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RASSEGNA STAMPA
giovedì 17 luglio 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
PUBBLICO
IL MANIFESTO
L’UNITÀ
AVVENIRE
IL FATTO
IL RIFORMISTA
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da il FattoQuotidiano.it del 16/07/14
“Questa è l’acqua”, a Reggio Emilia il primo
Festival sonoro della letteratura
Dal 16 al 19 luglio prossimo andrà in scena la manifestazione ideata
dallo scrittore Paolo Nori dedicata alla narrazione orale. Tanti gli ospiti
attesi, da Ermanno Cavazzoni a Calro Lucarelle e Mariangela Gualtieri
di Silvia Bia
Esplorare la letteratura attraverso il suono, andando al di là della parola scritta, per
ritornare al piacere di ascoltare le storie. Lo facevano i grandi autori come Kafka, Gogol,
Puškin e Tolstoj, che prima di arrivare sui libri, leggevano i loro racconti in pubblico,
declamandoli per farli ascoltare e per riportare la narrazione alla magia corale del riunirsi
intorno ai cantastorie. Ora quelle impressioni potranno tornare in una rassegna dedicata
alle parole, ma soprattutto alla musica e al sapore di tutto questo mescolato insieme.
Dal 16 al 19 luglio a Reggio Emilia va in scena “Questa è l’acqua – Festival sonoro della
letteratura”, una manifestazione nata da un’idea dello scrittore Paolo Nori per riportare al
centro del palcoscenico la narrazione orale. “Ermanno Cavazzoni e io – ha spiegato Nori –
non volevamo fare un festival letterario ma un archivio, l’archivio sonoro della letteratura.
Avevamo, e abbiamo, l’impressione che ci sia molto materiale letterario non scritto,
sonoro, che tutti i giorni si produce in Italia, in letture, conversazioni, presentazioni di libri,
e che nessuno classifica e conserva. L’idea del festival – conclude ironicamente lo
scrittore – era come di supporto all’archivio”.
Proprio come facevano gli antichi, proprio come facevano i grandi autori, Nori lancia agli
ospiti che interverranno la sfida della lettura pubblica. Sul palco nelle quattro serate in
programma, si alterneranno artisti che leggeranno opere proprie e altrui, offrendo spunti
sul senso della bellezza di esistere e anche sulla sua inconsapevolezza, come suggerisce
il titolo del festival “Questa è l’acqua”, tratto dal discorso di David Foster Wallace del 21
maggio 2005 ai laureati del Kenyon College.
L’iniziativa, realizzata dall’Arci di Reggio Emilia in collaborazione con l’assessorato Cultura
e Paesaggio della Provincia di Reggio Emilia, da mercoledì 16 luglio porterà in viale
Ramazzini 72, tra la sede dell’Arci e il centro internazionale Loris Malaguzzi, voci e suoni
della letteratura, pezzi di storie da ascoltare, ancora prima che leggere. Primo ospite sarà
l’autore e fumettista Gipi, che leggerà pezzi di sue opere. Giovedì 17 luglio sul palco la
serata si aprirà alle 19 con Daniele Benati che proporrà un inedito Samuel Beckett tradotto
in dialetto reggiano. A seguire, alle 22 sarà la volta di Carlo Lucarelli, accompagnato dalla
colonna sonora delle Mondine di Novi.
Il programma prosegue venerdì 18 luglio con Giuseppe Bellosi, che darà voce alla lettura
integrale de “La Fondazione” di Raffaello Baldini. Alle 22 altra lettura integrale sarà quella
di Matteo B. Bianchi, che leggerà la propria opera “Mi ricordo”, seguita dalla scrittura,
raccolta e lettura dei “Mi ricordo” dei presenti. La serata conclusiva è prevista sabato 19
luglio con l’ultimo concerto dei Nuovi Bogoncelli, che proporranno letture di Daniil Charms,
e il gran finale con le poesie e gli scritti narrati da Mariangela Gualtieri.
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http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/07/16/questa-e-lacqua-a-reggio-emilia-il-primo-festivalsonoro-della-letteratura/1062185/
Mai più vittime!
Di seguito i link dei siti di informazione locale che hanno pubblicato notizie sulle iniziative
organizzate in occasione della giornata di mobilitazione per la pace in Medio Oriente
indetta dalla Rete della Pace e Rete Italiana per il Disarmo
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http://www.aostaoggi.it/2014/luglio/16luglio/news34135.htm
http://www.radiocittadelcapo.it/archives/gaza-diritto-internazionale-144030/
http://www.statoquotidiano.it/16/07/2014/foggia-pace-in-palestina-presidio-in-c-so-vemanuele/226524/
http://culttime.blogspot.it/2014/07/arci-provle-foggia-fiaccolata-dipace.html?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed:+Cul
ttimeBlog+%28culttime+blog%29
http://www.abruzzoweb.it/contenuti/pescara-mercoledi-sera-fiaccolata-per-la-pacein-medio-oriente/550419-4/
http://www.mbnews.it/2014/07/monza-presidio-in-largo-mazzini-restiamo-umanifermiamo-il-massacro-in-palestina/
http://www.piacenzasera.it/cosa-succede/cento-fiaccole-piazza-pace-medio-orientefoto.jspurl?id_prodotto=49794&IdC=1093&IdS=1093&tipo_padre=0&tipo_cliccato=0
&com=c
http://www.genova24.it/2014/07/genova-per-la-pace-solidarieta-gaza-la-carovanadi-music-peace-ancora-bloccata-confidiamo-nelle-nostre-istituzioni-69774/
http://www.estense.com/?p=398298
http://www.strill.it/citta/2014/07/gaza-medio-oriente-il-consiglio-comunale-dilamezia-terme-osserva-un-minuto-di-silenzio/
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ESTERI
Del 17/07/2014, pag. 1-14
GAZA, MUOIONO 4 PICCOLI PALESTINESI
Bombe sui bimbi in spiaggia Israele prepara
l’invasione
FABIO SCUTO
GERUSALEMME
GIOCAVANO a pallone su quel tratto di spiaggia che c’è tra il vecchio porto e l’Hotel Al
Deira, nella segreta — e sbagliata — convinzione che stare nei pressi dell’albergo usato
dai giornalisti stranieri nella Striscia li mettesse al sicuro.
LA PARTITELLA l’ha interrotta la Marina da guerra israeliana centrando con un colpo di
cannone sparato dal mare quel gruppetto di “sospetti” e portandosi via la vita di Ahed e
Zakarya di 10 anni, Ramez di 11 e Mohammad di 9. Il resto dei ragazzi della famiglia Bakr,
che vive nel campo profughi di Shati, è all’ospedale Al Shifa, con i corpi straziati dalle
schegge e bruciati dal calore delle esplosioni, in lotta tra la vita e la morte. I testimoni e i
primi soccorritori delle vittime della strage sulla spiaggia sono stati i fotografi e i giornalisti
che a quell’ora del pomeriggio si trovavano sul terrazzo dell’hotel. Fra le onde del mare, la
spiaggia, le barche dei pescatori, i capanni dei caffè dai colori sgargianti, quei bambini non
potevano certo immaginare che ci potesse essere da quelle parti un “obiettivo militare”. Né
quel punto figurava tra le quattro zone della Striscia dove Israele aveva ordinato
l’evacuazione a 100mila abitanti.
«I ragazzini stavano facendo una partita sulla spiaggia», ci racconta Ahmed Abu Adera,
uno dei camerieri dell’albergo, «un primo colpo si è schiantato sulla spiaggia come un
tuono, hanno iniziato tutti a scappare, ma un secondo colpo ha centrato un gruppetto che
correva... Sembrava come se i proiettili li stessero inseguendo». Diversi giovanissimi sono
corsi a ripararsi verso l’hotel Al Deira, poco distante, in cui alloggiano diversi giornalisti che
coprono il conflitto. Racconta Paul Beaumont, corrispondente del Guardian , fra i primi
soccorritori, che «non c’è stato nessun colpo di avvertimento, i ragazzi sono stati uccisi al
primo sparo, poi gli artiglieri hanno aggiustato la mira e colpito i sopravvissuti. Ero a meno
di 200 metri da lì». «C’è stata un’esplosione assordante verso le 4 del pomeriggio, in quel
tratto di spiaggia dove i pescatori stendono le reti ad asciugare », continua. «Quando si è
dipanato il fumo, ho visto quattro figure correre verso il nostro albergo in cerca di riparo: un
adulto e tre ragazzini. Il secondo colpo è arrivato quando ci avevano quasi raggiunto.
Siamo saltati tutti in piedi, urlando verso gli artiglieri israeliani, come se pola
tessero sentirci: sono solo dei bambini!!!». L’uomo che prima correva arriva all’hotel, si
appoggia, geme e tiene con le mani la tshirt intrisa di sangue all’altezza dello stomaco,
dove è stato colpito. «Era bianco come la neve, ha perso conoscenza», prosegue
Beaumont. «Mentre i ragazzi dell’albergo fermavano un taxi sul lungomare per portalo in
ospedale, altri hanno strappato le tovaglie dai tavoli per usarle come barelle e soccorrere
gli altri ragazzi». «Tirando su la maglietta al primo bambino, ho visto subito il buco nel
petto lasciato da una scheggia», racconta Ashraf, un altro dei camerierisoccorritori, «piccolo e tondo come il cappuccio di una penna, fra la prima e la seconda
costola. Gemeva: “ho male, ho male, il petto mi brucia”. Abbiamo preso altre tovaglie per
comprimere la ferita e fermare l’emorragia ». Altri si sono occupati del ragazzo più grande:
aveva le braccia bruciate, sanguinava dalla testa e dalle gambe. Qualcuno è corso in
strada per fermare qualche macchina di passaggio, ma sono arrivate due ambulanze che
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hanno caricato i tre ragazzi. Solo ieri il presidente Peres aveva lodato “l’umanità” dei piloti
israeliani nello scegliere solo obiettivi militari. Il numero delle vittime ha superato quota
220, i feriti sono oltre 1500. Alla vigilia di una tregua umanitaria di 5 ore mediata dall’Onu,
ieri sera l’Idf che ha aperto un’inchiesta si è giustificato così: «Stavamo colpendo un
obiettivo terroristico, l’uccisione dei bambini è un fatto tragico». E una fonte israeliana ha
rivelato che la probabilità che Israele lanci un’operazione di terra è “molto alta”.
La notizia della strage si è diffusa in un attimo nella Striscia, mentre le quattro piccole
vittime venivano trasferite nella vicina moschea Abu Hasira. I corpicini in terra, avvolti nelle
bandiere gialle del Fatah, il partito del presidente Abu Mazen. In migliaia, sfidando i raid
che proseguono, hanno partecipato in serata ai funerali. Urlando la rabbia e la
disperazione per le vittime innocenti di questa tragedia, bambini che volevano solo giocare
al pallone in un pomeriggio d’estate sulla spiaggia nel posto peggiore al mondo dove
crescere. Si chiama Gaza e dista solo tre ore d’aereo dall’Italia.
del 17/07/14, pag. 7
Hamas: «Sì alla tregua ma non a queste
condizioni»
Gaza. Dietro le quinte gli interessi personali del Cairo, di Netanyahu e
dell'Anp, Abbas incontra leader di Hamas in Egitto, domani vede
Meshaal
L’accusa è sulla bocca di tutti: Hamas ha fatto fallire la pace non accettando il cessate il
fuoco uscito dal cilindro egiziano e prontamente accolto da Tel Aviv. Tutta colpa di Hamas.
La realtà è diversa, fatta di incontri e telefonate segrete, interessi che si accavallano e
l’esclusione del movimento islamista dalla discussione. Le mani in pasta le hanno tutti: il
premier israeliano Netanyahu (che avrebbe preparato il cessate il fuoco in una chiamata
segreta con il presidente egiziano Al-Sisi), Il Cairo che non nasconde il desiderio di
indebolire il nemico Hamas, l’Autorità Palestinese.
Ieri Abbas è volato nella capitale egiziana dove oggi incontrerà l’ex generale Al Sisi, a cui
proporrà il dispiegamento di una forza dell’Autorità Palestinese che supervisioni il valico di
Rafah e i 14 km di confine tra Striscia e Egitto. Un’interposizione che potrebbe essere
applicata anche ad Erez, valico tra Gaza da Israele. L’Anp invierebbe un commando di
guardie presidenziali che addestri ufficiali gazawi, dispiegati al confine e stipendiati da
Ramallah. Abbas punta a presentarsi come mediatore tra la fazione palestinese (alleataavversaria) e la controparte israeliana di cui tutela la sicurezza in Cisgiordania. A Tel Aviv
l’idea non dispiacerebbe.
Ieri il presidente dell’Anp ha incontrato al Cairo Moussa Abu Marzouk, leader di Hamas,
per discutere dell’iniziativa egiziana. Venerdì vedrà invece il capo del politburo islamista
Meshaal, in Turchia, alla presenza del ministro degli Esteri del Qatar: Ankara e Doha sono
i riferimenti di Hamas, che vede nella loro mediazione opportunità più favorevoli. Intanto
voci contrarie alle iniziative unilaterali del presidente Abbas sono arrivate dall’Olp, dove c’è
chi critica «l’esclusione e l’umiliazione del movimento islamista» a cui non è stato chiesto
cosa voglia.
Già, Hamas. Cosa chiede? Ieri il portavoce Abu Zuhri ha comunicato all’Egitto il rifiuto del
cessate il fuoco nei termini previsti ma solo fino alla soddisfazione delle richieste del
movimento: ovvero il movimento è aperto a nuove proposte. Nei media locali gira un
decalogo che indicherebbe le condizioni per la tregua. Dai vertici nessuna conferma e a
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Gaza c’è chi li ritiene veri solo in parte. Hamas chiederebbe un deciso allentamento
dell’assedio: allontanamento dal confine dei veicoli militari israeliani e riconsegna della
buffer zone ai contadini palestinesi; riapertura dei valichi di frontiera, sia per i residenti che
per l’ingresso di materiali da costruzione e materiali necessari all’impianto elettrico;
apertura del porto e dell’aeroporto sotto la supervisione Onu; definizione del limite delle
acque territoriali a 6 miglia nautiche, entro le quali i pescatori siano liberi di pescare;
apertura di Rafah sotto la supervisione internazionale e ricostruzione della zona
industriale.
A ciò si aggiungono punti politici: liberazione dei prigionieri arrestati dopo la scomparsa dei
tre coloni e di quelli catturati dopo essere stati rilasciati con l’accordo Shalit; tregua di 10
anni; permessi di ingresso in territorio israeliano e a Gerusalemme per i gazawi; e infine
impegno israeliano a non interferire nelle questioni interne palestinesi, in particolare
nell’accordo di riconciliazione con Fatah, uno degli obiettivi dell’offensiva militare.
Hamas non molla l’osso del governo di unità nazionale, consapevole della propria
debolezza politica, della necessità di uscire dall’isolamento regionale in cui è finita dopo la
caduta dei Fratelli Musulmani in Egitto e del bisogno di tornare a riaffermarsi in
Cisgiordania. Da parte sua l’Anp tentenna, sospesa tra la necessità di non perdere
ulteriore consenso popolare (riottenuto con il riavvicinamento a Hamas) e la tentazione di
scaricare definitivamente la fazione avversaria. Una tregua negoziata da Ramallah
rafforzerebbe Abbas, oggi visto da gran parte dei palestinesi come un burattino nelle mani
israeliane.
Alla finestra sta Netanyahu. Bibi balla da solo: non ha comunicato al suo governo
l’intenzione di cercare una tregua (il ministro delle Finanze Bennett e quello degli Esteri
Lieberman lo hanno scoperto aprendo il giornale, si vocifera nei corridoi governativi) e
negozia con gli egiziani bypassando gli Stati Uniti. Il segretario di Stato Usa Kerry, in
procinto di volare al Cairo e a Tel Aviv, è stato scaricato da Al-Sisi e Netanyahu, che
hanno entrambi cancellato la visita. Bibi ha bisogno di rafforzare la sua posizione in una
coalizione indisciplinata: l’attacco a Gaza, pianificato da tempo, è lo strumento migliore per
raccogliere un consenso forzato ma necessario, mettendo a tacere le pericolose voci di
dissenso degli ultranazionalisti. La prima vittima è il vice ministro della Difesa, Danon,
licenziato martedì per le critiche mosse alla proposta di cessate il fuoco. Colpirne uno per
educarli tutti.
Il balletto danzato da Al-Sisi e Netanyahu vuole indebolire Hamas e costringerlo alla resa.
C’è un elemento che, però, potrebbe cambiare le carte in tavola: dopo l’operazione
“Colonna di Difesa” del 2012 che ne annientò quasi completamente l’arsenale, in meno di
due anni Hamas è stata in grado di ricrearlo di nuovo, più numeroso e efficace: migliaia di
missili – provenienti dall’Iran – che coprono distanze sempre più ampie e si avvicinano agli
obiettivi strategici, rendendosi difficilmente intercettabili dal costosissimo sistema Iron
Dome. Ad oggi, secondo dati dell’esercito israeliano, i razzi distrutti dal sistema antimissile sono circa il 20% del totale.
Hamas ha costantemente migliorato la propria intelligence e l’addestramento militare dei
miliziani e reperito armi sofisticate. E nonostante la propaganda israeliana che esagera da
una parte il pericolo rappresentato dai missili per generare panico nella popolazione e
dall’altra l’efficacia di Iron Dome, secondo fonti militari israeliane l’arsenale di Hamas
sarebbe stato intaccato di meno di un terzo. Anche Israele ha bisogno della tregua e
questo regalerebbe qualche punto ad Hamas.
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del 17/07/14, pag. 7
Israele minaccia l’invasione
“Pronti a entrare fra due giorni”
Vertice al Cairo Al Sisi-Abu Mazen per spingere Hamas a cedere
Maurizio Molinari
corrispondente da Gerusalemme
Abu Mazen è arrivato al Cairo per affiancare l’Egitto nel negoziato con Hamas sulla tregua
a Gaza nel tentativo di centrare l’obiettivo e scongiurare un’invasione di terra che l’esercito
israeliano ritiene oramai «probabile».
I portavoci di Hamas formalizzano da Gaza il rifiuto della bozza di tregua proposta dal
Cairo ma Abu Mazen è convinto di poter aiutare il presidente Abdel-Fattah Al Sisi a
superare l’ostacolo. Il motivo, spiegano fonti palestinesi a Ramallah, è che «Hamas ha
rifiutato la tregua egiziana perché non le garantiva risultati, limitandosi alla cessazione del
fuoco». Abu Mazen invece, nell’incontro che avrà oggi con Al Sisi, proporrà di «concedere
subito» a Hamas la riapertura del valico di Rafah, da cui dipendono gli scambi commerciali
di Gaza con il resto del mondo. Il presidente palestinese è convinto di poter garantire a
Hamas anche un «secondo risultato» ovvero l’arrivo dei fondi necessari per pagare gli
stipendi ai 40mila dipendenti dell’amministrazione di Gaza: non dalle casse di Ramallah
ma grazie a donazioni del Qatar. Gli sceicchi di Doha sono disposti a versare i milioni di
dollari necessari ma, anche qui, Abu Mazen chiederà ad Al-Sisi di fare un passo in avanti
ovvero consentire alle valige di contanti in arrivo dal Golfo di transitare per Rafah.
