שבועון - shalom7

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שבועון - shalom7
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EBRAISMO INFORMAZIONE CULTURA
SETTIMANALE
‫שבועון‬
SHALOM‫שלום‬
Fondazione Museo
della Shoah
Mario Venezia nuovo presidente
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Nei villaggi targati Ue in Cisgiordania
che sfidano coloni e soldati israeliani
Tende e prefabbricati per i profughi accanto agli insediamenti ebraici.
Gli aiuti umanitari scatenano una crisi: “Bruxelles favorisce gli arabi”
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ell'area più contestata della West Bank almeno
250 famiglie beduine vivono in un insediamento di prefabbricati con sopra stampati i
simboli dell'Unione Europea. Si tratta delle
colline «E-1» che si estendono per 12 chilometri quadrati a Nord-Est di Gerusalemme: gli israeliani vogliono
controllarle per garantire continuità fra la città e l'insediamento di Maalei
Adumim mentre i
palestinesi le ritengono indispensabili
per assicurare contiguità, nel futuro Stato, fra Ramallah e
Betlemme
ovvero
Nord e Sud della Cisgiordania.
Il braccio di ferro è
aspro al punto che
l'unico edificio in
muratura nell'E-1 è
una stazione semivuota di polizia israeliana: muovere un
fuscello da queste
parti significa innescare tempeste diplomatiche e violenze. Ma percorrendo la strada 437, attorno all'E-1, ci si
accorge che in realtà degli abitanti ci sono. Khan Al-Ahmar è un accampamento di beduini della tribù Jahalin
dove tutto o quasi viene dall'Ue. Percorrendo la strada
sterrata che lo attraversa si superano dozzine di prefabbricati sui quali è stampata la bandiera blu con le stelle
dorate. E lo stesso vale per impianti a energia solare,
latrine e aule scolastiche. Bandiere a dodici stelle
Sul lato opposto della collina c'è un altro accampamento,
dove il capotribù Eid Jahalin, mostra con orgoglio la
bandiera Ue sul frigorifero, spiegando che «dobbiamo
tutto agli europei» a cominciare dalla «Scuola di gomme» che la ong italiana «Vento di Terra» ha realizzato
nel 2012. La famiglia di Eid abita in queste tende dal
1951 «quando arrivammo dopo aver perduto le terre nel
Negev nel 1948 per mano israeliana» e afferma di aver
vissuto «senza aiuti fino all'arrivo degli europei». E mostra un libro di dediche in cui spicca la firma di Ed Miliband, ex leader laburista britannico.
Se l'Unione europea ha trasformato l'accampamento beduino in un proprio insediamento de facto è perché il
suo ufficio per gli Aiuti umanitari nella West Bank elargisce fondi - dall'inizio dell'anno 5,5 milioni di euro - per
«interventi umanitari» a sostegno dei circa 300 mila
arabi dell'«Area C» ovvero il 61 per cento della Cisgior-
dania che, sulla base degli accordi di Oslo del 1993, resta sotto amministrazione militare e civile israeliana
perché è qui che si trovano gli insediamenti ebraici con
circa 400 mila abitanti.
Ong contro militari
Sono oltre una dozzina le maggiori aree di intervento Ue
dove unità mobili, scuole, strutture abitative, impianti
idrici e solari sono
stati consegnati alle
tribù beduine, che
nell'«Area C» coincidono con la popolazione araba non essendoci centri urbani
palestinesi. A Wadi
Abu Hindi l'accampamento Ue è stato creato nel 2009, ospita
almeno 150 famiglie
e cresce di qualche
unità mobile ogni
settimana nella valle
che separa due insediamenti ebraici. Le
frizioni Ue-Israele sono all'ordine del giorno. Un rappresentante della Commissione
Europea a Gerusalemme, chiedendo l'anonimato, ne spiega la dinamica: «l nostri sono interventi umanitari in territori occupati e non richiedono il permesso alle autorità
territoriali». A gestirli sono cinque Ong - i francesi di
Acted e Pu-Ami, i norvegesi di Nrc, gli spagnoli di Acf e
gli italiani di Gvc - che coordinano una rete capillare di
azioni, entrata in aperta collisione con gli israeliani a Susya, a Sud di Hebron, dove la contesa territoriale fra un
insediamento ebraico e un villaggio beduino ha visto la
Corte Suprema di Gerusalemme autorizzare la demolizione di quest'ultimo, innescando la crisi.
