironicamente lo scrittore – era come di supporto all’archivio”. Proprio come facevano gli antichi, proprio come facevano i grandi autori, Nori lancia agli ospiti che interverranno la sfida della lettura pubblica. Sul palco nelle quattro serate in programma, si alterneranno artisti che leggeranno opere proprie e altrui, offrendo spunti sul senso della bellezza di esistere e anche sulla sua inconsapevolezza, come suggerisce il titolo del festival “Questa è l’acqua”, tratto dal discorso di David Foster Wallace del 21 maggio 2005 ai laureati del Kenyon College. L’iniziativa, realizzata dall’Arci di Reggio Emilia in collaborazione con l’assessorato Cultura e Paesaggio della Provincia di Reggio Emilia, da mercoledì 16 luglio porterà in viale Ramazzini 72, tra la sede dell’Arci e il centro internazionale Loris Malaguzzi, voci e suoni della letteratura, pezzi di storie da ascoltare, ancora prima che leggere. Primo ospite sarà l’autore e fumettista Gipi, che leggerà pezzi di sue opere. Giovedì 17 luglio sul palco la serata si aprirà alle 19 con Daniele Benati che proporrà un inedito Samuel Beckett tradotto in dialetto reggiano. A seguire, alle 22 sarà la volta di Carlo Lucarelli, accompagnato dalla colonna sonora delle Mondine di Novi. Il programma prosegue venerdì 18 luglio con Giuseppe Bellosi, che darà voce alla lettura integrale de “La Fondazione” di Raffaello Baldini. Alle 22 altra lettura integrale sarà quella di Matteo B. Bianchi, che leggerà la propria opera “Mi ricordo”, seguita dalla scrittura, raccolta e lettura dei “Mi ricordo” dei presenti. La serata conclusiva è prevista sabato 19 luglio con l’ultimo concerto dei Nuovi Bogoncelli, che proporranno letture di Daniil Charms, e il gran finale con le poesie e gli scritti narrati da Mariangela Gualtieri. 2 http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/07/16/questa-e-lacqua-a-reggio-emilia-il-primo-festivalsonoro-della-letteratura/1062185/ Mai più vittime! Di seguito i link dei siti di informazione locale che hanno pubblicato notizie sulle iniziative organizzate in occasione della giornata di mobilitazione per la pace in Medio Oriente indetta dalla Rete della Pace e Rete Italiana per il Disarmo - - - http://www.aostaoggi.it/2014/luglio/16luglio/news34135.htm http://www.radiocittadelcapo.it/archives/gaza-diritto-internazionale-144030/ http://www.statoquotidiano.it/16/07/2014/foggia-pace-in-palestina-presidio-in-c-so-vemanuele/226524/ http://culttime.blogspot.it/2014/07/arci-provle-foggia-fiaccolata-dipace.html?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed:+Cul ttimeBlog+%28culttime+blog%29 http://www.abruzzoweb.it/contenuti/pescara-mercoledi-sera-fiaccolata-per-la-pacein-medio-oriente/550419-4/ http://www.mbnews.it/2014/07/monza-presidio-in-largo-mazzini-restiamo-umanifermiamo-il-massacro-in-palestina/ http://www.piacenzasera.it/cosa-succede/cento-fiaccole-piazza-pace-medio-orientefoto.jspurl?id_prodotto=49794&IdC=1093&IdS=1093&tipo_padre=0&tipo_cliccato=0 &com=c http://www.genova24.it/2014/07/genova-per-la-pace-solidarieta-gaza-la-carovanadi-music-peace-ancora-bloccata-confidiamo-nelle-nostre-istituzioni-69774/ http://www.estense.com/?p=398298 http://www.strill.it/citta/2014/07/gaza-medio-oriente-il-consiglio-comunale-dilamezia-terme-osserva-un-minuto-di-silenzio/ 3 ESTERI Del 17/07/2014, pag. 1-14 GAZA, MUOIONO 4 PICCOLI PALESTINESI Bombe sui bimbi in spiaggia Israele prepara l’invasione FABIO SCUTO GERUSALEMME GIOCAVANO a pallone su quel tratto di spiaggia che c’è tra il vecchio porto e l’Hotel Al Deira, nella segreta — e sbagliata — convinzione che stare nei pressi dell’albergo usato dai giornalisti stranieri nella Striscia li mettesse al sicuro. LA PARTITELLA l’ha interrotta la Marina da guerra israeliana centrando con un colpo di cannone sparato dal mare quel gruppetto di “sospetti” e portandosi via la vita di Ahed e Zakarya di 10 anni, Ramez di 11 e Mohammad di 9. Il resto dei ragazzi della famiglia Bakr, che vive nel campo profughi di Shati, è all’ospedale Al Shifa, con i corpi straziati dalle schegge e bruciati dal calore delle esplosioni, in lotta tra la vita e la morte. I testimoni e i primi soccorritori delle vittime della strage sulla spiaggia sono stati i fotografi e i giornalisti che a quell’ora del pomeriggio si trovavano sul terrazzo dell’hotel. Fra le onde del mare, la spiaggia, le barche dei pescatori, i capanni dei caffè dai colori sgargianti, quei bambini non potevano certo immaginare che ci potesse essere da quelle parti un “obiettivo militare”. Né quel punto figurava tra le quattro zone della Striscia dove Israele aveva ordinato l’evacuazione a 100mila abitanti. «I ragazzini stavano facendo una partita sulla spiaggia», ci racconta Ahmed Abu Adera, uno dei camerieri dell’albergo, «un primo colpo si è schiantato sulla spiaggia come un tuono, hanno iniziato tutti a scappare, ma un secondo colpo ha centrato un gruppetto che correva... Sembrava come se i proiettili li stessero inseguendo». Diversi giovanissimi sono corsi a ripararsi verso l’hotel Al Deira, poco distante, in cui alloggiano diversi giornalisti che coprono il conflitto. Racconta Paul Beaumont, corrispondente del Guardian , fra i primi soccorritori, che «non c’è stato nessun colpo di avvertimento, i ragazzi sono stati uccisi al primo sparo, poi gli artiglieri hanno aggiustato la mira e colpito i sopravvissuti. Ero a meno di 200 metri da lì». «C’è stata un’esplosione assordante verso le 4 del pomeriggio, in quel tratto di spiaggia dove i pescatori stendono le reti ad asciugare », continua. «Quando si è dipanato il fumo, ho visto quattro figure correre verso il nostro albergo in cerca di riparo: un adulto e tre ragazzini. Il secondo colpo è arrivato quando ci avevano quasi raggiunto. Siamo saltati tutti in piedi, urlando verso gli artiglieri israeliani, come se pola tessero sentirci: sono solo dei bambini!!!». L’uomo che prima correva arriva all’hotel, si appoggia, geme e tiene con le mani la tshirt intrisa di sangue all’altezza dello stomaco, dove è stato colpito. «Era bianco come la neve, ha perso conoscenza», prosegue Beaumont. «Mentre i ragazzi dell’albergo fermavano un taxi sul lungomare per portalo in ospedale, altri hanno strappato le tovaglie dai tavoli per usarle come barelle e soccorrere gli altri ragazzi». «Tirando su la maglietta al primo bambino, ho visto subito il buco nel petto lasciato da una scheggia», racconta Ashraf, un altro dei camerierisoccorritori, «piccolo e tondo come il cappuccio di una penna, fra la prima e la seconda costola. Gemeva: “ho male, ho male, il petto mi brucia”. Abbiamo preso altre tovaglie per comprimere la ferita e fermare l’emorragia ». Altri si sono occupati del ragazzo più grande: aveva le braccia bruciate, sanguinava dalla testa e dalle gambe. Qualcuno è corso in strada per fermare qualche macchina di passaggio, ma sono arrivate due ambulanze che 4 hanno caricato i tre ragazzi. Solo ieri il presidente Peres aveva lodato “l’umanità” dei piloti israeliani nello scegliere solo obiettivi militari. Il numero delle vittime ha superato quota 220, i feriti sono oltre 1500. Alla vigilia di una tregua umanitaria di 5 ore mediata dall’Onu, ieri sera l’Idf che ha aperto un’inchiesta si è giustificato così: «Stavamo colpendo un obiettivo terroristico, l’uccisione dei bambini è un fatto tragico». E una fonte israeliana ha rivelato che la probabilità che Israele lanci un’operazione di terra è “molto alta”. La notizia della strage si è diffusa in un attimo nella Striscia, mentre le quattro piccole vittime venivano trasferite nella vicina moschea Abu Hasira. I corpicini in terra, avvolti nelle bandiere gialle del Fatah, il partito del presidente Abu Mazen. In migliaia, sfidando i raid che proseguono, hanno partecipato in serata ai funerali. Urlando la rabbia e la disperazione per le vittime innocenti di questa tragedia, bambini che volevano solo giocare al pallone in un pomeriggio d’estate sulla spiaggia nel posto peggiore al mondo dove crescere. Si chiama Gaza e dista solo tre ore d’aereo dall’Italia. del 17/07/14, pag. 7 Hamas: «Sì alla tregua ma non a queste condizioni» Gaza. Dietro le quinte gli interessi personali del Cairo, di Netanyahu e dell'Anp, Abbas incontra leader di Hamas in Egitto, domani vede Meshaal L’accusa è sulla bocca di tutti: Hamas ha fatto fallire la pace non accettando il cessate il fuoco uscito dal cilindro egiziano e prontamente accolto da Tel Aviv. Tutta colpa di Hamas. La realtà è diversa, fatta di incontri e telefonate segrete, interessi che si accavallano e l’esclusione del movimento islamista dalla discussione. Le mani in pasta le hanno tutti: il premier israeliano Netanyahu (che avrebbe preparato il cessate il fuoco in una chiamata segreta con il presidente egiziano Al-Sisi), Il Cairo che non nasconde il desiderio di indebolire il nemico Hamas, l’Autorità Palestinese. Ieri Abbas è volato nella capitale egiziana dove oggi incontrerà l’ex generale Al Sisi, a cui proporrà il dispiegamento di una forza dell’Autorità Palestinese che supervisioni il valico di Rafah e i 14 km di confine tra Striscia e Egitto. Un’interposizione che potrebbe essere applicata anche ad Erez, valico tra Gaza da Israele. L’Anp invierebbe un commando di guardie presidenziali che addestri ufficiali gazawi, dispiegati al confine e stipendiati da Ramallah. Abbas punta a presentarsi come mediatore tra la fazione palestinese (alleataavversaria) e la controparte israeliana di cui tutela la sicurezza in Cisgiordania. A Tel Aviv l’idea non dispiacerebbe. Ieri il presidente dell’Anp ha incontrato al Cairo Moussa Abu Marzouk, leader di Hamas, per discutere dell’iniziativa egiziana. Venerdì vedrà invece il capo del politburo islamista Meshaal, in Turchia, alla presenza del ministro degli Esteri del Qatar: Ankara e Doha sono i riferimenti di Hamas, che vede nella loro mediazione opportunità più favorevoli. Intanto voci contrarie alle iniziative unilaterali del presidente Abbas sono arrivate dall’Olp, dove c’è chi critica «l’esclusione e l’umiliazione del movimento islamista» a cui non è stato chiesto cosa voglia. Già, Hamas. Cosa chiede? Ieri il portavoce Abu Zuhri ha comunicato all’Egitto il rifiuto del cessate il fuoco nei termini previsti ma solo fino alla soddisfazione delle richieste del movimento: ovvero il movimento è aperto a nuove proposte. Nei media locali gira un decalogo che indicherebbe le condizioni per la tregua. Dai vertici nessuna conferma e a 5 Gaza c’è chi li ritiene veri solo in parte. Hamas chiederebbe un deciso allentamento dell’assedio: allontanamento dal confine dei veicoli militari israeliani e riconsegna della buffer zone ai contadini palestinesi; riapertura dei valichi di frontiera, sia per i residenti che per l’ingresso di materiali da costruzione e materiali necessari all’impianto elettrico; apertura del porto e dell’aeroporto sotto la supervisione Onu; definizione del limite delle acque territoriali a 6 miglia nautiche, entro le quali i pescatori siano liberi di pescare; apertura di Rafah sotto la supervisione internazionale e ricostruzione della zona industriale. A ciò si aggiungono punti politici: liberazione dei prigionieri arrestati dopo la scomparsa dei tre coloni e di quelli catturati dopo essere stati rilasciati con l’accordo Shalit; tregua di 10 anni; permessi di ingresso in territorio israeliano e a Gerusalemme per i gazawi; e infine impegno israeliano a non interferire nelle questioni interne palestinesi, in particolare nell’accordo di riconciliazione con Fatah, uno degli obiettivi dell’offensiva militare. Hamas non molla l’osso del governo di unità nazionale, consapevole della propria debolezza politica, della necessità di uscire dall’isolamento regionale in cui è finita dopo la caduta dei Fratelli Musulmani in Egitto e del bisogno di tornare a riaffermarsi in Cisgiordania. Da parte sua l’Anp tentenna, sospesa tra la necessità di non perdere ulteriore consenso popolare (riottenuto con il riavvicinamento a Hamas) e la tentazione di scaricare definitivamente la fazione avversaria. Una tregua negoziata da Ramallah rafforzerebbe Abbas, oggi visto da gran parte dei palestinesi come un burattino nelle mani israeliane. Alla finestra sta Netanyahu. Bibi balla da solo: non ha comunicato al suo governo l’intenzione di cercare una tregua (il ministro delle Finanze Bennett e quello degli Esteri Lieberman lo hanno scoperto aprendo il giornale, si vocifera nei corridoi governativi) e negozia con gli egiziani bypassando gli Stati Uniti. Il segretario di Stato Usa Kerry, in procinto di volare al Cairo e a Tel Aviv, è stato scaricato da Al-Sisi e Netanyahu, che hanno entrambi cancellato la visita. Bibi ha bisogno di rafforzare la sua posizione in una coalizione indisciplinata: l’attacco a Gaza, pianificato da tempo, è lo strumento migliore per raccogliere un consenso forzato ma necessario, mettendo a tacere le pericolose voci di dissenso degli ultranazionalisti. La prima vittima è il vice ministro della Difesa, Danon, licenziato martedì per le critiche mosse alla proposta di cessate il fuoco. Colpirne uno per educarli tutti. Il balletto danzato da Al-Sisi e Netanyahu vuole indebolire Hamas e costringerlo alla resa. C’è un elemento che, però, potrebbe cambiare le carte in tavola: dopo l’operazione “Colonna di Difesa” del 2012 che ne annientò quasi completamente l’arsenale, in meno di due anni Hamas è stata in grado di ricrearlo di nuovo, più numeroso e efficace: migliaia di missili – provenienti dall’Iran – che coprono distanze sempre più ampie e si avvicinano agli obiettivi strategici, rendendosi difficilmente intercettabili dal costosissimo sistema Iron Dome. Ad oggi, secondo dati dell’esercito israeliano, i razzi distrutti dal sistema antimissile sono circa il 20% del totale. Hamas ha costantemente migliorato la propria intelligence e l’addestramento militare dei miliziani e reperito armi sofisticate. E nonostante la propaganda israeliana che esagera da una parte il pericolo rappresentato dai missili per generare panico nella popolazione e dall’altra l’efficacia di Iron Dome, secondo fonti militari israeliane l’arsenale di Hamas sarebbe stato intaccato di meno di un terzo. Anche Israele ha bisogno della tregua e questo regalerebbe qualche punto ad Hamas. 6 del 17/07/14, pag. 7 Israele minaccia l’invasione “Pronti a entrare fra due giorni” Vertice al Cairo Al Sisi-Abu Mazen per spingere Hamas a cedere Maurizio Molinari corrispondente da Gerusalemme Abu Mazen è arrivato al Cairo per affiancare l’Egitto nel negoziato con Hamas sulla tregua a Gaza nel tentativo di centrare l’obiettivo e scongiurare un’invasione di terra che l’esercito israeliano ritiene oramai «probabile». I portavoci di Hamas formalizzano da Gaza il rifiuto della bozza di tregua proposta dal Cairo ma Abu Mazen è convinto di poter aiutare il presidente Abdel-Fattah Al Sisi a superare l’ostacolo. Il motivo, spiegano fonti palestinesi a Ramallah, è che «Hamas ha rifiutato la tregua egiziana perché non le garantiva risultati, limitandosi alla cessazione del fuoco». Abu Mazen invece, nell’incontro che avrà oggi con Al Sisi, proporrà di «concedere subito» a Hamas la riapertura del valico di Rafah, da cui dipendono gli scambi commerciali di Gaza con il resto del mondo. Il presidente palestinese è convinto di poter garantire a Hamas anche un «secondo risultato» ovvero l’arrivo dei fondi necessari per pagare gli stipendi ai 40mila dipendenti dell’amministrazione di Gaza: non dalle casse di Ramallah ma grazie a donazioni del Qatar. Gli sceicchi di Doha sono disposti a versare i milioni di dollari necessari ma, anche qui, Abu Mazen chiederà ad Al-Sisi di fare un passo in avanti ovvero consentire alle valige di contanti in arrivo dal Golfo di transitare per Rafah. In questa maniera Hamas incasserebbe due risultati concreti e resterebbe poi a Israele affrontare la terza richiesta ovvero liberare 56 militanti che erano stati rilasciati in cambio dell’ostaggio Gilad Shalit ma che poi sono stati riarrestati in Cisgiordania. L’iniziativa di Abu Mazen ha alle spalle il sostegno del Segretario di Stato John Kerry e nasce dalla volontà di impedire l’attacco di terra israeliano che, come un alto funzionario della Difesa dichiara,«potrebbe avvenire nei prossimi 2-3 giorni» dando inizio a «un’operazione destinata a durare mesi al fine di smilitarizzare Gaza». È la linea del ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, secondo il quale «non dobbiamo rioccupare Gaza per restarci o costruire insediamenti ma per catturare, disarmare o uccidere ogni terrorista». Le minacce di Israele sono uno strumento in più per la mediazione di Abu Mazen, che punta a recitare un ruolo di primo piano nella soluzione della crisi per rafforzarsi agli occhi della popolazione di Gaza nelle vesti di leader dell’unità nazionale. Alle sue spalle, il presidente palestinese ha la Lega Araba e la Turchia mentre sul fronte opposto c’è Bashar al Assad, il presidente siriano alleato di Teheran che ha prestato giuramento, dando inizio al nuovo settennato, con un discorso nel quale ha accusato Israele di «attaccare Gaza puntando ad assoggettare gli arabi». Da qui l’appello del raiss alle capitali arabe a inviare «aiuti di ogni tipo a Hamas» con una strategia opposta rispetto al Cairo e Ramallah. Ecco perché esiste il rischio che Gaza si trasformi in un nuovo braccio di ferro fra le capitali della regione, in maniera analoga a quanto sta avvenendo sulla Siria e sull’Iraq. Nel braccio di ferro in corso fra leader arabi, Israele punta su Al Sisi: «Abbiamo accettato la proposta egiziana e speriamo che Hamas faccia altrettanto» afferma il ministro Tzipi Livni. 