In questa maniera Hamas incasserebbe due risultati concreti e resterebbe poi a Israele
affrontare la terza richiesta ovvero liberare 56 militanti che erano stati rilasciati in cambio
dell’ostaggio Gilad Shalit ma che poi sono stati riarrestati in Cisgiordania. L’iniziativa di
Abu Mazen ha alle spalle il sostegno del Segretario di Stato John Kerry e nasce dalla
volontà di impedire l’attacco di terra israeliano che, come un alto funzionario della Difesa
dichiara,«potrebbe avvenire nei prossimi 2-3 giorni» dando inizio a «un’operazione
destinata a durare mesi al fine di smilitarizzare Gaza». È la linea del ministro degli Esteri,
Avigdor Lieberman, secondo il quale «non dobbiamo rioccupare Gaza per restarci o
costruire insediamenti ma per catturare, disarmare o uccidere ogni terrorista».
Le minacce di Israele sono uno strumento in più per la mediazione di Abu Mazen, che
punta a recitare un ruolo di primo piano nella soluzione della crisi per rafforzarsi agli occhi
della popolazione di Gaza nelle vesti di leader dell’unità nazionale. Alle sue spalle, il
presidente palestinese ha la Lega Araba e la Turchia mentre sul fronte opposto c’è Bashar
al Assad, il presidente siriano alleato di Teheran che ha prestato giuramento, dando inizio
al nuovo settennato, con un discorso nel quale ha accusato Israele di «attaccare Gaza
puntando ad assoggettare gli arabi». Da qui l’appello del raiss alle capitali arabe a inviare
«aiuti di ogni tipo a Hamas» con una strategia opposta rispetto al Cairo e Ramallah. Ecco
perché esiste il rischio che Gaza si trasformi in un nuovo braccio di ferro fra le capitali
della regione, in maniera analoga a quanto sta avvenendo sulla Siria e sull’Iraq. Nel
braccio di ferro in corso fra leader arabi, Israele punta su Al Sisi: «Abbiamo accettato la
proposta egiziana e speriamo che Hamas faccia altrettanto» afferma il ministro Tzipi Livni.
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del 17/07/14, pag. 13
L’esercito di Israele spara
anche con armi italiane
LA DENUNCIA DELL’ARCHIVIO DISARMO: SIAMO TRA I PRIMI
FORNITORI UE
di Stefano Pasta
A Gaza si bombarda anche con le nostre armi. “L’Italia – denuncia la Rete Disarmo –
sospenda immediatamente l’invio di armi e sistemi militari in Israele”. Sì, perché, secondo
la XV Relazione Ue sul controllo delle attrezzature militari, siamo il più importante fornitore
europeo di sistemi militari e armi leggere del governo di Tel Aviv: nel solo 2012 ne ha
acquistate per 473 milioni di euro, su un totale di 613. Il made in Italy stacca nettamente il
secondo classificato di questo triste podio, la Germania, che si ferma a 49 milioni. Non
solo: il 9 luglio, nei primi giorni dei raid, l’azienda Alenia Aermacchi del gruppo
Finmeccanica ha inviato i primi due aerei addestratori M-346 alla Forza aerea israeliana. I
nuovi velivoli servono per l’addestramento a caccia di nuova generazione, ma possono
anche essere armati e utilizzati per bombardare. In particolare, grazie alla loro
maneggevolezza, potrebbero essere usati in aree urbane e di conflitti a basso
dispiegamento di forze armate e di contraerea. Secondo la Rete per il Disarmo, che
raggruppa le principali organizzazioni impegnate sul tema, “tutto ciò avviene in aperto
contrasto con la nostra legislazione relativa all’export di armamenti”. Effettivamente la
legge 185 del 1990 prevede, proprio al primo articolo, l’impossibilità di fornire armi a Paesi
“in stato di conflitto armato o i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle
convenzioni internazionali in materia di diritti umani”. Il legame tra l’industria militare
italiana e quella israeliana non è nuovo. Con la Legge 94 del maggio 2005, il governo
Berlusconi III ratificò l’“Accordo generale di cooperazione tra Italia e Israele nel settore
militare e della difesa” che definiva la collaborazione: misure per favorire gli scambi nella
produzione di armi e il trasferimento di tecnologie, formazione, manovre militari congiunte
e “peace - keeping ”. Nel luglio 2012, fu firmato un nuovo accordo sulla esportazione dei
sistemi militari italiani verso Israele, tra cui appunto gli aerei M-346, definito “storico” dalla
Difesa italiana e “un salto di qualità” dal premier Monti, che si era impegnato in prima
persona. Salto di qualità mai discusso in Parlamento. E ora cosa potrebbe fare il governo?
Tramite l’Uama (Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento), la Farnesina ha la
facoltà di decidere sull’esportazioni di armi. Secondo la Rete Disarmo, il ministro
Mogherini dovrebbe immediatamente impedire la fornitura di nuovi M-346 e, a livello
europeo, promuovere un embargo di armi e sistemi militari.
del 17/07/14, pag. 13
Affondata pure l’Arca che portava doni via
mare
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di Roberta Zunini
Hanno bussato anche sul tetto dell'Arca e su quello del centro di riabilitazione di Wafa
dove ci sono solo malati con più di 60 anni di età bisognosi di cure 24 ore su 24”. Charly
Andreason è un attivista svedese dell'international solidarity movement -di cui faceva parte
anche Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza nell’aprile 2011 - che dall'altra notte, quando una
bomba dell'aviazione israeliana ha “bussato sul tetto” del Wafa rehab center, fa da scudo
umano per difendere i pazienti ricoverati. “Gli israeliani hanno definito eufemisticamente e
ironicamente questi bombardamenti “knocking on the roof”, ma se non fosse l'ennesima
tragedia verrebbe voglia di definire questa operazione una farsa: questa reazione
sproporzionata porterà solo altro odio. Ciò che serve a Netanyahu per evitare i negoziati e
mantenere invariata la macabra politica che non prevede la fine dell'assedio della
Striscia”. Andreason vive da 9 mesi a Gaza. Qui nessuno è più al sicuro fisicamente, in
nessun luogo della Striscia, ma dal 2006, quando Hamas ha vinto regolarmente le
elezioni, la vita dei gazawi è un incubo sotto tutti gli aspetti. “L'assedio di tutte le frontiere,
il blocco di tutti gli spazi compresi quelli aerei e navali, ha distrutto quel minimo di
economia di sussistenza che si stava sviluppando. La gente vive degli aiuti internazionali,
ma anche in questo caso Israele crea continui ostacoli, trovando dei cavilli burocratici per
farli entrare con il contagocce. Inoltre i permessi per uscire dalla Striscia son sempre più
rari”. “L'altra notte una serie di bombe ha ‘bussato sul tetto’ dell'Arca talmente tante volte
che alla fine ne è rimasto solo lo scafo carbonizzato. Saremmo dovuti già salpare a
maggio ma una bomba l'aveva danneggiata e ora è distrutta. Il problema è che anche 6
piccoli pescherecci ormeggiati accanto sono andati distrutti. Rappresentavano la loro
unica fonte di sopravvivenza dei pescatori”. Il progetto dell'Arca, piccola nave costruita nel
porto di Gaza, era nato per trovare rimedio al blocco della Flottilla da parte della marina
israeliana. “Il nostro scopo era caricarla di prodotti agricoli e tessili locali per portarli a
coloro che li avevano acquistati per solidarietà. Era già virtualmente stipata di spezie e
tessuti. Molti europei avevano aderito e a settembre avremmo provato a rompere il blocco
e portarli a destinazione. Ma ora è impossibile, anche perché non abbiamo i soldi per
comprarne un'altra”.
del 17/07/14, pag. 15
Dov’è la Farnesina nella guerra a Gaza
Giulio Marcon
Il commento . Invece di impegnarsi nelle nomine europee, il governo
italiano si mobiliti per fermare l’escalation che sta infiammando tutto il
Medio Oriente. L’unica soluzione è riconoscere lo stato palestinese
La dinamica della guerra in Medio Oriente ha ripreso a galoppare drammaticamente.
Prima in Siria, poi in Iraq e ora in Palestina, la pax americana in quell’area non ha proprio
funzionato. Chi si ricorda più che la prima guerra del golfo contro l’Iraq (1991) di Bush
senior era stata motivata e giustificata — tra l’altro — proprio dall’obiettivo di assicurare
stabilità e pace in Medio Oriente. E che la stessa motivazione e giustificazione fu data alla
seconda guerra del golfo (2003) di Bush junior?
Erano parole al vento, ipocrisie politiche di fronte agli obiettivi molto meno nobili che erano
a fondamento di quelle guerre contro Saddam Hussein. E così, gli americani — di fronte a
quello che succedeva in Israele e Palestina — dopo qualche inefficace e fallimentare
tentativo di alimentare il «processo di pace» (espressione ormai screditata) nell’area
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mediorientale, hanno assecondato nei fatti i governi israeliani in tutte le loro operazioni più
condannabili: l’incremento delle colonie, la costruzione del muro, la violazione dei diritti
umani, l’attendismo tattico per giustificare il rinvio di ogni soluzione definitiva. L’Europa è
stata a guardare, e così l’Italia.
Ora, la ripresa della guerra in Palestina è anche figlia di quella politica e dell’inazione e
dell’ipocrisia delle scelte americane ed europee. In Palestina non c’è una guerra tra due
stati, ma una guerra asimmetrica, dove una delle due parti è al massimo una entità
amministrativa alla quale il governo israeliano non vuole riconoscere lo status di entità
statuale.
La destra israeliana, con Netanyahu, anche per rilanciare il consenso in caduta presso
l’opinione pubblica, ha sposato la causa della guerra e dell’escalation militare. Con
l’obiettivo — tra gli altri — di mettere in crisi il governo di unità nazionale e la nuova
alleanza, di nuovo traballante, tra Hamas e Fatah.
L’Italia — troppo distratta alla Farnesina dalle nomine dei nuovi commissari — si è ancora
una volta, come negli ultimi anni, distinta per l’opacità della propria iniziativa e per la
subalternità alla strategia americana. Renzi ha giustamente ricordato l’esigenza di
garantire la sicurezza del popolo israeliano, ma si è dimenticato di affermare la necessità
di assicurare la sicurezza del popolo palestinese: in pochi giorni sono oltre 210 le vittime
civili a Gaza e più di 1500 feriti. Solo nella giornata di ieri a Gaza i missili hanno ucciso 6
bambini che giocavano a pallone in spiaggia. Avevano dai 9 ai 15 anni.
La ministra degli Esteri Mogherini è andata a visitare in Israele una casa colpita da un
missile di Hamas, ma perché non si è recata anche a Gaza per rendersi conto delle
distruzioni causate dai missili israeliani? E perché il governo italiano continua a vendere
armi al governo italiano? A un paese in guerra le armi non vanno vendute.
Ieri, la Rete della Pace e la Rete Disarmo, hanno organizzato fiaccolate in moltissime città
italiane, per chiedere la fine della guerra, degli attacchi alle popolazioni civili e per far
ripartire un negoziato vero che porti all’unica soluzione possibile: il riconoscimento dello
Stato palestinese nella sicurezza dei due popoli.
Questo è l’orizzonte nel quale si dovrebbero muovere la diplomazia italiana e quella
europea.
Arginando estremismi e radicalismi — alimentati dalle condizioni di ingiustizia e di
sofferenze durate sin troppo a lungo — ma anche snidando la strategia di un governo,
quello israeliano, non intenzionato a porre fine all’occupazione dei territori palestinesi, a
non interrompere la costruzione di nuove colonie e a non porre termine alla violazione dei
diritti umani. È qui che bisogna intervenire per sradicare le cause della guerra attuale.
Del 17/07/2014, pag. 1-15
LA FOTOGRAFIA
Gli innocenti
ADRIANO SOFRI
LE PAGINE di ieri si aggiornavano con titoli e foto su quattro bambini uccisi a Gaza su una
spiaggia. Una di queste fotografie è specialmente difficile da guardare.
PER il modo in cui il colpo ha schiacciato il viso nella sabbia sporca, ha invertito il sopra e
il sotto, il davanti e il di dietro degli arti. Si sceglierà di non pubblicarla quella foto, di
sostituirle un’altra, che mostri quello che è accaduto, e però si tenga un passo di qua dal
troppo orrore. Ci si interrogherà anche su come sia stata scattata, sul fondale di spiaggia
vuota, prima dell’impulso a correre a toccarlo, ricomporlo, sollevarlo.
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Su tutto ci si interroga in questa quarta guerra di Gaza, una specie di Biennale dell’odio e
del furore. Sulle fotografie falsificate, sulla provenienza dei proiettili, sulle intenzioni
reciproche. Ci si interroga su tutto perché niente ha senso. Ieri i morti, dopo nove giorni,
avevano superato i 200. Nella scorsa edizione della Biennale di Gaza, 2012, erano morti
in 177 in una settimana, 26 erano bambini. Questa volta, secondo fonti palestinesi o Save
the Children, i bambini uccisi sarebbero uno su cinque, dunque già una quarantina. Mentre
lo scrivi, «una quarantina », senti la nausea. È una lugubre, stolida coazione a ripetere,
dicono i commenti. C’è una provocazione, o un pretesto, Israele interviene e punisce
Hamas e le sue piazzeforti, poi si ritira, e così via. Ma non è vero che la storia si ripeta
uguale. Ogni volta è diverso, e peggiore. La gittata dei razzi e dei missili di Hamas e della
Jihad, che già due anni fa toccavano Tel Aviv e lambivano Gerusalemme, cresce ogni
volta. La regione che circonda la breve terra in cui israeliani e palestinesi si guardano si
conoscono e si odiano stringe a sua volta una morsa attorno a Israele: se in Egitto i Fratelli
Musulmani sono banditi e condannati a morte e hanno lasciato orfana Hamas, in Siria e in
Iraq l’estremismo dispotico e jihadista infuria, e la Giordania gremita di milioni di profughi
ne sente il fiato. E infine, a ogni nuova eruzione, la violenza si accumula nel sottosuolo,
esacerbata dal rancore e dalla vendetta. La grande maggioranza delle vittime dell’azione
militare israeliana è di civili. Sono civili i bersagli prediletti dei lanci di razzi e missili di
Hamas. Anche le parole sono consunte, e pronte a tradire le intenzioni e la verità, come la
«sproporzione». Uno a duecento, i morti israeliani e palestinesi. Uno a mille o a duemila, i
prigionieri scambiati. E così via. I governanti israeliani vantano di tenere supremamente
alle vite umane, che i capi di Hamas sfruttano cinicamente come scudi e martiri della loro
propaganda. Ma i responsabili israeliani possono dire di tenere altrettanto alle vite dei civili
e dei bambini palestinesi? Non è affar loro — e nostro? Hamas impiega le sue risorse a
moltiplicare i razzi da far piovere sui villaggi e le città israeliane piuttosto che per costruire
rifugi o ripari al popolo che pretende di guidare: questo esime il governo di Israele da una
responsabilità verso quello stesso popolo? Il governo di Israele avverte i civili palestinesi
dei propri attacchi: ma c’è, non che un diritto, un resto di umanità nell’ingiunzione a
centomila persone, famiglie di vecchi e bambini, donne e uomini, di evacuare le loro case
e cercare scampo altrove, nel fazzoletto di terra più affollato del mondo? Il governo di
Israele accetta la tregua mentre Hamas, o la sua fazione più truce e potente, la respinge:
ma la stessa eventualità di concordare una tregua cui sia Israele che Hamas si uniformino
non segnala la necessità e l’inevitabilità di riconoscersi, pur con tutta l’inimicizia e il
disprezzo possibile, e trattare reciprocamente? Che la striscia di Gaza sia una prigione a
cielo aperto non è solo un modo di dire, e tanto meno un modo di dire propagandistico e
fazioso. È una descrizione istruttiva e rivelatrice, se solo i responsabili israeliani volessero
prenderla in parola nel proprio stesso interesse. Dentro una prigione che si abbandona per
sorvegliare solo i muri di cinta e gli accessi e impedire le evasioni, a rischio di morte —
com’è a Gaza, per la stessa possibilità di passare in Cisgiordania e viceversa — succede
come in ogni galera che si pretenda di governare lasciandola a se stessa: che il potere
passa ai più incalliti e feroci criminali, e i deboli e inermi non possono che divenirne
ostaggi, o confidare nella loro brutalità. L’esempio è istruttivo, a condizione di ricordare
che i quasi due milioni di persone della Striscia non sono detenuti per aver commesso
qualche reato ed esserne stati giudicati. Sono il deposito innocente di una disgrazia
terribile. I quattro bambini di ieri si sono guadagnati un titolo, come figure improvvisamente
affiorate e colorate dentro un’infinita processione grigia: perché erano su una spiaggia,
perché era il nono giorno, e chissà perché ancora. Come i tre ragazzi israeliani rapiti e
trucidati. Come il ragazzo palestinese linciato. Si può andare indietro senza fine, in questa
processione luttuosa interrotta da qualche nome scandito, da qualche immagine colorata.
Questo significa che si può andare avanti senza fine, nel futuro, vedendo già espandersi il
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cimitero di fosse comuni interrotto qua e là da qualche tomba guarnita di un nome e una
data, qualche figurina rosa o celeste, o verde o rossa? I bambini morti sono invidiati dai
bambini vivi. I bambini vivi imparano ad aver paura e a odiare.
Del 17/07/2014, pag. 1-7
Il confine della crudeltà
PAOLO DI PAOLO
«DESIGNARE UN INFERNO NON SIGNIFICA, OVVIAMENTE, SAPERE COME
LIBERARE LA GENTE da quell’inferno, come moderare le fiamme», ha scritto Susan
Sontag. È ancora una volta quest’avverbio - «ovviamente» - il punto di partenza e di arrivo
di ogni riflessione davanti all’orrore prodotto dagli uomini. Quattro bambini giocano su una
spiaggia: vengono uccisi da un raid israeliano. Entrano in una conta macabra. Un numero
di vittime che lievita giorno per giorno. Più di duecento in nove giorni. Duecento vite,
duecento storie, ognuna diversa dall’altra, di cui non sappiamo niente. Ma la morte di
quattro bambini ci arriva alle orecchie, prima che agli occhi, come una sveglia che suona
più forte. Anche fuori da qualunque conflitto, quattro bambini sembrano fare la differenza.
Si alza il livello di guardia, la temperatura emotiva: l’istinto ci fa dire «i bambini no», come
di fronte a un’ingiustizia più ingiusta, a un crimine più radicale. Ma dov’è il limite di
un’ingiustizia? C’è un’ingiustizia più accettabile di altre? Là dove muoiono quattro bambini
è l’inferno: lo designiamo con facilità, con certezza ma, per tornare a Sontag, designarlo
non significa - ovviamente - sapere altro che questo. Ed è proprio quell’«ovviamente» che
dovrebbe farci disperare; se possibile (ma è un paradosso) più di ciò che abbiamo già
perduto, o che altri hanno già perduto, dovrebbe disperarci ciò che stiamo perdendo, che
continuiamo a perdere. Salta da troppo tempo, da decenni e decenni, in quella terra, la
matematica (ma è una matematica?) dei torti e delle ragioni: i conti non tornano
comunque, non tornano mai. Resta, per chi è toccato dalla tragedia, soltanto il dolore:
arriva dopo lo sgomento e la rabbia, ed è diverso dalla nostra indignazione, anche da
quella più accesa. Non c’è nessuna ragione politica che lo riscatti, né la logica ferrea,
ottusa, delle vendette e delle rappresaglie, delle «lezioni» che un paese dà all’altro per via
militare. Quattro bambini che muoiono su una spiaggia, a luglio, a Gaza, restano fuori da
ogni astrazione politica e tattica: stanno lì a confermarci - lo sapevamo - che la violenza
non fa distinzioni; ci raccontano l’esproprio più immane, più assurdo che uno stato di
guerra impone agli esseri umani. È la normalità della vita a essere strappata via, i giorni
che chiamiamo qualunque - e dentro quei giorni qualunque, una spiaggia, a Gaza, a luglio,
con quattro, con venti, con cento bambini, ragazzi, adulti che giocano a pallone, che
provano a vivere.