Strutture danneggiate
Da gennaio sono 104 le «forniture Ue» che i soldati hanno rimosso o danneggiato nei villaggi beduini. «L'Ue ha
un'agenda - afferma Ovad Arad, direttore di Regavim, il
gruppo israeliano che segue le attività europee - e punta
a ostacolare gli insediamenti ebraici, favorendo quelli
arabi». E una crisi che minaccia di allargarsi perché il
viceministro degli Esteri, Tzipi Hotovely, studia leggi
per ostacolare le Ong nell'«Area C» e Bruxelles ha in
cantiere la contromossa: un coordinamento fra inviati
nella West Bank per intervenire assieme contro i danni
alle «strutture Ue». ***
di Maurizio Molinari *
(La Stampa, 24 luglio 2015)
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DOMENICA
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Gaza. Tra i profughi “intrappolati”
dal regime palestinese
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Viagra, hashish e antidolorifici.
Così si sopravvive ad Hamas
mpegnati tutto il giorno a fermarti
ai check-point, e accertarsi che l'uomo alla guida sia tuo padre o tuo
marito, paladini della moralità, i tipi
di Hamas hanno dimenticato come si
corteggia una signora. Offrirle questa
sorta di Viagra in polvere non è la migliore delle strategie. E neppure uno solo: due. Devo sembrargli un caso disperato. Questo trentenne che mi è stato
affibbiato da Hamas insieme all'autorizzazione a entrare a Gaza, e che non mi
lascia sola un minuto, ufficialmente a
tutela della mi a sicurezza, ha un compito preciso: non farmi vedere niente. A
parte i crimini di Israele, ovviamente. E
l'indifferenza, l'inefficienza della comunità internazionale. Gli sprechi dell'Onu. A
parte il giro turistico tra sfollati, e macerie e mutilati. Non posso parlare con
nessuno. E anche i palestinesi che conosco, mi liquidano rapidi: si sente, hanno
paura - poi mi scrivono una mail: quando
vai via, ti chiamo e ti dico tutto. Che per
telefono parliamo tranquilli.
Mi fermano per 3 ore, alla frontiera, perché ho una bottiglia d'acqua, in borsa, ed
è Ramadan: il tipo invece mi accompagna a casa, si stappa una birra e si accende una sigaretta. E la sera, prima di
cena, come tanti, si fa di Tramadol, un
antidolorifico per cani che a Gaza, in
mancanza di meglio, è usato come una
specie di ecstasy. Ed è vietato. Hamas,
se te lo trova addosso, ti arresta. Ed è il
vero simbolo di Gaza. Più dei tunnel.
Perché ti stordisce, non ti fa sballare. Ti
fa dimenticare. Perché Hamas, prima
ancora che indignarti, ti fa tristezza.
È arrivata al potere nel 2006 con elezioni
regolari e democratiche e, se americani
ed europei non avessero risposto con le
sanzioni, e il blocco degli aiuti, con l'isolamento, le cose sarebbero andate diversamente. Ma oggi, intanto, Hamas è
questo: un regime. Non è che i palestinesi, all'improvviso, volessero la sharia:
Hamas vinse perché aveva già vinto a
livello locale, governava già molte municipalità, e aveva dato prova di onestà e
trasparenza. Appariva rigorosa. L'opposto dalla ormai marcia Fatah. La sua
icona non erano i razzi, ma Ismail Haniyeh, premier che abitava nel campo
profughi di al-Shati. E abita ancora lì, tra
le macerie, con l'umiltà di sempre: solo
che intanto ha intestato al genero una
casa sul mare a Rimai, l'area più bella di
Gaza. 2.500 metri quadri con giardino. 4
milioni di dollari. Da buon padre, ha
comprato una casa a ognuno dei figli.
Che sono 13. L'assedio è stato così feroce che gli israeliani a un certo punto
calcolavano le calorie quotidiane necessarie a mantenere i palestinesi sul filo
della sopravvivenza fisica: 2.279 a testa:
e non lasciavano entrare un grammo di
cibo in più. A Gaza, senza i tunnel, sarebbero morti tutti.
Anche un afrodisiaco fatto
in casa per rendere l’esistenza
nella Striscia meno infelice.
Spie e abbrutimento.