7 del 17/07/14, pag. 13 L’esercito di Israele spara anche con armi italiane LA DENUNCIA DELL’ARCHIVIO DISARMO: SIAMO TRA I PRIMI FORNITORI UE di Stefano Pasta A Gaza si bombarda anche con le nostre armi. “L’Italia – denuncia la Rete Disarmo – sospenda immediatamente l’invio di armi e sistemi militari in Israele”. Sì, perché, secondo la XV Relazione Ue sul controllo delle attrezzature militari, siamo il più importante fornitore europeo di sistemi militari e armi leggere del governo di Tel Aviv: nel solo 2012 ne ha acquistate per 473 milioni di euro, su un totale di 613. Il made in Italy stacca nettamente il secondo classificato di questo triste podio, la Germania, che si ferma a 49 milioni. Non solo: il 9 luglio, nei primi giorni dei raid, l’azienda Alenia Aermacchi del gruppo Finmeccanica ha inviato i primi due aerei addestratori M-346 alla Forza aerea israeliana. I nuovi velivoli servono per l’addestramento a caccia di nuova generazione, ma possono anche essere armati e utilizzati per bombardare. In particolare, grazie alla loro maneggevolezza, potrebbero essere usati in aree urbane e di conflitti a basso dispiegamento di forze armate e di contraerea. Secondo la Rete per il Disarmo, che raggruppa le principali organizzazioni impegnate sul tema, “tutto ciò avviene in aperto contrasto con la nostra legislazione relativa all’export di armamenti”. Effettivamente la legge 185 del 1990 prevede, proprio al primo articolo, l’impossibilità di fornire armi a Paesi “in stato di conflitto armato o i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani”. Il legame tra l’industria militare italiana e quella israeliana non è nuovo. Con la Legge 94 del maggio 2005, il governo Berlusconi III ratificò l’“Accordo generale di cooperazione tra Italia e Israele nel settore militare e della difesa” che definiva la collaborazione: misure per favorire gli scambi nella produzione di armi e il trasferimento di tecnologie, formazione, manovre militari congiunte e “peace - keeping ”. Nel luglio 2012, fu firmato un nuovo accordo sulla esportazione dei sistemi militari italiani verso Israele, tra cui appunto gli aerei M-346, definito “storico” dalla Difesa italiana e “un salto di qualità” dal premier Monti, che si era impegnato in prima persona. Salto di qualità mai discusso in Parlamento. E ora cosa potrebbe fare il governo? Tramite l’Uama (Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento), la Farnesina ha la facoltà di decidere sull’esportazioni di armi. Secondo la Rete Disarmo, il ministro Mogherini dovrebbe immediatamente impedire la fornitura di nuovi M-346 e, a livello europeo, promuovere un embargo di armi e sistemi militari. del 17/07/14, pag. 13 Affondata pure l’Arca che portava doni via mare 8 di Roberta Zunini Hanno bussato anche sul tetto dell'Arca e su quello del centro di riabilitazione di Wafa dove ci sono solo malati con più di 60 anni di età bisognosi di cure 24 ore su 24”. Charly Andreason è un attivista svedese dell'international solidarity movement -di cui faceva parte anche Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza nell’aprile 2011 - che dall'altra notte, quando una bomba dell'aviazione israeliana ha “bussato sul tetto” del Wafa rehab center, fa da scudo umano per difendere i pazienti ricoverati. “Gli israeliani hanno definito eufemisticamente e ironicamente questi bombardamenti “knocking on the roof”, ma se non fosse l'ennesima tragedia verrebbe voglia di definire questa operazione una farsa: questa reazione sproporzionata porterà solo altro odio. Ciò che serve a Netanyahu per evitare i negoziati e mantenere invariata la macabra politica che non prevede la fine dell'assedio della Striscia”. Andreason vive da 9 mesi a Gaza. Qui nessuno è più al sicuro fisicamente, in nessun luogo della Striscia, ma dal 2006, quando Hamas ha vinto regolarmente le elezioni, la vita dei gazawi è un incubo sotto tutti gli aspetti. “L'assedio di tutte le frontiere, il blocco di tutti gli spazi compresi quelli aerei e navali, ha distrutto quel minimo di economia di sussistenza che si stava sviluppando. La gente vive degli aiuti internazionali, ma anche in questo caso Israele crea continui ostacoli, trovando dei cavilli burocratici per farli entrare con il contagocce. Inoltre i permessi per uscire dalla Striscia son sempre più rari”. “L'altra notte una serie di bombe ha ‘bussato sul tetto’ dell'Arca talmente tante volte che alla fine ne è rimasto solo lo scafo carbonizzato. Saremmo dovuti già salpare a maggio ma una bomba l'aveva danneggiata e ora è distrutta. Il problema è che anche 6 piccoli pescherecci ormeggiati accanto sono andati distrutti. Rappresentavano la loro unica fonte di sopravvivenza dei pescatori”. Il progetto dell'Arca, piccola nave costruita nel porto di Gaza, era nato per trovare rimedio al blocco della Flottilla da parte della marina israeliana. “Il nostro scopo era caricarla di prodotti agricoli e tessili locali per portarli a coloro che li avevano acquistati per solidarietà. Era già virtualmente stipata di spezie e tessuti. Molti europei avevano aderito e a settembre avremmo provato a rompere il blocco e portarli a destinazione. Ma ora è impossibile, anche perché non abbiamo i soldi per comprarne un'altra”. del 17/07/14, pag. 15 Dov’è la Farnesina nella guerra a Gaza Giulio Marcon Il commento . Invece di impegnarsi nelle nomine europee, il governo italiano si mobiliti per fermare l’escalation che sta infiammando tutto il Medio Oriente. L’unica soluzione è riconoscere lo stato palestinese La dinamica della guerra in Medio Oriente ha ripreso a galoppare drammaticamente. Prima in Siria, poi in Iraq e ora in Palestina, la pax americana in quell’area non ha proprio funzionato. Chi si ricorda più che la prima guerra del golfo contro l’Iraq (1991) di Bush senior era stata motivata e giustificata — tra l’altro — proprio dall’obiettivo di assicurare stabilità e pace in Medio Oriente. E che la stessa motivazione e giustificazione fu data alla seconda guerra del golfo (2003) di Bush junior? Erano parole al vento, ipocrisie politiche di fronte agli obiettivi molto meno nobili che erano a fondamento di quelle guerre contro Saddam Hussein. E così, gli americani — di fronte a quello che succedeva in Israele e Palestina — dopo qualche inefficace e fallimentare tentativo di alimentare il «processo di pace» (espressione ormai screditata) nell’area 9 mediorientale, hanno assecondato nei fatti i governi israeliani in tutte le loro operazioni più condannabili: l’incremento delle colonie, la costruzione del muro, la violazione dei diritti umani, l’attendismo tattico per giustificare il rinvio di ogni soluzione definitiva. L’Europa è stata a guardare, e così l’Italia. Ora, la ripresa della guerra in Palestina è anche figlia di quella politica e dell’inazione e dell’ipocrisia delle scelte americane ed europee. In Palestina non c’è una guerra tra due stati, ma una guerra asimmetrica, dove una delle due parti è al massimo una entità amministrativa alla quale il governo israeliano non vuole riconoscere lo status di entità statuale. La destra israeliana, con Netanyahu, anche per rilanciare il consenso in caduta presso l’opinione pubblica, ha sposato la causa della guerra e dell’escalation militare. Con l’obiettivo — tra gli altri — di mettere in crisi il governo di unità nazionale e la nuova alleanza, di nuovo traballante, tra Hamas e Fatah. L’Italia — troppo distratta alla Farnesina dalle nomine dei nuovi commissari — si è ancora una volta, come negli ultimi anni, distinta per l’opacità della propria iniziativa e per la subalternità alla strategia americana. Renzi ha giustamente ricordato l’esigenza di garantire la sicurezza del popolo israeliano, ma si è dimenticato di affermare la necessità di assicurare la sicurezza del popolo palestinese: in pochi giorni sono oltre 210 le vittime civili a Gaza e più di 1500 feriti. Solo nella giornata di ieri a Gaza i missili hanno ucciso 6 bambini che giocavano a pallone in spiaggia. Avevano dai 9 ai 15 anni. La ministra degli Esteri Mogherini è andata a visitare in Israele una casa colpita da un missile di Hamas, ma perché non si è recata anche a Gaza per rendersi conto delle distruzioni causate dai missili israeliani? E perché il governo italiano continua a vendere armi al governo italiano? A un paese in guerra le armi non vanno vendute. Ieri, la Rete della Pace e la Rete Disarmo, hanno organizzato fiaccolate in moltissime città italiane, per chiedere la fine della guerra, degli attacchi alle popolazioni civili e per far ripartire un negoziato vero che porti all’unica soluzione possibile: il riconoscimento dello Stato palestinese nella sicurezza dei due popoli. Questo è l’orizzonte nel quale si dovrebbero muovere la diplomazia italiana e quella europea. Arginando estremismi e radicalismi — alimentati dalle condizioni di ingiustizia e di sofferenze durate sin troppo a lungo — ma anche snidando la strategia di un governo, quello israeliano, non intenzionato a porre fine all’occupazione dei territori palestinesi, a non interrompere la costruzione di nuove colonie e a non porre termine alla violazione dei diritti umani. È qui che bisogna intervenire per sradicare le cause della guerra attuale. Del 17/07/2014, pag. 1-15 LA FOTOGRAFIA Gli innocenti ADRIANO SOFRI LE PAGINE di ieri si aggiornavano con titoli e foto su quattro bambini uccisi a Gaza su una spiaggia. Una di queste fotografie è specialmente difficile da guardare. PER il modo in cui il colpo ha schiacciato il viso nella sabbia sporca, ha invertito il sopra e il sotto, il davanti e il di dietro degli arti. Si sceglierà di non pubblicarla quella foto, di sostituirle un’altra, che mostri quello che è accaduto, e però si tenga un passo di qua dal troppo orrore. Ci si interrogherà anche su come sia stata scattata, sul fondale di spiaggia vuota, prima dell’impulso a correre a toccarlo, ricomporlo, sollevarlo. 10 Su tutto ci si interroga in questa quarta guerra di Gaza, una specie di Biennale dell’odio e del furore. Sulle fotografie falsificate, sulla provenienza dei proiettili, sulle intenzioni reciproche. Ci si interroga su tutto perché niente ha senso. Ieri i morti, dopo nove giorni, avevano superato i 200. Nella scorsa edizione della Biennale di Gaza, 2012, erano morti in 177 in una settimana, 26 erano bambini. Questa volta, secondo fonti palestinesi o Save the Children, i bambini uccisi sarebbero uno su cinque, dunque già una quarantina. Mentre lo scrivi, «una quarantina », senti la nausea. È una lugubre, stolida coazione a ripetere, dicono i commenti. C’è una provocazione, o un pretesto, Israele interviene e punisce Hamas e le sue piazzeforti, poi si ritira, e così via. Ma non è vero che la storia si ripeta uguale. Ogni volta è diverso, e peggiore. La gittata dei razzi e dei missili di Hamas e della Jihad, che già due anni fa toccavano Tel Aviv e lambivano Gerusalemme, cresce ogni volta. La regione che circonda la breve terra in cui israeliani e palestinesi si guardano si conoscono e si odiano stringe a sua volta una morsa attorno a Israele: se in Egitto i Fratelli Musulmani sono banditi e condannati a morte e hanno lasciato orfana Hamas, in Siria e in Iraq l’estremismo dispotico e jihadista infuria, e la Giordania gremita di milioni di profughi ne sente il fiato. E infine, a ogni nuova eruzione, la violenza si accumula nel sottosuolo, esacerbata dal rancore e dalla vendetta. La grande maggioranza delle vittime dell’azione militare israeliana è di civili. Sono civili i bersagli prediletti dei lanci di razzi e missili di Hamas. Anche le parole sono consunte, e pronte a tradire le intenzioni e la verità, come la «sproporzione». Uno a duecento, i morti israeliani e palestinesi. Uno a mille o a duemila, i prigionieri scambiati. E così via. I governanti israeliani vantano di tenere supremamente alle vite umane, che i capi di Hamas sfruttano cinicamente come scudi e martiri della loro propaganda. Ma i responsabili israeliani possono dire di tenere altrettanto alle vite dei civili e dei bambini palestinesi? Non è affar loro — e nostro? Hamas impiega le sue risorse a moltiplicare i razzi da far piovere sui villaggi e le città israeliane piuttosto che per costruire rifugi o ripari al popolo che pretende di guidare: questo esime il governo di Israele da una responsabilità verso quello stesso popolo? Il governo di Israele avverte i civili palestinesi dei propri attacchi: ma c’è, non che un diritto, un resto di umanità nell’ingiunzione a centomila persone, famiglie di vecchi e bambini, donne e uomini, di evacuare le loro case e cercare scampo altrove, nel fazzoletto di terra più affollato del mondo? Il governo di Israele accetta la tregua mentre Hamas, o la sua fazione più truce e potente, la respinge: ma la stessa eventualità di concordare una tregua cui sia Israele che Hamas si uniformino non segnala la necessità e l’inevitabilità di riconoscersi, pur con tutta l’inimicizia e il disprezzo possibile, e trattare reciprocamente? Che la striscia di Gaza sia una prigione a cielo aperto non è solo un modo di dire, e tanto meno un modo di dire propagandistico e fazioso. È una descrizione istruttiva e rivelatrice, se solo i responsabili israeliani volessero prenderla in parola nel proprio stesso interesse. Dentro una prigione che si abbandona per sorvegliare solo i muri di cinta e gli accessi e impedire le evasioni, a rischio di morte — com’è a Gaza, per la stessa possibilità di passare in Cisgiordania e viceversa — succede come in ogni galera che si pretenda di governare lasciandola a se stessa: che il potere passa ai più incalliti e feroci criminali, e i deboli e inermi non possono che divenirne ostaggi, o confidare nella loro brutalità. L’esempio è istruttivo, a condizione di ricordare che i quasi due milioni di persone della Striscia non sono detenuti per aver commesso qualche reato ed esserne stati giudicati. Sono il deposito innocente di una disgrazia terribile. I quattro bambini di ieri si sono guadagnati un titolo, come figure improvvisamente affiorate e colorate dentro un’infinita processione grigia: perché erano su una spiaggia, perché era il nono giorno, e chissà perché ancora. Come i tre ragazzi israeliani rapiti e trucidati. Come il ragazzo palestinese linciato. Si può andare indietro senza fine, in questa processione luttuosa interrotta da qualche nome scandito, da qualche immagine colorata. Questo significa che si può andare avanti senza fine, nel futuro, vedendo già espandersi il 11 cimitero di fosse comuni interrotto qua e là da qualche tomba guarnita di un nome e una data, qualche figurina rosa o celeste, o verde o rossa? I bambini morti sono invidiati dai bambini vivi. I bambini vivi imparano ad aver paura e a odiare. Del 17/07/2014, pag. 1-7 Il confine della crudeltà PAOLO DI PAOLO «DESIGNARE UN INFERNO NON SIGNIFICA, OVVIAMENTE, SAPERE COME LIBERARE LA GENTE da quell’inferno, come moderare le fiamme», ha scritto Susan Sontag. È ancora una volta quest’avverbio - «ovviamente» - il punto di partenza e di arrivo di ogni riflessione davanti all’orrore prodotto dagli uomini. Quattro bambini giocano su una spiaggia: vengono uccisi da un raid israeliano. Entrano in una conta macabra. Un numero di vittime che lievita giorno per giorno. Più di duecento in nove giorni. Duecento vite, duecento storie, ognuna diversa dall’altra, di cui non sappiamo niente. Ma la morte di quattro bambini ci arriva alle orecchie, prima che agli occhi, come una sveglia che suona più forte. Anche fuori da qualunque conflitto, quattro bambini sembrano fare la differenza. Si alza il livello di guardia, la temperatura emotiva: l’istinto ci fa dire «i bambini no», come di fronte a un’ingiustizia più ingiusta, a un crimine più radicale. Ma dov’è il limite di un’ingiustizia? C’è un’ingiustizia più accettabile di altre? Là dove muoiono quattro bambini è l’inferno: lo designiamo con facilità, con certezza ma, per tornare a Sontag, designarlo non significa - ovviamente - sapere altro che questo. Ed è proprio quell’«ovviamente» che dovrebbe farci disperare; se possibile (ma è un paradosso) più di ciò che abbiamo già perduto, o che altri hanno già perduto, dovrebbe disperarci ciò che stiamo perdendo, che continuiamo a perdere. Salta da troppo tempo, da decenni e decenni, in quella terra, la matematica (ma è una matematica?) dei torti e delle ragioni: i conti non tornano comunque, non tornano mai. Resta, per chi è toccato dalla tragedia, soltanto il dolore: arriva dopo lo sgomento e la rabbia, ed è diverso dalla nostra indignazione, anche da quella più accesa. Non c’è nessuna ragione politica che lo riscatti, né la logica ferrea, ottusa, delle vendette e delle rappresaglie, delle «lezioni» che un paese dà all’altro per via militare. Quattro bambini che muoiono su una spiaggia, a luglio, a Gaza, restano fuori da ogni astrazione politica e tattica: stanno lì a confermarci - lo sapevamo - che la violenza non fa distinzioni; ci raccontano l’esproprio più immane, più assurdo che uno stato di guerra impone agli esseri umani. È la normalità della vita a essere strappata via, i giorni che chiamiamo qualunque - e dentro quei giorni qualunque, una spiaggia, a Gaza, a luglio, con quattro, con venti, con cento bambini, ragazzi, adulti che giocano a pallone, che provano a vivere. Del 17/07/2014, pag. 16 Il battaglione di caschi blu dell’Aja consegnò trecento uomini ai serbi I parenti delle vittime saranno risarciti “Olanda complice del massacro di Srebrenica” Storica condanna 12 PAOLO G. BRERA DICIANNOVE anni dopo il massacro di Srebrenica, l’Olanda è stata condannata a risarcire le famiglie di trecento uomini e ragazzi bosniaci musulmani: il battaglione olandese dell’Onu al quale si erano affidati cercando scampo li consegnò al generale serbo bosniaco Ratko Mladic, il boia che a Srebrenica scrisse con il sangue di ottomila persone la pagina più orribile dalla fine della seconda guerra mondiale. Se è il principio, quello che conta, allora ieri è stata una di quelle giornate che tolgono una spina dolente dalla corona della Storia. Ma la sentenza pronunciata dal tribunale civile dell’Aja è stata accolta in agrodolce dalle “madri di Srebrenica” che hanno promosso la causa: se condanna l’Olanda per l’oscenità di quella consegna sostenendo che i soldati del “Dutchbat” non potevano ignorare che i rifugiati sarebbero stati uccisi, la assolve dal non avere impedito con il suo battaglione Onu i rastrellamenti, gli stupri e il massacro di tutti gli altri. Il genocidio si consumò in due settimane: divisi dalle donne, i maschi fra i 14 e i 65 anni furono uccisi e sepolti. I loro corpi vennero poi disseppelliti e dispersi in fosse comuni nei boschi, tentando di