Del 17/07/2014, pag. 16
Il battaglione di caschi blu dell’Aja consegnò trecento uomini ai serbi I
parenti delle vittime saranno risarciti
“Olanda complice del massacro di
Srebrenica” Storica condanna
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PAOLO G. BRERA
DICIANNOVE anni dopo il massacro di Srebrenica, l’Olanda è stata condannata a risarcire
le famiglie di trecento uomini e ragazzi bosniaci musulmani: il battaglione olandese
dell’Onu al quale si erano affidati cercando scampo li consegnò al generale serbo
bosniaco Ratko Mladic, il boia che a Srebrenica scrisse con il sangue di ottomila persone
la pagina più orribile dalla fine della seconda guerra mondiale. Se è il principio, quello che
conta, allora ieri è stata una di quelle giornate che tolgono una spina dolente dalla corona
della Storia. Ma la sentenza pronunciata dal tribunale civile dell’Aja è stata accolta in
agrodolce dalle “madri di Srebrenica” che hanno promosso la causa: se condanna
l’Olanda per l’oscenità di quella consegna sostenendo che i soldati del “Dutchbat” non
potevano ignorare che i rifugiati sarebbero stati uccisi, la assolve dal non avere impedito
con il suo battaglione Onu i rastrellamenti, gli stupri e il massacro di tutti gli altri.
Il genocidio si consumò in due settimane: divisi dalle donne, i maschi fra i 14 e i 65 anni
furono uccisi e sepolti. I loro corpi vennero poi disseppelliti e dispersi in fosse comuni nei
boschi, tentando di cancellare ogni traccia. «La Corte — dice Munira Subasic,
rappresentante delle “Madri” — non ha fatto giustizia. Com’è possibile dividere le vittime e
dire a una madre che lo Stato olandese è responsabile della morte di suo
figlio, che si trovava da un lato del filo spinato, e non di quella del figlio dall’altro lato?».
Il 13 luglio del 1995 quel filo spinato divise le speranze, non l’esito della storia. Il
battaglione olandese dell’Onu di stanza a Potcari, nella periferia dell’enclave di
Srebrenica, aveva il mandato di proteggere i quarantamila musulmani assediati dalle
truppe di Mladic e dai miliziani della “tigre” Arkan, ma non aveva il potere di rispondere al
fuoco. Nel suo accampamento il battaglione aveva accolto migliaia di donne e bambini, e
poco più di trecento uomini che consegnò ai serbo bosniaci: «Può essere detto con
sufficiente certezza — ha sostenuto ieri la Corte — che se il Dutchbat avesse permesso ai
rifugiati di restare nella base quegli uomini sarebbero ancora vivi. Cooperando alla loro
deportazione», invece, «ha agito illegalmente». Tutti gli altri, quelli che tentarono una fuga
impossibile nei boschi o che furono scovati casa per casa, furono uccisi allo stesso modo.
Da due anni Srebrenica era stata dichiarata «area sicura» per i civili, ma non lo era affatto:
per le altre ottomila vittime, però, il Dutchbat non è colpevole.
Del 17/07/2014, pag. 3
Libero scambio con gli Usa il primo nodo da
sciogliere
Fermate i negoziati sul libero scambio Ue-Usa». Martedì a Strasburgo Jean-Claude
Juncker non ha fatto neanche in tempo ad incassare il voto di fiducia degli eurodeputati
alla presidenza della Commissione che lo scontro su una delle questioni più importanti
della legislatura entrante era già iniziato. Gli europarlamentari della Sinistra unita (Gue)
hanno sventolato i cartelli «NOTOTTIP», ovvero no al Transatlantic Trade and Investment
Partnership tra Bruxelles e Washington. Una posizione condivisa con sfumature diverse
da Verdi, euroscettici ed estrema destra. Tra i Socialisti e Democratici e tra gli stessi
eurodeputati Pd le posizioni sono più costruttive ma distinte tra chi guarda a sinistra, come
Sergio Cofferati, e chi teme di appiattirsi su posizioni ideologiche, come Alessia Mosca.
Sempre martedì una coalizione di organizzazioni ha avviato la campagna per raccogliere
le firme con l’Iniziativa Europea dei Cittadini per fermare l’accordo. In Italia la battaglia è
portata avanti da Attac Italia, Fairwatch e dal Forum dei Movimenti per l’Acqua. I negoziati
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sull’accordo commerciale Unione Europea-Stati Uniti, avviati l’anno scorso, mirano ad
abolire tutte le tariffe doganali e ad omologare gli standard di prodotti e servizi per favorire
gli scambi tra le due sponde dell’Atlantico. Le due economie rappresentano quasi la metà
del Prodotto interno lordo mondiale e il 30% degli scambi. Però con la crescita dell’Asia e
dei Paesi emergenti la fetta occidentale della torta si riduce ogni giorno di più, così come
la possibilità di imporre i propri standard. Il Ttip dovrebbe essere siglato entro un paio di
anni al massimo ed entrare a pieno regime nel 2027. A quel punto, secondo uno studio
della Commissione europea contestato dagli oppositori dell’accordo, si stima che i
vantaggi economici comporterebbero un aumento annuale complessivo del Pil pari allo
0,5% per l’Ue (119 miliardi di euro) e allo 0,4% (95 miliardi di euro) per gli Stati Uniti. In
ballo ci sono molti posti di lavoro in più, ma i rischi sono un livellamento al basso di
standard e diritti. I recenti scandali sullo spionaggio statunitense hanno infiammato il
dibattito proprio a ridosso del sesto round negoziale in corso questa settimana a Bruxelles.
«Non sacrificherò gli standard sociali, di sicurezza, sulla salute e sulla protezione dei dati o
la nostra diversità culturale sull’altare del libero commercio», ha rassicurato Juncker nel
suo discorso a Strasburgo, aggiungendo però che è «anacronistico» che ci siano ancora
dazi e standard differenti tra Stati Uniti e Unione Europea.
POSIZIONI
Ieri l’eurodeputato Pd Sergio Cofferati e quello della Sinistra Unita (lista Tsipras) Curzio
Maltese hanno diffuso una dichiarazione congiunta, da loro stessi definita «inedita e
importante», per dire che l’accordo andrebbe bene sono a certe condizioni: «1) Maggiori
diritti per i lavoratori; 2) Garanzie riguardo alla protezione dei dati personali; 3) Maggiori
tutele dei consumatori; 4) Massima trasparenza nelle trattative e con il pieno
coinvolgimento del Parlamento Europeo; 5) Misure favorevoli per il nostro tessuto
produttivo, senza istituire un sistema di risoluzione delle dispute tra investitori e stati
parallelo rispetto alle normali procedure legali». Oggi spiegano «nessuna di queste
certezze è acquisita». Interpellata da l’Unità l’eurodeputata Pd Alessia Mosca, membro
della commissione parlamentare per il Commercio internazionale, ha detto di temere «che
questo tema diventi ideologizzato, come è successo in altri passaggi della nostra storia
come la Bolkestein» (la direttiva sulla liberalizzazione dei servizi, ndr). Una «battaglia
ideologica», ha spiegato, «renderebbe difficile fare dei progressi». Il gruppo dei Socialisti e
Democratici al momento non ha una posizione unica. «Per quanto mi riguarda e per
quanto riguarda la posizione di gran parte del nostro Paese - ha continuato Mosca - noi
dovremmo guardare con particolare interesse a che questo accordo venga concluso nelle
migliori modalità perché, se ben fatto, questo darebbe un grandissimo impulso al nostro
Paese». La crescita, ha concluso l’eurodeputata, non può basarsi solo sulla domanda
interna e quindi «soprattutto per il tipo di produzione che noi facciamo, molto richiesta in
giro per il mondo, dobbiamo fare in modo che vengano agevolate le nostre esportazioni ».
Del 17/07/2014, pag. 4
La Mogherini da Gerusalemme liquida le critiche: polemiche
strumentali. Nella notte telefonata di Renzi da Bruxelles
L’attesa del ministro “Io filo-russa? Ma Putin
l’ho visto dopo gli ucraini”
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA
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L’appuntamento telefonico con Renzi è per la notte, un contatto tra Bruxelles e
Gerusalemme. Federica Mogherini non può fare altro che aspettare e lavorare al dossier
mediorientale. «Non mando messaggi, non ho scritto lettere per convincere qualcuno. La
partita è nelle mani dei capi di governo e di Matteo, com’è giusto che sia». La serata in
Israele non prevede appuntamenti istituzionali particolarmente delicati, dopo il pomeriggio
dedicato soprattutto al colloquio con Netanyahu. Ma già oggi il ministro degli Esteri sarà a
Ramallah e Betlemme, la sera arriverà ad Amman, venerdì concluderà la sua missione di
Stato in Egitto. Un programma fitto con un orecchio alle notizie che arrivano dal vertice
europeo dove si decide se la Mogherini sarà o meno il prossimo “ministro degli Esteri”
della Ue, una delle cariche principali dell’Unione. Le critiche che arrivano da alcuni Paesi
dell’Est e gli attacchi del Regno Unito non la turbano più di tanto. «Anche perché so che
non sono contro la mia persona - spiega ai collaboratori -. Sono polemiche strumentali che
investono l’Italia e il suo ruolo». Non ha sbagliato mosse. L’accusa di essere filo-russa le
strappa persino un sorriso. Rientra nella sfera dei paradossi della politica, delle lotte di
potere dentro la Ue. Lei ha una storia improntata all’atlantismo, testimoniata dal suo
lavoro, durato parecchi anni, come anello di congiunzione tra il centrosinistra italiano e i
democratici americani. Una storia difficile da riscrivere in pochi giorni. «Comunque io sono
stata prima in Ucraina e poi a Mosca da Putin...», osserva. Una cronologia che conferma
la strumentalità delle critiche. In una fase come questa è abbastanza naturale che il capo
del Cremlino cerchi sponde in Europa. Lo ha fatto anche con la Farnesina. La crisi in
Ucraina divide la comunità internazionale e Putin prova a sedurre partner europei a tutto
campo. Ma la Mogherini non si è lasciata sedurre. E se il sospetto è che la prudente
posizione italiana sulle sanzioni sia da ricondurre a un’asse Roma- Mosca, beh è un
sospetto troppo fragile. L’Italia e la Germania hanno frenato sulle sanzioni,
sponsorizzando un intervento graduale contro la Russia, per non bruciarsi subito una
soluzione negoziale. «Per avere margini di manovra e non far precipitare la situazione...»,
è la spiegazione che danno alla Farnesina. I giornali inglesi non sono teneri. Ma Mogherini
comprende che il primo ministro britannico Cameron cerchi di dimostrare il suo peso dopo
il cattivo risultato delle Europee e la sconfitta su Juncker. Le contestazioni di alcuni paesi
dell’Est sono invece legate a «legittime» aspirazioni, a candidati alternativi che possono
arrivare dalle loro classi dirigenti. Ha un pretendente per l’Alto rappresentante della politica
estera della Ue la Polonia con Ratoslaw Sikorski. Ce l’ha anche la Bulgaria che fa correre
una donna come la Mogherini: è Kristalina Georgieva, già commissario nell’ultima
legislatura. «Fanno la loro battaglia...», dice la Mogherini alle persone del suo staff. Tutto
normale. Sono le regole del gioco. Meno normale, più legato al gioco di specchi e di
sottigliezze delle euroburocrazie, è la critica per la giovane età e l’inesperienza. Non aveva
un curriculum diplomatico fittissimo nemmeno l’attuale Mrs Pesc Catherine Ashton, che
prima di essere scelta come ministro degli Esteri Ue, era stata appena un anno
commissario europeo. Quindi, l’ostacolo non può essere quello e se lo è non è
insormontabile. Il “derby” con Enrico Letta invece si gioca tutto nella stanza dei capi di
governo e Mogherini se ne tiene lontana. Non fa parte del giudizio che si può dare del suo
lavoro e della sua persona. La giornata è stata lunga, fitta di impegni. Ma il titolare della
Farnesina non nega di avere un pensiero alla decisione dell’Europa. «Certo, gli echi di
questa polemica li sento, ne sono consapevole ma per me è solo un rumore di fondo»,
racconta in una pausa tra gli incontri. «Sono fatta così, questo è il mio carattere, sono una
persona tranquilla, e soprattutto sono concentrata sul lavoro che faccio: e il lavoro che
faccio oggi è questo, ed è a questo che penso. Se un giorno ne avrò altro mi concentrerò
su quello con altrettanta dedizione. Ma oggi il mio lavoro è questo ». Dunque oggi si
ricominci, in uno scenario di guerra. «Ora la priorità numero uno è fermare l'escalation di
violenze, il lancio di razzi su Israele. D'altra parte siamo molto preoccupati per le vittime
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civili a Gaza, la situazione nella Striscia», spiega la Mogherini. E per verificare la posizioni
di tutte le parti in campo il ministro sarà anche in Giordania e al Cairo.
del 17/07/14, pag. 3
Il Ppe sfida Renzi: vuole Letta
Anna Maria Merlo
Unione europea. Il presidente del Consiglio uscente, Van Rompuy,
preme per l’ex premier. Il vertice Ue si aperto con la discussione sulle
nuove sanzioni alla Russia, accusata di «non cooperazione» sulla crisi
dell’Ucraina
Quadratura del cerchio con 28 caselle da riempire per i topjobs della Commissione,
cercando un equilibrio tra Stati, piccoli e grandi, appartenenza politica e di genere. E per di
più, sul tavolo del Consiglio europeo di ieri sera, all’inizio della cena l’indigesta discussione
sulle nuove sanzioni alla Russia, accusata di «non cooperazione» per la crisi dell’Ucraina.
Una bozza sulla Russia prevede lo scatto a un livello di sanzioni che potremmo chiamare
due e mezzo, in particolare con tagli sui fondi per nuovi progetti di cooperazione tra Ue e
Mosca, cioè gelo dei programmi della Bei e della Berd, oltre a una lista nera delle
personalità russe e ucraine colpite perché responsabile dell’escalation, che già venerdì
scorso è stata allungata di 11 nomi.
Ma per il vice-presidente del gruppo Ppe all’Europarlamento, Jacek Saryusz-Wolski, le
nuove sanzioni dovrebbero contenere anche il blocco della vendita di armi e di veicoli
militari alla Russia, cioè un chiaro passaggio alla fase 3. Ma per Parigi la penalità sarebbe
enorme: la Francia deve consegnare due navi da guerra a Mosca, già pagate e i russi
sono sul cantiere navale per istruirsi al loro funzionamento (un eventuale blocco della
vendita, che comporterà anche l’annullamento dell’ipotesi dell’ordinazione di altre due
navi, metterebbe a rischio 1400 posti di lavoro). Ma per David Cameron – seguito dai
paesi dell’est – il vero tema del Consiglio di ieri sera erano le sanzioni a Putin.
Per il grande mercato delle nomine, all’apertura del vertice tutto era ancora in alto mare,
alla ricerca di un “equilibrio” globale. L’Italia è decisa a difendere i colori di Federica
Mogherini alla successione di Catherine Ashton come Alta rappresentante per la politica
estera. Anche Angelino Alfano ha affermato che «l’Italia ha la competenza per guidare la
politica estera della Ue, Mogherini è una scelta buona e valida». Ma i Paesi dell’est
restano ostili, per la posizione morbida dell’Italia nei confronti della Russia, a causa del
progetto Southstream, guidato da Eni. Il premier della Repubblica ceca ha difeso
apertamente la candidatura del polacco Sirorski. A Renzi, chiede «rispetto», potrebbe
venire fatta la proposta velenosa (per il premier) di Enrico Letta alla presidenza del
Consiglio Ue (ma i tempi sono lunghi, Van Rompuy resta fino al 1° dicembre).
La Germania ha cambiato posizione. Angela Merkel preferirebbe raggiungere un accordo
globale. La decisione su Mr o Mrs Pesc condizionerà le scelte future: il nuovo presidente
della Commissione, Jean-Claude Juncker, ha dato tempo agli stati fino a fine agosto per
proporre i rispettivi candidati. Un altro vertice potrebbe venire convocato il 23 luglio, per
sminare un po’ il terreno se dalla cena di ieri sera non venissero decisioni concrete. In
ballo c’è anche il posto importante di presidente del Consiglio Ue, che potrebbe andare
alla danese Helle Thorning-Schmidt, se i socialisti riusciranno a strapparlo (ma il polacco
Donald Tusk sembra credere nella sua buona stella). La questione per Mogherini resta
sempre la «competenza». Elmar Brok, presidente della Commissione esteri
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dell’Europarlamento, deputato Csu del gruppo Ppe e consigliere di Merkel, ha affermato
che «come Alto rappresentante dovremmo avere qualcuno con esperienza in politica
estera come Georgieva, Guigou o Sirorski». Kristalina Georgieva non è difesa dal proprio
paese, la Bulgaria (è del Ppe, il premier, che avrà elezioni anticipate ad ottobre, è
socialista).
La Germania tira in ballo la francese Elisabeth Guigou perché vuole sbarrare la strada a
Pierre Moscovici, che Hollande vorrebbe piazzare agi Affari economici e monetari. Il
ministro delle finanze Wolfgang Schäuble ha espresso chiaramente «dubbi» sulle capacità
della Francia a gestire gli Affari economici e monetari: Moscovici è considerato a Berlino
tra i responsabili delle derive dei deficit pubblici francesi (che non rientreranno nel 3%
neppure nel 2015) e per di più i tedeschi vedono di pessimo occhio Moscovici
commissario che dovrà, probabilmente, decidere sanzioni punitive contro la Francia per un
nuovo anno di «deficit eccessivi». La Germania, dal canto suo, propende per conservare
l’Energia, dove dovrebbe ricandidare Günther Oettinger.
I nuovi commissari dovranno poi passare l’esame di fronte all’Europarlamento, che può
bocciare per incompetenza (era successo a Formigoni). Ieri, il presidente
dell’Europarlamento, Martin Schultz, ha per esempio messo in guardia David Cameron,
che ha già scelto il nome del commissario britannico: Strasburgo potrebbe bocciare Lord
Hill, considerato troppo euroscettico per far parte della Commissione Juncker.
del 17/07/14, pag. 6
Il governo libico: «Vogliamo i caschi blu»
Geraldina Colotti
Da Tripoli a Bengasi, non si fermano le violenze in Libia. Per ragioni di sicurezza, la
missione delle Nazioni unite ha evacuato il personale di stanza nel paese. Impotente di
fronte allo sfascio provocato dagli scontri tra mafie, fazioni e milizie, il governo spera però
che l’Onu ritorni. E si appella agli impegni presi durante la rivolta contro Muammar
Gheddafi: «Nel 2011 — ha detto il portavoce del governo, Ahmed Lamine — le Nazioni
unite hanno votato una risoluzione per aiutare i libici contro il regime. La prima cosa,
allora, è andare dall’Onu perché ci aiuti a ristabilire l’ordine».