Gli informatori sono ovunque:
nessuno parla, beve o fuma,
se non chiuso in casa »
"MA L'ASSEDIO, oltre che un crimine, è
sempre stato anche un gigantesco affare", dice Ebaa Rezeq, una delle ricercatrici locali di Amnesty International. Perché i tunnel, che sono stati distrutti
quasi tutti, ormai, erano centinaia. E
definirlo contrabbando è fuorviante. I
tunnel erano regolamentati da una commissione di controllo, in parte gestiti in
proprio, in parte appaltati a terzi. Ognuno, in media, rendeva 100mila dollari al
mese. "Ora, invece, tutto arriva con regolari importazioni da Israele. Monopolizzate, ovviamente, dai soliti imprenditori
vicini ad Hamas". Perché questa, oggi, è
Gaza. Fuoristrada dai vetri blindati, o
carretti trainati da asini. Il 70% dei palestinesi vive di aiuti umanitari. Manca il
30% dei farmaci classificati come essenziali. Poi, però, trovi tre tipi di Viagra. E
hashish. Che anche quello, poi - se te lo
trovano addosso - ti arrestano. L'obiettivo di Hamas è rimanere al potere.
Nient'altro. Non governa. Considerato
che l'istruzione e la sanità sono a carico
dell'Unrwa, l'agenzia Onu che si occupa
dei rifugiati palestinesi, che a Gaza sono
l'80% della popolazione, e considerato
che poi, appunto, vivono quasi tutti di
aiuti umanitari, Hamas dedica ogni sua
energia a reprimere non tanto ogni forma di dissenso, dal momento che non
esiste più alcuna attività politica, qui:
dedica ogni sua energia a reprimere
ogni forma di vita. I SUOI INFORMATORI sono ovunque - d'altra parte: è una
delle poche opportunità di lavoro a disposizione. Controllano che tu non beva.
Che ti vesta in modo appropriato. Controllano cose che neppure noti: ma per
esempio, una ragazza, qui, non va in bici. E il sesso fuori dal matrimonio, naturalmente: che è l'ossessione di Hamas.
Vietato anche uno scambio accidentale
di sguardi. Tutte regole non scritte, perché poi, in realtà, non è in vigore né la
sharia né niente, qui: solo la volontà di
Hamas. C'è il codice penale, quello di
sempre: ma c'è anche un sistema parallelo, e del tutto informale, di arresti, punizioni, sparizioni. Compaiono all'improvviso. Le perquisizioni, gli avvertimenti, i fermi sono quotidiani. E anche
qui: selettivi."Hai l'aria stanca", mi dice
un pomeriggio il mio guardiano. "Lavori
troppo. Un paio d'ore in spiaggia, e torni
come nuova", mi dice spingendomi fuori.
"Ti aspetto qui". E usa il mio appartamento per incontrare un'amica sposata.
L'obiettivo di Hamas sembra coincidere
con quello di Israele. Per cui Hamas "è il
migliore degli alleati", dice Ebaa Rezeq.
Perché anche i negoziati di pace, intanto, sono fermi. L'unica cosa che progredisce, qui, sono gli insediamenti. Occupano ormai il 40% di quello che dovrebbe
essere il futuro stato palestinese - e che
è già, di per sé, solo il 22% di quello che
avrebbe dovuto essere secondo il piano
dell'Onu del 1948.
A Gaza Hamas non ha più il minimo consenso. Ha consenso nella West Bank, in
cui ancora è vista come un'alternativa a
Fatah. Come il bastione della resistenza.
Ma qui che hanno sperimentato i risultati ottenuti dai razzi, e cioè un assedio, tre
guerre, e più morti che nell'intera seconda Intifada, con l'Onu che stima siano
necessari trent'anni perché Gaza torni
come prima, e cioè perché la sua popolazione torni a essere per il 70% sotto la
soglia di povertà - qui nessuno sostiene
Hamas. I palestinesi vogliono solo andar
via. Tutti. L'ostacolo, però, non è tanto il
visto per l'Europa. L'ostacolo è l'Egitto.
Raggiungere l'aeroporto del Cairo.
Nel 2015, il confine di Rafah è stato aperto per 12 giorni. La lista d'attesa lunghissima. E hanno priorità i malati. Ma al
solito - 3mila dollari sottobanco e un poliziotto viene a chiamarti per nome. Persino Hamas, qui, è stanca di Hamas.
Persino i suoi miliziani vogliono andar
via: stanno tutto il tempo a chiederti
aiuto per un visto per l'Italia. Anche se
guadagnano molto di più di quello che
potrebbero mai guadagnare da noi: dai
giornalisti stranieri incassano 350 dollari
al giorno - quanto uno stipendio mensile.
Dollari che poi non sanno come spendere. Se non in Tramadol. Per dimenticare.
