Enrico IV - Teatro Giacosa

Transcript

Enrico IV - Teatro Giacosa
!
Ivrea Enrico IV val bene una messa. Chi infatti è ancora in grado di percepire il timbro dei propri
sentimenti dovrà riconoscere che Shakespeare porta allo stesso sgomento del contatto con il divino
e gode di una potenza emotiva pari alla percezione del sacro, tanto il poeta prima che autore dei
suoi personaggi è autore dell'uomo occidentale, e in quanto nostro creatore ci precede, ci succede e
ci eccede, rimanendo ineffabile dietro di noi: il bardo è un Argo dai cento occhi che tutto vede.
Sorprendentemente la celebrazione del culto non inizia con la comparsa in scena di Re Enrico,
Giovanni di Lancaster e il conte di Westmoreland, ma al loro posto appare un ingenuo Bertoldo,
scanzonato dai suoi compagni perché ha frainteso la parte affidatagli come consigliere al castello
dell'imperatore Enrico IV nel 1077, e si aspetta di recitare come cortigiano nella Parigi seicentesca
di Enrico IV di Francia -su cui pure si è tanto informato! Evidentemente l'Enrico IV è di Pirandello
e Bertoldo sono gli spettatori. Ma Ivrea in particolare sa che il Giovedì è grasso e il Venerdì Santo.
Insieme a Sei personaggi in cerca d'autore l'Enrico IV è il punto centrale della carriera di
Pirandello: come in una cabala ai ventidue drammi composti in precedenza ne seguiranno altri
ventidue, e grazie ad esso l'autore si afferma come epicentro dei movimenti nel panorama culturale
italiano. Il dramma, inscenato per la prima volta nel 1922, tratta di un aristocratico, che in vista di
una cavalcata in maschera per carnevale scelse il personaggio storico di Enrico IV, e tanto lo studiò
e vi si immedesimò che battendo la testa credette di essere in persona l'Imperatore del Sacro
Romano Impero al tempo delle lotte contro papa Gregorio VII. Il protagonista versa in questa
situazione da vent'anni ormai, assecondato da commedianti, fra i quali Bertoldo, che si fingono
consiglieri, prelati e donne di corte, quando la Dama di cui era innamorato e alcuni parenti si
decidono a guarirlo con le tecniche di un medico alienista, salvo scoprire che da diverso tempo il
nobile finge di essere folle e li ha costretti a recitare una farsa di cui era il regista. Un delitto, però,
costringerà Enrico IV a rifugiarsi nella consapevole finzione per evitare i rimorsi della realtà. La
vicenda di un pazzo che nella sua follia vive segregato dal mondo e che, una volta rinsavito, sceglie
di continuare a vivere lontano dalla vita, relegato nel mondo della follia, è paradossale nella misura
in cui il gusto del paradosso è uno degli aspetti caratteristici del pirandellismo. Parallelo a questo
emerge il tema della maschera, l'immagine costruita con cui ciascuno si presenta all'esterno e alla
quale si attiene fino a identificarsi con essa. Del resto non è da escludere che la data dello spettacolo
sia stata sottilmente fissata vicino a Carnevale: al lettore spetta ricavare le analogie che preferisce
fra il dramma e la festa eporediese.
Nella scena in cui Enrico IV detta ad un monaco un passo della reale biografia Henrici IV
imperatoris il motore di questa finzione, resa assoluta dalla follia calcolatrice, si concretizza nel
“piacere della storia”. L'intero dramma è pervaso da una violenza silenziosa che si viene a creare
nei rapporti fra personaggio e personaggio e che, non potendo essere veicolata dai legami sociali
reali, ora esplode sonoramente ora si mantiene al di sotto del dialogo, mai permette una
comunicazione immediata e totale fra i personaggi. Al nobile che poi diventirà Enrico IV, di cui non
si conosce il nome, animo di liricità e solitudine siciliana -come Sciascia ebbe a riconoscere in
Pirandello- è dato di cogliere le condizioni di questa violenza inemendabile e al tempo stesso
insostenibile e affermare: “Guai se vi affondaste come me a considerare questa cosa orribile, che fa
veramente impazzire: che se siete accanto a un altro, e gli guardate gli occhi potete figurarvi come
un mendico davanti a una porta in cui non potrà mai entrare: chi vi entra non sarete mai voi, ma uno
ignoto a voi, come quell'altro nel suo mondo impenetrabile vi vede e vi tocca”. Ecco allora che la
storia diventa un rifugio, in quanto è l'unico piano ontologico dal quale continuare a perpetrare la
stessa reale violenza interpersonale che, stracciona, sfonda la porta e si proclama re sull'altro, senza
però che quel fondale schiettamente lirico di emotività si annebbi per i rimorsi: dopo Freud si può
sostenere che il protagonista secede da se stesso e diventa Enrico IV per trasferire la contraddizione
dalla realtà ad uno statuto ontologico inferiore annullandola. Freud stesso scrisse: “I poeti sono
alleati preziosi, giacché essi sono soliti sapere una quantità di cosa fra cielo e terra che la nostra
scienza nemmeno sospetta”, e citava l'Amleto di Shakespeare.
Alla regia va il merito di non essersi rilassata su una piatta riproduzione del testo originale ma di
aver osato, non senza successo, un rilettura soggettiva caratterizzata dall'inserzione del suggestivo
quanto spettrale balletto del primo atto, dalla caricatura di alcuni personaggi -su tutti il Marchese di
Nolli- e dall'adattamento più sciolto del linguaggio di Pirandello. Questa libertà esecutiva, però,
perde la misura in favore di un finale più evocativo nell'ultima scena, in cui Enrico IV tenta una
fuga, non presente nell'originale, verso il pubblico ma viene serrato all'interno dello spazio scenico
dal sipario che si chiude. Apprezzabile è anche la pregnanza dell'apparato musicale all'azione al pari
dell'ingegnoso gioco di costumi, che permette allo spettatore di ripercorrere la scansione fra i piani
narrativi piuttosto agevolmente e al contempo consente l'impiego dello stesso attore in più ruoli.
Nondimeno la nota di maggior merito va alla scenografia, ottimamente modificata rispetto alle
indicazioni dell'autore, e consistente dei due enormi ritratti già previsti da Pirandello e di poche
pareti -notevole l'effetto del finestrone illuminato dalla luna- sfruttate con abilità tale che la varietà
di soluzioni non riesce mai ad annoiare lo spettatore.
!
Leonardo Arigone IV Beta