Nei giorni precedenti, Tripoli aveva lasciato intravvedere la possibilità di chiedere un nuovo
intervento internazionale, ma non era entrata nel merito quanto alla forma e ai destinatari.
E il Segretario di stato Usa, John Kerry aveva dichiarato di «lavorare duro» per porre
rimedio a una situazione «pericolosa», ma senza spingersi oltre. La Francia ha detto di
aver «preso nota» della situazione, ma che toccava prima di tutto all’Onu affrontarla. E ora
Lamine non esclude la possibilità di chiedere ufficialmente la presenza dei caschi blu: «Se
è necessario — ha detto — faremo la domanda ufficialmente al Consiglio di sicurezza».
Il timore è che gli scontri degenerino un’altra volta in guerra civile. A Tripoli, continuano i
combattimenti per il controllo dell’aeroporto. A Bengasi, dalla metà di maggio, le forze
dell’ex-generale Khalifa Haftar si scontrano con le milizie jihadiste. Nella capitale, il
governo ha tentato una mediazione per far cessare i combattimenti, ma nessuno lo ha
ascoltatoadistes.
«C’è una parte che ha perso le elezioni e che tenta di avere un’influenza in altro modo»,
ha detto Othmane Ben Sassi, ex membro del Cnt ( braccio politico della rivolta contro
Gheddafi, nel 2011), alludendo agli islamisti.
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del 17/07/14, pag. 19
La Francia e il coprifuoco per i tredicenni
A cominciare da ieri sera, i ragazzini di età inferiore ai 13 anni sorpresi per strada a
Suresnes (a Nord-ovest di Parigi) tra le 23 e le 6 del mattino saranno fermati, riportati a
casa e la multa — oltre che la ramanzina — sarà riservata ai genitori. Lo ha deciso il
sindaco Ump (centrodestra) Christian Dupuy, dopo che l’anno scorso una banda di
adolescenti appassionati di petardi aveva finito con il dare fuoco a una villetta. Con l’estate
in Francia arriva la stagione del coprifuoco per i ragazzini. Il primo a deciderlo quest’anno
è stato il sindaco di Béziers, Robert Menard, eletto con i voti del Front National. Quando a
maggio Menard ha emanato la sua ordinanza sull’ordine pubblico, è stato accusato di
riflesso autoritario, di scegliere una misura liberticida e repressiva come primo atto del suo
mandato. «Sono sciocchezze alle quali possono credere giusto quattro bobo parigini », ha
detto subito Menard. I «bobo» sono una categoria importante nel dibattito socio-politico
francese: li ha identificati e descritti il columnist del New York Times, David Brooks, in un
libro di ormai 14 anni fa che descriveva il tipo umano del «bourgeois bohème», il borghese
(quasi sempre parigino) con il portafoglio a destra e il cuore a sinistra, facoltoso e integrato
nel sistema economico ma affezionato alle parole d’ordine e ai valori della sinistra
alternativa e ecologista. Il termine «bobo» ha avuto una fortuna straordinaria in Francia
come versione aggiornata di «radical chic», usato quasi quotidianamente dagli esponenti
del Front National per denunciare l’ipocrisia e il conformismo politicamente corretto delle
élite parigine. La Lega dei diritti dell’uomo si è opposta in tribunale contro l’ordinanza di
Menard, ma nel frattempo decine di altre piccole città di tutta la Francia — governata da
sindaci di destra, centro e pure sinistra — hanno adottato misure analoghe. Florent
Montillot, vicesindaco centrista di Orléans, ha decretato il coprifuoco per i minori già dal
2001. «Fa parte di un’iniziativa globale che punta a sottrarre i bambini e giovani
adolescenti alla scuola della strada per restituirli all’educazione dei genitori e della scuola
— dice al Figaro —. Si raccolgono i bambini che vagano per strada nella notte con
l’obiettivo di responsabilizzare i genitori, e poi seguire i ragazzini a scuola durante l’anno».
Il coprifuoco per i bambini e adolescenti — il limite di età varia dai 13 ai 16 anni — fa parte
delle invenzioni americane che i francesi adorano detestare ma alla fine adottano, come
McDonald’s (la Francia è il secondo mercato mondiale, dopo gli Stati Uniti, ndr).
Inaugurata una ventina di anni fa, la politica del coprifuoco per ridurre la delinquenza
giovanile ha attraversato negli Usa diverse fasi, dall’entusiasmo iniziale alla disillusione
per mancanza di risultati quantificabili all’abbandono per mancanza di fondi. Ma in questi
giorni viene rilanciata a Baltimora, una delle città della costa Est dove più alta è la
criminalità giovanile, per provare a ridurre gli atti di teppismo. Al di qua dell’Atlantico, molte
città francesi fanno lo stesso. Provano a combattere la «cultura della strada» decantata in
tante canzoni rap francesi, e ribadiscono il principio che il posto dei bambini e dei preadolescenti, la notte, è a casa. Sébastien Pietrasanta è stato il primo sindaco socialista a
instaurare il coprifuoco per i minori di 18 anni a Asnières-sur-Seine, alle porte di Parigi,
assieme al collega comunista del comune vicino di Gennevilliers. «Lo abbiamo fatto nel
2011 in un contesto particolare, un ragazzo era stato ucciso e c’erano state violenze di
strada. Io credo che non si debba essere ideologici. Il coprifuoco è una misura di destra,
dicono. Perché, è normale che un ragazzino vagabondi per strada dopo le 10 di sera? Io
non ho esitato a convocare i genitori per dirgliene quattro.
Stefano Montefiori
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del 17/07/14, pag. 6
Brasile
Il VI vertice dei paesi emergenti
“Siamo la forza del cambiamento”
Geraldina Colotti
Un grosso passo avanti nelle relazioni economiche e politiche tra i paesi del Sud. Il gruppo
dei Brics — formato da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica -, ha formalizzato a
Fortaleza (nella parte nordorientale del Brasile), i due principali obiettivi previsti dal VI
vertice: la creazione di una Banca per lo sviluppo e quella di un fondo di riserva per i paesi
membri in crisi valutaria. La prima sarà operativa nel 2016 e avrà la sua sede a Shangai. Il
secondo partirà con un fondo di 100.000 milioni di dollari (72 milioni di euro), a cui i paesi
membri hanno contribuito in proporzione: 41 miliardi di dollari la Cina, 18 tutti gli altri,
tranne il Sudafrica che ne ha versati 5. Progetti tesi «all’inclusione e allo sviluppo
sostenibile», in base al tema del vertice e rivolto sia ai paesi emergenti che a quelli in via
di sviluppo. Un ulteriore obiettivo è quello di rafforzare il controllo sulle proprie fonti di
energia e sulle materie prime. Durante il vertice, i Brics hanno firmato accordi anche sulla
questione della sicurezza e della lotta al narcotraffico.
Secondo la dichiarazione di Fortaleza, sottoscritta dai cinque paesi emergenti, l’obiettivo è
quello di convertire i Brics e i loro partner in una «importante forza di cambiamento»
rispetto alle strutture di governo delle istituzioni multilaterali, il cui sistema decisionale ha
consentito il predominio degli Stati uniti e di alcune nazioni europee. Una forza capace di
«generare una crescita globale più inclusiva e di disegnare un mondo più stabile, pacifico
e prospero».
Per le loro dimensioni, per il peso delle loro economie e per l’influenza che esercitano
nelle loro regioni e sempre di più nel mondo, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica «non
possono restare a fuori dalle grandi decisioni internazionali», ha detto la presidente
brasiliana Dilma Rousseff. Tuttavia, ha aggiunto, «il nostro attivismo non deve essere
confuso con l’esercizio di un potere egemonico o con un desiderio di dominio. E neanche
dev’essere inteso come un’opzione strategica contraria agli interessi di altri paesi. La forza
del nostro progetto sta nel suo potenziale positivo di trasformazione del sistema
internazionale, che vogliamo più giusto e ugualitario». E prima, ai giornalisti che le
chiedevano se i Brics fossero contro il Fondo monetario internazionale e la Banca
mondiale, Rousseff ha risposto: «Non siamo contro nessuno, ma a favore di noi stessi».
Un «noi» non facile da configurare, nel quadro degli specifici interessi dei paesi emergenti:
che hanno comunque iniziato trovando una mediazione tra le richieste dell’India (che
avrebbe voluto ospitare la sede della Banca per lo sviluppo, ma ha perso con la Cina) e
quelle del Brasile, a cui sarebbe dovuta toccare la prima presidenza e che invece ha
dovuto cederla all’India. «La Russia è interessata a un’America latina unita, forte,
economicamente sostenibile e politicamente indipendente, che si trasformi in una parte
importante del mondo policentrico ed emergente», ha dichiarato il presidente russo
Vladimir Putin. E anche il suo omologo cinese Xi Jinpeng, che negli ultimi anni ha
consolidato «relazioni fruttuose» in Venezuela e in altri paesi del Latinoamerica, ha
sottolineato l’intenzione di «far sentire più forte la voce dei paesi in via di sviluppo nelle
istituzioni multilaterali».
Ieri si sono svolti incontri e prospettati accordi con i paesi della Unasur. Sono arrivati a
Brasilia 12 leader sudamericani, tra i quali il presidente del Venezuela, Nicolas Maduro,
quello della Bolivia, Evo Morales, e dell’Ecuador, Rafael Correa. Guidano governi che si
richiamano al «socialismo del XXI secolo», hanno messo al centro una più equa
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ridistribuzione delle risorse e la sovranità delle scelte rispetto ai diktat delle istituzioni
internazionali. E per questo sono spesso bersaglio dei tribunali di arbitraggio
internazionali, che accolgono le denunce delle grandi corporations, come nel caso
dell’Ecuador con la Chevron. La voce di questi paesi, che fanno blocco negli organismi
regionali anche a livello politico e che intrattengono forti relazioni con i Brics, potrebbe
aprire maggiori opportunità di scelte in diversi ambiti e temi: da quello ambientale (il blocco
Brics costituisce il maggior produttore mondiale di energia e il principale consumatore di
idrocarburi), a quello del disarmo, nel destinare gli aiuti allo sviluppo e non
all’interventismo. Per questo, i Brics hanno espresso un pronunciamento forte contro il
massacro dei palestinesi messo in atto da Israele e contro l’occupazione.
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INTERNI
Del 17/07/2014, pag. 6
LA GIORNATA
Quasi 8 mila emendamenti tra Sel e ribelli Fi. Asse sul referendum
propositivo La Boschi apre al presidenzialismo, ma insorge la sinistra
del partito
Ostruzionismo e decreti a rischio i dissidenti
Pd non si piegano e il voto sul Senato si
impantana
ROMA
Si complica il percorso del ddl Boschi. Nonostante Matteo Renzi abbia nuovamente
chiamato i suoi parlamentari a rispettare i tempi e a non ostacolare il cammino delle
riforme, il testo del governo rischia di impantanarsi a Palazzo Madama. Il primo risultato è
che i tempi si allungano e le votazioni rischiano di far slittare il primo via libera al
provvedimento. Il primo scoglio è rappresentato dalla montagna di emendamenti,
presentati soprattutto da Sinistra ecologia e libertà e dai ribelli di Forza Italia, sempre più
sul piede di guerra. Ieri sono stati depositati circa 7.800 emendamenti, una parte dei quali
con chiaro intento ostruzionistico. Senza contare la fila di decreti in scadenza che
aspettano l’ok dell’aula di Palazzo Madama prima della pausa estiva dei lavori, prevista
entro la prima decade di agosto. In questo clima, è ormai certo che le votazioni sul ddl
slitteranno di qualche giorno, forse addirittura a metà della prossima settimana, per
concludersi (nello scenario migliore) entro fine mese. A complicare ancora di più il quadro
c’è anche l’asse trasversale a favore del referendum propositivo da inserire nella riforme.
L’idea è contenuta in un emendamento con prima firma Doris Lo Moro (Pd), nel quale si
prevede che i cittadini siano chiamati a pronunciarsi sui disegni di legge di iniziativa
popolare che non siano stati esaminati dalla Camera entro dodici mesi. Un progetto
sostenuto anche dalla Lega: «Chiediamo a Renzi un referendum propositivo come in
Svizzera. Senza, la Lega non voterà questa brutta riforma». Il ministro per le Riforme
Maria Elena Boschi, intanto, rilancia: «Oggi il tema è il nuovo Senato - sostiene in
un’intervista ad Avvenire e io sono serena: il treno corre. Mi auguro che non ci siano
slittamenti. Una volta approvata questa riforma possiamo passare al tema del
presidenzialismo. Chiudiamo, poi apriamo un nuovo tavolo». Non apprezza Vannino Chiti «si scherza con il futuro del Paese» - e neppure Pippo Civati.
Del 17/07/2014, pag. 6
L’ultima paura di Palazzo Chigi “Il via libera
rinviato a settembre”
GOFFREDO DE MARCHIS
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ROMA Il nemico è il tempo. I dissidenti, secondo Renzi, sono ormai un problema
secondario. Il punto è che con 8mila emendamenti è praticamente certo che la riforma del
Senato non potrà essere approvata prima dell’estate e slitterebbe a settembre. Tradotto: il
premier e il suo governo dovrebbero rinunciare a una scadenza che è allo stesso tempo
simbolica e impegnativa sul piano dell’affidabilità riformatrice dell’Italia. Per questo già
oggi, nella conferenza dei capigruppo, bisognerà sondare il presidente di Palazzo
Madama Piero Grasso. Tocca a lui decidere quando e come far scattare il
contingentamento dei tempi. In parole povere, stabilire una data in cui l’esame del
provvedimento deve concludersi con un voto. Il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi
non si sbilancia. «Valutiamo giorno per giorno, è la strada migliore». Ma l’allarme a
Palazzo Chigi è scattato ed è un allarme rosso. L’obiettivo finora è stato quello di non
strozzare il dibattito sfuggendo così alle possibili accuse di un confronto negato cvhe
sottintende la polemica più generale sull’autoritarismo. Sulla riforma costituzionale è
escluso un voto di fiducia. Dunque, la marea di emendamenti e l’ostruzionismo annunciato
delle opposizioni mette a rischio non il sì finale ma i tempi ragionevoli del voto.
Persino a settembre. Ecco perché nell’esecutivo sono certi che prima o poi il presidente
del Senato dovrà intervenire stabilendo una fine della discussione. Ma quando ha
intenzione di farlo? Prima o dopo la pausa estiva? L’approvazione entro agosto è
fondamentale per il premier, tanto più con il semestre di presidenza italiana in corso.
«Presentarci in Europa con le riforme fatte - spiega Renzi - significa rispondere alla
domanda che lì ti fanno tutti: “Il vostro Paese è ancora riformabile?”. Per questo mi cadono
le braccia quando vedo i dissidenti del Pd, che in assemblea non parlano e non votano ».
In realtà il conteggio dei ribelli, di quelli cioè che sicuramente voteranno contro la riforma,
si è stabilizzato intorno a una cifra irrisoria: 7 o 8. Fanno parte di questo gruppo Chiti,
Mineo, Mucchetti, Tocci, Micheloni, D’Adda e Casson, quest’ultimo addirittura in bilico.
Dall’altra parte, in Forza Italia, dopo il duro richiamo di Silvio Berlusconi e la minaccia di
espulsione, si può dire con certezza che il fronte del no guidato da Augusto Minzolini non
si allarga semmai si restringe. Resta il nodo degli emendamenti che s’intreccia con ben 4
decreti in scadenza. Ogni decreto da convertire, anche in caso di voto di fiducia (a questo
punto scontato), porterà via almeno un giorno per ciascun provvedimento. Quattro giorni di
votazioni vanno considerati persi nel cammino della modifica costituzionale.
Negli uffici del ministero sono cominciate anche le valutazioni degli emendamenti. Ce ne
sono molti simili che possono essere accorpati, altri verranno accolti dal governo e dalla
maggioranza facendo risparmiare un po’ di tempo. Ad esempio sulla quota di firme utili a
chiedere un referendum e sui deputati europei inseriti nella platea dei grandi elettori del
presidente della Repubblica. In questo modo si conta di eliminare un centinaio di proposte
di modifica al testo base. È una goccia nel mare di carte che ha sommerso gli uffici del
Senato e del governo. Non rimane che un intervento del presidente Grasso e della
conferenza dei capigruppo dove comunque la maggioranza favorevole alle riforme è
schiacciante. La soluzione però non è facile. La scelta fatta finora è quella di tenere il
dibattito aperto e libero. Di non strozzare i dissensi. Di far esprimere soprattutto le
opposizioni senza esporsi ad attacchi di carattere polemico non sul merito ma sulle
“tagliole” imposte dall’alto alla democrazia e alle minoranze. Bisogna vedere adesso se
questa esigenza coinciderà con i tempi promessi dal governo. Tempi che Renzi ha tutta
l’intenzione di rispettare.
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del 17/07/14, pag. 1/15
Parlamento sotto tutela del governo
Massimo Villone
Riforme e democrazia . Il parlamento sotto tutela del governo
Una valanga di 7000 emendamenti può sembrare un ostacolo insormontabile per la
riforma Renzi-Boschi. Ma è un’illusione. Regolamento e prassi conoscono raffinate
tecniche anti-ostruzionistiche. Per le regole in atto, un ostruzionismo di minoranza che
blocchi l’assemblea non è possibile. Siamo di fronte a qualche giorno di lavoro
parlamentare, niente che non si possa gestire accorciando (di poco) le vacanze. A meno
che la maggioranza riformatrice non si dissolva. Per questo è decisiva la tenuta del patto
Renzi-Berlusconi, difeso dai due stipulanti a spada tratta, accada quel che accada.
In qualche misura l’esito rimane incerto, essendo stata pura rappresentazione teatrale la
soporifera assemblea di Renzi con i parlamentari Pd, e rimanendo alta la febbre in Fi. C’è
da sperare che la migliore politica ritrovi fiato e iniziativa. Perché il testo approvato in
commissione prefigura un’architettura istituzionale distorta e priva di equilibrio. Si è parlato
di blando autoritarismo, si è richiamato il progetto Gelli-P2. Di certo, si può temere una
riduzione degli spazi di democrazia.
Come? Vediamo alcuni punti salienti. Azzeramento della rappresentatività e del peso
politico-istituzionale del senato con il carattere non elettivo e il taglio dei poteri; riduzione
della camera a obbediente braccio armato del governo attraverso una legge elettorale che
riduce la rappresentatività, taglia le voci in dissenso, crea una artificiale maggioranza
numerica, garantisce la fedeltà al capo attraverso le liste bloccate; potere di ghigliottina
permanente del governo, che può strozzare a suo piacimento il dibattito imponendo il voto
a data certa su un testo proposto o comunque accettato dal governo; innalzamento del
numero di firme richiesto per l’iniziativa legislativa popolare a 250.000 (ora 50.000);
innalzamento delle firme richieste per il referendum abrogativo a 800.000 (ora 500.000).
Un colpo grave ed evidente alla rappresentanza politica da un lato, alla partecipazione
dall’altro. Sono poco più che una foglia di fico le disposizioni che rinviano ai regolamenti
parlamentari la garanzia dell’iniziativa legislativa popolare, o riducono in qualche misura il
requisito del quorum strutturale per il referendum. Assai più contano altri effetti, magari
indotti e non immediatamente visibili, delle modifiche proposte. Ad esempio, il Capo dello
Stato viene eletto da deputati e senatori. Ma la riduzione drastica del numero dei senatori,
rimanendo immutato quello dei deputati, lascia in sostanza la elezione del capo dello stato
nelle mani della sola camera, consegnata alla maggioranza di governo dalla legge
elettorale, con l’aggiunta di una manciata di sindaci e consiglieri regionali amici. Basterà
aspettare il nono scrutinio per avere un capo dello stato di maggioranza, rimanendo mero
flatus vocis che sia rappresentante dell’unità nazionale, e garante della costituzione. E non
dimentichiamo che il capo dello stato presiede il Csm, organo di autogoverno della
magistratura. E che per gli stessi componenti elettivi del Csm vale il discorso appena fatto.