FRANCESCA BORRI *
(Il Fatto Quotidiano, 26 luglio 2015)
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Yoav, l’ebreo inseguito dalla jihad
morto per fermare il killer di Parigi
Ecco la storia del ragazzo tunisino che cercò
di strappare il mitra a Coulibaly
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i chiamava Yoav Hattab ed era
bello come una giornata di sole a
La Goulette, il sobborgo di Tunisi
dove quest’estate, proprio in
questi giorni, avrebbe ingaggiato interminabili sfide a racchettoni in riva al
mare con gli amici Moché, Matoilah,
Eytan, e al collo avrebbe avuto, come
sempre, una stella di David grande così.
Ma lui, quest’anno, non è più tornato a
casa. Gli piaceva cantare, con una voce
melodiosa che tendeva a stonare, struggente, sui toni più alti. Giocava benissimo a calcio, però quando prendeva il
pallone non lo passava mai e gli amici gli
gridavano dietro. Era molto religioso, era
spiritoso, era innamorato di Delphine da
quindici giorni, gli ultimi quindici della
sua breve vita.
Cresciuto da ebreo in Tunisia, Yoav è
stato ucciso, perché ebreo, in Europa:
questa è la storia di una delle quattro
vittime della presa d’ostaggi all’Hyper
Cacher di Porte de Vincennes lo scorso 9
gennaio. Il più giovane, 21 anni appena,
il più coraggioso. Era risalito dalla ghiacciaia, dov’era nascosto insieme ad altri
clienti del supermercato, per provare a
ragionare con Amedy Coulibaly, il sequestratore. Ma l’estremista islamico
non sapeva ragionare. Allora Yoav ha
provato a sottrargli la mitraglietta; ma il
ragazzo coraggioso non sapeva sparare.
L’eroe ventunenne dell’Hyper Cacher
era uno dei 1500 ebrei di Tunisia che
ancora vivono tra la capitale e l’isola di
Djerba; un patriota, orgoglioso d’aver
votato per la prima volta dopo la cacciata
di Ben Ali, perfettamente a suo agio con
la kippah in testa e la bandiera tunisina
sulle spalle. Secondo dei nove figli del
rabbino di Tunisi, Yoav era un ragazzo
«multiplo e poliglotta, particolare e universale», così lo descrive il suo amico
Johann Taïeb; ma a Tunisi i fratelli Hattab sono e si sono sempre sentiti ragazzi
di quartiere: «Del quartiere Lafayette:
tunisini duri e puri» dice Avishay, il
maggiore. I giovani di confessione ebraica studiano nella scuola diretta dal rabbino Hattab, pregano nella Gran Sinagoga di Avenue de Paris, poi inseguono
sogni e palloni sui campetti di periferia
come tutti i loro coetanei musulmani, e
come loro emigrano per cercare l’Europa, la mixité, una vita migliore.
Il sogno francese
In Francia Yoav c’era arrivato dopo il diploma, per condurre la non facile vita
dello studente lavoratore con pochi euro
in tasca. Una vita di banlieue, tra Vincennes e Montreuil; una vita da maghrebino a Parigi, problemi di visto, stanze
rimediate, troppi pasti consumati da solo; una vita da ebreo a Parigi, in strade
dove se porti la stella di David al collo
rischi l’aggressione. Il rabbino Hattab
racconta che i primi tempi suo figlio,
quanto telefonava a casa, gli diceva:
«Papà, ma qui sui muri c’è scritto “morte
agli ebrei!”». Quasi un percorso di formazione alla rovescia, oltre una frontiera
già attraversata da tanti ebrei tunisini
prima di lui. Per esempio Gabriel Mamou. Lui s’è sentito male la prima volta
che gli è sfilato accanto un corteo di solidarietà a Gaza: «C’erano 30 mila persone che gridavano “morte agli ebrei”. In
Tunisia non potrebbe mai succedere. Per
come abbiamo vissuto noi a Djerba, se io
non trovo una sinagoga posso entrare in
moschea e fare la mia preghiera».
Solidarietà religiosa
Non è, naturalmente, il mondo ideale
quello che ha cresciuto Gabriel e i ragazzi Hattab. Ma se in Europa - come nota
Jacob Lellouche, voce storica della comunità ebraica tunisina - «la gente crede di avere anche la libertà d’odiare
l’altro», in Tunisia ancora resiste una
solidarietà religiosa tra credenti di fedi
diverse, impastata con lunga tradizione
di laicità. Il papà di Yoav ci ha raccontato
che quando era a Parigi per riconoscere
il corpo del figlio, dalla vicina moschea,
terminata la preghiera dell’alba, una delegazione è partita per bussare alla porta di casa sua: «“Madame”, hanno detto
a mia moglie, “siamo a sua disposizione”. I musulmani qui sono più che fratelli e non abbiamo mai avuto quel genere
di problemi. Li abbiamo avuti soltanto in
Europa».
