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Lunedì 28 Gennaio 2013
CLOCHARD MORTI A ROMA
Fatto emblematico
Nella capitale, secondo la Caritas di Roma, almeno 5-6.000 persone dormono in rifugi di fortuna
Una “sinergia forte tra mondo del volontariato
e amministrazioni pubbliche” per fare in modo
che episodi del genere non si ripetano più.
All’indomani della morte, in un rogo, di due
clochard in un sottopasso a Roma, questa la
richiesta alle istituzioni di mons. Enrico
Feroci, direttore della Caritas diocesana di
Roma, in un’intervista a Patrizia Caiffa, del
Sir. I corpi delle due persone, probabilmente
somali, sono stati ritrovati in una piccola
nicchia in un tunnel del Muro Torto, a due
passi da via Veneto. Si pensa che siano
morti a causa del fuoco acceso per
riscaldarsi dal freddo della notte. Ieri la Comunità di Sant’Egidio ha espresso dolore e suggerito
“di aumentare gli sforzi per rispondere ad un’area di disagio che con l’inverno e la crisi
economica si è andata allargando”. Anche le Acli di Roma, il Ceis di don Mario Picchi, l’Unitalsi
di Roma e il Bancofarmaceutico-Roma hanno chiesto “un censimento di tutti i luoghi di povertà
nascosta”, per “individuare con maggiore celerità le emergenze” e “intervenire preventivamente
con la distribuzione di coperte e pasti caldi”. Nella capitale - secondo la Caritas di Roma almeno 5-6.000 persone dormono in rifugi di fortuna. Durante l’inverno i posti letto a
disposizione sono 2.800, di cui la metà gestiti da parrocchie, enti benefici, volontari.
A Roma ancora due clochard morti tragicamente. Come reagisce la Caritas di Roma?
“Due persone che muoiono in un sottopassaggio mentre sopra, a via Veneto, ci sono i tavolini
per i brindisi e le feste. È un fatto emblematico: chi sta sopra non si rende conto di cosa
succede sotto. Questo è il dramma più grande: non aprire gli occhi davanti alle situazioni di
difficoltà in cui vivono tantissime persone a Roma. Nemmeno noi riusciamo ad accogliere le
tante persone con problemi psichiatrici che vivono sulla strada, perché non ci sono gli
strumenti per aiutarle”.
C’è indifferenza sulla sorte dei più poveri?
“Non c’è indifferenza sulla singola situazione ma in generale. È come se la presenza dei
clochard fosse accettata come strutturale. I sottopassi da tanti anni sono diventati i ricoveri
per gli ‘uomini randagi’: è una brutta espressione ma purtroppo è questa la percezione della
gente. Nella zona della stazione Termini, ad esempio, ci sono tantissime persone che dormono
in strada e tanti ci passano vicino. I nostri operatori girano la notte e stanno vicino a quelli che
hanno più bisogno, ma non ce la fanno ad aiutare tutti, non sappiamo più dove metterli. Più di
dare una coperta e qualcosa di caldo non possiamo fare. Ma è come mettere l’acqua dentro un
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secchio bucato. E poi ogni anno si parla dell’emergenza freddo. Questo dimostra una carenza
di lungimiranza, perché ogni anno è normale che ci sia il freddo e il caldo. Una società
dovrebbe essere capace di prevedere queste difficoltà”.
Cosa le preoccupa di più tra le tante emergenze?
“Sono molto preoccupato perché alla fine di febbraio saranno chiusi tutti i centri che hanno
accolto le persone venute per l’emergenza Nord Africa. Quando chiuderanno i centri dove
andranno? Si riverseranno soprattutto nelle grandi città. Bisogna avere le capacità di vedere,
prevedere e attrezzarsi”.
Vi sentite impotenti di fronte a tanti bisogni?
“Certo. Noi abbiamo a disposizione solo 400/500 posti letto. Non abbiamo aiuti, impieghiamo
anni per ottenere i permessi. Non siamo facilitati e spinti, non c’è un atteggiamento di supporto
e aiuto. Una delle grandi carenze è che si fanno iniziative solo per sostenere argomentazioni di
tipo elettorale. Come a Tor de Cenci, nella zona dove è stato sgomberato il campo nomadi: non
si può pensare di costruire una pista di go kart dove prima c’erano i container per accogliere le
persone”.
Cosa auspica?
“Una sinergia forte tra mondo del volontariato e istituzioni. Servono osmosi, dialogo, colloquio.
Il volontariato non ce la fa da solo a rispondere a tutti i bisogni. Ora stiamo correndo dietro alle
situazioni cercando di mettere delle toppe, ma così non si risolvono i problemi. L’incapacità di
ascoltare sta a monte. Le amministrazioni pubbliche devono attivarsi, perché stanno
aumentando le persone che vivono in strada. Serve un confronto operativo sulle questioni
concrete, non un dialogo fatto di complimenti; una programmazione a lungo termine, non solo
nell’immediato. C’è il numero verde del Comune, ma quando si telefona rispondono che è tutto
pieno. Ma bisognerà pure fare qualcosa. Abbiamo la vecchia Fiera di Roma: perché non
programmare in quell’area un discorso di accoglienza? Invece si sente dire che le intenzioni
sono altre”.
Eppure esistono tante caserme e altri edifici dismessi…
“Certo, mi rendo conto che il posto da solo non basta. Servono soldi per la ristrutturazione, per
la gestione. So che per un’amministrazione i costi, soprattutto del personale, sono alti, da sola
non ce la farebbe. Per questo bisogna che ci sia una sussidiarietà, un’interfaccia tra pubblico e
volontariato. Faccio un esempio: giorni fa alla mensa di Colle Oppio avevamo solo due
operatori e una trentina di volontari. Abbiamo distribuito 520 pasti. Abbiamo potuto farlo perché
abbiamo tantissimi volontari. Altrimenti dovremmo chiudere. La grande forza della città di Roma
è la presenza di migliaia di volontari. È un aiuto enorme. Gli amministratori dovrebbero capire
che questa forza non deve essere messa da parte. Va aiutata non a parole, ma con i fatti”.
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