Mentre i tre membri della Corte Costituzionale eletti dalla camera sono rimessi alla scelta
della maggioranza garantita dal premio, con qualche sostegno sottobanco che non si nega
a nessuno. Per non dire della revisione della Costituzione ancora rimessa alla
maggioranza di governo della camera, e agli equilibri politici del tutto occasionali e
imprevedibili del senato. In quali mani finiranno diritti e libertà? La Costituzione come
statuto di una maggioranza?
Una struttura priva di equilibrio. Dove sono i checks and balances? Invece, molto altro si
poteva fare. Come ad esempio l’impugnativa ex ante davanti alla Corte Costituzionale di
leggi non limitata alla legge elettorale, da parte di una minoranza parlamentare (come in
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Francia); o il ricorso diretto del cittadino alla stessa Corte in materia di diritti e libertà
(Germania e altri paesi); o il referendum popolare approvativo automatico in caso che
l’iniziativa legislativa popolare venga disattesa dal legislatore (Svizzera); o l’anticipo del
giudizio di ammissibilità della Corte sul referendum in base all’avvenuta raccolta di un
numero inferiore di firme rispetto al totale di quelle richieste (ad esempio, centomila), in
modo da consentire ai promotori di raccogliere le restanti firme a quesiti ammessi.
Né va dimenticato il contesto più generale, e l’indebolimento di partiti politici, sindacati,
associazioni. Si pensi alla cancellazione del finanziamento pubblico, alla diatriba sui
contratti nazionali di lavoro, al rifiuto di concertazione. La stessa ascesa di Renzi è stata la
negazione della funzione tipica e propria di un partito politico. In sostanza, nelle primarie
Renzi ha usato il voto dei non iscritti contro il voto degli iscritti, per conquistare il partito
degli iscritti.
Un tempo, se qualcuno voleva metter mano alla costituzione si parlava di ingegneria
istituzionale. Ma almeno si presupponeva una laurea. Capiamo bene che oggi è chiedere
troppo. Ma almeno dateci un geometra o un capomastro.
del 17/07/14, pag. 4
Renzi tiene accesa la fiammella del
presidenzialismo per sedare Forza Italia
Un po’ per tattica, un po’ per strategia, Renzi tiene accesa la fiammella del
presidenzialismo: oggi gli serve per aiutare ciò che resta del partito di Berlusconi, domani
gli potrebbe servire per prendersi ciò che resta dei voti di Berlusconi. Se ciò avvenisse con
il consenso politico del Cavaliere o più probabilmente per il fallimento politico del Cavaliere
re, poco importa. Il punto è che la variabile dell'elezione diretta del capo dello Stato —
lasciata dal governo sullo sfondo come un'eventualità — è al momento legata alla
necessità del premier di superare le forche caudine del Senato sulle riforme istituzionali:
agisce come un potente sedativo su Forza Italia, serve per contenerne le fibrillazioni e per
impedire il patatrac nell'Aula di palazzo Madama.
Ecco il motivo contingente che spinge il ministro Boschi a non porre il veto sulla materia,
inducendola però a precisare il timing: «Solo dopo aver portato a definitivo compimento la
modifica del bicameralismo — ha detto ad Avvenire — potremo mettere a tema il
presidenziaìismo. Non oggi, altrimenti rischia di saltare la riforma a cui lavoriamo da
mesi». E il caos che regna nell'area berlusconiana si scatenerebbe nel Pd. L'equilibrismo
è necessario, è figlio della fase delicata e anche del tatticismo di Renzi, abile a gestire i
pedali dell'acceleratore e del freno simultaneamente, pronto a dire che «non ho alcuna
obiezione sul presidenzialismo ma è ancora prematuro ». La dote è apprezzata dal
Cavaliere, conscio di potersi trasformare nella vittima sacrificale del leader democrat. «Ah,
questo Renzi—», ha sospirato l'ex premier giorni fa al telefono con Casini: «Qui rischiamo
che ci prenda tutti per i fondelli».
Sia chiaro, il primo a non credere al traguardo presidenzialista è proprio Berlusconi, che
nelle scorse settimane è stato capace — nella stessa conferenza stampa — di issare il
vessillo caro al centrodestra per poi arrotolarlo subito: «Certo, se Renzi fosse contrario,
noi comunque non romperemmo sulle riforme», il Cavaliere ha la testa da tutt'altra parte, e
questo è un tema che non lo appassiona più, ma che accalora molti nel suo partito, un po'
per tattica un po' per strategia. Ed è così che ieri il senatore forzista Minzolini — ostile al
progetto di riforma renziano—ha preannunciato in Aula il voto favorevole all'emendamento
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presentato da Casini, in base al quale — se le Camere non riuscissero ad eleggere il capo
dello Stato all'ottava votazione — spetterebbe al popolo scegliere l'inquilino del Quirinale
tra i due candidati più votati in Parlamento.
Secondo l'ex presidente di Montecitorio questo modello «non altererebbe affatto gli
equilibri istituzionali », secondo l'ex leader del Pd Bersani, sì: «E che facciamo, le
primarie? ». È immaginabile quindi cosa accadrebbe se passasse l'emendamento, di
sicuro lo immagina Minzolini: «Sarebbe divertente», ride. n premier, che vuole evitare il
fallimento, intende tenere separato questo materiale altamente esplosivo dal progetto di
modifica del Senato. Ma non è detto che non sia interessato al presidenzialismo. Anzi,
secondo il coordinatore di Ned, Quagliariello, «proprio il presidenzialismo potrebbe essere
la norma di chiusura delle riforme istituzionali e potrebbe raccogliere consensi anche
nell'area non renziana del Pd. Perché un modello che è stato vissuto a sinistra come una
minaccia negli anni del berlusconismo, ora si va trasformando paradossalmente in uri
elemento di garanzia». Ce n'è la prova, sta nel ragionamento di Bersani, che era e resta
parlamentarista convinto, e a cui non piace il progetto di riforma dell'attuale capo
democrat: «Piuttosto che avere un presidenzialismo implicito e straccione, il peggio che ci
possa capitare, è preferibile un sistema chiaro, trasparente, fatto di pesi e contrappesi ».
L'allusione è chiara. D'altronde tutto sta mutando, attraverso le riforme istituzionali ma
anche attraverso le leggi ordinarie, n provvedimento voluto da Renzi per il riordino della
pubblica amministrazione, per esempio, contiene norme che rafforzano ruolo e poteri della
presidenza del Consiglio, a Costituzione invariata. E in prospettiva la stessa legge
elettorale nata dal «patto del Nazareno» ridurrebbe di fatto i poteri del Quirinale. Il
presidenzialismo potrebbe dunque essere l'approdo naturale alla trasformazione del
sistema. Ma visto il timing deciso dal premier e ribadito ieri dal ministro Boschi, sarebbe
davvero possibile arrivare a quella forma di Stato dopo aver costruito un nuovo edificio
costituzionale che al momento non lo prevede?
Il nodo come al solita è politico. Dunque bisognerà attendere per verificare se quella di
Renzi è solo tattica o sarà anche strategia. Non servirà molto tempo: il passaggio decisivo
sarà infatti la scelta del successore di Napolitano. Se venisse privilegiato un profilo di
«garanzia », vorrebbe dire che il progetto presidenzialista è stato accantonato e che è
prevalsa l'idea del premierato forte. Qualora si optasse invece per una figura di minor
spessore politico, e quindi di «transizione», allora si aprirebbero gli spazi per un radicale
cambio di modello. Al momento però il nodo resta, se Renzi fa mostra di volerlo sciogliere
in futuro è solo per aiutare Berlusconi (e dunque se stesso) nel presente. Gli serve per
sedare Forza Italia e impedire che la maratona al Senato sull'eutanasia del Senato si
trasformi nell'eutanasia del suo governo.
Francesco Verderami
Del 17/07/2014, pag. 8
Berlusconi furioso: “Le riforme non c’entrano, c’è la fiducia su di me”. I
ribelli: può cambiare idea dopo il verdetto
Silvio minaccia i frondisti ma Fitto frena la
rivolta “Sentenza Ruby decisiva”
CARMELO LOPAPA
Dice che li aspetta tutti al varco, adesso. Uno per uno. I dissidenti minacciati l’altro giorno
di epurazione sono pesci piccoli, dal cosentiniano D’Anna a Capezzone, ma è ai pesci
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grossi che Silvio Berlusconi lancia il suo avvertimento con annesso foglio di via. Raffaele
Fitto in testa. «Qui le riforme non c’entrano più niente, ho posto la questione di fiducia sulla
mia persona, ora vengano allo scoperto: con me o contro di me, in questo momento
drammatico», è stato lo sfogo del leader forzista nel pomeriggio di Palazzo Grazioli nel via
vai dei pochi pretoriani di cui ormai si fida. Del resto, non è esattamente al Senato elettivo
che pensa in queste ore l’ex Cavaliere, assorbito dall’ennesima vigilia giudiziaria al
cardiopalma. Domani entrano in camera di consiglio i giudici d’appello del processo Ruby.
«Qui rischio dieci anni di domiciliari e questi giocano» ha proseguito con le punture di
spillo ai “ribelli” delle riforme. Augusto Minzolini, Anna Bonfrisco e gli altri venti che giorni
fa hanno firmato la lettera con richiesta di rinvio del ddl Boschi ieri sera si sono visti a cena
per fare il punto. Non cedono. «Andiamo per la nostra strada e vedrete che anche
Berlusconi ci ripenserà» è la tesi dell’ex direttore del Tg1. Altrettanto sicuro che nulla più
cambierà il capogruppo forzista Paolo Romani: «Hanno numeri irrilevanti, l’accordo sulle
riforme regge». Ma il clima resta tesissimo, in un partito sotto shock dopo la sfuriata con
tanto di “vaffa” da parte del capo nell’assemblea di martedì. Molti hanno visto anche nella
svolta rude e senza precedenti, l’influenza del duo Pascale- Rossi. La partita in realtà
appare complessa e coinvolge la tenuta del partito e la stessa leadership carismatica di
Berlusconi, ormai in declino. L’eurodeputato Raffaele Fitto è rientrato in gran fretta nel
pomeriggio da Strasburgo, ha incontrato un paio di deputati e senatori a lui vicini, tutti gli
altri li ha sentiti, da Saverio Romano a Renata Polverini, passando per Capezzone. Era
stato proprio lui nella lettera aperta di domenica al leader a chiedere di non porre un
autaut sulle riforme. Esattamente quello che invece Berlusconi ha imposto. Fitto e il suo
gruppo non vogliono «cadere nella trappola» e per questo l’ex governatore pugliese ha
subito sconvocato l’assemblea che i «dissidenti» volevano tenere al suo rientro a Roma.
Niente interviste, dichiarazioni o apparizioni tv per l’eurodeputato, che ha dettato la linea:
«Non dobbiamo concedere alcun alibi, nessuna riunione sediziosa, noi restiamo nel
partito». Ma quanti sono alla prova del pallottoliere? «Non più di una decina di senatori e
alcuni deputati» calcola Denis Verdini a San Lorenzo in Lucina. «Coi numeri hanno
mostrato una certa fragilità » ironizzano dall’altro fronte, ricordando la scissione di Fini e
poi quella di Alfano. L’ex governatore pugliese, raccontano, si attende sorprese in aula la
prossima settimana, quando si apriranno le votazioni, «prevedevano poche decine di
emendamenti e da Fi e Gal ne sono piovuti invece mille». La decisione, in serata, è di non
fare alcuna mossa fino alla sentenza d’appello Ruby. Pensano che in caso di condanna —
magari pur ridotta — potrebbe essere lo stesso Berlusconi a far saltare il tavolo delle
riforme. Tutt’altro che scontato, però. La sensazione che deputati e senatori berlusconiani
rivelano nei capannelli di Camera e Senato è che l’ex Cavaliere in realtà non sia disposto
a ripensamenti: «Interessato ormai a salvaguardare solo patrimonio e aziende, si è
convinto che possa farlo solo mantenendo i patti con Renzi». L’endorsement di Piersilvio
Berlusconi nei confronti del segretario Pd, nella lettura dei forzisti delusi, sarebbe
il sigillo della svolta.
Del 17/07/2014, pag. 8
IL CASO
E Alfano vuole il gruppo unico con i centristi
TOMMASO CIRIACO
ROMA «Non si torna indietro, questa è la linea. O si cambia tutto - allargando il campo e
trasformando anche il nome - o non abbiamo futuro». Due sere fa, riunendo i suoi
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senatori, Angelino Alfano ha indicato la rotta per il Nuovo centrodestra. Una rivoluzione,
necessaria per non scomparire. Il progetto, ormai a un passo dall’essere ufficializzato,
prevede una fusione dei gruppi parlamentari alfaniani con alcuni frammenti centristi e con
le sparute truppe dell’Udc. La vera novità, però, sarà il varo di un nuovo contenitore
politico che - all’inizio - si chiamerà “Costituente popolare”. Con un obiettivo evidente in
questa fase di disgregazione del centrodestra: accogliere eventuali fuoriusciti di Forza
Italia, soprattutto al Senato. Nella frammentata galassia centrista la nuova era aperta con il
governo Renzi ha lasciato il segno. Scelta civica è ormai ridotta in polvere, l’Udc è
dilaniata e vittima di un duello tra Pier Ferdinando Casini e Lorenzo Cesa, mentre i
popolari di Mario Mauro hanno rotto con quasi tutti i compagni di strada. Per raccogliere i
cocci, allargare i gruppi parlamentari e ripartire con un nuovo brand si è stabilito allora di
lanciare la nuova “Costituente popolare”, che ha bruciato sul traguardo il marchio
“Coalizione popolare”. I numeri parlamentari, almeno sulla carta, sono destinati
a crescere. Alla Camera una scheggia degli ex montiani - guidata da Andrea Causin è
disponibile alla sfida. Insieme agli eletti dell’Udc, sono in tutto una ventina i parlamentari
disposti al matrimonio con il Ncd. Il nuovo gruppo potrà quindi contare su 45 deputati. Ma
è al Senato che si gioca la partita più importante, perché è lì che si decide il destino
dell’esecutivo. Le truppe di Alfano contano già 32 senatori, con la nuova costituente si
arriverà a quota 40. Aderiranno Casini e De Poli, forse anche Mauro, assieme ad altri due
o tre senatori. Nel Nuovo centrodestra, però, non mancano resistenze e distinguo. Non
gradiscono, ad esempio, Antonio Azzollini, Carlo Giovanardi e Giuseppe Esposito. E in
casa Udc Cesa è a favore, mentre Casini - forte di un filo diretto con Renzi - nutre parecchi
dubbi, anche se agli amici ha confidato: «Io ormai ho un ruolo diverso, non penso che sia
la strada giusta. E poi dove porterà questo progetto? In ogni caso quando mi diranno a
quale gruppo aderire, lo farò». La vera sfida, però, è tutta sul futuro. La scommessa è che
le nuove grane giudiziarie di Silvio Berlusconi e la faida interna a Forza Italia possano
portare presto a una frattura definitiva dalle parti dell’ex premier. «Hai già l’accordo con il
Ncd!», ha tuonato qualche sera fa l’ex Cavaliere, puntando il dito contro il senatore
Vincenzo D’Anna. E’ quello il target a cui mira la Costituente popolare, puntando ad
assorbire soprattutto l’ala meridionale del dissenso azzurro. Sempre in attesa di capire se
le antiche ruggini tra Alfano e Raffaele Fitto possano essere superate in nome della
costruzione di un nuovo centrodestra.
Del 17/07/2014, pag. 19
LA GIORNATA
Montecitorio, rinviato a sorpresa il voto sulla norma che abolisce
l’obbligo di trasmettere quello paterno Il Pd si spacca, bagarre in aula.
La relatrice: “Colpa dell’opposizione trasversale dei deputati maschi”
Stop alla legge sul doppio cognome
CRISTIANA SALVAGNI
ROMA Maschi contro femmine. Sembrava a un passo dal voto finale alla Camera la legge
sul cognome dei figli che abolisce l’obbligo di trasmettere il paterno, lasciando liberi i
genitori di scegliere tra quello del padre o della madre o di entrambi, e che stabilisce che
in caso di disaccordo vengano assegnati tutti e due. Approvata all’unanimità dalla
commissione Giustizia la scorsa settimana, ieri il testo era all’esame dell’assemblea.
Invece, a sorpresa, il voto è stato rinviato.
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Mandando su tutte le furie diverse deputate, che dello stop accusano i colleghi in
Parlamento. «È colpa dei veti culturali opposti dai deputati maschi a una legge che
avrebbe dovuto porre fine alla concezione patriarcale della famiglia», punta il dito la
relatrice Pd sulla nuova legge Michela Marzano. «Il testo recepisce una norma di buon
senso ed è assurdo che debba essere bloccato per l’opposizione trasversale di alcuni
deputati, per lo più uomini», aggiunge la deputata Pd Caterina Pes. «Ogni volta che si
cerca di mettere mano a questioni così ancestrali si crea un blocco culturale ostile»,
sottolinea la deputata Sel Marisa Nicchi. Il meccanismo della legge risponde alla sentenza
della Corte europea del diritti dell’uomo che nel gennaio scorso ha condannato l’Italia per
violazione del principio d’uguaglianza (perché negare la possibilità di trasmettere il
cognome della madre discrimina le donne) e vuole allineare il nostro Paese agli altri
europei, come Spagna, Germania e Inghilterra. In particolare ricalca il modello francese e
prevede che i genitori possano scegliere se dare al figlio il cognome del padre, della
madre o di entrambi, nell’ordine da loro stabilito. In caso di disaccordo stabilisce che
vengano attribuiti tutti e due in ordine alfabetico. Inoltre per evitare che fratelli nati dagli
stessi genitori abbiano cognomi diversi dispone che quello scelto per il primo figlio sia
trasmesso ai successivi. Infine prevede che la persona con due cognomi possa poi
trasmetterne ai figli soltanto uno. Proprio questo punto fa scoppiare in aula la bagarre.
Stefania Prestigiacomo di Forza Italia solleva il dubbio che non sia giusto far scegliere
ai figli quale cognome salvare. Ignazio La Russa raccoglie firme per chiedere il voto
segreto e propone il rinvio in commissione. Anche Alessandro Pagano del Nuovo
centrodestra e Rocco Buttiglione dell’Udc sollevano perplessità. Per risolvere le questioni
formali si riunisce la commissione dei Nove ma il voto finale non arriva più: la proposta di
legge viene rinviata a una seduta da fissare, forse, prima della pausa estiva.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 17/07/2014, pag. 1-23
LA STORIA
Quella siepe che divide ricchi e poveri a
Milano
GAD LERNER
MILANO
SILENZIOSI, con gli occhi spenti dei sopravvissuti, davanti a Château Monfort si radunano
pure i profughi eritrei che scendono dal tram numero 9. Qualcuno gli ha spiegato che in
corso Concordia 3 c’è la mensa dei francescani dove li sfameranno gratis.