Islam radicale europeo
Già, in Europa, dove mette radici un
islam radicale che - così la pensa il rabbino Hattab - «è stato fabbricato, non è
l’originale». In Europa dove un terrorista
che non sa leggere l’arabo uccide, in nome dell’Islam, il ragazzo di Tunisi che
l’arabo lo parla benissimo perché è la
lingua in cui la sua mamma ebrea gli ha
insegnato a parlare. In Europa dove anche Yoav, che un tempo scriveva su Facebook «Io amo Mosè, amo Gesù, amo
Maometto: la pace sia con loro», misura
la distanza che passa tra la nostalgia
d’un universo ricomposto e una realtà
che sempre più ti costringe a schierarti.
«Io a Djerba ho moltissimi amici musulmani. In Francia, zero»: così la spiega
Gabriel, a Parigi da anni.
Quando è morto a Porte de Vincennes,
Yoav era appena rientrato da un viaggio
di gruppo in Israele, e per lui era stata
un’esperienza entusiasmante. Dicono alcuni degli amici più recenti che stesse
pensando di trasferirsi là. Dicono i vecchi compagni di scuola, i suoi familiari,
che sarebbe invece senz’altro tornato a
Tunisi. Un pensiero postato su Facebook
prima di salire sull’aereo per Tel Aviv
segnala il travaglio, o magari il presentimento: scritto metà in arabo e metà in
francese, è una dichiarazione d’amore
per la Tunisia, «la nostra magnifica patria, dove non odiamo nessuno». A Gerusalemme, questo è certo, il religiosissimo Yoav avrebbe voluto essere sepolto,
ed è lì che riposa: «Per me è molto doloroso saperlo così lontano» confida il padre, il rabbino che mentre interrava il
suo magnifico ragazzo a un giorno di
viaggio e zero relazioni diplomatiche di
distanza, ne ha approfittato per stringergli i piedi tra le mani, «come lui faceva
con me, quando avevo dei problemi».
Difficile non sentirsi costretti a scegliere
tra due bandiere, di questi tempi, se si è
un ebreo maghrebino che vive in una
banlieue di Parigi. Ma a vent’anni il finale non può che essere aperto, e così è
giusto lasciarlo; salvo sapere che tutto
può finire in un attimo, perché con mille
suggestioni in testa, un amore nuovo e
un amico che t’aspetta per fare insieme
Shabbat, vai a comprare una bottiglia di
vino nel posto in cui sta per entrare un
Coulibaly. Perché la fine di Yoav è anche
la storia di come si diventa assassini
senza aver capito in nome di cosa. Una
storia tristissima.
«Io sono Yoav» mercoledì su Rai 3. «Io
sono Yoav», Il film documento di Sabina
Fedeli, Stefania Miretti e Amelia Visintini, andrà in onda mercoledì 29 luglio alle
23,40 su Rai 3, per Doc3, un programma
a cura di Fabio Mancini. Girato tra Tunisi, Parigi e Gerusalemme, il documentario ricostruisce la toccante storia di Yoav
Hattab, tunisino di confessione ebraica
ucciso da Amedy Coulibaly durante la
presa d’ostaggi all’Hyper Cacher di Porte de Vincennes, Parigi lo scorso 9 gennaio.
di STEFANIA MIRETTI *
(La Stampa, 27 luglio 2015)
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MARTEDI
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Mario Venezia nuovo
presidente della Fondazione
Museo della Shoah
M
ario Venezia è il nuovo presidente della Fondazione Museo della Shoah di Roma. "Nel
pomeriggio di oggi - si legge in una nota - si
è svolta la seduta del Cda della Fondazione
Museo della Shoah alla presenza del vice presidente Paolo Masini, in rappresentanza di Roma Capitale, del
consigliere in rappresentanza della Regione Lazio, Massimiliano Smeriglio, del consigliere in rappresentanza
della Città Metropolitana, Gemma Azuni, del consigliere
in rappresentanza dell'Associazione Figli della Shoah,
Riccardo Pacifici, e del neo consigliere in rappresentanza della Comunità Ebraica di Roma, Mario Venezia in
sostituzione del dimissionario Leone Paserman". "Il Consiglio ha discusso al primo punto dell'Odg la nomina del
nuovo presidente in seguito alle dimissioni per motivi
familiari di Leone Paserman - prosegue la nota - I consiglieri all'unanimità hanno espresso gratitudine per il lavoro svolto da Paserman fino ad oggi e lo hanno elogiato
per la costanza e la determinazione che hanno contraddistinto la sua presidenza". "Già giovedì 23 luglio, durante la precedente riunione del Cda della Fondazione, il
presidente onorario Giovanni Maria Flick aveva chiesto
a Paserman di ritirare le dimissioni, certi potesse traghettare la Fondazione in una nuova fase. Paserman ha
però confermato la sua volontà di lasciare l'incarico e i
consiglieri hanno preso atto della sua decisione - prosegue - Nella riunione odierna si è dunque votato il nuovo
Presidente. A guidare la Fondazione sale Mario Venezia,
dottore commercialista, consulente d'azienda. Sposato
con due figli è da sempre impegnato nelle attività della
Comunità Ebraica legate alla Memoria e ai Giovani, sviluppando in qualità di consigliere dell'organizzazione
ebraica Benè Berith progetti legati all'innovazione e al
mondo delle Start Up".