cancellare ogni traccia. «La Corte — dice Munira Subasic, rappresentante delle “Madri” — non ha fatto giustizia. Com’è possibile dividere le vittime e dire a una madre che lo Stato olandese è responsabile della morte di suo figlio, che si trovava da un lato del filo spinato, e non di quella del figlio dall’altro lato?». Il 13 luglio del 1995 quel filo spinato divise le speranze, non l’esito della storia. Il battaglione olandese dell’Onu di stanza a Potcari, nella periferia dell’enclave di Srebrenica, aveva il mandato di proteggere i quarantamila musulmani assediati dalle truppe di Mladic e dai miliziani della “tigre” Arkan, ma non aveva il potere di rispondere al fuoco. Nel suo accampamento il battaglione aveva accolto migliaia di donne e bambini, e poco più di trecento uomini che consegnò ai serbo bosniaci: «Può essere detto con sufficiente certezza — ha sostenuto ieri la Corte — che se il Dutchbat avesse permesso ai rifugiati di restare nella base quegli uomini sarebbero ancora vivi. Cooperando alla loro deportazione», invece, «ha agito illegalmente». Tutti gli altri, quelli che tentarono una fuga impossibile nei boschi o che furono scovati casa per casa, furono uccisi allo stesso modo. Da due anni Srebrenica era stata dichiarata «area sicura» per i civili, ma non lo era affatto: per le altre ottomila vittime, però, il Dutchbat non è colpevole. Del 17/07/2014, pag. 3 Libero scambio con gli Usa il primo nodo da sciogliere Fermate i negoziati sul libero scambio Ue-Usa». Martedì a Strasburgo Jean-Claude Juncker non ha fatto neanche in tempo ad incassare il voto di fiducia degli eurodeputati alla presidenza della Commissione che lo scontro su una delle questioni più importanti della legislatura entrante era già iniziato. Gli europarlamentari della Sinistra unita (Gue) hanno sventolato i cartelli «NOTOTTIP», ovvero no al Transatlantic Trade and Investment Partnership tra Bruxelles e Washington. Una posizione condivisa con sfumature diverse da Verdi, euroscettici ed estrema destra. Tra i Socialisti e Democratici e tra gli stessi eurodeputati Pd le posizioni sono più costruttive ma distinte tra chi guarda a sinistra, come Sergio Cofferati, e chi teme di appiattirsi su posizioni ideologiche, come Alessia Mosca. Sempre martedì una coalizione di organizzazioni ha avviato la campagna per raccogliere le firme con l’Iniziativa Europea dei Cittadini per fermare l’accordo. In Italia la battaglia è portata avanti da Attac Italia, Fairwatch e dal Forum dei Movimenti per l’Acqua. I negoziati 13 sull’accordo commerciale Unione Europea-Stati Uniti, avviati l’anno scorso, mirano ad abolire tutte le tariffe doganali e ad omologare gli standard di prodotti e servizi per favorire gli scambi tra le due sponde dell’Atlantico. Le due economie rappresentano quasi la metà del Prodotto interno lordo mondiale e il 30% degli scambi. Però con la crescita dell’Asia e dei Paesi emergenti la fetta occidentale della torta si riduce ogni giorno di più, così come la possibilità di imporre i propri standard. Il Ttip dovrebbe essere siglato entro un paio di anni al massimo ed entrare a pieno regime nel 2027. A quel punto, secondo uno studio della Commissione europea contestato dagli oppositori dell’accordo, si stima che i vantaggi economici comporterebbero un aumento annuale complessivo del Pil pari allo 0,5% per l’Ue (119 miliardi di euro) e allo 0,4% (95 miliardi di euro) per gli Stati Uniti. In ballo ci sono molti posti di lavoro in più, ma i rischi sono un livellamento al basso di standard e diritti. I recenti scandali sullo spionaggio statunitense hanno infiammato il dibattito proprio a ridosso del sesto round negoziale in corso questa settimana a Bruxelles. «Non sacrificherò gli standard sociali, di sicurezza, sulla salute e sulla protezione dei dati o la nostra diversità culturale sull’altare del libero commercio», ha rassicurato Juncker nel suo discorso a Strasburgo, aggiungendo però che è «anacronistico» che ci siano ancora dazi e standard differenti tra Stati Uniti e Unione Europea. POSIZIONI Ieri l’eurodeputato Pd Sergio Cofferati e quello della Sinistra Unita (lista Tsipras) Curzio Maltese hanno diffuso una dichiarazione congiunta, da loro stessi definita «inedita e importante», per dire che l’accordo andrebbe bene sono a certe condizioni: «1) Maggiori diritti per i lavoratori; 2) Garanzie riguardo alla protezione dei dati personali; 3) Maggiori tutele dei consumatori; 4) Massima trasparenza nelle trattative e con il pieno coinvolgimento del Parlamento Europeo; 5) Misure favorevoli per il nostro tessuto produttivo, senza istituire un sistema di risoluzione delle dispute tra investitori e stati parallelo rispetto alle normali procedure legali». Oggi spiegano «nessuna di queste certezze è acquisita». Interpellata da l’Unità l’eurodeputata Pd Alessia Mosca, membro della commissione parlamentare per il Commercio internazionale, ha detto di temere «che questo tema diventi ideologizzato, come è successo in altri passaggi della nostra storia come la Bolkestein» (la direttiva sulla liberalizzazione dei servizi, ndr). Una «battaglia ideologica», ha spiegato, «renderebbe difficile fare dei progressi». Il gruppo dei Socialisti e Democratici al momento non ha una posizione unica. «Per quanto mi riguarda e per quanto riguarda la posizione di gran parte del nostro Paese - ha continuato Mosca - noi dovremmo guardare con particolare interesse a che questo accordo venga concluso nelle migliori modalità perché, se ben fatto, questo darebbe un grandissimo impulso al nostro Paese». La crescita, ha concluso l’eurodeputata, non può basarsi solo sulla domanda interna e quindi «soprattutto per il tipo di produzione che noi facciamo, molto richiesta in giro per il mondo, dobbiamo fare in modo che vengano agevolate le nostre esportazioni ». Del 17/07/2014, pag. 4 La Mogherini da Gerusalemme liquida le critiche: polemiche strumentali. Nella notte telefonata di Renzi da Bruxelles L’attesa del ministro “Io filo-russa? Ma Putin l’ho visto dopo gli ucraini” GOFFREDO DE MARCHIS ROMA 14 L’appuntamento telefonico con Renzi è per la notte, un contatto tra Bruxelles e Gerusalemme. Federica Mogherini non può fare altro che aspettare e lavorare al dossier mediorientale. «Non mando messaggi, non ho scritto lettere per convincere qualcuno. La partita è nelle mani dei capi di governo e di Matteo, com’è giusto che sia». La serata in Israele non prevede appuntamenti istituzionali particolarmente delicati, dopo il pomeriggio dedicato soprattutto al colloquio con Netanyahu. Ma già oggi il ministro degli Esteri sarà a Ramallah e Betlemme, la sera arriverà ad Amman, venerdì concluderà la sua missione di Stato in Egitto. Un programma fitto con un orecchio alle notizie che arrivano dal vertice europeo dove si decide se la Mogherini sarà o meno il prossimo “ministro degli Esteri” della Ue, una delle cariche principali dell’Unione. Le critiche che arrivano da alcuni Paesi dell’Est e gli attacchi del Regno Unito non la turbano più di tanto. «Anche perché so che non sono contro la mia persona - spiega ai collaboratori -. Sono polemiche strumentali che investono l’Italia e il suo ruolo». Non ha sbagliato mosse. L’accusa di essere filo-russa le strappa persino un sorriso. Rientra nella sfera dei paradossi della politica, delle lotte di potere dentro la Ue. Lei ha una storia improntata all’atlantismo, testimoniata dal suo lavoro, durato parecchi anni, come anello di congiunzione tra il centrosinistra italiano e i democratici americani. Una storia difficile da riscrivere in pochi giorni. «Comunque io sono stata prima in Ucraina e poi a Mosca da Putin...», osserva. Una cronologia che conferma la strumentalità delle critiche. In una fase come questa è abbastanza naturale che il capo del Cremlino cerchi sponde in Europa. Lo ha fatto anche con la Farnesina. La crisi in Ucraina divide la comunità internazionale e Putin prova a sedurre partner europei a tutto campo. Ma la Mogherini non si è lasciata sedurre. E se il sospetto è che la prudente posizione italiana sulle sanzioni sia da ricondurre a un’asse Roma- Mosca, beh è un sospetto troppo fragile. L’Italia e la Germania hanno frenato sulle sanzioni, sponsorizzando un intervento graduale contro la Russia, per non bruciarsi subito una soluzione negoziale. «Per avere margini di manovra e non far precipitare la situazione...», è la spiegazione che danno alla Farnesina. I giornali inglesi non sono teneri. Ma Mogherini comprende che il primo ministro britannico Cameron cerchi di dimostrare il suo peso dopo il cattivo risultato delle Europee e la sconfitta su Juncker. Le contestazioni di alcuni paesi dell’Est sono invece legate a «legittime» aspirazioni, a candidati alternativi che possono arrivare dalle loro classi dirigenti. Ha un pretendente per l’Alto rappresentante della politica estera della Ue la Polonia con Ratoslaw Sikorski. Ce l’ha anche la Bulgaria che fa correre una donna come la Mogherini: è Kristalina Georgieva, già commissario nell’ultima legislatura. «Fanno la loro battaglia...», dice la Mogherini alle persone del suo staff. Tutto normale. Sono le regole del gioco. Meno normale, più legato al gioco di specchi e di sottigliezze delle euroburocrazie, è la critica per la giovane età e l’inesperienza. Non aveva un curriculum diplomatico fittissimo nemmeno l’attuale Mrs Pesc Catherine Ashton, che prima di essere scelta come ministro degli Esteri Ue, era stata appena un anno commissario europeo. Quindi, l’ostacolo non può essere quello e se lo è non è insormontabile. Il “derby” con Enrico Letta invece si gioca tutto nella stanza dei capi di governo e Mogherini se ne tiene lontana. Non fa parte del giudizio che si può dare del suo lavoro e della sua persona. La giornata è stata lunga, fitta di impegni. Ma il titolare della Farnesina non nega di avere un pensiero alla decisione dell’Europa. «Certo, gli echi di questa polemica li sento, ne sono consapevole ma per me è solo un rumore di fondo», racconta in una pausa tra gli incontri. «Sono fatta così, questo è il mio carattere, sono una persona tranquilla, e soprattutto sono concentrata sul lavoro che faccio: e il lavoro che faccio oggi è questo, ed è a questo che penso. Se un giorno ne avrò altro mi concentrerò su quello con altrettanta dedizione. Ma oggi il mio lavoro è questo ». Dunque oggi si ricominci, in uno scenario di guerra. «Ora la priorità numero uno è fermare l'escalation di violenze, il lancio di razzi su Israele. D'altra parte siamo molto preoccupati per le vittime 15 civili a Gaza, la situazione nella Striscia», spiega la Mogherini. E per verificare la posizioni di tutte le parti in campo il ministro sarà anche in Giordania e al Cairo. del 17/07/14, pag. 3 Il Ppe sfida Renzi: vuole Letta Anna Maria Merlo Unione europea. Il presidente del Consiglio uscente, Van Rompuy, preme per l’ex premier. Il vertice Ue si aperto con la discussione sulle nuove sanzioni alla Russia, accusata di «non cooperazione» sulla crisi dell’Ucraina Quadratura del cerchio con 28 caselle da riempire per i topjobs della Commissione, cercando un equilibrio tra Stati, piccoli e grandi, appartenenza politica e di genere. E per di più, sul tavolo del Consiglio europeo di ieri sera, all’inizio della cena l’indigesta discussione sulle nuove sanzioni alla Russia, accusata di «non cooperazione» per la crisi dell’Ucraina. Una bozza sulla Russia prevede lo scatto a un livello di sanzioni che potremmo chiamare due e mezzo, in particolare con tagli sui fondi per nuovi progetti di cooperazione tra Ue e Mosca, cioè gelo dei programmi della Bei e della Berd, oltre a una lista nera delle personalità russe e ucraine colpite perché responsabile dell’escalation, che già venerdì scorso è stata allungata di 11 nomi. Ma per il vice-presidente del gruppo Ppe all’Europarlamento, Jacek Saryusz-Wolski, le nuove sanzioni dovrebbero contenere anche il blocco della vendita di armi e di veicoli militari alla Russia, cioè un chiaro passaggio alla fase 3. Ma per Parigi la penalità sarebbe enorme: la Francia deve consegnare due navi da guerra a Mosca, già pagate e i russi sono sul cantiere navale per istruirsi al loro funzionamento (un eventuale blocco della vendita, che comporterà anche l’annullamento dell’ipotesi dell’ordinazione di altre due navi, metterebbe a rischio 1400 posti di lavoro). Ma per David Cameron – seguito dai paesi dell’est – il vero tema del Consiglio di ieri sera erano le sanzioni a Putin. Per il grande mercato delle nomine, all’apertura del vertice tutto era ancora in alto mare, alla ricerca di un “equilibrio” globale. L’Italia è decisa a difendere i colori di Federica Mogherini alla successione di Catherine Ashton come Alta rappresentante per la politica estera. Anche Angelino Alfano ha affermato che «l’Italia ha la competenza per guidare la politica estera della Ue, Mogherini è una scelta buona e valida». Ma i Paesi dell’est restano ostili, per la posizione morbida dell’Italia nei confronti della Russia, a causa del progetto Southstream, guidato da Eni. Il premier della Repubblica ceca ha difeso apertamente la candidatura del polacco Sirorski. A Renzi, chiede «rispetto», potrebbe venire fatta la proposta velenosa (per il premier) di Enrico Letta alla presidenza del Consiglio Ue (ma i tempi sono lunghi, Van Rompuy resta fino al 1° dicembre). La Germania ha cambiato posizione. Angela Merkel preferirebbe raggiungere un accordo globale. La decisione su Mr o Mrs Pesc condizionerà le scelte future: il nuovo presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, ha dato tempo agli stati fino a fine agosto per proporre i rispettivi candidati. Un altro vertice potrebbe venire convocato il 23 luglio, per sminare un po’ il terreno se dalla cena di ieri sera non venissero decisioni concrete. In ballo c’è anche il posto importante di presidente del Consiglio Ue, che potrebbe andare alla danese Helle Thorning-Schmidt, se i socialisti riusciranno a strapparlo (ma il polacco Donald Tusk sembra credere nella sua buona stella). La questione per Mogherini resta sempre la «competenza». Elmar Brok, presidente della Commissione esteri 16 dell’Europarlamento, deputato Csu del gruppo Ppe e consigliere di Merkel, ha affermato che «come Alto rappresentante dovremmo avere qualcuno con esperienza in politica estera come Georgieva, Guigou o Sirorski». Kristalina Georgieva non è difesa dal proprio paese, la Bulgaria (è del Ppe, il premier, che avrà elezioni anticipate ad ottobre, è socialista). La Germania tira in ballo la francese Elisabeth Guigou perché vuole sbarrare la strada a Pierre Moscovici, che Hollande vorrebbe piazzare agi Affari economici e monetari. Il ministro delle finanze Wolfgang Schäuble ha espresso chiaramente «dubbi» sulle capacità della Francia a gestire gli Affari economici e monetari: Moscovici è considerato a Berlino tra i responsabili delle derive dei deficit pubblici francesi (che non rientreranno nel 3% neppure nel 2015) e per di più i tedeschi vedono di pessimo occhio Moscovici commissario che dovrà, probabilmente, decidere sanzioni punitive contro la Francia per un nuovo anno di «deficit eccessivi». La Germania, dal canto suo, propende per conservare l’Energia, dove dovrebbe ricandidare Günther Oettinger. I nuovi commissari dovranno poi passare l’esame di fronte all’Europarlamento, che può bocciare per incompetenza (era successo a Formigoni). Ieri, il presidente dell’Europarlamento, Martin Schultz, ha per esempio messo in guardia David Cameron, che ha già scelto il nome del commissario britannico: Strasburgo potrebbe bocciare Lord Hill, considerato troppo euroscettico per far parte della Commissione Juncker. del 17/07/14, pag. 6 Il governo libico: «Vogliamo i caschi blu» Geraldina Colotti Da Tripoli a Bengasi, non si fermano le violenze in Libia. Per ragioni di sicurezza, la missione delle Nazioni unite ha evacuato il personale di stanza nel paese. Impotente di fronte allo sfascio provocato dagli scontri tra mafie, fazioni e milizie, il governo spera però che l’Onu ritorni. E si appella agli impegni presi durante la rivolta contro Muammar Gheddafi: «Nel 2011 — ha detto il portavoce del governo, Ahmed Lamine — le Nazioni unite hanno votato una risoluzione per aiutare i libici contro il regime. La prima cosa, allora, è andare dall’Onu perché ci aiuti a ristabilire l’ordine». Nei giorni precedenti, Tripoli aveva lasciato intravvedere la possibilità di chiedere un nuovo intervento internazionale, ma non era entrata nel merito quanto alla forma e ai destinatari. E il Segretario di stato Usa, John Kerry aveva dichiarato di «lavorare duro» per porre rimedio a una situazione «pericolosa», ma senza spingersi oltre. La Francia ha detto di aver «preso nota» della situazione, ma che toccava prima di tutto all’Onu affrontarla. E ora Lamine non esclude la possibilità di chiedere ufficialmente la presenza dei caschi blu: «Se è necessario — ha detto — faremo la domanda ufficialmente al Consiglio di sicurezza». Il timore è che gli scontri degenerino un’altra volta in guerra civile. A Tripoli, continuano i combattimenti per il controllo dell’aeroporto. A Bengasi, dalla metà di maggio, le forze dell’ex-generale Khalifa Haftar si scontrano con le milizie jihadiste. Nella capitale, il governo ha tentato una mediazione per far cessare i combattimenti, ma nessuno lo ha ascoltatoadistes. «C’è una parte che ha perso le elezioni e che tenta di avere un’influenza in altro modo», ha detto Othmane Ben Sassi, ex membro del Cnt ( braccio politico della rivolta contro Gheddafi, nel 2011), alludendo agli islamisti. 