Così sfilano davanti a corso Concordia 1 e osservano meravigliati il sontuoso palazzo
liberty dell’architetto Paolo Mezzanotte, quello che ha costruito la Borsa di Milano,
trasformato in albergo 5 stelle che si ispira al mondo delle fiabe. Per ristrutturarlo, insieme
all’architetto, ci hanno lavorato due scenografe. Le guide turistiche lo raccomandano per la
sua “posizione centrale”, la signorilità del quartiere Monforte, il quadrilatero della moda e il
Duomo raggiungibili comodamente a piedi. Non aggiungono che lì davanti bivacca la folla
dei pezzenti in costante aumento e sempre in attesa di un pasto caldo.
Violando il codice non scritto dell’urbanistica metropolitana che raccomanda di evitare ogni
contatto diretto fra gli antipodi della gerarchia sociale, il bordo meridionale di piazza
Tricolore dà luogo a un paesaggio inaudito: mescola le due Milano che per pudore non
vorrebbero mai specchiarsi l’una nell’altra. Ricchi e poveri, lusso e miseria.
Un laboratorio a cui è difficile abituarsi, anche se i passanti filano via perché l’imbarazzo e
il timore prevalgono sulla curiosità. Per attenuare l’impatto hanno escogitato una frontiera
simbolica, un aggiramento delle normative sull’occupazione del suolo pubblico. Una volta
ottenuta la deviazione della pista ciclabile, Chateau Monfort ha piazzato uno di fianco
all’altro quattro vasi rettangolari di siepe e li ha montati su rotelle, di modo da poterli
considerare amovibili. Così dal dehors dove i valletti prelevano il bagaglio della clientela in
arrivo, la visuale dell’Opera San Francesco risulta parzialmente limitata. Anche se, come
mi fa notare ridendo il senzatetto Peppe, portantino licenziato dal 118 romano, «ogni tanto
un’auto blu sbaglia ingresso e porta i ricconi in mezzo a noi poveri in fila dietro alle
transenne della mensa». Da gennaio poi l’albergo ha ottenuto in gestione l’aiuola pubblica
di fronte all’ingresso, sicché gli addetti alla sicurezza hanno diritto di sloggiare chi prova a
coricarsi sul prato all’inglese. Quanto alle panchine, sono state sradicate nonostante le
proteste degli immigrati e dei clochard. Mi indicano sconsolati i segni della perduta
comodità rimasti sul lastrico. Per appoggiarsi a bere una birra o un cartone di vino, vietati
nella struttura francescana, gli restano solo aguzzi dissuasori metallici. La colpa di tutto ciò
risale al mitico Fra Cecilio Cortinovis, il portinaio del convento di viale Piave che nel 1959
volle costruire proprio lì una struttura d’accoglienza per i poveri. E a chi la giudicava
inopportuna, in una zona residenziale borghese, replicava: «Ma è mai possibile che in
centro a Milano debbano starci solo i peccatori?». Il cardinal Martini ne ha avviato il
processo di beatificazione, ma certo neanche Fra Cecilio avrebbe mai immaginato che
proprio lì di fianco nascesse un hotel per il quale, fra le centinaia di commenti entusiasti
dei visitatori registrati da TripAdvisor, si sprecano aggettivi come «superlativo»,
«mozzafiato », «gioiello incantevole». Sono le 18,30. I poveri si accodano col tesserino
(ma i nuovi venuti eritrei anche senza) per ottenere la loro razione di polpette di soia. Ivan
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Donati comincia a suonare il piano nel lounge bar Mezzanotte sormontato da una cupola
di vetro, dove gli aperitivi sono serviti con deliziosi fritti di verdura. Mentre fuori mi
chiedono un euro per comprare il Tavernello, il superpremiato sommelier Michele Garbuio
offre su prenotazione degustazioni nell’apposita Cella di Bacco, dove a comando il vino
scorre dalla bocca di una statua. Le docce e la lavanderia dell’Opera San Francesco
lavorano a pieno ritmo mentre nel sottosuolo dello Chateau la spa Amore e Psiche
propone docce emozionali aromatiche con sauna, bagno turco e piscina di acqua salina.
Proprio a ridosso della siepe- frontiera il Comune ha piazzato un gabinetto chimico dalla
serratura rotta, che emana un lezzo inconfondibile. Lì si radunano i romeni più sbandati,
ogni tanto si divertono a buttare bottiglie vuote dall’altra parte. Ma niente di grave.
La struttura francescana arriva a distribuire fino a duemila pasti a mezzogiorno e duemila
la sera. L’utenza di nazionalità italiana resta minoritaria, ma dal 2008 è cresciuta del 61
per cento. I musulmani nel periodo del Ramadan hanno diritto di prelevare cibi secchi che
mangeranno dopo il tramonto. Anche se sarebbe vietato, c’è chi trafuga qualcosa per il
cane rimasto fuori. Altri, mi dicono sottovoce, per i bambini. «Con il nuovo arrivo degli
eritrei temo che dopo il Ramadan qui finiremo al collasso», mi dice il responsabile laico
della mensa, Andrea Rossetto. Nel bivacco di corso Concordia serpeggiano mormorii ostili
dei poveracci bianchi contro i neri («chissà che malattie portano») e contro gli arabi («mica
sono cristiani come noi, quelli»). Chiedo al successore di Fra Cecilio, padre Maurizio
Annoni, se trova aspetti positivi in questo strano vicinato: «La siepe tiene distinti i due
ambiti, evitando un passaggio non pericoloso ma certo dannoso per entrambi. Ma
guardarsi e condividere lo stesso territorio può recare beneficio a entrambi. I nostri poveri
hanno bisogno di non essere giudicati per la loro condizione poco dignitosa. I clienti
dell’albergo? Non so, posso dirle che dopo averci incontrati lì davanti Cristina Chiabotto ha
voluto trascorrere con noi una giornata da volontaria». Padre Annoni rivolge parole di
amicizia al proprietario di Chateau Monfort, l’imprenditore Vincenzo Vedani che, prima di
avviare i lavori, ha portato tutta la famiglia in visita all’Opera San Francesco: «Sua moglie
Lucia negli anni Ottanta incontrò dei malati di tumore che dopo la chemio trascorrevano la
notte sulle panchine di piazzale Gorini e decise di costruire CasAmica, quattro strutture
d’accoglienza per chi viene a curarsi a Milano e per i loro parenti. Poi ci hanno dato una
mano anche qui alla mensa». Aggiro la siepe e vado a sorseggiare un Cosmopolitan con
questo ingegner Vedani, patriarca di una di quelle famiglie milanesi che hanno fatto i soldi
veri, centinaia di milioni, con un secolo di industria dell’alluminio e poi con tutte le
successive diversificazioni finanziarie, compresa la catena alberghiera Gruppo Planetaria.
Vedani mi accoglie col figlio Stefano ammettendo che «la gestione di questa vicinanza non
è così semplice». In molti gliela avevano sconsigliata. Solo per ottenere di mettere quella
siepe c’è voluto un anno e mezzo di burocrazia. Anche se l’albergo gli sta dando
soddisfazioni, pieno com’è di clientela straniera, forse non lo rifarebbe. «Ma io non provo
disagio, se proprio non vengono a orinare qui davanti. La mia è una famiglia partita molto
in basso e questo contrasto fa parte della vita». I clienti non si lamentano? «Qualcuno,
ogni tanto, pazienza. Si lavora bene lo stesso. E per occupare con la scala esterna 26
metri quadri di proprietà dell’Opera San Francesco gli abbiamo bonificato duecentomila
euro. I rapporti sono ottimi». In effetti sulle 567 recensioni TripAdvisor dei clienti, solo
cinque o sei rilevano la vicinanza insolita: «Alla reception mi hanno spiegato che erano
innocui».
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 17/07/14, pag. 4
Teatro Valle, dopo tre anni un vero tavolo sui
beni comuni?
Roberto Ciccarelli
Movimenti. Giovanna Marinelli, nuovo assessore alla cultura, apre agli
occupanti: «Dialogo, per rientrare nella legalità»
La prima dichiarazione da assessore alla cultura di Roma Giovanna Marinelli è stata sul
teatro Valle. Insediata ieri dopo 52 giorni di «vacanza culturale» a seguito delle dimissioni
di Flavia Barca, lo storico braccio destro di Gianni Borgna, assessore ai tempi della Romagrandi-eventi modello Veltroni, ha affermato l’intenzione di riprendere il dialogo con i
lavoratori dello spettacolo che occupano il teatro dal 14 giugno 2011. «Al Valle tornerà la
legalità – ha detto in un’intervista a Il Messaggero – La situazione va affrontata il prima e il
meglio possibile per far sì che, senza mandare dispersa l’esperienza, soprattutto iniziale,
maturata al Valle, la situazione si riequilibri, anche attraverso il dialogo». «Un teatro – ha
aggiunto Marinelli – è un luogo di impegno sociale e politico in senso alto (l’attenzione a
questa valenza è stata data), ma ora gli occupanti devono mostrare la volontà precisa di
rientrare nella legalità».
Una presa di posizione che sembra escludere il bando con il Mibact e non cita le
dichiarazioni del sindaco Ignazio Marino, che aveva chiesto agli occupanti di lasciare al più
presto il teatro. Marinelli riporta il Comune sulle posizioni del dossier commissionato da
Flavia Barca a cinque «facilitatori» che, dopo audizioni durate mesi, hanno redatto una
«memoria» di 94 pagine dove raccomandano il coinvolgimento della «Fondazione teatro
valle bene comune» nella gestione delle attività che dovrebbero aprire la fruizione del
teatro alla cittadinanza, sull’esempio di quanto fatto nei tre anni di occupazione. Il tutto
dovrebbe avvenire previa convocazione di un «tavolo di confronto» tra Roma Capitale, il
ministero dei beni culturali, la Fondazione pensata insieme a Stefano Rodotà e Ugo Mattei
a cui partecipano 5600 soci, il teatro di Roma e altri soggetti istituzionali nell’ottica di una
«collaborazione tra cittadini e amministrazione».
I «facilitatori» propendono per un periodo di transizione affidato al Teatro di Roma, oggi
presieduto da Marino Sinibaldi che ha definito «lievemente eufemistiche e un po’ ipocrite»
le allusioni ad uno sgombero del Valle. Il teatro di Roma potrebbe valorizzare progetti
triennali di «soggetti nonprofit» garantendo trasparenza, partecipazione e democrazia
nelle scelte programmatiche. La proposta circola ufficiosamente nel Campidoglio, ma non
è mai stata comunicata agli occupanti che dal 18 settembre 2013 chiedono l’apertura di un
negoziato.
Senza entrare nei dettagli, gli occupanti hanno accolto positivamente «il riconoscimento
del valore dell’esperienza del Teatro Valle e la volontà di aprire un dialogo» da parte
dell’assessore. Auspicano però che «il confronto aperto sappia fortificare il modello
culturale del Valle». A cominciare dalla questione della «legalità» che al Valle viene
declinata in termini «costituenti», cioè produttrice di nuovo diritto partecipato e non solo di
atti amministrativi.
Marinelli si è inoltre impegnata a chiarire l’annoso problema del protocollo fantasma sul
Valle tra Mibact e Comune. La Corte dei Conti nel frattempo ha aperto un’indagine sulla
titolarità del bene. Vuole capire perchè il Campidoglio ha continuato a pagare le utenze
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durante l’occupazione. Forse per garantire la sicurezza, visto che senza luce e acqua il
Valle non sarebbe sicuro?
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INFORMAZIONE
del 17/07/14, pag. 9
“UN CARTELLO GESTISCE I NOSTRI
APPALTI” E LA RAI VA IN PROCURA
L’AZIENDA A DICEMBRE AVEVA DENUNCIATO L’ESISTENZA
DI UN ACCORDO PER SPARTIRSI LAVORI DI POST-PRODUZIONE
DI IMPORTANTI PROGRAMMI. DA BALLARÒ A PORTA A PORTA
di Valeria Pacelli
Un accordo volto a ‘spartirsi gli appalti di montaggio e riprese’ tra le diverse società invitate
dalla Rai” e “presunte distorsioni concorrenziali per l’affidamento di servizi di post
produzione per la stagione televisiva 2013-2014”. Stavolta a denunciare irregolarità
all’interno di Viale Mazzini è la Rai stessa che mesi fa ha inviato una segnalazione in
procura a Roma, ma anche all’Antitrust, l’autorità garante della concorrenza e del mercato,
dove venivano denunciati accordi di ripartizione delle procedure di affidamento di servizi di
post produzione per diversi programmi. La querela dell’azienda di Stato, tutta da verificare,
nasce dopo che negli uffici di Viale Mazzini sono arrivate alcune missive anonime – molte
spedite anche antecedentemente all’apertura delle buste relative alle gare – in cui si
parlava delle offerte concordate dalle aziende. A piazzale Clodio è stata aperta
un’inchiesta (per ora contro ignoti) di cui è titolare il pm Letizia Golfieri.
Contemporaneamente anche l’Antitrust ha dato avvio a un’istruttoria, mettendo nel mirino
23 imprese che avrebbero fornito servizi post-produzione per la Rai per importanti
programmi (ne citiamo solo alcuni), da Ballarò a Porta a Porta, a Chi l’ha visto?. Il Fatto ha
provato a contattare molte delle aziende citate nella relazione, senza però ottenere
risposta a centralini ed email.
L’ISTRUTTORIA dell’autorità dovrà approfondire quindi le possibili anomalie relative ai
risultati di 20 procedure di selezione nel periodo che va dal 15 luglio al 3 ottobre 2013 alle
quali hanno partecipato le 23 imprese, alcune con fatturati annui molto elevati. Tra le
aziende elencate ci sono: la Aesse Video, la Barbieri Communication, che fornisce servizi
anche per clienti dal calibro di Sky Italia, Wind e ministero per i Beni e le attività culturali. E
ancora: la Diva Cinematografica Srl, che sul proprio sito tra le trasmissioni per le quali ha
lavorato elenca Agorà, Geo e Geo, La storia siamo noi e Porta a Porta; la Euroscena srl,
società che “nel 2012 ha fatturato 5,365 milioni di euro” specializzata nelle riprese di Silvio
Berlusconi che ha seguito negli anni in trasmissioni pubbliche e interviste; La Grande Mela
srl che tra i lavori fatti sul proprio sito cita anche la fortunata serie Gomorra. E di imprese
finite nel mirino dell’Antitrust ce ne sono ancora tante: da Industria e Immagine a MAV
Television, da New Telecinema, a Obiettivo Immagine e tante altre ancora. L’istruttoria è
ancora in corso ma leggendo la relazione di avvio di procedura dell’Autorità si scoprono
aspetti interessanti. “In via generale - è scritto nella relazione - si osserva che i fatti
segnalati alla Rai mediante segnalazioni anonime hanno trovato riscontro il più delle volte
in relazione al generalizzato aumento dei costi orari richiesto per lo svolgimento del
servizio. Inoltre in alcuni casi, l’assegnatario indicato nelle missive anonime, di cui alcune
spedite antecedentemente all’apertura delle buste è risultato confermato”. Poi viene
spiegato che: “dal - le analisi svolte sui dati resi disponibili dalla RAI emergono diversi
indici di possibili comportamenti collusivi tenuti in occasione del complesso delle gare
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analizzate.” “L’incremento dei prezzi di aggiudicazione - spiega il garante della
concorrenza - si è verificato per le procedure più importanti, assegnate prima dell’inizio
della nuova stagione televisiva.
PER DARE un’idea della rilevanza delle gare in questione, basti considerare che il valore
medio per le 20 commesse del periodo da luglio a ottobre 2013 è stato circa tre volte
superiore rispetto a tutte le altre gare assegnate nel 2013.” Secondo l’Antitrust quindi
“appare evidente e allo stesso tempo anomalo quanto avvenuto nell’estate 2013, quando
per la ventina di gare che costituiscono la tornata più importante dell’anno è rilevabile un
abbattimento dello sconto praticato dagli aggiudicatari, risultato mediamente inferiore a un
quinto di quello “storico”. Tale circostanza si accompagna alla frequente riassegnazione
della commessa al precedente affidatario. Inoltre, tale risultato è conseguenza di una
politica di offerta con sconti molto bassi da parte di tutte le imprese invitate a partecipare
alle varie procedure, e non solo dei vincitori; le medesime imprese hanno tendenzialmente
presentato le offerte di importo maggiore nelle gare non aggiudicate, in dissonanza con
una politica di prezzo ben più aggressiva in occasione delle procedure in cui sono risultate
vincitrici.” L’indagine dell’Anti - trust è ancora in corso, come quella della Procura di Roma.
Del 17/07/2014, pag. 12
“A rischio email e telefonate degli italiani”
La denuncia del Garante per la Privacy: “Gravi criticità nel sistema che
gestisce le telecomunicazioni e livelli di sicurezza inadeguati: minacciati
i diritti dei cittadini”
MARCO MENSURATI
FABIO TONACCI
C’è un enorme buco nero nella sicurezza delle telecomunicazioni italiane. Una falla
talmente ampia da mettere a disposizione di chiunque volesse attrezzarsi telefonate, sms,
email, chat, contenuti postati sui social network. Tutto il traffico online del Paese,
insomma. Non si tratta di un allarme generico ma di un pericolo più che concreto, tanto
che negli ambienti dello spionaggio internazionale si dà per scontato che l’Italia sia da anni
«interamente controllata». Da Nord a Sud. Quello che non si sa, però, è da chi.
A denunciare questo buco è una relazione riservata del Dipartimento attività ispettive
dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, inviata al presidente del Consiglio
dei ministri, al ministro per lo Sviluppo economico, a quello dell’Interno e al sottosegretario
con delega all’Intelligence Marco Minniti. Tre pagine che riassumono un rapporto
lunghissimo, stilato dagli ingegneri informatici del Garante tra aprile e maggio dopo lo
scandalo mondiale del Datagate del 2013. E nonostante le rassicurazioni del governo
italiano, che in quell’occasione, per bocca dello stesso Minniti, aveva detto che «la tutela
della privacy delle comunicazioni interne in Italia è garantita con ragionevole certezza».
Tutto ruota intorno agli Internet eXchange Point (IXP) e ai sistemi di sicurezza,
insufficienti, che li dovrebbero proteggere. Gli Ixp sono delle infrastrutture chiave per il
funzionamento di Internet. Di fatto sono dei luoghi fisici in cui convergono tutti i cavi che
trasportano i dati degli utenti dei vari Internet Service Provider (Telecom, Fastweb, H3G,
ecc. ecc.). In questi luoghi, i dati vengono letti, elaborati e dunque smistati nella Rete. Per
fare un esempio: le informazioni di navigazione di un utente qualsiasi che da rete Fastweb
si colleghi con un sito il cui server è ospitato da Telecom, passa necessariamente per uno
di questi Ixp. In Italia ce ne sono nove, ma tre sono quelli fondamentali: uno a Milano (il
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“Mix”), uno a Torino (il “Top-IX) e uno a Roma (il “NaMex”). «Tali apparati — scrivono gli
ispettori del Garante — dispongono di funzionalità tecniche che possono consentire di
replicare, in tempo reale, il traffico in transito dirottando il flusso replicato verso un’altra
porta ( port mirroring ) ». Nel corso dei controlli questa funzione non era attivata,
specificano gli ispettori, aggiungendo però che se qualcuno volesse esaminare il traffico in
transito potrebbe farlo «con una certa facilità, attivando la funzione di port mirroring e poi
utilizzando appositi strumenti di analisi». Sarebbe dunque un gioco da ragazzi duplicare il
traffico degli utenti, dirottarlo altrove su grossi database e poi con calma analizzarlo. Certo
occorrerebbe prima entrare dentro queste strutture ma, è proprio questo il punto, la cosa
appare tutt’altro che impresa ardua. «Abbiamo una certificazione di sicurezza Iso27001»,
spiega l’ingegner Michele Goretti, direttore dell’Ixp di Roma. «E anche l’ispezione del
Garante non ha fatto emergere problemi». In realtà non deve essere andata proprio in
questi termini se nella relazione c’è scritto che sono emerse «una serie di gravi criticità
sulle misure di sicurezza logiche e fisiche concretamente adottate da queste
società/consorzi nella gestione dei loro sistemi».