"Il consiglio guidato da Venezia si è subito posto l'obiettivo di formalizzare nelle prossime settimane i bandi per la
ricerca di personale e di ricercatori della Fondazione prosegue la nota - Dovrà inoltre organizzare lo spostamento della sede da via Florida alla Casina dei Vallati,
con l'obiettivo di inaugurarla il prossimo 16 ottobre. Sarà
un luogo dedito alla ricerca e la formazione degli insegnanti e degli studenti in attesa della costruzione del
Museo della Shoah a Villa Torlonia". "Il Cda si è inoltre
posto l'obiettivo di organizzare nei prossimi mesi una mostra temporanea del lavoro svolto in questi anni dalla
Fondazione per la divulgazione della Memoria", conclude
la nota.
(AdnKronos)
Maccabiadi. Oggi lo stadio di Berlino accoglie gli atleti ebrei
che il nazismo mise al bando
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o Stadio Olimpico di Berlino che fu il simbolo del
razzismo nazista ospita da oggi la XIV edizione
dei Giochi Europei Maccabi. Oltre 2.000 atleti
ebrei provenienti da 36 Paesi, compresa l’Italia,
prenderanno parte alla competizione sportiva nel luogo
da cui il regime nazista lì mise al bando quasi 80 anni fa.
La riconciliazione è cosa fatta, è un processo completato
e gli ebrei di Germania lo sanno bene spiega l’organizzatore dei Giochi Alon Meyer. “Con questi giochi abbiamo però la possibilità di inviare un messaggio anche al
di fuori della Germania”.
Un evento dall’alto valore simbolico e tra gli atleti in
competizione fino al 5 agosto ci sono anche i nipoti di
alcuni sopravvissuti all’olocausto. Margot Friedlander
ricorda gli anni bui e sottolinea l’importanza del messaggio che oggi viene da Berlino. “Per me significa molto” dice. “Ripensando al 1943, quando mi nascondevo
sotto terra, chi avrebbe mai detto che saremmo sopravvissuti, che gli ebrei sarebbero tornati a vivere in Germania in pace e che un evento sportivo sarebbe stato
organizzato proprio nel luogo al quale ci venne negato
l’accesso per le Olimpiadi del 1936”.
Nel 1936 il Comitato Olimpico tedesco impedì ai cittadi-
ni di origine ebraica di prendere parte alla competizione. Oggi alla cerimonia di inaugurazione con cui si apriranno le gare prenderà la parola il Capo dello Stato Joachim Gauck.
(Euronews)
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MERCOLEDI
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La libertà religiosa
à la saudita: frustate
in pubblico ai blasfemi
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ibertà religiosa, nell’oscurantista Arabia Saudita wahabita, significa “intensificare gli sforzi
per criminalizzare chi insulta le religioni, i profeti, i libri sacri e i luoghi di culto”. E’ stato
chiaro, intervenendo a un simposio internazionale
ospitato in Francia e organizzato per discutere di giustizia, promozione dei diritti umani e dei princìpi di
tolleranza nel mondo, il direttore per le relazioni esterne del ministero degli Affari islamici, Abdulmajeed al
Omari. Non è la prima volta che Riad lancia campagne
“pacifiche” contro la blasfemia, ammantando il tutto
sotto il velo delle norme internazionali volte a combattere l’intolleranza etnica, religiosa e culturale ovunque
nel mondo e trincerandosi dietro l’appoggio di qualche
organizzazione internazionale più o meno legata alle
Nazioni Unite. “E’ chiaro che la libertà di espressione
senza limiti o restrizioni porterebbe a violare e abusare
dei diritti religiosi e ideologici”, ha aggiunto. Nessuna
parola, ça va sans dire, al Omari l’ha pronunciata sulla
condanna a mille frustate, dieci anni di galera e 200
mila euro di multa comminata al blogger Raif Badawi,
arrestato nel 2012 con l’accusa di apostasia per aver
“diffuso il liberalismo” in patria e di aver contestato
alcune decisioni della magistratura locale perché “troppo ispirate alla sharia”. Nessuna menzione, poi, della
procedura – assai poco consona al diritto internazionale che il funzionario saudita ha citato nel suo discorso
in terra francese – che sarà seguita per dare attuazione
alla sentenza: per diciannove settimane, ogni venerdì
il condannato inginocchiato sarà frustato mentre la folla, davanti a lui, urlerà “Allah u akbar”. La schiena di
Badawi ha già patito alcune razioni di frustate, tant’è
che è difficile oggi dire quanto manchi all’espletamento della pena corporale. Per il resto c’è tempo, ancora
sette anni prima che il blogger possa tornare a circolare libero.