17 del 17/07/14, pag. 19 La Francia e il coprifuoco per i tredicenni A cominciare da ieri sera, i ragazzini di età inferiore ai 13 anni sorpresi per strada a Suresnes (a Nord-ovest di Parigi) tra le 23 e le 6 del mattino saranno fermati, riportati a casa e la multa — oltre che la ramanzina — sarà riservata ai genitori. Lo ha deciso il sindaco Ump (centrodestra) Christian Dupuy, dopo che l’anno scorso una banda di adolescenti appassionati di petardi aveva finito con il dare fuoco a una villetta. Con l’estate in Francia arriva la stagione del coprifuoco per i ragazzini. Il primo a deciderlo quest’anno è stato il sindaco di Béziers, Robert Menard, eletto con i voti del Front National. Quando a maggio Menard ha emanato la sua ordinanza sull’ordine pubblico, è stato accusato di riflesso autoritario, di scegliere una misura liberticida e repressiva come primo atto del suo mandato. «Sono sciocchezze alle quali possono credere giusto quattro bobo parigini », ha detto subito Menard. I «bobo» sono una categoria importante nel dibattito socio-politico francese: li ha identificati e descritti il columnist del New York Times, David Brooks, in un libro di ormai 14 anni fa che descriveva il tipo umano del «bourgeois bohème», il borghese (quasi sempre parigino) con il portafoglio a destra e il cuore a sinistra, facoltoso e integrato nel sistema economico ma affezionato alle parole d’ordine e ai valori della sinistra alternativa e ecologista. Il termine «bobo» ha avuto una fortuna straordinaria in Francia come versione aggiornata di «radical chic», usato quasi quotidianamente dagli esponenti del Front National per denunciare l’ipocrisia e il conformismo politicamente corretto delle élite parigine. La Lega dei diritti dell’uomo si è opposta in tribunale contro l’ordinanza di Menard, ma nel frattempo decine di altre piccole città di tutta la Francia — governata da sindaci di destra, centro e pure sinistra — hanno adottato misure analoghe. Florent Montillot, vicesindaco centrista di Orléans, ha decretato il coprifuoco per i minori già dal 2001. «Fa parte di un’iniziativa globale che punta a sottrarre i bambini e giovani adolescenti alla scuola della strada per restituirli all’educazione dei genitori e della scuola — dice al Figaro —. Si raccolgono i bambini che vagano per strada nella notte con l’obiettivo di responsabilizzare i genitori, e poi seguire i ragazzini a scuola durante l’anno». Il coprifuoco per i bambini e adolescenti — il limite di età varia dai 13 ai 16 anni — fa parte delle invenzioni americane che i francesi adorano detestare ma alla fine adottano, come McDonald’s (la Francia è il secondo mercato mondiale, dopo gli Stati Uniti, ndr). Inaugurata una ventina di anni fa, la politica del coprifuoco per ridurre la delinquenza giovanile ha attraversato negli Usa diverse fasi, dall’entusiasmo iniziale alla disillusione per mancanza di risultati quantificabili all’abbandono per mancanza di fondi. Ma in questi giorni viene rilanciata a Baltimora, una delle città della costa Est dove più alta è la criminalità giovanile, per provare a ridurre gli atti di teppismo. Al di qua dell’Atlantico, molte città francesi fanno lo stesso. Provano a combattere la «cultura della strada» decantata in tante canzoni rap francesi, e ribadiscono il principio che il posto dei bambini e dei preadolescenti, la notte, è a casa. Sébastien Pietrasanta è stato il primo sindaco socialista a instaurare il coprifuoco per i minori di 18 anni a Asnières-sur-Seine, alle porte di Parigi, assieme al collega comunista del comune vicino di Gennevilliers. «Lo abbiamo fatto nel 2011 in un contesto particolare, un ragazzo era stato ucciso e c’erano state violenze di strada. Io credo che non si debba essere ideologici. Il coprifuoco è una misura di destra, dicono. Perché, è normale che un ragazzino vagabondi per strada dopo le 10 di sera? Io non ho esitato a convocare i genitori per dirgliene quattro. Stefano Montefiori 18 del 17/07/14, pag. 6 Brasile Il VI vertice dei paesi emergenti “Siamo la forza del cambiamento” Geraldina Colotti Un grosso passo avanti nelle relazioni economiche e politiche tra i paesi del Sud. Il gruppo dei Brics — formato da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica -, ha formalizzato a Fortaleza (nella parte nordorientale del Brasile), i due principali obiettivi previsti dal VI vertice: la creazione di una Banca per lo sviluppo e quella di un fondo di riserva per i paesi membri in crisi valutaria. La prima sarà operativa nel 2016 e avrà la sua sede a Shangai. Il secondo partirà con un fondo di 100.000 milioni di dollari (72 milioni di euro), a cui i paesi membri hanno contribuito in proporzione: 41 miliardi di dollari la Cina, 18 tutti gli altri, tranne il Sudafrica che ne ha versati 5. Progetti tesi «all’inclusione e allo sviluppo sostenibile», in base al tema del vertice e rivolto sia ai paesi emergenti che a quelli in via di sviluppo. Un ulteriore obiettivo è quello di rafforzare il controllo sulle proprie fonti di energia e sulle materie prime. Durante il vertice, i Brics hanno firmato accordi anche sulla questione della sicurezza e della lotta al narcotraffico. Secondo la dichiarazione di Fortaleza, sottoscritta dai cinque paesi emergenti, l’obiettivo è quello di convertire i Brics e i loro partner in una «importante forza di cambiamento» rispetto alle strutture di governo delle istituzioni multilaterali, il cui sistema decisionale ha consentito il predominio degli Stati uniti e di alcune nazioni europee. Una forza capace di «generare una crescita globale più inclusiva e di disegnare un mondo più stabile, pacifico e prospero». Per le loro dimensioni, per il peso delle loro economie e per l’influenza che esercitano nelle loro regioni e sempre di più nel mondo, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica «non possono restare a fuori dalle grandi decisioni internazionali», ha detto la presidente brasiliana Dilma Rousseff. Tuttavia, ha aggiunto, «il nostro attivismo non deve essere confuso con l’esercizio di un potere egemonico o con un desiderio di dominio. E neanche dev’essere inteso come un’opzione strategica contraria agli interessi di altri paesi. La forza del nostro progetto sta nel suo potenziale positivo di trasformazione del sistema internazionale, che vogliamo più giusto e ugualitario». E prima, ai giornalisti che le chiedevano se i Brics fossero contro il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, Rousseff ha risposto: «Non siamo contro nessuno, ma a favore di noi stessi». Un «noi» non facile da configurare, nel quadro degli specifici interessi dei paesi emergenti: che hanno comunque iniziato trovando una mediazione tra le richieste dell’India (che avrebbe voluto ospitare la sede della Banca per lo sviluppo, ma ha perso con la Cina) e quelle del Brasile, a cui sarebbe dovuta toccare la prima presidenza e che invece ha dovuto cederla all’India. «La Russia è interessata a un’America latina unita, forte, economicamente sostenibile e politicamente indipendente, che si trasformi in una parte importante del mondo policentrico ed emergente», ha dichiarato il presidente russo Vladimir Putin. E anche il suo omologo cinese Xi Jinpeng, che negli ultimi anni ha consolidato «relazioni fruttuose» in Venezuela e in altri paesi del Latinoamerica, ha sottolineato l’intenzione di «far sentire più forte la voce dei paesi in via di sviluppo nelle istituzioni multilaterali». Ieri si sono svolti incontri e prospettati accordi con i paesi della Unasur. Sono arrivati a Brasilia 12 leader sudamericani, tra i quali il presidente del Venezuela, Nicolas Maduro, quello della Bolivia, Evo Morales, e dell’Ecuador, Rafael Correa. Guidano governi che si richiamano al «socialismo del XXI secolo», hanno messo al centro una più equa 19 ridistribuzione delle risorse e la sovranità delle scelte rispetto ai diktat delle istituzioni internazionali. E per questo sono spesso bersaglio dei tribunali di arbitraggio internazionali, che accolgono le denunce delle grandi corporations, come nel caso dell’Ecuador con la Chevron. La voce di questi paesi, che fanno blocco negli organismi regionali anche a livello politico e che intrattengono forti relazioni con i Brics, potrebbe aprire maggiori opportunità di scelte in diversi ambiti e temi: da quello ambientale (il blocco Brics costituisce il maggior produttore mondiale di energia e il principale consumatore di idrocarburi), a quello del disarmo, nel destinare gli aiuti allo sviluppo e non all’interventismo. Per questo, i Brics hanno espresso un pronunciamento forte contro il massacro dei palestinesi messo in atto da Israele e contro l’occupazione. 20 INTERNI Del 17/07/2014, pag. 6 LA GIORNATA Quasi 8 mila emendamenti tra Sel e ribelli Fi. Asse sul referendum propositivo La Boschi apre al presidenzialismo, ma insorge la sinistra del partito Ostruzionismo e decreti a rischio i dissidenti Pd non si piegano e il voto sul Senato si impantana ROMA Si complica il percorso del ddl Boschi. Nonostante Matteo Renzi abbia nuovamente chiamato i suoi parlamentari a rispettare i tempi e a non ostacolare il cammino delle riforme, il testo del governo rischia di impantanarsi a Palazzo Madama. Il primo risultato è che i tempi si allungano e le votazioni rischiano di far slittare il primo via libera al provvedimento. Il primo scoglio è rappresentato dalla montagna di emendamenti, presentati soprattutto da Sinistra ecologia e libertà e dai ribelli di Forza Italia, sempre più sul piede di guerra. Ieri sono stati depositati circa 7.800 emendamenti, una parte dei quali con chiaro intento ostruzionistico. Senza contare la fila di decreti in scadenza che aspettano l’ok dell’aula di Palazzo Madama prima della pausa estiva dei lavori, prevista entro la prima decade di agosto. In questo clima, è ormai certo che le votazioni sul ddl slitteranno di qualche giorno, forse addirittura a metà della prossima settimana, per concludersi (nello scenario migliore) entro fine mese. A complicare ancora di più il quadro c’è anche l’asse trasversale a favore del referendum propositivo da inserire nella riforme. L’idea è contenuta in un emendamento con prima firma Doris Lo Moro (Pd), nel quale si prevede che i cittadini siano chiamati a pronunciarsi sui disegni di legge di iniziativa popolare che non siano stati esaminati dalla Camera entro dodici mesi. Un progetto sostenuto anche dalla Lega: «Chiediamo a Renzi un referendum propositivo come in Svizzera. Senza, la Lega non voterà questa brutta riforma». Il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi, intanto, rilancia: «Oggi il tema è il nuovo Senato - sostiene in un’intervista ad Avvenire e io sono serena: il treno corre. Mi auguro che non ci siano slittamenti. Una volta approvata questa riforma possiamo passare al tema del presidenzialismo. Chiudiamo, poi apriamo un nuovo tavolo». Non apprezza Vannino Chiti «si scherza con il futuro del Paese» - e neppure Pippo Civati. Del 17/07/2014, pag. 6 L’ultima paura di Palazzo Chigi “Il via libera rinviato a settembre” GOFFREDO DE MARCHIS 21 ROMA Il nemico è il tempo. I dissidenti, secondo Renzi, sono ormai un problema secondario. Il punto è che con 8mila emendamenti è praticamente certo che la riforma del Senato non potrà essere approvata prima dell’estate e slitterebbe a settembre. Tradotto: il premier e il suo governo dovrebbero rinunciare a una scadenza che è allo stesso tempo simbolica e impegnativa sul piano dell’affidabilità riformatrice dell’Italia. Per questo già oggi, nella conferenza dei capigruppo, bisognerà sondare il presidente di Palazzo Madama Piero Grasso. Tocca a lui decidere quando e come far scattare il contingentamento dei tempi. In parole povere, stabilire una data in cui l’esame del provvedimento deve concludersi con un voto. Il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi non si sbilancia. «Valutiamo giorno per giorno, è la strada migliore». Ma l’allarme a Palazzo Chigi è scattato ed è un allarme rosso. L’obiettivo finora è stato quello di non strozzare il dibattito sfuggendo così alle possibili accuse di un confronto negato cvhe sottintende la polemica più generale sull’autoritarismo. Sulla riforma costituzionale è escluso un voto di fiducia. Dunque, la marea di emendamenti e l’ostruzionismo annunciato delle opposizioni mette a rischio non il sì finale ma i tempi ragionevoli del voto. Persino a settembre. Ecco perché nell’esecutivo sono certi che prima o poi il presidente del Senato dovrà intervenire stabilendo una fine della discussione. Ma quando ha intenzione di farlo? Prima o dopo la pausa estiva? L’approvazione entro agosto è fondamentale per il premier, tanto più con il semestre di presidenza italiana in corso. «Presentarci in Europa con le riforme fatte - spiega Renzi - significa rispondere alla domanda che lì ti fanno tutti: “Il vostro Paese è ancora riformabile?”. Per questo mi cadono le braccia quando vedo i dissidenti del Pd, che in assemblea non parlano e non votano ». In realtà il conteggio dei ribelli, di quelli cioè che sicuramente voteranno contro la riforma, si è stabilizzato intorno a una cifra irrisoria: 7 o 8. Fanno parte di questo gruppo Chiti, Mineo, Mucchetti, Tocci, Micheloni, D’Adda e Casson, quest’ultimo addirittura in bilico. Dall’altra parte, in Forza Italia, dopo il duro richiamo di Silvio Berlusconi e la minaccia di espulsione, si può dire con certezza che il fronte del no guidato da Augusto Minzolini non si allarga semmai si restringe. Resta il nodo degli emendamenti che s’intreccia con ben 4 decreti in scadenza. Ogni decreto da convertire, anche in caso di voto di fiducia (a questo punto scontato), porterà via almeno un giorno per ciascun provvedimento. Quattro giorni di votazioni vanno considerati persi nel cammino della modifica costituzionale. Negli uffici del ministero sono cominciate anche le valutazioni degli emendamenti. Ce ne sono molti simili che possono essere accorpati, altri verranno accolti dal governo e dalla maggioranza facendo risparmiare un po’ di tempo. Ad esempio sulla quota di firme utili a chiedere un referendum e sui deputati europei inseriti nella platea dei grandi elettori del presidente della Repubblica. In questo modo si conta di eliminare un centinaio di proposte di modifica al testo base. È una goccia nel mare di carte che ha sommerso gli uffici del Senato e del governo. Non rimane che un intervento del presidente Grasso e della conferenza dei capigruppo dove comunque la maggioranza favorevole alle riforme è schiacciante. La soluzione però non è facile. La scelta fatta finora è quella di tenere il dibattito aperto e libero. Di non strozzare i dissensi. Di far esprimere soprattutto le opposizioni senza esporsi ad attacchi di carattere polemico non sul merito ma sulle “tagliole” imposte dall’alto alla democrazia e alle minoranze. Bisogna vedere adesso se questa esigenza coinciderà con i tempi promessi dal governo. Tempi che Renzi ha tutta l’intenzione di rispettare. 22 del 17/07/14, pag. 1/15 Parlamento sotto tutela del governo Massimo Villone Riforme e democrazia . Il parlamento sotto tutela del governo Una valanga di 7000 emendamenti può sembrare un ostacolo insormontabile per la riforma Renzi-Boschi. Ma è un’illusione. Regolamento e prassi conoscono raffinate tecniche anti-ostruzionistiche. Per le regole in atto, un ostruzionismo di minoranza che blocchi l’assemblea non è possibile. Siamo di fronte a qualche giorno di lavoro parlamentare, niente che non si possa gestire accorciando (di poco) le vacanze. A meno che la maggioranza riformatrice non si dissolva. Per questo è decisiva la tenuta del patto Renzi-Berlusconi, difeso dai due stipulanti a spada tratta, accada quel che accada. In qualche misura l’esito rimane incerto, essendo stata pura rappresentazione teatrale la soporifera assemblea di Renzi con i parlamentari Pd, e rimanendo alta la febbre in Fi. C’è da sperare che la migliore politica ritrovi fiato e iniziativa. Perché il testo approvato in commissione prefigura un’architettura istituzionale distorta e priva di equilibrio. Si è parlato di blando autoritarismo, si è richiamato il progetto Gelli-P2. Di certo, si può temere una riduzione degli spazi di democrazia. Come? Vediamo alcuni punti salienti. Azzeramento della rappresentatività e del peso politico-istituzionale del senato con il carattere non elettivo e il taglio dei poteri; riduzione della camera a obbediente braccio armato del governo attraverso una legge elettorale che riduce la rappresentatività, taglia le voci in dissenso, crea una artificiale maggioranza numerica, garantisce la fedeltà al capo attraverso le liste bloccate; potere di ghigliottina permanente del governo, che può strozzare a suo piacimento il dibattito imponendo il voto a data certa su un testo proposto o comunque accettato dal governo; innalzamento del numero di firme richiesto per l’iniziativa legislativa popolare a 250.000 (ora 50.000); innalzamento delle firme richieste per il referendum abrogativo a 800.000 (ora 500.000). Un colpo grave ed evidente alla rappresentanza politica da un lato, alla partecipazione dall’altro. Sono poco più che una foglia di fico le disposizioni che rinviano ai regolamenti parlamentari la garanzia dell’iniziativa legislativa popolare, o riducono in qualche misura il requisito del quorum strutturale per il referendum. Assai più contano altri effetti, magari indotti e non immediatamente visibili, delle modifiche proposte. Ad esempio, il Capo dello Stato viene eletto da deputati e senatori. Ma la riduzione drastica del numero dei senatori, rimanendo immutato quello dei deputati, lascia in sostanza la elezione del capo dello stato nelle mani della sola camera, consegnata alla maggioranza di governo dalla legge elettorale, con l’aggiunta di una manciata di sindaci e consiglieri regionali amici. Basterà aspettare il nono scrutinio per avere un capo dello stato di maggioranza, rimanendo mero flatus vocis che sia rappresentante dell’unità nazionale, e garante della costituzione. E non dimentichiamo che il capo dello stato presiede il Csm, organo di autogoverno della magistratura. E che per gli stessi componenti elettivi del Csm vale il discorso appena fatto. Mentre i tre membri della Corte Costituzionale eletti dalla camera sono rimessi alla scelta della maggioranza garantita dal premio, con qualche sostegno sottobanco che non si nega a nessuno. Per non dire della revisione della Costituzione ancora rimessa alla maggioranza di governo della camera, e agli equilibri politici del tutto occasionali e imprevedibili del senato. In quali mani finiranno diritti e libertà? La Costituzione come statuto di una maggioranza? Una struttura priva di equilibrio. Dove sono i checks and balances? Invece, molto altro si poteva fare. Come ad esempio