«La cosa merita la massima attenzione — continuano gli ispettori — in quanto si tratta di
strutture nevralgiche nel sistema di comunicazioni elettroniche del Paese poiché
attraverso questi nodi di interscambio passano enormi flussi di traffico relativo alle
comunicazioni degli abbonati e utenti (anche pubbliche amministrazioni e impresi) dei
principali operatori nazionali». Da una decina di anni anche le chiamate vocali (sia da fisso
sia da mobile) vengono digitalizzate, sono cioè trasmesse via web. «Per tanto un
inadeguato livello di sicurezza può riflettersi negativamente sia sui diritti dei singoli
cittadini, pregiudicando la riservatezza delle loro comunicazioni e la protezione dei loro
dati personali, sia gli interessi istituzionali ed economici degli enti e delle imprese».
Il rischio, secondo Goretti, è molto ridotto: «In linea teorica la possibilità di duplicare i dati
c’è. In pratica sarebbe molto complesso farlo e i risultati sarebbero molto parziali:
bisognerebbe duplicare i dati di tutti gli Ixp del paese». Cosa complessa ma certo non
impossibile, visto che gli hardware ospitati in queste strutture sono di varia provenienza: ci
sono, ad esempio, router a marchio Huawei e Cisco, due multinazionali non estranee alle
recenti polemiche sullo spionaggio. La manutenzione delle macchine può essere fatta
anche da remoto e volendo non sarebbe complicato avviare funzionalità di mirroring e
dirottare il traffico copiato. Tra i 132 operatori connessi al “Mix” di Milano ci sono gli
americani At&T;, Amazon, Facebook, Google, Microsoft, Verizon. Giuliano Tavaroli, ex
responsabile della sicurezza di Telecom e del Gruppo Pirelli, la vede in maniera a dir poco
laica: «Il problema non è se i dati vengano o meno copiati. Questo in fondo starebbe nelle
cose, e al massimo bisognerebbe capire chi è che intercetta e perché, visto che in Italia i
nostri servizi segreti non dispongono dei mezzi per immagazzinare e analizzare moli
significative di dati. Il vero problema è che, considerato il livello scarso di sicurezza di
queste strutture, se fossero intercettate in Italia, oggi, non ce ne riusciremmo nemmeno ad
accorgere». Oltre che di sicurezza e di privacy, gli ispettori del Garante ne fanno anche
una decisiva questione di regole: «Per svolgere la propria attività gli Ixp non hanno la
necessità di trattare i dati personali degli abbonati o degli utenti e quindi (...) non
assumono la qualifica di titolare del trattamento, in relazione alla quale il Garante potrebbe
prescrivere loro direttamente le misure ritenute necessarie o opportune per rendere il
trattamento dei dati conforme alle disposizioni di legge». Come a dire, sono liberi di fare
ciò che vogliono, senza essere controllati.
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Del 17/07/2014, pag. 6
Intercettazioni, l’Ordine: no a nuove norme
No al bavaglio per i giornalisti e no al carcere per chi non è iscritto all’Ordine. Sono i due
messaggi lanciati al governo dal convegno organizzato ieri nella sede del Consiglio
nazionale dell’Ordine dei giornalisti. All’incontro hanno partecipato i direttori (o loro
delegati) di Avvenire, Corriere della Sera, Gazzetta del Sud, Il Fatto quotidiano, Il Giornale,
Il Giorno, Il Tempo, Irpinia news, l’Unità, la Stampa,News Mediaset, Repubblica. it, Sky
Tg24, Tg2,Tgcom24. Si è trattato, di un primo confronto, al quale ne seguiranno altri, per
affrontare con tutti i direttori i delicati problemi che riguardano il mondo dell’informazione.
«L’incontro - spiega una nota dell’Ordine nazionale dei giornalisti - ha affrontato due temi
in particolare: la richiesta del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, di avere un
contributo su una nuova regolamentazione dell’uso delle intercettazioni telefoniche e
l’approvazione in Senato di una norma che punisce con il carcere chi esercita
abusivamente una professione. I direttori e i vertici dell’Ordine ribadiscono che è loro
dovere tutelare l’interesse pubblico, garantendo ai cittadini una informazione corretta,
completa, rispettosa della verità e delle persone. Non possono essere i giornalisti i custodi
del segreto delle indagini. Esistono già norme chiare che attribuiscono ben precisi doveri
ad altri soggetti che dovrebbero occuparsi, in base alla legislazione esistente, di eliminare
tutto ciò che non è pertinente alle inchieste e, in particolare, quanto riguarda persone
terze. Il problema è, quindi, far rispettare le regole esistenti fin dal 1989, anziché
ipotizzarne altre che rischierebbero di trasformarsi in una lesione dei diritti dei cittadini e in
un bavaglio per i giornalisti». Il direttore dell’Unità Luca Landò è intervenuto dicendo che
vanno sì applicate le leggi vigenti, ma bisogna anche tener conto del ruolo giocato ora
dalla rete Internet: «Nuove leggi sarebbero inefficaci a fronte della pubblicazione di
intercettazioni su siti web gestiti da server stranieri, e sta quindi alla responsabilità di tutti i
soggetti coinvolti, magistrati ed avvocati, oltre che giornalisti, valutare cosa è necessario
mantenere per il processo e cosa distruggere». Si legge nella nota scritta alla fine del
convegno dall’Ordine: «I giornalisti sono consapevoli del dovere di valutare il contenuto
degli atti giudiziari dei quali vengono in possesso, selezionando loro ciò che è rilevante ai
fini dell’interesse pubblico, assumendosene la responsabilità ed evitando quanto è lesivo,
in maniera gratuita, della dignità delle persone ». Circa il carcere per i non iscritti
all’Ordine, dai direttori è stato rivolto un appello perché la norma venga cancellata in
seconda lettura alla Camera: «Si tratta, infatti, di una previsione che non solo contrasta
con la legge che riguarda l’accesso alla professione giornalistica, ma rappresenterebbe,
se confermata, una intollerabile limitazione della libertà di espressione dei cittadini ».
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CULTURA E SCUOLA
del 17/07/14, pag. 5
La sovversione ministeriale
Arianna Di Genova
Patrimonio. Il dicastero dei beni e le attività culturali al centro di una
rivoluzione politica. Via i soprintendenti dai posti di comando, sì alle
dirigenze esterne dei musei d'eccellenza che conquistano autonomia. E
la separazione dei compiti di tutela e gestione, anche su questioni
delicate come quella del paesaggio
Questa volta non si tratta di piccoli aggiustamenti, «gli italiani sono stanchi di prudenza».
Si parte dal diktat della spending review (37 dirigenti in meno, 6 di prima fascia, 31 di
seconda) per ridisegnare il ministero dei beni e le attività culturali. Ne aveva bisogno quel
dicastero un po’ bulimico e sicuramente poco snello, ma stavolta il Mibact cambia proprio
pelle. Una cura, quella a firma di Dario Franceschini, che più che dimagrante, è una specie
di doping per far tagliare il traguardo ai cavalli vincenti, col rischio di lasciare al palo gli
«altri», la maggioranza. Tra le centinaia realtà museali sparse sul territorio, solo una
manciata conquista la pole position. Sono quelle che si valorizzano grazie al loro appeal
mondiale, basta pronunciarne il nome: verranno gestite non più da soprintendenti, ma da
dirigenti di prima fascia ed esterni, tramite un bando pubblico.
E i piccoli musei, quel patrimonio diffuso che costituisce la vera identità del paesaggio
culturale italiano? Non verranno abbandonati, afferma Franceschini, ma entreranno in un
meccanismo virtuoso e saranno al centro di un sistema di solidarietà. «Abbiamo fatto la
scelta che il massimo livello di apicalità dell’amministrazione venga utilizzato per guidare
gli elementi di massima eccellenza del Paese», dice il ministro. L’idea è quella di
cancellare la guida «burocratica» di istituzioni-star per renderla «meritocratica» (un po’
quello che sta avvenendo nella scuola pubblica).
Luoghi come Colosseo, Uffizi, Capodimonte, Pinacoteca di Brera, Galleria dell’Accademia
di Venezia non potranno che benificiarne. Alla base di questa visione — rivoluzionaria sì
perché per la prima volta, dopo anni di tentativi falliti, si toglie potere decisionale alle
soprintendenze — manca la prospettiva territoriale, l’immagine di un’Italia connessa, non
frammentaria con picchi qua e là di meraviglie, un’Italia con monumenti, pinacoteche e
chiese che sono tutt’uno con i luoghi dove sorgono e che, in quanto tali, fanno sistema,
rappresentano una rete culturale vivente, irrorata di vene e capillari — i piccoli musei, le
collezioni particolari, la norma al posto dell’eccezione. L’impulso (renziano?) al
rovesciamento totale di potere richiede però una precisa idea del
funzionario/soprintendente: quel cliché che lo immagina figura polverosa e fuori del tempo,
abbabicato al suo feudo. Ce ne sono anche così, ma sarebbe bastato rimuoverli dal loro
incarico, prima che facessero danni (l’Aquila insegna). Franceschini assicura che nessun
manager della Coca-cola andrà a dirigere la Galleria Borghese o Pompei (a Cinecittà-Luce
è successo con un boss di Mediashopping e prima ancora c’è il fulgido esempio di Resca,
ex guru di McDonald’s Italia, poi direttore generale dei beni culturali).
Sulla scia della razionalizzazione, la direzione centrale Belle arti e paesaggio
(l’archeologia rimane a parte) sarà l’unica linea di comando: il parere dei soprintendenti
non sarà vincolante, ma posto a giudizio da una commissione mista che potrà riesaminarlo
e sfiduciarlo. Franceschini si è visto recapitare una lettera collettiva degli storici dell’arte
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che ponevano l’accento sul valore della tutela, ma ieri ha liquidato l’appello con poche
parole: preoccupazioni fuori luogo.
Fra i punti più controversi della riforma Mibact, spunta il nuovo ruolo dato alle Direzioni
regionali: saranno «segretariati», con il compito amministrativo di coordinare gli uffici
periferici e specifiche competenze nel turismo. E chi sarebbe preposto ad agire come
interfaccia del governatore di turno o del comune in un paese in cui mancano i piani
regolatori o sono ridotti a carta straccia? Anche qui, risolverà l’annoso problema un
comitato misto (interno/esterno), di garanzia.
La riforma, presentata a percorso legislativo quasi concluso, può riassumersi così:
dimezzamento delle linee di comando, centralizzazione decisionale, perdita di autonomia
per i funzionari (con l’annessa perdita del loro ruolo di presidi sul territorio) e
valorizzazione di musei a cui, in fondo, non è così difficile affidare speranze. Segue poi
una razionalizzazione del settore biblioteche e archivi e la creazione di nuove direzioni
generali a costo zero: «Educazione e ricerca», «Arte, architettura contemporanea e
periferie urbane». Queste ultime due hanno un fascino indiscusso. Entrambe lancerebbero
il Mibact in un panorama globale. Naturalmente solo se fornite di risorse.
Del 17/07/2014, pag. 45
Il ministro Franceschini difende la riforma dei Beni culturali
Malessere nelle soprintendenze
“I musei italiani sono a rischio pigrizia”
FRANCESCO ERBANI
LE SOPRINTENDENZE si dedichino alla tutela. I musei hanno bisogno di essere guidati
da persone che sappiano soprattutto di gestione: non manager, ma studiosi che abbiano
una spiccata professionalità, appunto, gestionale. È questa, ridotta in pillole, la filosofia
alla base del riordino che Dario Franceschini vuole dare al suo ministero. E per cominciare
ecco la lista dei 20 fra musei e siti archeologici che verranno retti non più, come adesso,
da funzionari o da direttori provenienti dalle soprintendenze, ma da un personale reclutato,
sulla base di “procedure di evidenza pubblica”, da commissioni formate da personale
interno ed esterno al ministero. La lista è stata diffusa ieri, ma non mancano le incertezze.
C’è il Colosseo, ovviamente, ma poi c’è “l’area archeologica di Roma”, che non è chiaro
cosa comprenda, se arriva fino a Ostia, per esempio, o se si limiti alla zona centrale — i
Fori, il Palatino, la Domus Aurea.... Ci sono, raggruppate, Pompei, Ercolano e Stabia, i cui
scavi, però, hanno tre direzioni diverse: ci si riferisce a tutte e tre? E se le aree
archeologiche vengono sganciate dalla soprintendenza, a quest’ultima che cosa resta?
Intanto, spiega Franceschini, per l’area vesuviana si procederà solo quando sarà ultimato
il Grande Progetto Pompei (gli interventi finanziati dai 105 milioni europei). Ma è evidente
che bisognerà attendere la stesura del decreto per sciogliere le ambiguità (il decreto
dovrebbe andare in Consiglio dei ministri entro fine mese). Minori ambiguità, almeno in
apparenza, per gli altri siti: Uffizi, Brera, Reggia di Caserta, Gallerie dell’Accademia di
Venezia, Capodimonte, Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, Galleria Borghese. In
queste sedi, al posto degli attuali direttori, andrà un dirigente di prima fascia, equiparabile
— anche per compenso — a un direttore generale. Al Museo Nazionale romano (diviso in
quattro strutture, Palazzo Massimo, Palazzo Altemps, Crypta Balbi e Terme di
Diocleziano, ognuna con un suo direttore), all’archeologico di Taranto, di Napoli, di Reggio
Calabria, a Paestum, alla Galleria dell’Accademia di Firenze, a Palazzo Barberini, alla
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Galleria Estense di Modena, alla Galleria Sabauda di Torino, al Palazzo Reale di Genova
e al Bargello sarà destinato un dirigente di seconda fascia, assimilabile a un
soprintendente. Questi siti, spiega il ministro, non sono stati scelti solo perché più visitati.
Per questo, certamente, ma anche per l’importanza della loro collezione. E perché,
aggiunge facendo il caso di Capodimonte, potrebbero essere visitati ancor di più. «La
nostra vuol essere una rivoluzione, non un ritocco», insiste il ministro, che dice di
aspettarsi «una grande rotazione alla guida di musei e siti archeologici, che eviti
l’impigrimento ». Franceschini se la prende poi con le resistenze che il suo progetto
incontra soprattutto fra i soprintendenti storico-artistici (i loro uffici saranno accorpati con
quelli di architettura e paesaggio). E, in generale, in molti settori della tutela. «È una
resistenza protettiva », dice. Le ragioni del malessere vengono espresse con forza, ma in
maniera anonima. Molti dirigenti archeologi, per esempio, spiegano che separare un
museo dalla rispettiva soprintendenza vada contro la logica che presiede alla fondazione
di quel tipo di museo, che è continuamente alimentato da reperti provenienti da scavi
condotti in quel territorio sotto la guida della soprintendenza. Diversa è la condizione di
musei in altri paesi, frutto di acquisti o del collezionismo. D’altronde, insistono in molti, il
modello italiano è molto apprezzato proprio all’estero per le sue specificità. E lo stesso
vale per i direttori di tanti musei italiani. E non è certo a causa di quel modello, si sente
dire da molte parti, se i beni culturali in Italia sono in stato di gravissima sofferenza. Dal
2001 in poi si è solo tagliato. Nel 2008 il bilancio del ministero era dello 0,28 per cento su
quello complessivo dello Stato, nel 2014 dello 0,19. Un altro punto desta molta
preoccupazione. Il diverso ruolo che assumeranno le direzioni regionali — che
diventeranno segretariati regionali, retti da un dirigente amministrativo di seconda e non
più di prima fascia — avrà riflessi sulla redazione, insieme alle Regioni, dei piani
paesaggistici, uno degli strumenti fondamentali per una tutela del territorio fatta non solo
con i vincoli, ma, appunto, con una pianificazione degli interventi? Il ministro Franceschini
assicura che nulla cambierà. Ma molti, fra gli ambientalisti, temono che questa norma,
insieme a quella che istituisce commissioni per valutare i pareri dei soprintendenti, sia
davvero molto rischiosa per il paesaggio.
del 17/07/14, pag. 4
La valorizzazione? Non è un punto ristoro
Paolo Berdini
Beni culturali. La riforma del Mibact presentata da Dario Franceschini
mette a rischio la tutela del paesaggio e sfiducia gli organi decentrati
dello Stato, quelli che presidiano il territorio
Il ministro Franceschini è vissuto a Ferrara e conosce ciò che quella meravigliosa città ha
saputo costruire: un mirabile equilibrio tra la bellezza urbana e il paesaggio. Lo affermo
perché rimasi colpito di una sua dichiarazione nel novembre 2012 in occasione della morte
del grande Paolo Ravenna. Sosteneva Franceschini che a lui si doveva molto del rispetto
della cultura dei luoghi, dalle mura al parco agricolo che le cinge. A leggere le parti salienti
del progetto di riforma del Mibact viene da pensare che siano state quelle parole vane,
come sempre più spesso ci abitua una politica che vive di slogan. Ma forse, nessuno
poteva aspettarsi – e dunque neppure il ministro — che il Presidente del consiglio avrebbe
iniziato a costruire il suo profilo istituzionale proprio riempiendo di contumelie i
«professoroni» e attaccando burocrati e Soprintendenze di Stato. Solo dei grigi burocrati
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come i soprintendenti, appunto, non capiscono che il futuro dell’Italia è nella messa a
reddito del nostro petrolio, e cioè lo straordinario patrimonio culturale che ci fa un caso
unico nella storia della cultura mondiale. Un atteggiamento culturale che è l’esatto
contrario dell’impegno di una vita di uomini come Paolo Ravenna o, sempre per restare a
Ferrara, di Giorgio Bassani.
Sarà un caso, ma proprio due giorni prima la presentazione del progetto di riforma tutto
centrato sulla valorizzazione, è stato reso pubblico uno studio della Società Autostrade per
l’Italia che si occupa niente meno dello sviluppo turistico e culturale del parco dell’Appia
antica di Roma. Tra le tante perle contenute in quel documento — tutte elencate in un
ottimo documento-appello dell’associazione Bianchi Bandinelli — c’è anche scritto che in
alcuni luoghi si sarebbero creati dei punti di vendita ristoro con prodotti tipici in modo da
riscoprire l’importanza del gran tour nella Roma del settecento. È scritto proprio così e
nessun soprintendente di Stato avrebbe mai immaginato una simile genialità. Chissà cosa
avrebbe scritto Antonio Cederna, una vita spesa per salvaguardare l’Appia antica. Questa
follia c’entra molto con il progetto di riforma di Franceschini. Il ruolo dei soprintendenti
diviene infatti marginale e uno dei pilastri che regge la riforma sta nel fatto che i più
importanti luoghi della cultura italiana potranno divenire speciali e per ciò stesso affidati a
manager esterni all’amministrazione dello Stato. Tutti meno i soprintendenti. Una vera
ossessione.