L’ultimo ad aver messo pubblicamente in evidenza la
contraddizione dell’atteggiamento saudita era stato,
qualche mese fa, il cancelliere austriaco Werner Faymann: “Non è possibile avere qui un centro che si ripromette di favorire il dialogo interreligioso quando,
nello stesso tempo, chi è impegnato in quello stesso
dialogo è in prigione. Un centro che rimane in silenzio
quando si deve gridare in favore dei diritti umani non
è degno di essere definito centro di dialogo”. Il centro
in questione è quello intitolato al re Abdullah, con sede
a Vienna, che s’era rifiutato di condannare la pena inflitta a Badawi. Al Omari, a ogni modo, ce l’aveva in
particolare con il governo islandese, che solo qualche
settimana fa ha approvato una legge che – a giudizio
delle autorità saudite – di fatto legalizza la blasfemia.
A Rejkyavik, d’ora in poi, si potrà dire ciò che si vuole
riguardo qualsiasi culto senza rischiare di finire nei
guai con l’autorità giudiziaria locale. Chi invece ha
compiuto passi più concreti – e meno ambigui – sul
fronte della tolleranza religiosa sono gli Emirati Arabi
Uniti. Qualche giorno fa, il presidente Sheikh Khalifa
bin Zayed al Nahyan aveva annunciato che era stato
approvato un pacchetto di provvedimenti in conseguenza dei quali “è vietata la discriminazione sulla
base di religione, casta, credo, dottrina, razza, colore,
origine etnica”. L’aspetto più originale delle nuove leggi è relativa alla punizione prevista per chi bolla come
“infedeli” gli altri. Secondo la sharia, infatti, l’infedele
(takfir) o miscredente (kafir) può essere eliminato. “Secondo la legge islamica io non posso uccidere un cristiano o un ebreo, che vivono come protetti. Ma posso
uccidere un pagano, un ateo”, ha spiegato l’islamologo
Samir Khalil Samir, pro rettore del Pontificio istituto
orientale di Roma, aggiungendo in un commento per il
portale AsiaNews che “l’islam non dà mai la parità” e
parlare in questo caso di anti discriminazione “significa che si dà parità, è superare un concetto totalitario”.
Nella legislazione emiratina non mancano i punti oscuri – come il divieto per un musulmano di cambiare religione e la proibizione per i non musulmani di fare proselitismo – ma nel panorama degli stati del Golfo è una
sorta di oasi di tolleranza, se si considera che in tutto
il territorio nazionale sono presenti ventiquattro chiese
aperte al culto.
di Matteo Matzuzzi *
(Il Foglio, 29 luglio 2015)
Hamas proclama
il prossimo venerdì
'giornata della collera'
e incita alla violenza
U
na ''giornata di collera'' e' stata proclamata da
Hamas per questo venerdi' in risposta agli incidenti verificatisi domenica all'ingresso della
moschea al Aqsa fra attivisti palestinesi e reparti della polizia israeliana.
Hamas ha incitato i palestinesi affinche' venerdi' affrontino le forze di sicurezza israeliane a Gerusalemme e in
tutta la Cisgiordania, provocando scontri e azioni violente con lancio di pietre e bombe incendiarie.
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Roma, in mostra
Papa Wojtyla
e l'ebraismo
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oma ospiterà fino al 17 settembre la mostra internazionale “Una Benedizione Reciproca: papa Giovanni Paolo
II e il Popolo Ebraico” che, giunta in
Italia dopo il tour statunitense, si è
aperta ieri in Vaticano negli spazi del
Braccio di Carlo Magno, a dieci anni
dalla scomparsa del Pontefice.