l’impugnativa ex ante davanti alla Corte Costituzionale di leggi non limitata alla legge elettorale, da parte di una minoranza parlamentare (come in 23 Francia); o il ricorso diretto del cittadino alla stessa Corte in materia di diritti e libertà (Germania e altri paesi); o il referendum popolare approvativo automatico in caso che l’iniziativa legislativa popolare venga disattesa dal legislatore (Svizzera); o l’anticipo del giudizio di ammissibilità della Corte sul referendum in base all’avvenuta raccolta di un numero inferiore di firme rispetto al totale di quelle richieste (ad esempio, centomila), in modo da consentire ai promotori di raccogliere le restanti firme a quesiti ammessi. Né va dimenticato il contesto più generale, e l’indebolimento di partiti politici, sindacati, associazioni. Si pensi alla cancellazione del finanziamento pubblico, alla diatriba sui contratti nazionali di lavoro, al rifiuto di concertazione. La stessa ascesa di Renzi è stata la negazione della funzione tipica e propria di un partito politico. In sostanza, nelle primarie Renzi ha usato il voto dei non iscritti contro il voto degli iscritti, per conquistare il partito degli iscritti. Un tempo, se qualcuno voleva metter mano alla costituzione si parlava di ingegneria istituzionale. Ma almeno si presupponeva una laurea. Capiamo bene che oggi è chiedere troppo. Ma almeno dateci un geometra o un capomastro. del 17/07/14, pag. 4 Renzi tiene accesa la fiammella del presidenzialismo per sedare Forza Italia Un po’ per tattica, un po’ per strategia, Renzi tiene accesa la fiammella del presidenzialismo: oggi gli serve per aiutare ciò che resta del partito di Berlusconi, domani gli potrebbe servire per prendersi ciò che resta dei voti di Berlusconi. Se ciò avvenisse con il consenso politico del Cavaliere o più probabilmente per il fallimento politico del Cavaliere re, poco importa. Il punto è che la variabile dell'elezione diretta del capo dello Stato — lasciata dal governo sullo sfondo come un'eventualità — è al momento legata alla necessità del premier di superare le forche caudine del Senato sulle riforme istituzionali: agisce come un potente sedativo su Forza Italia, serve per contenerne le fibrillazioni e per impedire il patatrac nell'Aula di palazzo Madama. Ecco il motivo contingente che spinge il ministro Boschi a non porre il veto sulla materia, inducendola però a precisare il timing: «Solo dopo aver portato a definitivo compimento la modifica del bicameralismo — ha detto ad Avvenire — potremo mettere a tema il presidenziaìismo. Non oggi, altrimenti rischia di saltare la riforma a cui lavoriamo da mesi». E il caos che regna nell'area berlusconiana si scatenerebbe nel Pd. L'equilibrismo è necessario, è figlio della fase delicata e anche del tatticismo di Renzi, abile a gestire i pedali dell'acceleratore e del freno simultaneamente, pronto a dire che «non ho alcuna obiezione sul presidenzialismo ma è ancora prematuro ». La dote è apprezzata dal Cavaliere, conscio di potersi trasformare nella vittima sacrificale del leader democrat. «Ah, questo Renzi—», ha sospirato l'ex premier giorni fa al telefono con Casini: «Qui rischiamo che ci prenda tutti per i fondelli». Sia chiaro, il primo a non credere al traguardo presidenzialista è proprio Berlusconi, che nelle scorse settimane è stato capace — nella stessa conferenza stampa — di issare il vessillo caro al centrodestra per poi arrotolarlo subito: «Certo, se Renzi fosse contrario, noi comunque non romperemmo sulle riforme», il Cavaliere ha la testa da tutt'altra parte, e questo è un tema che non lo appassiona più, ma che accalora molti nel suo partito, un po' per tattica un po' per strategia. Ed è così che ieri il senatore forzista Minzolini — ostile al progetto di riforma renziano—ha preannunciato in Aula il voto favorevole all'emendamento 24 presentato da Casini, in base al quale — se le Camere non riuscissero ad eleggere il capo dello Stato all'ottava votazione — spetterebbe al popolo scegliere l'inquilino del Quirinale tra i due candidati più votati in Parlamento. Secondo l'ex presidente di Montecitorio questo modello «non altererebbe affatto gli equilibri istituzionali », secondo l'ex leader del Pd Bersani, sì: «E che facciamo, le primarie? ». È immaginabile quindi cosa accadrebbe se passasse l'emendamento, di sicuro lo immagina Minzolini: «Sarebbe divertente», ride. n premier, che vuole evitare il fallimento, intende tenere separato questo materiale altamente esplosivo dal progetto di modifica del Senato. Ma non è detto che non sia interessato al presidenzialismo. Anzi, secondo il coordinatore di Ned, Quagliariello, «proprio il presidenzialismo potrebbe essere la norma di chiusura delle riforme istituzionali e potrebbe raccogliere consensi anche nell'area non renziana del Pd. Perché un modello che è stato vissuto a sinistra come una minaccia negli anni del berlusconismo, ora si va trasformando paradossalmente in uri elemento di garanzia». Ce n'è la prova, sta nel ragionamento di Bersani, che era e resta parlamentarista convinto, e a cui non piace il progetto di riforma dell'attuale capo democrat: «Piuttosto che avere un presidenzialismo implicito e straccione, il peggio che ci possa capitare, è preferibile un sistema chiaro, trasparente, fatto di pesi e contrappesi ». L'allusione è chiara. D'altronde tutto sta mutando, attraverso le riforme istituzionali ma anche attraverso le leggi ordinarie, n provvedimento voluto da Renzi per il riordino della pubblica amministrazione, per esempio, contiene norme che rafforzano ruolo e poteri della presidenza del Consiglio, a Costituzione invariata. E in prospettiva la stessa legge elettorale nata dal «patto del Nazareno» ridurrebbe di fatto i poteri del Quirinale. Il presidenzialismo potrebbe dunque essere l'approdo naturale alla trasformazione del sistema. Ma visto il timing deciso dal premier e ribadito ieri dal ministro Boschi, sarebbe davvero possibile arrivare a quella forma di Stato dopo aver costruito un nuovo edificio costituzionale che al momento non lo prevede? Il nodo come al solita è politico. Dunque bisognerà attendere per verificare se quella di Renzi è solo tattica o sarà anche strategia. Non servirà molto tempo: il passaggio decisivo sarà infatti la scelta del successore di Napolitano. Se venisse privilegiato un profilo di «garanzia », vorrebbe dire che il progetto presidenzialista è stato accantonato e che è prevalsa l'idea del premierato forte. Qualora si optasse invece per una figura di minor spessore politico, e quindi di «transizione», allora si aprirebbero gli spazi per un radicale cambio di modello. Al momento però il nodo resta, se Renzi fa mostra di volerlo sciogliere in futuro è solo per aiutare Berlusconi (e dunque se stesso) nel presente. Gli serve per sedare Forza Italia e impedire che la maratona al Senato sull'eutanasia del Senato si trasformi nell'eutanasia del suo governo. Francesco Verderami Del 17/07/2014, pag. 8 Berlusconi furioso: “Le riforme non c’entrano, c’è la fiducia su di me”. I ribelli: può cambiare idea dopo il verdetto Silvio minaccia i frondisti ma Fitto frena la rivolta “Sentenza Ruby decisiva” CARMELO LOPAPA Dice che li aspetta tutti al varco, adesso. Uno per uno. I dissidenti minacciati l’altro giorno di epurazione sono pesci piccoli, dal cosentiniano D’Anna a Capezzone, ma è ai pesci 25 grossi che Silvio Berlusconi lancia il suo avvertimento con annesso foglio di via. Raffaele Fitto in testa. «Qui le riforme non c’entrano più niente, ho posto la questione di fiducia sulla mia persona, ora vengano allo scoperto: con me o contro di me, in questo momento drammatico», è stato lo sfogo del leader forzista nel pomeriggio di Palazzo Grazioli nel via vai dei pochi pretoriani di cui ormai si fida. Del resto, non è esattamente al Senato elettivo che pensa in queste ore l’ex Cavaliere, assorbito dall’ennesima vigilia giudiziaria al cardiopalma. Domani entrano in camera di consiglio i giudici d’appello del processo Ruby. «Qui rischio dieci anni di domiciliari e questi giocano» ha proseguito con le punture di spillo ai “ribelli” delle riforme. Augusto Minzolini, Anna Bonfrisco e gli altri venti che giorni fa hanno firmato la lettera con richiesta di rinvio del ddl Boschi ieri sera si sono visti a cena per fare il punto. Non cedono. «Andiamo per la nostra strada e vedrete che anche Berlusconi ci ripenserà» è la tesi dell’ex direttore del Tg1. Altrettanto sicuro che nulla più cambierà il capogruppo forzista Paolo Romani: «Hanno numeri irrilevanti, l’accordo sulle riforme regge». Ma il clima resta tesissimo, in un partito sotto shock dopo la sfuriata con tanto di “vaffa” da parte del capo nell’assemblea di martedì. Molti hanno visto anche nella svolta rude e senza precedenti, l’influenza del duo Pascale- Rossi. La partita in realtà appare complessa e coinvolge la tenuta del partito e la stessa leadership carismatica di Berlusconi, ormai in declino. L’eurodeputato Raffaele Fitto è rientrato in gran fretta nel pomeriggio da Strasburgo, ha incontrato un paio di deputati e senatori a lui vicini, tutti gli altri li ha sentiti, da Saverio Romano a Renata Polverini, passando per Capezzone. Era stato proprio lui nella lettera aperta di domenica al leader a chiedere di non porre un autaut sulle riforme. Esattamente quello che invece Berlusconi ha imposto. Fitto e il suo gruppo non vogliono «cadere nella trappola» e per questo l’ex governatore pugliese ha subito sconvocato l’assemblea che i «dissidenti» volevano tenere al suo rientro a Roma. Niente interviste, dichiarazioni o apparizioni tv per l’eurodeputato, che ha dettato la linea: «Non dobbiamo concedere alcun alibi, nessuna riunione sediziosa, noi restiamo nel partito». Ma quanti sono alla prova del pallottoliere? «Non più di una decina di senatori e alcuni deputati» calcola Denis Verdini a San Lorenzo in Lucina. «Coi numeri hanno mostrato una certa fragilità » ironizzano dall’altro fronte, ricordando la scissione di Fini e poi quella di Alfano. L’ex governatore pugliese, raccontano, si attende sorprese in aula la prossima settimana, quando si apriranno le votazioni, «prevedevano poche decine di emendamenti e da Fi e Gal ne sono piovuti invece mille». La decisione, in serata, è di non fare alcuna mossa fino alla sentenza d’appello Ruby. Pensano che in caso di condanna — magari pur ridotta — potrebbe essere lo stesso Berlusconi a far saltare il tavolo delle riforme. Tutt’altro che scontato, però. La sensazione che deputati e senatori berlusconiani rivelano nei capannelli di Camera e Senato è che l’ex Cavaliere in realtà non sia disposto a ripensamenti: «Interessato ormai a salvaguardare solo patrimonio e aziende, si è convinto che possa farlo solo mantenendo i patti con Renzi». L’endorsement di Piersilvio Berlusconi nei confronti del segretario Pd, nella lettura dei forzisti delusi, sarebbe il sigillo della svolta. Del 17/07/2014, pag. 8 IL CASO E Alfano vuole il gruppo unico con i centristi TOMMASO CIRIACO ROMA «Non si torna indietro, questa è la linea. O si cambia tutto - allargando il campo e trasformando anche il nome - o non abbiamo futuro». Due sere fa, riunendo i suoi 26 senatori, Angelino Alfano ha indicato la rotta per il Nuovo centrodestra. Una rivoluzione, necessaria per non scomparire. Il progetto, ormai a un passo dall’essere ufficializzato, prevede una fusione dei gruppi parlamentari alfaniani con alcuni frammenti centristi e con le sparute truppe dell’Udc. La vera novità, però, sarà il varo di un nuovo contenitore politico che - all’inizio - si chiamerà “Costituente popolare”. Con un obiettivo evidente in questa fase di disgregazione del centrodestra: accogliere eventuali fuoriusciti di Forza Italia, soprattutto al Senato. Nella frammentata galassia centrista la nuova era aperta con il governo Renzi ha lasciato il segno. Scelta civica è ormai ridotta in polvere, l’Udc è dilaniata e vittima di un duello tra Pier Ferdinando Casini e Lorenzo Cesa, mentre i popolari di Mario Mauro hanno rotto con quasi tutti i compagni di strada. Per raccogliere i cocci, allargare i gruppi parlamentari e ripartire con un nuovo brand si è stabilito allora di lanciare la nuova “Costituente popolare”, che ha bruciato sul traguardo il marchio “Coalizione popolare”. I numeri parlamentari, almeno sulla carta, sono destinati a crescere. Alla Camera una scheggia degli ex montiani - guidata da Andrea Causin è disponibile alla sfida. Insieme agli eletti dell’Udc, sono in tutto una ventina i parlamentari disposti al matrimonio con il Ncd. Il nuovo gruppo potrà quindi contare su 45 deputati. Ma è al Senato che si gioca la partita più importante, perché è lì che si decide il destino dell’esecutivo. Le truppe di Alfano contano già 32 senatori, con la nuova costituente si arriverà a quota 40. Aderiranno Casini e De Poli, forse anche Mauro, assieme ad altri due o tre senatori. Nel Nuovo centrodestra, però, non mancano resistenze e distinguo. Non gradiscono, ad esempio, Antonio Azzollini, Carlo Giovanardi e Giuseppe Esposito. E in casa Udc Cesa è a favore, mentre Casini - forte di un filo diretto con Renzi - nutre parecchi dubbi, anche se agli amici ha confidato: «Io ormai ho un ruolo diverso, non penso che sia la strada giusta. E poi dove porterà questo progetto? In ogni caso quando mi diranno a quale gruppo aderire, lo farò». La vera sfida, però, è tutta sul futuro. La scommessa è che le nuove grane giudiziarie di Silvio Berlusconi e la faida interna a Forza Italia possano portare presto a una frattura definitiva dalle parti dell’ex premier. «Hai già l’accordo con il Ncd!», ha tuonato qualche sera fa l’ex Cavaliere, puntando il dito contro il senatore Vincenzo D’Anna. E’ quello il target a cui mira la Costituente popolare, puntando ad assorbire soprattutto l’ala meridionale del dissenso azzurro. Sempre in attesa di capire se le antiche ruggini tra Alfano e Raffaele Fitto possano essere superate in nome della costruzione di un nuovo centrodestra. Del 17/07/2014, pag. 19 LA GIORNATA Montecitorio, rinviato a sorpresa il voto sulla norma che abolisce l’obbligo di trasmettere quello paterno Il Pd si spacca, bagarre in aula. La relatrice: “Colpa dell’opposizione trasversale dei deputati maschi” Stop alla legge sul doppio cognome CRISTIANA SALVAGNI ROMA Maschi contro femmine. Sembrava a un passo dal voto finale alla Camera la legge sul cognome dei figli che abolisce l’obbligo di trasmettere il paterno, lasciando liberi i genitori di scegliere tra quello del padre o della madre o di entrambi, e che stabilisce che in caso di disaccordo vengano assegnati tutti e due. Approvata all’unanimità dalla commissione Giustizia la scorsa settimana, ieri il testo era all’esame dell’assemblea. Invece, a sorpresa, il voto è stato rinviato. 27 Mandando su tutte le furie diverse deputate, che dello stop accusano i colleghi in Parlamento. «È colpa dei veti culturali opposti dai deputati maschi a una legge che avrebbe dovuto porre fine alla concezione patriarcale della famiglia», punta il dito la relatrice Pd sulla nuova legge Michela Marzano. «Il testo recepisce una norma di buon senso ed è assurdo che debba essere bloccato per l’opposizione trasversale di alcuni deputati, per lo più uomini», aggiunge la deputata Pd Caterina Pes. «Ogni volta che si cerca di mettere mano a questioni così ancestrali si crea un blocco culturale ostile», sottolinea la deputata Sel Marisa Nicchi. Il meccanismo della legge risponde alla sentenza della Corte europea del diritti dell’uomo che nel gennaio scorso ha condannato l’Italia per violazione del principio d’uguaglianza (perché negare la possibilità di trasmettere il cognome della madre discrimina le donne) e vuole allineare il nostro Paese agli altri europei, come Spagna, Germania e Inghilterra. In particolare ricalca il modello francese e prevede che i genitori possano scegliere se dare al figlio il cognome del padre, della madre o di entrambi, nell’ordine da loro stabilito. In caso di disaccordo stabilisce che vengano attribuiti tutti e due in ordine alfabetico. Inoltre per evitare che fratelli nati dagli stessi genitori abbiano cognomi diversi dispone che quello scelto per il primo figlio sia trasmesso ai successivi. Infine prevede che la persona con due cognomi possa poi trasmetterne ai figli soltanto uno. Proprio questo punto fa scoppiare in aula la bagarre. Stefania Prestigiacomo di Forza Italia solleva il dubbio che non sia giusto far scegliere ai figli quale cognome salvare. Ignazio La Russa raccoglie firme per chiedere il voto segreto e propone il rinvio in commissione. Anche Alessandro Pagano del Nuovo centrodestra e Rocco Buttiglione dell’Udc sollevano perplessità. Per risolvere le questioni formali si riunisce la commissione dei Nove ma il voto finale non arriva più: la proposta di legge viene rinviata a una seduta da fissare, forse, prima della pausa estiva. 