E veniamo al nodo che riguarda il paesaggio. Il ministro sa che nella discussione
parlamentare è stato inserito un comma all’articolo 12 in cui vengono istituiti i «comitati di
garanzia per la revisione dei pareri paesaggistici», una mostruosità giuridica – la messa
sotto tutela ministeriale del capillare lavoro degli organi decentrati dello Stato — che
significa una sola cosa: la fine della tutela paesaggistica del territorio, questione contenuta
nei principi fondamentali della nostra Costituzione. E anche qui c’è una coincidenza
importante. Il 4 luglio scorso la regione Toscana ha adottato il Piano paesaggistico
regionale, un ottimo strumento di tutela voluto dall’assessore Anna Marson e a cui ha
partecipato attraverso intesa istituzionale il Ministero dei Beni culturali. Forse chi ha
presentato l’emendamento voleva azzerare per sempre l’azione regionale di tutela del
territori ed è grave che Franceschini abbia accettato l’emendamento e non ristabilito il
corretto funzionamento dello Stato. Molti parlamentari e qualche ministro hanno a cuore le
betoniere che hanno devastato l’Italia. Alcuni anni fa la Soprintendenza del Lazio per
tutelare l’agro romano meridionale impose un vincolo generico. Iniziarono lo stesso i
lamenti che denunziavano il «blocco» delle costruzioni. Possiamo proporci di
accompagnare questi parlamentari e il ministro verso le campagne del Divino Amore a
Roma – luogo interno al vincolo — e contare insieme il numero dei grandi quartieri che sta
sorgendo in aperta campagna in una città che ha duecentomila abitazioni vuote Il
problema non sono i vincoli o i soprintendenti: sono il rispetto della storia e della cultura
che fanno grandi le nazioni e le città. Come la splendida Ferrara.
del 17/07/14, pag. 5
La meglio gioventù è stata bruciata: laureati a
39 anni, proletari a vita
Roberto Ciccarelli
ROMA
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Quinto stato. Pubblicato lo studio di Paolo Naticchioni, Michele Raitano
e Claudia Vittori. A confronto tre generazioni nate tra il 1965 e il 1979. I
salari d'ingresso della "Generazione Tq" crollano fino a 35.500 euro nei
primi sei anni di carriera. Ma per i nati dopo il 1980 la situazione è
sicuramente peggiore. Di chi è la responsabilità?
C’era una volta l’università di massa e il ceto medio che ha affidato alla laurea la speranza
di migliorare la propria condizione sociale e professionale. Nel lungo Dopoguerra è stato
così fino al 1980 quando l’ascensore sociale ha iniziato a bloccarsi, prima a scatti, poi per
periodi più lunghi. Oggi, sostengono Paolo Naticchioni, Michele Raitano e Claudia Vittori in
uno studio pubblicato sull’ultimo numero del «menabò» online dell’associazione «Etica e
economia» fondata da Luciano Barca, sta precipitando come in un film horror.
Gli studiosi hanno messo a confronto tre generazioni nate fra il 1965 e il 1979, vale a dire i
figli della generazione nata a cavallo o subito dopo la guerra mondiale e hanno dimostrato
come l’andamento delle retribuzioni di un campione di lavoratori dipendenti privati con età
compresa tra i 35 e i 39 anni sia chiaramente inferiore rispetto ai salari delle due coorti
precedenti.
Chi è nato tra il 1970 e il 1974 e si è laureato, ha subìto una perdita pari a poco meno di 5
mila euro nella prima fase della carriera, che cresce a 8100 euro per chi è nato tra il 1975
e il 1979. Se poi si confronta la situazione dei 35-39enni con i nati nella seconda metà
degli anni Sessanta, i salari d’ingresso sono inferiori di oltre il 20% e il divario tende ad
aumentare negli anni seguenti, minando le prospettive di carriere lavorative durevoli.
Questi laureati hanno perso complessivamente 35.500 euro rispetto ai nati nel periodo
1965–1969. La perdita è molto forte anche tra chi è nato nel primo decennio degli anni
Settanta, fra cui rientra chi ha iniziato a lavorare nella crisi occupazionale del 1992–3 e nei
cinque anni successivi quando il centro-sinistra di Prodi approvò la prima riforma sulla
precarizzazione: il cosiddetto «pacchetto Treu».
In questo caso la perdita è stata quantificata in 29 mila euro.
I diplomati, che si presume essere meno qualificati, hanno risentito di una politica che ha
mescolato i bassi salari con la precarizzazione generalizzata: rispettivamente 16.700 e
9.100 euro a discapito dei nati nella seconda e nella prima metà degli anni Settanta, ma
sembrano riconquistare terreno nei primi anni della loro «carriera».
I divari accumulati sono infatti inferiori rispetto a quelli dei laureati: 2.800 e 2.100 euro a
discapito di chi è nato alla fine o all’inizio degli anni Settanta. In questo scenario di
crescente proletarizzazione del lavoro dipendente, e autonomo, sia quello della
conoscenza che quello «esecutivo», sembra essere sfumata l’equazione tra alto livello di
istruzione e reddito elevato, il pilastro sul quale è stata costruita la categoria sociale del
ceto medio.
Lo squilibrio crescente tra i redditi nel passaggio da una generazione all’altra, la perdita
del prestigio sociale legato alla conquista di un titolo di studio, l’erosione dello status
professionale in direzione di un bric-à-brac precario e esistenziale, ha annientato l’alta
considerazione di sé diffusa sia nel lavoro indipendente che in quello dipendente, come
dimostra oggi la condizione dei giovani avvocati, architetti o medici sempre più
disoccupati, precari o senza futuro.
Ma c’è di più, avvertono Naticchioni, Raitano e Vittori. Se questa, infatti, è la situazione dei
nati prima degli anni Ottanta, nettamente peggiore è quella attuale di tutti coloro che sono
venuti al mondo in Italia dal 1981 in poi. «Questi giovani sono stati penalizzati anche da
una più ridotta partecipazione al mercato del lavoro, probabilmente in seguito alle riforme
che hanno favorito la discontinuità delle prestazioni lavorative».
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Chi ha tra i 15 e i 34 anni, definito in maniera variopinta come «Neet», «scoraggiato» o
«precari», è stato affossato dalle politiche economiche basate sul taglio dei salari e sulla
precarizzazione selvaggia seguita alla riforma Biagi e poi a quella Fornero. In attesa degli
esiti di quella Poletti che ha reso i contratti a termine «acausali» («uno sconcio etico e
incostituzionale» l’ha definita il giuslavorista Piergiovanni Alleva sul nostro giornale), è
presumibile che i salari d’ingresso della generazione più giovane siano nettamente più
bassi rispetto all’ultima coorte analizzata da Naticchioni, Raitano e Vittori.
Un altro motivo d’interesse di questo studio è la netta smentita della leggenda molto in
voga nel ceto dominante nell’epoca Gelmini: in Italia non ci sono laureati in eccesso.
Sarebbe vero se la domanda di lavoro qualificato fosse rimasta stabile o fosse cresciuta
meno dell’offerta. Invece, l’Italia è uno dei paesi Ocse con il più basso tasso d’istruzione,
ha il 15% dei laureati contro il 25–35% di Francia e Germania. Il ceto medio è stato
stritolato dalla peculiarità della struttura produttiva contraria all’innovazione, pervicace
sostenitrice del contenimento dei costi, fanatica del precariato. Le prospettive non
migliorerano intervenendo sul lato dell’offerta, proprio come sta facendo il governo Renzi,
ma incidendo sul lato della domanda.
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ECONOMIA E LAVORO
del 17/07/14, pag. 5
Primi 400 milioni per la cig, ma l’articolo 18 è
a rischio
Jobs Act
Dal fronte del lavoro arriva qualche buona notizia, ma ne arrivano anche di pessime. Ieri il
ministero del Welfare, guidato da Giuliano Poletti, ha fatto sapere che di concerto con il
dicastero dell’Economia sono stati stanziati i primi 400 milioni necessari per il
rifinanziamento della cig in deroga, da mesi gravemente in ritardo. Intanto però l’Ncd –
partito nemico dei diritti del lavoro – con l’alfiere Maurizio Sacconi torna all’attacco
dell’articolo 18, e ribadisce che si dovrà modificarlo quando il Jobs Act approderà in
discussione alle camere.
«È stato firmato – spiega una nota del Welfare – il decreto interministeriale del ministero
del Lavoro e del ministero dell’Economia, con il quale viene autorizzata la spesa di 400
milioni per consentire il pagamento integrale delle somme ancora dovute ai titolari dei
trattamenti di cig e mobilità in deroga, per il periodo fino al 31 dicembre 2013 e le prime
quote per il 2014».
«Nei prossimi giorni – conclude il comunicato – il ministero del Lavoro individuerà risorse
per ulteriori 400 milioni da destinare al pagamento dei trattamenti di cig e mobilità in
deroga per l’anno 2014, definendo, nello stesso tempo, i criteri per l’utilizzazione di
entrambi gli strumenti».
Dunque potrebbero a breve essere disponibili ulteriori 400 milioni, oltre quelli già stanziati,
per complessivi 800: lo stesso ministro Poletti, confermando un allarme lanciato dai
sindacati, aveva parlato di «un miliardo» come cifra necessaria. Insomma, ci siamo quasi.
I confederali, che hanno già in programma dei presidi il 22 e 24 luglio proprio per
sollecitare interventi urgenti, certamente avranno interesse a vigilare.
Ed ecco le note dolenti: il presidente della Commissione Lavoro del Senato, Sacconi, ha
mostrato di non aver abbandonato l’idea di smantellare l’articolo 18. Ieri diversi
emendamenti sono stati presentati proprio durante i lavori della sua commissione, ma
proprio perché il tema è “caldo” non si è voluto trattare l’articolo 4 del provvedimento, che
contiene le varie forme contrattuali e appunto l’eventuale intervento sull’articolo 18. «In
qualunque momento la commissione è pronta ad andare in Aula – ha detto Sacconi –
Appena c’è un slot, noi ci siamo», che poi sull’articolo 4 ha aggiunto: «in una seduta» si
discute. Come dire, basterebbe poco.
Poi la solita tirata ideologica, contro le tutele: «Invito il governo ad avere ancor più
coraggio nella semplificazione della regolazione del lavoro dopo i decenni della
complessità imposta dall’ideologia di classe –ha detto l’ex ministro del Lavoro – È giunta
l’ora di cambiare il contratto a tempo indeterminato rendendolo più conveniente, perché
più certo e più flessibile, ai datori di lavoro».
Un emendamento del governo è stato presentato per la modifica dei contratti di solidarietà,
resi «più flessibili», permettendo assunzioni a fronte delle riduzioni di orario. Un altro sulle
dimissioni in bianco, altri su reddito minimo di inserimento e sostegno ai disoccupati.
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del 17/07/14, pag. 9
Etihad-Alitalia alla firma, la Cgil dice no
La Cgil non firmerà l’accordo sugli esuberi Alitalia. Lo annunciano il segretario generale
della Cgil, Susanna Camusso, e il segretario generale della Filt Cgil, Franco Nasso, in una
lettera inviata al ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Maurizio Lupi, e al ministro del
Lavoro e delle Politiche Sociali, Giuliano Poletti. Il sindacato di corso Italia aveva chiesto
qualche giorno di tempo dopo che sabato Cisl, Uil, Ugl e le sigle di piloti e assistenti di volo
(Anpac, Anpav e Ania) avevano siglato l’intesa su 2.251 esuberi. Ieri i vertici della Cgil
hanno confermato la bocciatura del piano: «Con ogni evidenza si tratta di una crisi indotta
dalla palese inadeguatezza del “piano Fenice” (sulla base del quale Alitalia ripartì nel
2009, ndr), oltre che dall’assenza di una politica di settore e certamente non dipendente
da fattori riconducibili al lavoro», fanno notare Camusso e Nasso che comunque
esprimono un giudizio positivo sul programma di rilancio presentato da Etihad: «Un piano
molto prudente che però si muove, a differenza di quello targato Air France, nella
direzione giusta: più qualità e più rotte intercontinentali». Camusso e Nasso definiscono
«incomprensibile » la posizione di Cai in merito alla gestione degli esuberi. Per questi
motivi la Cgil e la Filt confermano la «non sottoscrizione dell’intesa», aggiungono i leader
sindacali che confermano «l’impegno a sostegno dei lavoratori ingiustamente colpiti e per
garantire una prospettiva di salvataggio e rilancio di Alitalia e dell’intero settore del
trasporto aereo italiano». «Sinceramente me l’aspettavo. Era nella logica delle cose»
commenta l’ad di Alitalia, Gabriele Del Torchio, «se non altro, però, c’è un passo positivo
perché hanno detto di voler firmare il contratto». Rispondendo al «question time » sulla
vertenza Alitalia, il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ribadisce: «Abbiamo fatto tutto ciò
che si può fare per ridurre al minimo gli elementi di problematicità che sul piano
dell’occupazione si stavano presentando ». Comunque, dopo l’ok delle banche alla
ristrutturazione del debito di Alitalia e le voci di una resistenza di Poste Italiane ad
affiancare gli istituti di credito, ieri il numero uno di Etihad, James Hogan, ha incontrato
Francesco Caio, l’ad di Poste, sulla partecipazione del gruppo all’aumento di capitale da
200 milioni destinati a eventuali contenziosi o debiti superiori alle previsioni entro il 2014.
«Chiariremo la posizione di Poste nelle prossime ore perché ormai non c’è più tempo – ha
detto Del Torchio -. Il 25 luglio abbiamo l’assemblea». Intanto è ripresa ieri sera la
trattativa al ministero delle Infrastrutture tra sindacati e Alitalia per proseguire il confronto
sul nuovo contratto nazionale del trasporto aereo: i sindacati hanno chiesto aumenti
salariali del 6% per i prossimi tre anni. Inoltre se il contributo di solidarietà chiesto
dall’azienda dovesse essere accolto, nell’accordo a livello aziendale Alitalia potrebbe
risparmiare 31 milioni di euro nel secondo semestre 2014. Dai calcoli dei sindacati il taglio
per un lavoratore di terra è di 100 euro al mese su 1.200 euro mensili, mentre per un pilota
si tratta di meno 1.500 euro. Su questi temi la trattativa si era arenata l’altra notte quando
la Uil aveva chiesto di consultare la base e pure piloti e assistenti di volo avevano puntato i
piedi.
F.D.F.
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del 17/07/14, pag. 10
L’ADDIO DI FIAT AFFOSSA L’ITALIA
IMPRESE NANE ED EXPORT GIÙ
REPORT DI MEDIOBANCA SULLE MULTINAZIONALI: SONO SEMPRE
MENO, NON CREANO OCCUPAZIONE E CON LA MOSSA DI
MARCHIONNE INCIDERANNO POCO SUL PIL
di Camilla Conti
Quanto costerà all’Italia il trasloco della Fiat in Olanda? Un rapporto di R&S Mediobanca
ha provato a fare i calcoli, partendo dal peso delle quattordici multinazionali industriali che
nel nostro Paese sono già piccole, poco competitive, meno orientate all’export, meno
solide e meno redditizie delle concorrenti estere. La loro incidenza sul Pil nazionale è
infatti la minore in Europa: 26,7 per cento. Ma scenderà al 19,6% se la casa
automobilistica confermerà il suo addio a Torino. Così come scenderà l’incidenza del
fatturato delle multinazionali tricolore sul totale di quelle europee; dal 7,5% attuale al 5,5%
contro il 24% del Regno Unito, il 22% della Germania e il 15% della Francia. Fiat-Chrysler,
che vale 7,1% del Pil, oggi è al diciottesimo posto nel mondo nella graduatoria per il totale
di attivo, comandata nuovamente da Gazprom (293,1 miliardi) che ha superato la Toyota
nel 2012. Fiat arriva a 108 miliardi, ed è preceduta tra le italiane solo dall’Eni, che è
14esima a quota 134 miliardi. In tutto sono dodici le multinazionali italiane prese in
considerazione da Mediobanca (che senza Fiat sono al 64,8% in mani pubbliche) e danno
lavoro a 49.924 persone in Italia. Gli occupati scenderebbero a 36.992 se escludessimo
Fca.
IDEM per la bilancia delle esportazioni: se a fine 2013, comprendendo Fiat-Chrysler, nel
settore della manifattura le nostre multinazionali nel 2013 hanno esportato l’85,9%, senza
il Lingotto si sarebbe scesi, secondo Mediobanca, al 75,5%, quasi undici punti in meno
rispetto alla media Ue che è dell’86,4 per cento. La quota nazionale di vendite salirebbe
dal 14,1% al 24,5%, con un crollo di 18 punti percentuali dell’export verso gli Usa,
tornando ai livelli del 2010-2011. Ma gli effetti più allarmanti, quando Fiat migrerà, si
avranno sulle statistiche relative al costo unitario del lavoro, il cosiddetto Clup, che grazie
al gruppo torinese tra 2003 e 2012 è sceso del 13,9%, ma senza Fca sarebbe cresciuto
del 3,1%. Per fare un raffronto, in Germania il calo è stato del 17,3%. Il valore aggiunto per
dipendente scende infatti senza la Fiat da 64mila euro a 61.500, ed aumenta il costo del
lavoro da 49.200 euro a 52.100, con un differenziale positivo che scende da 14.800 euro a
9.400 euro. Ecco l’effetto Marchionne che si manifesta anche quando l’analisi di
Mediobanca si concentra sul settore automotive. Nel 2012, il 7,3% dei ricavi globali delle
quattro ruote sono finiti in Italia, ma se si scorpora la sola Chrysler si scende al 2,8%,
meno del 3,8% che il nostro Paese rappresentava a livello globale nel 2004.Lo scenario
mondiale dal 2004 ad oggi è cambiato: il Giappone con Toyota e la Germania con
Volkswagen hanno scalato la classifica dei produttori, a discapito degli Stati Uniti che con
General Motors e Ford hanno perso posizioni, invertendo la tendenza rispetto a dieci anni
fa. Corre invece la Corea del Sud con Hyundai e Kia. Fiat rimane all’undicesimo posto con
67,3 miliardi, ma dal 2012 è stabilmente davanti alla Peugeot. Volkswagen conquista il
mercato mondiale delle vendite crescendo di 6 punti percentuali dal 2004 e arrivando al
15%. Segue Toyota con il 13,5% mentre Fiat è sesta con il 6,6%, in crescita di 2 punti
percentuali rispetto al 2004.
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IL MERCATO ITALIANO delle quattro ruote ha comunque beneficiato dell’effetto Chrysler:
i ricavi del settore in Italia sono saliti dal 3,8% al 7,3% nell’ultimo decennio (senza Chrysler
la quota sarebbe invece scesa al 2,8%). Il peso sul totale dei ricavi delle multinazionali
italiane, che nel 2004 era del 27,1%, sale al 33,8% (senza Chrysler peserebbe il 15,6%).
Rispetto alla situazione stagnante dell'industria, i giganti dell'automotive nel primo
trimestre del 2014 segnano una ripresa del fatturato del 7,7 per cento. Fiat si piazza sopra
la media mondiale di 4,6 punti percentuali e segna un +12,3% grazie alle vendite Chrysler
in Nord America e Messico. Diminuisce complessivamente il rapporto debiti finanziari su
capitale netto, solo il gruppo di Marchionne lo aumenta in maniera evidente: +80,5 punti
percentuali.
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