28 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE Del 17/07/2014, pag. 1-23 LA STORIA Quella siepe che divide ricchi e poveri a Milano GAD LERNER MILANO SILENZIOSI, con gli occhi spenti dei sopravvissuti, davanti a Château Monfort si radunano pure i profughi eritrei che scendono dal tram numero 9. Qualcuno gli ha spiegato che in corso Concordia 3 c’è la mensa dei francescani dove li sfameranno gratis. Così sfilano davanti a corso Concordia 1 e osservano meravigliati il sontuoso palazzo liberty dell’architetto Paolo Mezzanotte, quello che ha costruito la Borsa di Milano, trasformato in albergo 5 stelle che si ispira al mondo delle fiabe. Per ristrutturarlo, insieme all’architetto, ci hanno lavorato due scenografe. Le guide turistiche lo raccomandano per la sua “posizione centrale”, la signorilità del quartiere Monforte, il quadrilatero della moda e il Duomo raggiungibili comodamente a piedi. Non aggiungono che lì davanti bivacca la folla dei pezzenti in costante aumento e sempre in attesa di un pasto caldo. Violando il codice non scritto dell’urbanistica metropolitana che raccomanda di evitare ogni contatto diretto fra gli antipodi della gerarchia sociale, il bordo meridionale di piazza Tricolore dà luogo a un paesaggio inaudito: mescola le due Milano che per pudore non vorrebbero mai specchiarsi l’una nell’altra. Ricchi e poveri, lusso e miseria. Un laboratorio a cui è difficile abituarsi, anche se i passanti filano via perché l’imbarazzo e il timore prevalgono sulla curiosità. Per attenuare l’impatto hanno escogitato una frontiera simbolica, un aggiramento delle normative sull’occupazione del suolo pubblico. Una volta ottenuta la deviazione della pista ciclabile, Chateau Monfort ha piazzato uno di fianco all’altro quattro vasi rettangolari di siepe e li ha montati su rotelle, di modo da poterli considerare amovibili. Così dal dehors dove i valletti prelevano il bagaglio della clientela in arrivo, la visuale dell’Opera San Francesco risulta parzialmente limitata. Anche se, come mi fa notare ridendo il senzatetto Peppe, portantino licenziato dal 118 romano, «ogni tanto un’auto blu sbaglia ingresso e porta i ricconi in mezzo a noi poveri in fila dietro alle transenne della mensa». Da gennaio poi l’albergo ha ottenuto in gestione l’aiuola pubblica di fronte all’ingresso, sicché gli addetti alla sicurezza hanno diritto di sloggiare chi prova a coricarsi sul prato all’inglese. Quanto alle panchine, sono state sradicate nonostante le proteste degli immigrati e dei clochard. Mi indicano sconsolati i segni della perduta comodità rimasti sul lastrico. Per appoggiarsi a bere una birra o un cartone di vino, vietati nella struttura francescana, gli restano solo aguzzi dissuasori metallici. La colpa di tutto ciò risale al mitico Fra Cecilio Cortinovis, il portinaio del convento di viale Piave che nel 1959 volle costruire proprio lì una struttura d’accoglienza per i poveri. E a chi la giudicava inopportuna, in una zona residenziale borghese, replicava: «Ma è mai possibile che in centro a Milano debbano starci solo i peccatori?». Il cardinal Martini ne ha avviato il processo di beatificazione, ma certo neanche Fra Cecilio avrebbe mai immaginato che proprio lì di fianco nascesse un hotel per il quale, fra le centinaia di commenti entusiasti dei visitatori registrati da TripAdvisor, si sprecano aggettivi come «superlativo», «mozzafiato », «gioiello incantevole». Sono le 18,30. I poveri si accodano col tesserino (ma i nuovi venuti eritrei anche senza) per ottenere la loro razione di polpette di soia. Ivan 29 Donati comincia a suonare il piano nel lounge bar Mezzanotte sormontato da una cupola di vetro, dove gli aperitivi sono serviti con deliziosi fritti di verdura. Mentre fuori mi chiedono un euro per comprare il Tavernello, il superpremiato sommelier Michele Garbuio offre su prenotazione degustazioni nell’apposita Cella di Bacco, dove a comando il vino scorre dalla bocca di una statua. Le docce e la lavanderia dell’Opera San Francesco lavorano a pieno ritmo mentre nel sottosuolo dello Chateau la spa Amore e Psiche propone docce emozionali aromatiche con sauna, bagno turco e piscina di acqua salina. Proprio a ridosso della siepe- frontiera il Comune ha piazzato un gabinetto chimico dalla serratura rotta, che emana un lezzo inconfondibile. Lì si radunano i romeni più sbandati, ogni tanto si divertono a buttare bottiglie vuote dall’altra parte. Ma niente di grave. La struttura francescana arriva a distribuire fino a duemila pasti a mezzogiorno e duemila la sera. L’utenza di nazionalità italiana resta minoritaria, ma dal 2008 è cresciuta del 61 per cento. I musulmani nel periodo del Ramadan hanno diritto di prelevare cibi secchi che mangeranno dopo il tramonto. Anche se sarebbe vietato, c’è chi trafuga qualcosa per il cane rimasto fuori. Altri, mi dicono sottovoce, per i bambini. «Con il nuovo arrivo degli eritrei temo che dopo il Ramadan qui finiremo al collasso», mi dice il responsabile laico della mensa, Andrea Rossetto. Nel bivacco di corso Concordia serpeggiano mormorii ostili dei poveracci bianchi contro i neri («chissà che malattie portano») e contro gli arabi («mica sono cristiani come noi, quelli»). Chiedo al successore di Fra Cecilio, padre Maurizio Annoni, se trova aspetti positivi in questo strano vicinato: «La siepe tiene distinti i due ambiti, evitando un passaggio non pericoloso ma certo dannoso per entrambi. Ma guardarsi e condividere lo stesso territorio può recare beneficio a entrambi. I nostri poveri hanno bisogno di non essere giudicati per la loro condizione poco dignitosa. I clienti dell’albergo? Non so, posso dirle che dopo averci incontrati lì davanti Cristina Chiabotto ha voluto trascorrere con noi una giornata da volontaria». Padre Annoni rivolge parole di amicizia al proprietario di Chateau Monfort, l’imprenditore Vincenzo Vedani che, prima di avviare i lavori, ha portato tutta la famiglia in visita all’Opera San Francesco: «Sua moglie Lucia negli anni Ottanta incontrò dei malati di tumore che dopo la chemio trascorrevano la notte sulle panchine di piazzale Gorini e decise di costruire CasAmica, quattro strutture d’accoglienza per chi viene a curarsi a Milano e per i loro parenti. Poi ci hanno dato una mano anche qui alla mensa». Aggiro la siepe e vado a sorseggiare un Cosmopolitan con questo ingegner Vedani, patriarca di una di quelle famiglie milanesi che hanno fatto i soldi veri, centinaia di milioni, con un secolo di industria dell’alluminio e poi con tutte le successive diversificazioni finanziarie, compresa la catena alberghiera Gruppo Planetaria. Vedani mi accoglie col figlio Stefano ammettendo che «la gestione di questa vicinanza non è così semplice». In molti gliela avevano sconsigliata. Solo per ottenere di mettere quella siepe c’è voluto un anno e mezzo di burocrazia. Anche se l’albergo gli sta dando soddisfazioni, pieno com’è di clientela straniera, forse non lo rifarebbe. «Ma io non provo disagio, se proprio non vengono a orinare qui davanti. La mia è una famiglia partita molto in basso e questo contrasto fa parte della vita». I clienti non si lamentano? «Qualcuno, ogni tanto, pazienza. Si lavora bene lo stesso. E per occupare con la scala esterna 26 metri quadri di proprietà dell’Opera San Francesco gli abbiamo bonificato duecentomila euro. I rapporti sono ottimi». In effetti sulle 567 recensioni TripAdvisor dei clienti, solo cinque o sei rilevano la vicinanza insolita: «Alla reception mi hanno spiegato che erano innocui». 30 BENI COMUNI/AMBIENTE del 17/07/14, pag. 4 Teatro Valle, dopo tre anni un vero tavolo sui beni comuni? Roberto Ciccarelli Movimenti. Giovanna Marinelli, nuovo assessore alla cultura, apre agli occupanti: «Dialogo, per rientrare nella legalità» La prima dichiarazione da assessore alla cultura di Roma Giovanna Marinelli è stata sul teatro Valle. Insediata ieri dopo 52 giorni di «vacanza culturale» a seguito delle dimissioni di Flavia Barca, lo storico braccio destro di Gianni Borgna, assessore ai tempi della Romagrandi-eventi modello Veltroni, ha affermato l’intenzione di riprendere il dialogo con i lavoratori dello spettacolo che occupano il teatro dal 14 giugno 2011. «Al Valle tornerà la legalità – ha detto in un’intervista a Il Messaggero – La situazione va affrontata il prima e il meglio possibile per far sì che, senza mandare dispersa l’esperienza, soprattutto iniziale, maturata al Valle, la situazione si riequilibri, anche attraverso il dialogo». «Un teatro – ha aggiunto Marinelli – è un luogo di impegno sociale e politico in senso alto (l’attenzione a questa valenza è stata data), ma ora gli occupanti devono mostrare la volontà precisa di rientrare nella legalità». Una presa di posizione che sembra escludere il bando con il Mibact e non cita le dichiarazioni del sindaco Ignazio Marino, che aveva chiesto agli occupanti di lasciare al più presto il teatro. Marinelli riporta il Comune sulle posizioni del dossier commissionato da Flavia Barca a cinque «facilitatori» che, dopo audizioni durate mesi, hanno redatto una «memoria» di 94 pagine dove raccomandano il coinvolgimento della «Fondazione teatro valle bene comune» nella gestione delle attività che dovrebbero aprire la fruizione del teatro alla cittadinanza, sull’esempio di quanto fatto nei tre anni di occupazione. Il tutto dovrebbe avvenire previa convocazione di un «tavolo di confronto» tra Roma Capitale, il ministero dei beni culturali, la Fondazione pensata insieme a Stefano Rodotà e Ugo Mattei a cui partecipano 5600 soci, il teatro di Roma e altri soggetti istituzionali nell’ottica di una «collaborazione tra cittadini e amministrazione». I «facilitatori» propendono per un periodo di transizione affidato al Teatro di Roma, oggi presieduto da Marino Sinibaldi che ha definito «lievemente eufemistiche e un po’ ipocrite» le allusioni ad uno sgombero del Valle. Il teatro di Roma potrebbe valorizzare progetti triennali di «soggetti nonprofit» garantendo trasparenza, partecipazione e democrazia nelle scelte programmatiche. La proposta circola ufficiosamente nel Campidoglio, ma non è mai stata comunicata agli occupanti che dal 18 settembre 2013 chiedono l’apertura di un negoziato. Senza entrare nei dettagli, gli occupanti hanno accolto positivamente «il riconoscimento del valore dell’esperienza del Teatro Valle e la volontà di aprire un dialogo» da parte dell’assessore. Auspicano però che «il confronto aperto sappia fortificare il modello culturale del Valle». A cominciare dalla questione della «legalità» che al Valle viene declinata in termini «costituenti», cioè produttrice di nuovo diritto partecipato e non solo di atti amministrativi. Marinelli si è inoltre impegnata a chiarire l’annoso problema del protocollo fantasma sul Valle tra Mibact e Comune. La Corte dei Conti nel frattempo ha aperto un’indagine sulla titolarità del bene. Vuole capire perchè il Campidoglio ha continuato a pagare le utenze 31 durante l’occupazione. Forse per garantire la sicurezza, visto che senza luce e acqua il Valle non sarebbe sicuro? 32 INFORMAZIONE del 17/07/14, pag. 9 “UN CARTELLO GESTISCE I NOSTRI APPALTI” E LA RAI VA IN PROCURA L’AZIENDA A DICEMBRE AVEVA DENUNCIATO L’ESISTENZA DI UN ACCORDO PER SPARTIRSI LAVORI DI POST-PRODUZIONE DI IMPORTANTI PROGRAMMI. DA BALLARÒ A PORTA A PORTA di Valeria Pacelli Un accordo volto a ‘spartirsi gli appalti di montaggio e riprese’ tra le diverse società invitate dalla Rai” e “presunte distorsioni concorrenziali per l’affidamento di servizi di post produzione per la stagione televisiva 2013-2014”. Stavolta a denunciare irregolarità all’interno di Viale Mazzini è la Rai stessa che mesi fa ha inviato una segnalazione in procura a Roma, ma anche all’Antitrust, l’autorità garante della concorrenza e del mercato, dove venivano denunciati accordi di ripartizione delle procedure di affidamento di servizi di post produzione per diversi programmi. La querela dell’azienda di Stato, tutta da verificare, nasce dopo che negli uffici di Viale Mazzini sono arrivate alcune missive anonime – molte spedite anche antecedentemente all’apertura delle buste relative alle gare – in cui si parlava delle offerte concordate dalle aziende. A piazzale Clodio è stata aperta un’inchiesta (per ora contro ignoti) di cui è titolare il pm Letizia Golfieri. Contemporaneamente anche l’Antitrust ha dato avvio a un’istruttoria, mettendo nel mirino 23 imprese che avrebbero fornito servizi post-produzione per la Rai per importanti programmi (ne citiamo solo alcuni), da Ballarò a Porta a Porta, a Chi l’ha visto?. Il Fatto ha provato a contattare molte delle aziende citate nella relazione, senza però ottenere risposta a centralini ed email. L’ISTRUTTORIA dell’autorità dovrà approfondire quindi le possibili anomalie relative ai risultati di 20 procedure di selezione nel periodo che va dal 15 luglio al 3 ottobre 2013 alle quali hanno partecipato le 23 imprese, alcune con fatturati annui molto elevati. Tra le aziende elencate ci sono: la Aesse Video, la Barbieri Communication, che fornisce servizi anche per clienti dal calibro di Sky Italia, Wind e ministero per i Beni e le attività culturali. E ancora: la Diva Cinematografica Srl, che sul proprio sito tra le trasmissioni per le quali ha lavorato elenca Agorà, Geo e Geo, La storia siamo noi e Porta a Porta; la Euroscena srl, società che “nel 2012 ha fatturato 5,365 milioni di euro” specializzata nelle riprese di Silvio Berlusconi che ha seguito negli anni in trasmissioni pubbliche e interviste; La Grande Mela srl che tra i lavori fatti sul proprio sito cita anche la fortunata serie Gomorra. E di imprese finite nel mirino dell’Antitrust ce ne sono ancora tante: da Industria e Immagine a MAV Television, da New Telecinema, a Obiettivo Immagine e tante altre ancora. L’istruttoria è ancora in corso ma leggendo la relazione di avvio di procedura dell’Autorità si scoprono aspetti interessanti. “In via generale - è scritto nella relazione - si osserva che i fatti segnalati alla Rai mediante segnalazioni anonime hanno trovato riscontro il più delle volte in relazione al generalizzato aumento dei costi orari richiesto per lo svolgimento del servizio. Inoltre in alcuni casi, l’assegnatario indicato nelle missive anonime, di cui alcune spedite antecedentemente all’apertura delle buste è risultato confermato”. Poi viene spiegato che: “dal - le analisi svolte sui dati resi disponibili dalla RAI emergono diversi indici di possibili comportamenti collusivi tenuti in occasione del complesso delle gare 33 analizzate.” “L’incremento dei prezzi di aggiudicazione - spiega il garante della concorrenza - si è verificato per le procedure più importanti, assegnate prima dell’inizio della nuova stagione televisiva. PER DARE un’idea della rilevanza delle gare in questione, basti considerare che il valore medio per le 20 commesse del periodo da luglio a ottobre 2013 è stato circa tre volte superiore rispetto a tutte le altre gare assegnate nel 2013.” Secondo l’Antitrust quindi “appare evidente e allo stesso tempo anomalo quanto avvenuto nell’estate 2013, quando per la ventina di gare che costituiscono la tornata più importante dell’anno è rilevabile un abbattimento dello sconto praticato dagli aggiudicatari, risultato mediamente inferiore a un quinto di quello “storico”. Tale circostanza si accompagna alla frequente riassegnazione della commessa al precedente affidatario. Inoltre, tale risultato è conseguenza di una politica di offerta con sconti molto bassi da parte di tutte le imprese invitate a partecipare alle varie procedure, e non solo dei vincitori; le medesime imprese hanno tendenzialmente presentato le offerte di importo maggiore nelle gare non aggiudicate, in dissonanza con una politica di prezzo ben più aggressiva in occasione delle procedure in cui sono risultate vincitrici.” L’indagine dell’Anti - trust è ancora in corso, come quella della Procura di Roma. Del 17/07/2014, pag. 12 “A rischio email e telefonate degli italiani” La denuncia del Garante per la Privacy: “Gravi criticità nel sistema che gestisce le telecomunicazioni e livelli di sicurezza inadeguati: minacciati i diritti dei cittadini” MARCO MENSURATI FABIO TONACCI C’è un enorme buco nero nella sicurezza delle telecomunicazioni italiane. Una falla talmente ampia da mettere a disposizione di chiunque volesse attrezzarsi telefonate, sms, email, chat, contenuti postati sui social network. Tutto il traffico online del Paese, insomma. Non si tratta di un allarme generico ma di un pericolo più che concreto, tanto che negli ambienti dello spionaggio internazionale si dà per scontato che l’Italia sia da anni «interamente controllata». Da Nord a Sud. Quello che non si sa, però, è da chi. A denunciare questo buco è una relazione riservata del Dipartimento attività ispettive dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, inviata al presidente del Consiglio dei ministri, al ministro per lo Sviluppo economico, a quello dell’Interno e al sottosegretario con delega all’Intelligence Marco Minniti. Tre pagine che riassumono un rapporto lunghissimo, stilato dagli ingegneri informatici del Garante tra aprile e maggio dopo lo scandalo mondiale del Datagate del 2013. E nonostante le rassicurazioni del governo italiano, che in quell’occasione, per bocca dello stesso Minniti, aveva detto che «la tutela della privacy delle comunicazioni interne in Italia è garantita con ragionevole certezza». Tutto ruota intorno agli Internet eXchange Point (IXP) e ai sistemi di sicurezza, insufficienti, che li dovrebbero proteggere. Gli Ixp sono delle infrastrutture chiave per il funzionamento di Internet. Di fatto sono dei luoghi fisici in cui convergono tutti i cavi che trasportano i dati degli utenti dei vari Internet Service Provider (Telecom, Fastweb, H3G, ecc. ecc.). In questi luoghi, i dati vengono letti, elaborati e dunque smistati nella Rete. Per fare un esempio: le informazioni di navigazione di un utente qualsiasi che da rete Fastweb si colleghi con un sito il cui server è ospitato da Telecom, passa necessariamente per uno di questi Ixp. In Italia ce ne sono nove, ma tre sono quelli fondamentali: uno a Milano (il 34 “Mix”), uno a Torino (il “Top-IX) e uno a Roma (il “NaMex”). «Tali apparati — scrivono gli ispettori del Garante — dispongono di funzionalità tecniche che possono consentire di replicare, in tempo reale, il traffico in transito dirottando il flusso replicato verso un’altra porta ( port mirroring ) ». Nel corso dei controlli questa funzione non era attivata, specificano gli ispettori, aggiungendo però che se qualcuno volesse esaminare il traffico in transito potrebbe farlo «con una certa facilità, attivando la funzione di port mirroring e poi utilizzando appositi strumenti di analisi». Sarebbe dunque un gioco da ragazzi duplicare il traffico degli utenti, dirottarlo altrove su grossi database e poi con calma analizzarlo. Certo occorrerebbe prima entrare dentro queste strutture ma, è proprio questo il punto, la cosa appare tutt’altro che impresa ardua. «Abbiamo una certificazione di sicurezza Iso27001», spiega l’ingegner Michele Goretti, direttore dell’Ixp di Roma. «E anche l’ispezione del Garante non ha fatto emergere problemi». In realtà non deve essere andata proprio in questi termini se nella relazione c’è scritto che sono emerse «una serie di gravi criticità sulle misure di sicurezza logiche e fisiche concretamente adottate da queste società/consorzi nella gestione dei loro sistemi». «La cosa merita la massima attenzione — continuano gli ispettori — in quanto si tratta di strutture nevralgiche nel sistema di comunicazioni elettroniche del Paese poiché attraverso questi nodi di interscambio passano enormi flussi di traffico relativo alle comunicazioni degli abbonati e utenti (anche pubbliche amministrazioni e impresi) dei principali operatori nazionali». Da una decina di anni anche le chiamate vocali (sia da fisso sia da mobile) vengono digitalizzate, sono cioè trasmesse via web. «Per tanto un inadeguato livello di sicurezza può riflettersi negativamente sia sui diritti dei singoli cittadini, pregiudicando la riservatezza delle loro comunicazioni e la protezione dei loro dati personali, sia gli interessi istituzionali ed economici degli enti e delle imprese». Il rischio, secondo Goretti, è molto ridotto: «In linea teorica la possibilità di duplicare i dati c’è. In pratica sarebbe molto complesso farlo e i risultati sarebbero molto parziali: bisognerebbe duplicare i dati di tutti gli Ixp del paese». Cosa complessa ma certo non impossibile, visto che gli hardware ospitati in queste strutture sono di varia provenienza: ci sono, ad esempio, router a marchio Huawei e Cisco, due multinazionali non estranee alle recenti polemiche sullo spionaggio. La manutenzione delle macchine può essere fatta anche da remoto e volendo non sarebbe complicato avviare funzionalità di mirroring e dirottare il traffico copiato. Tra i 132 operatori connessi al “Mix” di Milano ci sono gli americani At&T;, Amazon, Facebook, Google, Microsoft, Verizon. Giuliano Tavaroli, ex responsabile della sicurezza di Telecom e del Gruppo Pirelli, la vede in maniera a dir poco laica: «Il problema non è se i dati vengano o meno copiati. Questo in fondo starebbe nelle cose, e al massimo bisognerebbe capire chi è che intercetta e perché, visto che in Italia i nostri servizi segreti non dispongono dei mezzi per immagazzinare e analizzare moli significative di dati. Il vero problema è che, considerato il livello scarso di sicurezza di queste strutture, se fossero intercettate in Italia, oggi, non ce ne riusciremmo nemmeno ad accorgere». Oltre che di sicurezza e di privacy, gli ispettori del Garante ne fanno anche una decisiva questione di regole: «Per svolgere la propria attività gli Ixp non hanno la necessità di trattare i dati personali degli abbonati o degli utenti e quindi (...) non assumono la qualifica di titolare del trattamento, in relazione alla quale il Garante potrebbe prescrivere loro direttamente le misure ritenute necessarie o opportune per rendere il trattamento dei dati conforme alle disposizioni di legge». Come a dire, sono liberi di fare ciò che vogliono, senza essere controllati. 35 Del 17/07/2014, pag. 6 Intercettazioni, l’Ordine: no a nuove norme No al bavaglio per i giornalisti e no al carcere per chi non è iscritto all’Ordine. Sono i due messaggi lanciati al governo dal convegno organizzato ieri nella sede del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti. All’incontro hanno partecipato i direttori (o loro delegati) di Avvenire, Corriere della Sera, Gazzetta del Sud, Il Fatto quotidiano, Il Giornale, Il Giorno, Il Tempo, Irpinia news, l’Unità, la Stampa,News Mediaset, Repubblica. it, Sky Tg24, Tg2,Tgcom24. Si è trattato, di un primo confronto, al quale ne seguiranno altri, per affrontare con tutti i direttori i delicati problemi che riguardano il mondo dell’informazione. «L’incontro - spiega una nota dell’Ordine nazionale dei giornalisti - ha affrontato due temi in particolare: la richiesta del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, di avere un contributo su una nuova regolamentazione dell’uso delle intercettazioni telefoniche e l’approvazione in Senato di una norma che punisce con il carcere chi esercita abusivamente una professione. I direttori e i vertici dell’Ordine ribadiscono che è loro dovere tutelare l’interesse pubblico, garantendo ai cittadini una informazione corretta, completa, rispettosa della verità e delle persone. Non possono essere i giornalisti i custodi del segreto delle indagini. Esistono già norme chiare che attribuiscono ben precisi doveri ad altri soggetti che dovrebbero occuparsi, in base alla legislazione esistente, di eliminare tutto ciò che non è pertinente alle inchieste e, in particolare, quanto riguarda persone terze. Il problema è, quindi, far rispettare le regole esistenti fin dal 1989, anziché ipotizzarne altre che rischierebbero di trasformarsi in una lesione dei diritti dei cittadini e in un bavaglio per i giornalisti». Il direttore dell’Unità Luca Landò è intervenuto dicendo che vanno sì applicate le leggi vigenti, ma bisogna anche tener conto del ruolo giocato ora dalla rete Internet: «Nuove leggi sarebbero inefficaci a fronte della pubblicazione di intercettazioni su siti web gestiti da server stranieri, e sta quindi alla responsabilità di tutti i soggetti coinvolti, magistrati ed avvocati, oltre che giornalisti, valutare cosa è necessario mantenere per il processo e cosa distruggere». Si legge nella nota scritta alla fine del convegno dall’Ordine: «I giornalisti sono consapevoli del dovere di valutare il contenuto degli atti giudiziari dei quali vengono in possesso, selezionando loro ciò che è rilevante ai fini dell’interesse pubblico, assumendosene la responsabilità ed evitando quanto è lesivo, in maniera gratuita, della dignità delle persone ». Circa il carcere per i non iscritti all’Ordine, dai direttori è stato rivolto un appello perché la norma venga cancellata in seconda lettura alla Camera: «Si tratta, infatti, di una previsione che non solo contrasta con la legge che riguarda l’accesso alla professione giornalistica, ma rappresenterebbe, se confermata, una intollerabile limitazione della libertà di espressione dei cittadini ». 36 CULTURA E SCUOLA del 17/07/14, pag. 5 La sovversione ministeriale Arianna Di Genova Patrimonio. Il dicastero dei beni e le attività culturali al centro di una rivoluzione politica. Via i soprintendenti dai posti di comando, sì alle dirigenze esterne dei musei d'eccellenza che conquistano autonomia. E la separazione dei compiti di tutela e gestione, anche su questioni delicate come quella del paesaggio Questa volta non si tratta di piccoli aggiustamenti, «gli italiani sono stanchi di prudenza». Si parte dal diktat della spending review (37 dirigenti in meno, 6 di prima fascia, 31 di seconda) per ridisegnare il ministero dei beni e le attività culturali. Ne aveva bisogno quel dicastero un po’ bulimico e sicuramente poco snello, ma stavolta il Mibact cambia proprio pelle. Una cura, quella a firma di Dario Franceschini, che più che dimagrante, è una specie di doping per far tagliare il traguardo ai cavalli vincenti, col rischio di lasciare al palo gli «altri», la maggioranza. Tra le centinaia realtà museali sparse sul territorio, solo una manciata conquista la pole position. Sono quelle che si valorizzano grazie al loro appeal mondiale, basta pronunciarne il nome: verranno gestite non più da soprintendenti, ma da dirigenti di prima fascia ed esterni, tramite un bando pubblico. E i piccoli musei, quel patrimonio diffuso che costituisce la vera identità del paesaggio culturale italiano? Non verranno abbandonati, afferma Franceschini, ma entreranno in un meccanismo virtuoso e saranno al centro di un sistema di solidarietà. «Abbiamo fatto la scelta che il massimo livello di apicalità dell’amministrazione venga utilizzato per guidare gli elementi di massima eccellenza del Paese», dice il ministro. L’idea è quella di cancellare la guida «burocratica» di istituzioni-star per renderla «meritocratica» (un po’ quello che sta avvenendo nella scuola pubblica). Luoghi come Colosseo, Uffizi, Capodimonte, Pinacoteca di Brera, Galleria dell’Accademia di Venezia non potranno che benificiarne. Alla base di questa visione — rivoluzionaria sì perché per la prima volta, dopo anni di tentativi falliti, si toglie potere decisionale alle soprintendenze — manca la prospettiva territoriale, l’immagine di un’Italia connessa, non frammentaria con picchi qua e là di meraviglie, un’Italia con monumenti, pinacoteche e chiese che sono tutt’uno con i luoghi dove sorgono e che, in quanto tali, fanno sistema, rappresentano una rete culturale vivente, irrorata di vene e capillari — i piccoli musei, le collezioni particolari, la norma al posto dell’eccezione. L’impulso (renziano?) al rovesciamento totale di potere richiede però una precisa idea del funzionario/soprintendente: quel cliché che lo immagina figura polverosa e fuori del tempo, abbabicato al suo feudo. Ce ne sono anche così, ma sarebbe bastato rimuoverli dal loro incarico, prima che facessero danni (l’Aquila insegna). Franceschini assicura che nessun manager della Coca-cola andrà a dirigere la Galleria Borghese o Pompei (a Cinecittà-Luce è successo con un boss di Mediashopping e prima ancora c’è il fulgido esempio di Resca, ex guru di McDonald’s Italia, poi direttore generale dei beni culturali). Sulla scia della razionalizzazione, la direzione centrale Belle arti e paesaggio (l’archeologia rimane a parte) sarà l’unica linea di comando: il parere dei soprintendenti non sarà vincolante, ma posto a giudizio da una commissione mista che potrà riesaminarlo e sfiduciarlo. Franceschini si è visto recapitare una lettera collettiva degli storici dell’arte 37 che ponevano l’accento sul valore della tutela, ma ieri ha liquidato l’appello con poche parole: preoccupazioni fuori luogo. Fra i punti più controversi della riforma Mibact, spunta il nuovo ruolo dato alle Direzioni regionali: saranno «segretariati», con il compito amministrativo di coordinare gli uffici periferici e specifiche competenze nel turismo. E chi sarebbe preposto ad agire come interfaccia del governatore di turno o del comune in un paese in cui mancano i piani regolatori o sono ridotti a carta straccia? Anche qui, risolverà l’annoso problema un comitato misto (interno/esterno), di garanzia. La riforma, presentata a percorso legislativo quasi concluso, può riassumersi così: dimezzamento delle linee di comando, centralizzazione decisionale, perdita di autonomia per i funzionari (con l’annessa perdita del loro ruolo di presidi sul territorio) e valorizzazione di musei a cui, in fondo, non è così difficile affidare speranze. Segue poi una razionalizzazione del settore biblioteche e archivi e la creazione di nuove direzioni generali a costo zero: «Educazione e ricerca», «Arte, architettura contemporanea e periferie urbane». Queste ultime due hanno un fascino indiscusso. Entrambe lancerebbero il Mibact in un panorama globale. Naturalmente solo se fornite di risorse. Del 17/07/2014, pag. 45 Il ministro Franceschini difende la riforma dei Beni culturali Malessere nelle soprintendenze “I musei italiani sono a rischio pigrizia” FRANCESCO ERBANI LE SOPRINTENDENZE si dedichino alla tutela. I musei hanno bisogno di essere guidati da persone che sappiano soprattutto di gestione: non manager, ma studiosi che abbiano una spiccata professionalità, appunto, gestionale. È questa, ridotta in pillole, la filosofia alla base del riordino che Dario Franceschini vuole dare al suo ministero. E per cominciare ecco la lista dei 20 fra musei e siti archeologici che verranno retti non più, come adesso, da funzionari o da direttori provenienti dalle soprintendenze, ma da un personale reclutato, sulla base di “procedure di evidenza pubblica”, da commissioni formate da personale interno ed esterno al ministero. La lista è stata diffusa ieri, ma non mancano le incertezze. C’è il Colosseo, ovviamente, ma poi c’è “l’area archeologica di Roma”, che non è chiaro cosa comprenda, se arriva fino a Ostia, per esempio, o se si limiti alla zona centrale — i Fori, il Palatino, la Domus Aurea.... Ci sono, raggruppate, Pompei, Ercolano e Stabia, i cui scavi, però, hanno tre direzioni diverse: ci si riferisce a tutte e tre? E se le aree archeologiche vengono sganciate dalla soprintendenza, a quest’ultima che cosa resta? Intanto, spiega Franceschini, per l’area vesuviana si procederà solo quando sarà ultimato il Grande Progetto Pompei (gli interventi finanziati dai 105 milioni europei). Ma è evidente che bisognerà attendere la stesura del decreto per sciogliere le ambiguità (il decreto dovrebbe andare in Consiglio dei ministri entro fine mese). Minori ambiguità, almeno in apparenza, per gli altri siti: Uffizi, Brera, Reggia di Caserta, Gallerie dell’Accademia di Venezia, Capodimonte, Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, Galleria Borghese. In queste sedi, al posto degli attuali direttori, andrà un dirigente di prima fascia, equiparabile — anche per compenso — a un direttore generale. Al Museo Nazionale romano (diviso in quattro strutture, Palazzo Massimo, Palazzo Altemps, Crypta Balbi e Terme di Diocleziano, ognuna con un suo direttore), all’archeologico di Taranto, di Napoli, di Reggio Calabria, a Paestum, alla Galleria dell’Accademia di Firenze, a Palazzo Barberini, alla 38 Galleria Estense di Modena, alla Galleria Sabauda di Torino, al Palazzo Reale di Genova e al Bargello sarà destinato un dirigente di seconda fascia, assimilabile a un soprintendente. Questi siti, spiega il ministro, non sono stati scelti solo perché più visitati. Per questo, certamente, ma anche per l’importanza della loro collezione. E perché, aggiunge facendo il caso di Capodimonte, potrebbero essere visitati ancor di più. «La nostra vuol essere una rivoluzione, non un ritocco», insiste il ministro, che dice di aspettarsi «una grande rotazione alla guida di musei e siti archeologici, che eviti l’impigrimento ». Franceschini se la prende poi con le resistenze che il suo progetto incontra soprattutto fra i soprintendenti storico-artistici (i loro uffici saranno accorpati con quelli di architettura e paesaggio). E, in generale, in molti settori della tutela. «È una resistenza protettiva », dice. Le ragioni del malessere vengono espresse con forza, ma in maniera anonima. Molti dirigenti archeologi, per esempio, spiegano che separare un museo dalla rispettiva soprintendenza vada contro la logica che presiede alla fondazione di quel tipo di museo, che è continuamente alimentato da reperti provenienti da scavi condotti in quel territorio sotto la guida della soprintendenza. Diversa è la condizione di musei in altri paesi, frutto di acquisti o del collezionismo. D’altronde, insistono in molti, il modello italiano è molto apprezzato proprio all’estero per le sue specificità. E lo stesso vale per i direttori di tanti musei italiani. E non è certo a causa di quel modello, si sente dire da molte parti, se i beni culturali in Italia sono in stato di gravissima sofferenza. Dal 2001 in poi si è solo tagliato. Nel 2008 il bilancio del ministero era dello 0,28 per cento su quello complessivo dello Stato, nel 2014 dello 0,19. Un altro punto desta molta preoccupazione. Il diverso ruolo che assumeranno le direzioni regionali — che diventeranno segretariati regionali, retti da un dirigente amministrativo di seconda e non più di prima fascia — avrà riflessi sulla redazione, insieme alle Regioni, dei piani paesaggistici, uno degli strumenti fondamentali per una tutela del territorio fatta non solo con i vincoli, ma, appunto, con una pianificazione degli interventi? Il ministro Franceschini assicura che nulla cambierà. Ma molti, fra gli ambientalisti, temono che questa norma, insieme a quella che istituisce commissioni per valutare i pareri dei soprintendenti, sia davvero molto rischiosa per il paesaggio. del 17/07/14, pag. 4 La valorizzazione? Non è un punto ristoro Paolo Berdini Beni culturali. La riforma del Mibact presentata da Dario Franceschini mette a rischio la tutela del paesaggio e sfiducia gli organi decentrati dello Stato, quelli che presidiano il territorio Il ministro Franceschini è vissuto a Ferrara e conosce ciò che quella meravigliosa città ha saputo costruire: un mirabile equilibrio tra la bellezza urbana e il paesaggio. Lo affermo perché rimasi colpito di una sua dichiarazione nel novembre 2012 in occasione della morte del grande Paolo Ravenna. Sosteneva Franceschini che a lui si doveva molto del rispetto della cultura dei luoghi, dalle mura al parco agricolo che le cinge. A leggere le parti salienti del progetto di riforma del Mibact viene da pensare che siano state quelle parole vane, come sempre più spesso ci abitua una politica che vive di slogan. Ma forse, nessuno poteva aspettarsi – e dunque neppure il ministro — che il Presidente del consiglio avrebbe iniziato a costruire il suo profilo istituzionale proprio riempiendo di contumelie i «professoroni» e attaccando burocrati e Soprintendenze di Stato. Solo dei grigi burocrati 39 come i soprintendenti, appunto, non capiscono che il futuro dell’Italia è nella messa a reddito del nostro petrolio, e cioè lo straordinario patrimonio culturale che ci fa un caso unico nella storia della cultura mondiale. Un atteggiamento culturale che è l’esatto contrario dell’impegno di una vita di uomini come Paolo Ravenna o, sempre per restare a Ferrara, di Giorgio Bassani. Sarà un caso, ma proprio due giorni prima la presentazione del progetto di riforma tutto centrato sulla valorizzazione, è stato reso pubblico uno studio della Società Autostrade per l’Italia che si occupa niente meno dello sviluppo turistico e culturale del parco dell’Appia antica di Roma. Tra le tante perle contenute in quel documento — tutte elencate in un ottimo documento-appello dell’associazione Bianchi Bandinelli — c’è anche scritto che in alcuni luoghi si sarebbero creati dei punti di vendita ristoro con prodotti tipici in modo da riscoprire l’importanza del gran tour nella Roma del settecento. È scritto proprio così e nessun soprintendente di Stato avrebbe mai immaginato una simile genialità. Chissà cosa avrebbe scritto Antonio Cederna, una vita spesa per salvaguardare l’Appia antica. Questa follia c’entra molto con il progetto di riforma di Franceschini. Il ruolo dei soprintendenti diviene infatti marginale e uno dei pilastri che regge la riforma sta nel fatto che i più importanti luoghi della cultura italiana potranno divenire speciali e per ciò stesso affidati a manager esterni all’amministrazione dello Stato. Tutti meno i soprintendenti. Una vera ossessione. E veniamo al nodo che riguarda il paesaggio. Il ministro sa che nella discussione parlamentare è stato inserito un comma all’articolo 12 in cui vengono istituiti i «comitati di garanzia per la revisione dei pareri paesaggistici», una mostruosità giuridica – la messa sotto tutela ministeriale del capillare lavoro degli organi decentrati dello Stato — che significa una sola cosa: la fine della tutela paesaggistica del territorio, questione contenuta nei principi fondamentali della nostra Costituzione. E anche qui c’è una coincidenza importante. Il 4 luglio scorso la regione Toscana ha adottato il Piano paesaggistico regionale, un ottimo strumento di tutela voluto dall’assessore Anna Marson e a cui ha partecipato attraverso intesa istituzionale il Ministero dei Beni culturali. Forse chi ha presentato l’emendamento voleva azzerare per sempre l’azione regionale di tutela del territori ed è grave che Franceschini abbia accettato l’emendamento e non ristabilito il corretto funzionamento dello Stato. Molti parlamentari e qualche ministro hanno a cuore le betoniere che hanno devastato l’Italia. Alcuni anni fa la Soprintendenza del Lazio per tutelare l’agro romano meridionale impose un vincolo generico. Iniziarono lo stesso i lamenti che denunziavano il «blocco» delle costruzioni. Possiamo proporci di accompagnare questi parlamentari e il ministro verso le campagne del Divino Amore a Roma – luogo interno al vincolo — e contare insieme il numero dei grandi quartieri che sta sorgendo in aperta campagna in una città che ha duecentomila abitazioni vuote Il problema non sono i vincoli o i soprintendenti: sono il rispetto della storia e della cultura che fanno grandi le nazioni e le città. Come la splendida Ferrara. del 17/07/14, pag. 5 La meglio gioventù è stata bruciata: laureati a 39 anni, proletari a vita Roberto Ciccarelli ROMA 40 Quinto stato. Pubblicato lo studio di Paolo Naticchioni, Michele Raitano e Claudia Vittori. A confronto tre generazioni nate tra il 1965 e il 1979. I salari d'ingresso della "Generazione Tq" crollano fino a 35.500 euro nei primi sei anni di carriera. Ma per i nati dopo il 1980 la situazione è sicuramente peggiore. Di chi è la responsabilità? C’era una volta l’università di massa e il ceto medio che ha affidato alla laurea la speranza di migliorare la propria condizione sociale e professionale. Nel lungo Dopoguerra è stato così fino al 1980 quando l’ascensore sociale ha iniziato a bloccarsi, prima a scatti, poi per periodi più lunghi. Oggi, sostengono Paolo Naticchioni, Michele Raitano e Claudia Vittori in uno studio pubblicato sull’ultimo numero del «menabò» online dell’associazione «Etica e economia» fondata da Luciano Barca, sta precipitando come in un film horror. Gli studiosi hanno messo a confronto tre generazioni nate fra il 1965 e il 1979, vale a dire i figli della generazione nata a cavallo o subito dopo la guerra mondiale e hanno dimostrato come l’andamento delle retribuzioni di un campione di lavoratori dipendenti privati con età compresa tra i 35 e i 39 anni sia chiaramente inferiore rispetto ai salari delle due coorti precedenti. Chi è nato tra il 1970 e il 1974 e si è laureato, ha subìto una perdita pari a poco meno di 5 mila euro nella prima fase della carriera, che cresce a 8100 euro per chi è nato tra il 1975 e il 1979. Se poi si confronta la situazione dei 35-39enni con i nati nella seconda metà degli anni Sessanta, i salari d’ingresso sono inferiori di oltre il 20% e il divario tende ad aumentare negli anni seguenti, minando le prospettive di carriere lavorative durevoli. Questi laureati hanno perso complessivamente 35.500 euro rispetto ai nati nel periodo 1965–1969. La perdita è molto forte anche tra chi è nato nel primo decennio degli anni Settanta, fra cui rientra chi ha iniziato a lavorare nella crisi occupazionale del 1992–3 e nei cinque anni successivi quando il centro-sinistra di Prodi approvò la prima riforma sulla precarizzazione: il cosiddetto «pacchetto Treu». In questo caso la perdita è stata quantificata in 29 mila euro. I diplomati, che si presume essere meno qualificati, hanno risentito di una politica che ha mescolato i bassi salari con la precarizzazione generalizzata: rispettivamente 16.700 e 9.100 euro a discapito dei nati nella seconda e nella prima metà degli anni Settanta, ma sembrano riconquistare terreno nei primi anni della loro «carriera». I divari accumulati sono infatti inferiori rispetto a quelli dei laureati: 2.800 e 2.100 euro a discapito di chi è nato alla fine o all’inizio degli anni Settanta. In questo scenario di crescente proletarizzazione del lavoro dipendente, e autonomo, sia quello della conoscenza che quello «esecutivo», sembra essere sfumata l’equazione tra alto livello di istruzione e reddito elevato, il pilastro sul quale è stata costruita la categoria sociale del ceto medio. Lo squilibrio crescente tra i redditi nel passaggio da una generazione all’altra, la perdita del prestigio sociale legato alla conquista di un titolo di studio, l’erosione dello status professionale in direzione di un bric-à-brac precario e esistenziale, ha annientato l’alta considerazione di sé diffusa sia nel lavoro indipendente che in quello dipendente, come dimostra oggi la condizione dei giovani avvocati, architetti o medici sempre più disoccupati, precari o senza futuro. Ma c’è di più, avvertono Naticchioni, Raitano e Vittori. Se questa, infatti, è la situazione dei nati prima degli anni Ottanta, nettamente peggiore è quella attuale di tutti coloro che sono venuti al mondo in Italia dal 1981 in poi. «Questi giovani sono stati penalizzati anche da una più ridotta partecipazione al mercato del lavoro, probabilmente in seguito alle riforme che hanno favorito la discontinuità delle prestazioni lavorative». 41 Chi ha tra i 15 e i 34 anni, definito in maniera variopinta come «Neet», «scoraggiato» o «precari», è stato affossato dalle politiche economiche basate sul taglio dei salari e sulla precarizzazione selvaggia seguita alla riforma Biagi e poi a quella Fornero. In attesa degli esiti di quella Poletti che ha reso i contratti a termine «acausali» («uno sconcio etico e incostituzionale» l’ha definita il giuslavorista Piergiovanni Alleva sul nostro giornale), è presumibile che i salari d’ingresso della generazione più giovane siano nettamente più bassi rispetto all’ultima coorte analizzata da Naticchioni, Raitano e Vittori. Un altro motivo d’interesse di questo studio è la netta smentita della leggenda molto in voga nel ceto dominante nell’epoca Gelmini: in Italia non ci sono laureati in eccesso. Sarebbe vero se la domanda di lavoro qualificato fosse rimasta stabile o fosse cresciuta meno dell’offerta. Invece, l’Italia è uno dei paesi Ocse con il più basso tasso d’istruzione, ha il 15% dei laureati contro il 25–35% di Francia e Germania. Il ceto medio è stato stritolato dalla peculiarità della struttura produttiva contraria all’innovazione, pervicace sostenitrice del contenimento dei costi, fanatica del precariato. Le prospettive non migliorerano intervenendo sul lato dell’offerta, proprio come sta facendo il governo Renzi, ma incidendo sul lato della domanda. 42 ECONOMIA E LAVORO del 17/07/14, pag. 5 Primi 400 milioni per la cig, ma l’articolo 18 è a rischio Jobs Act Dal fronte del lavoro arriva qualche buona notizia, ma ne arrivano anche di pessime. Ieri il ministero del Welfare, guidato da Giuliano Poletti, ha fatto sapere che di concerto con il dicastero dell’Economia sono stati stanziati i primi 400 milioni necessari per il rifinanziamento della cig in deroga, da mesi gravemente in ritardo. Intanto però l’Ncd – partito nemico dei diritti del lavoro – con l’alfiere Maurizio Sacconi torna all’attacco dell’articolo 18, e ribadisce che si dovrà modificarlo quando il Jobs Act approderà in discussione alle camere. «È stato firmato – spiega una nota del Welfare – il decreto interministeriale del ministero del Lavoro e del ministero dell’Economia, con il quale viene autorizzata la spesa di 400 milioni per consentire il pagamento integrale delle somme ancora dovute ai titolari dei trattamenti di cig e mobilità in deroga, per il periodo fino al 31 dicembre 2013 e le prime quote per il 2014». «Nei prossimi giorni – conclude il comunicato – il ministero del Lavoro individuerà risorse per ulteriori 400 milioni da destinare al pagamento dei trattamenti di cig e mobilità in deroga per l’anno 2014, definendo, nello stesso tempo, i criteri per l’utilizzazione di entrambi gli strumenti». Dunque potrebbero a breve essere disponibili ulteriori 400 milioni, oltre quelli già stanziati, per complessivi 800: lo stesso ministro Poletti, confermando un allarme lanciato dai sindacati, aveva parlato di «un miliardo» come cifra necessaria. Insomma, ci siamo quasi. I confederali, che hanno già in programma dei presidi il 22 e 24 luglio proprio per sollecitare interventi urgenti, certamente avranno interesse a vigilare. Ed ecco le note dolenti: il presidente della Commissione Lavoro del Senato, Sacconi, ha mostrato di non aver abbandonato l’idea di smantellare l’articolo 18. Ieri diversi emendamenti sono stati presentati proprio durante i lavori della sua commissione, ma proprio perché il tema è “caldo” non si è voluto trattare l’articolo 4 del provvedimento, che contiene le varie forme contrattuali e appunto l’eventuale intervento sull’articolo 18. «In qualunque momento la commissione è pronta ad andare in Aula – ha detto Sacconi – Appena c’è un slot, noi ci siamo», che poi sull’articolo 4 ha aggiunto: «in una seduta» si discute. Come dire, basterebbe poco. Poi la solita tirata ideologica, contro le tutele: «Invito il governo ad avere ancor più coraggio nella semplificazione della regolazione del lavoro dopo i decenni della complessità imposta dall’ideologia di classe –ha detto l’ex ministro del Lavoro – È giunta l’ora di cambiare il contratto a tempo indeterminato rendendolo più conveniente, perché più certo e più flessibile, ai datori di lavoro». Un emendamento del governo è stato presentato per la modifica dei contratti di solidarietà, resi «più flessibili», permettendo assunzioni a fronte delle riduzioni di orario. Un altro sulle dimissioni in bianco, altri su reddito minimo di inserimento e sostegno ai disoccupati. 43 del 17/07/14, pag. 9 Etihad-Alitalia alla firma, la Cgil dice no La Cgil non firmerà l’accordo sugli esuberi Alitalia. Lo annunciano il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, e il segretario generale della Filt Cgil, Franco Nasso, in una lettera inviata al ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Maurizio Lupi, e al ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Giuliano Poletti. Il sindacato di corso Italia aveva chiesto qualche giorno di tempo dopo che sabato Cisl, Uil, Ugl e le sigle di piloti e assistenti di volo (Anpac, Anpav e Ania) avevano siglato l’intesa su 2.251 esuberi. Ieri i vertici della Cgil hanno confermato la bocciatura del piano: «Con ogni evidenza si tratta di una crisi indotta dalla palese inadeguatezza del “piano Fenice” (sulla base del quale Alitalia ripartì nel 2009, ndr), oltre che dall’assenza di una politica di settore e certamente non dipendente da fattori riconducibili al lavoro», fanno notare Camusso e Nasso che comunque esprimono un giudizio positivo sul programma di rilancio presentato da Etihad: «Un piano molto prudente che però si muove, a differenza di quello targato Air France, nella direzione giusta: più qualità e più rotte intercontinentali». Camusso e Nasso definiscono «incomprensibile » la posizione di Cai in merito alla gestione degli esuberi. Per questi motivi la Cgil e la Filt confermano la «non sottoscrizione dell’intesa», aggiungono i leader sindacali che confermano «l’impegno a sostegno dei lavoratori ingiustamente colpiti e per garantire una prospettiva di salvataggio e rilancio di Alitalia e dell’intero settore del trasporto aereo italiano». «Sinceramente me l’aspettavo. Era nella logica delle cose» commenta l’ad di Alitalia, Gabriele Del Torchio, «se non altro, però, c’è un passo positivo perché hanno detto di voler firmare il contratto». Rispondendo al «question time » sulla vertenza Alitalia, il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ribadisce: «Abbiamo fatto tutto ciò che si può fare per ridurre al minimo gli elementi di problematicità che sul piano dell’occupazione si stavano presentando ». Comunque, dopo l’ok delle banche alla ristrutturazione del debito di Alitalia e le voci di una resistenza di Poste Italiane ad affiancare gli istituti di credito, ieri il numero uno di Etihad, James Hogan, ha incontrato Francesco Caio, l’ad di Poste, sulla partecipazione del gruppo all’aumento di capitale da 200 milioni destinati a eventuali contenziosi o debiti superiori alle previsioni entro il 2014. «Chiariremo la posizione di Poste nelle prossime ore perché ormai non c’è più tempo – ha detto Del Torchio -. Il 25 luglio abbiamo l’assemblea». Intanto è ripresa ieri sera la trattativa al ministero delle Infrastrutture tra sindacati e Alitalia per proseguire il confronto sul nuovo contratto nazionale del trasporto aereo: i sindacati hanno chiesto aumenti salariali del 6% per i prossimi tre anni. Inoltre se il contributo di solidarietà chiesto dall’azienda dovesse essere accolto, nell’accordo a livello aziendale Alitalia potrebbe risparmiare 31 milioni di euro nel secondo semestre 2014. Dai calcoli dei sindacati il taglio per un lavoratore di terra è di 100 euro al mese su 1.200 euro mensili, mentre per un pilota si tratta di meno 1.500 euro. Su questi temi la trattativa si era arenata l’altra notte quando la Uil aveva chiesto di consultare la base e pure piloti e assistenti di volo avevano puntato i piedi. F.D.F. 44 del 17/07/14, pag. 10 L’ADDIO DI FIAT AFFOSSA L’ITALIA IMPRESE NANE ED EXPORT GIÙ REPORT DI MEDIOBANCA SULLE MULTINAZIONALI: SONO SEMPRE MENO, NON CREANO OCCUPAZIONE E CON LA MOSSA DI MARCHIONNE INCIDERANNO POCO SUL PIL di Camilla Conti Quanto costerà all’Italia il trasloco della Fiat in Olanda? Un rapporto di R&S Mediobanca ha provato a fare i calcoli, partendo dal peso delle quattordici multinazionali industriali che nel nostro Paese sono già piccole, poco competitive, meno orientate all’export, meno solide e meno redditizie delle concorrenti estere. La loro incidenza sul Pil nazionale è infatti la minore in Europa: 26,7 per cento. Ma scenderà al 19,6% se la casa automobilistica confermerà il suo addio a Torino. Così come scenderà l’incidenza del fatturato delle multinazionali tricolore sul totale di quelle europee; dal 7,5% attuale al 5,5% contro il 24% del Regno Unito, il 22% della Germania e il 15% della Francia. Fiat-Chrysler, che vale 7,1% del Pil, oggi è al diciottesimo posto nel mondo nella graduatoria per il totale di attivo, comandata nuovamente da Gazprom (293,1 miliardi) che ha superato la Toyota nel 2012. Fiat arriva a 108 miliardi, ed è preceduta tra le italiane solo dall’Eni, che è 14esima a quota 134 miliardi. In tutto sono dodici le multinazionali italiane prese in considerazione da Mediobanca (che senza Fiat sono al 64,8% in mani pubbliche) e danno lavoro a 49.924 persone in Italia. Gli occupati scenderebbero a 36.992 se escludessimo Fca. IDEM per la bilancia delle esportazioni: se a fine 2013, comprendendo Fiat-Chrysler, nel settore della manifattura le nostre multinazionali nel 2013 hanno esportato l’85,9%, senza il Lingotto si sarebbe scesi, secondo Mediobanca, al 75,5%, quasi undici punti in meno rispetto alla media Ue che è dell’86,4 per cento. La quota nazionale di vendite salirebbe dal 14,1% al 24,5%, con un crollo di 18 punti percentuali dell’export verso gli Usa, tornando ai livelli del 2010-2011. Ma gli effetti più allarmanti, quando Fiat migrerà, si avranno sulle statistiche relative al costo unitario del lavoro, il cosiddetto Clup, che grazie al gruppo torinese tra 2003 e 2012 è sceso del 13,9%, ma senza Fca sarebbe cresciuto del 3,1%. Per fare un raffronto, in Germania il calo è stato del 17,3%. Il valore aggiunto per dipendente scende infatti senza la Fiat da 64mila euro a 61.500, ed aumenta il costo del lavoro da 49.200 euro a 52.100, con un differenziale positivo che scende da 14.800 euro a 9.400 euro. Ecco l’effetto Marchionne che si manifesta anche quando l’analisi di Mediobanca si concentra sul settore automotive. Nel 2012, il 7,3% dei ricavi globali delle quattro ruote sono finiti in Italia, ma se si scorpora la sola Chrysler si scende al 2,8%, meno del 3,8% che il nostro Paese rappresentava a livello globale nel 2004.Lo scenario mondiale dal 2004 ad oggi è cambiato: il Giappone con Toyota e la Germania con Volkswagen hanno scalato la classifica dei produttori, a discapito degli Stati Uniti che con General Motors e Ford hanno perso posizioni, invertendo la tendenza rispetto a dieci anni fa. Corre invece la Corea del Sud con Hyundai e Kia. Fiat rimane all’undicesimo posto con 67,3 miliardi, ma dal 2012 è stabilmente davanti alla Peugeot. Volkswagen conquista il mercato mondiale delle vendite crescendo di 6 punti percentuali dal 2004 e arrivando al 15%. Segue Toyota con il 13,5% mentre Fiat è sesta con il 6,6%, in crescita di 2 punti percentuali rispetto al 2004. 45 IL MERCATO ITALIANO delle quattro ruote ha comunque beneficiato dell’effetto Chrysler: i ricavi del settore in Italia sono saliti dal 3,8% al 7,3% nell’ultimo decennio (senza Chrysler la quota sarebbe invece scesa al 2,8%). Il peso sul totale dei ricavi delle multinazionali italiane, che nel 2004 era del 27,1%, sale al 33,8% (senza Chrysler peserebbe il 15,6%). Rispetto alla situazione stagnante dell'industria, i giganti dell'automotive nel primo trimestre del 2014 segnano una ripresa del fatturato del 7,7 per cento. Fiat si piazza sopra la media mondiale di 4,6 punti percentuali e segna un +12,3% grazie alle vendite Chrysler in Nord America e Messico. Diminuisce complessivamente il rapporto debiti finanziari su capitale netto, solo il gruppo di Marchionne lo aumenta in maniera evidente: +80,5 punti percentuali. 46