L'esposizione ripercorre in quattro
fasi, dalla giovinezza al pontificato, il
rapporto tra Karol Wojtyla e il popolo
ebraico. Inaugurata per la prima volta
nel 2005 alla Xavier University di Cincinnati, la mostra ha girato gli Stati
Uniti e ora, con un'esposizione di video, pannelli, fotografie e manufatti
artistici, giunge a Roma (fino al 17
settembre con ingresso gratuito) in
occasione del cinquantesimo anniversario della dichiarazione conciliare Nostra aetate.
Il giovane Karol, nella natia Wadovice, stringe un’amicizia che durerà
tutta la vita con Jerzy Kluger: Jerzy
viene dalla numerosa Comunità
Ebraica di Wadovice.
Dal 1938 vediamo lo studente universitario Wojtyla a Cracovia affrontare
gli anni bui della guerra tra studio e
duro lavoro, non lontano dai suoi amici del Ghetto che conoscono gli orrori
della Shoah.
Nella terza parte viene raccontata la
sua ascesa da Prete a Vescovo e Cardinale negli anni fiorenti del Concilio
Vaticano II, che segna un drastico
cambiamento nel rapporto tra Ebrei e
Cristiani. Come Vescovo di Cracovia
egli stringe solidi rapporti con la Co-
La Spezia. Insulti su Facebook a ebrei:
caccia al neonazista
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na lunga teoria di insulti e calunnie, di attacchi
antisemiti. Una sequela interminabile contro Anna Frank e il suo diario dai campi di concentramento nazisti.
È un'indagine delicata e al contempo complessa quella
avviata dalla polizia della Spezia nei confronti del gestore
di una pagina Facebook, il popolare social network, segnalato per aver pubblicato appunto messaggi inneggianti al nazismo e contro l'intera comunità ebraica proprio nel
Giorno della Memoria, lo scorso 27 gennaio. Gli accertamenti sono affidati agli specialisti della polizia postale,
ma la prima segnalazione riguardante il sito web è giunta
alla questura.
Gli inquirenti hanno aperto quindi un fascicolo di inchiesta ipotizzando il reato di istigazione all'odio razziale.
L'autore ha acceso un profilo Facebook utilizzando nome
e cognome, ma l'identità risulta essere ovviamente falsa.
Così come il luogo di residenza indicato, negli Stati Uniti
d'America, è fasullo: le prime verifiche della Postale hanno consentito di appurare che chi ha scritto quei messaggi antisemiti, ha utilizzato un computer collegato alla rete
nella zona della Spezia. Di più: si tratterebbe di persona
già finita negli archivi delle forze dell'ordine, che in passato ha già avuto guai con la giustizia e che è stata coinvolta in altre indagini su organizzazioni razziste e neonaziste. L'indagine però è ancora lunga e sarà necessario
contattare i gestori del social network per risalire all'indiziato. Nel frattempo però, la pagina incriminata è stata
bloccata e non è più raggiungibile.
(Il Secolo IXI.it)
munità Ebraica.
L’ultima sezione rievoca il periodo del
Papato, della storica visita alla Sinagoga nel 1986 e del viaggio in Israele
del 2000, quando depose nel Muro
Occidentale del Tempio di Gerusalemme una preghiera di richiesta del
perdono divino per il trattamento riservato nel passato agli Ebrei e per
affermare l’impegno della Chiesa ad
un percorso di fraterna continuità
con il popolo dell’Alleanza.
Il visitatore a questo punto è invitato
a scrivere una preghiera da inserire
in una riproduzione del muro (Kotel):
le preghiere raccolte verranno portate al Muro Occidentale senza essere
lette.
Amnesty falsifica la realtà
Israele accusa l'organizzazione che oggi
ha presentato un dossier sulla guerra a Gaza
A
mnesty International "falsifica" la realta' nel suo
rapporto sui combattimenti di un anno fa a Gaza.
Lo afferma il ministero degli Esteri israeliano,
secondo cui il rapporto e' lacunoso "nella metodologia, nella ricostruzione dei fatti, nelle analisi e nelle conclusioni". Amnesty, sostiene il ministero, "ancora una volta
dimostra la propria ossessione verso Israele".
Amnesty - secondo il ministero degli esteri israeliano - costruisce "una falsa narrativa" quando afferma che le operazioni a Rafah descritte nel rapporto fossero "una reazione
diretta all'uccisione e al rapimento di un militare israeliano". Amnesty "sembra aver dimenticato" - prosegue il ministero - il conflitto che era allora ancora in corso, i continui
lanci di razzi, la necessita' di neutralizzare tunnel di attacco
scavati sotto alla linea di demarcazione fra Gaza ed Israele
ed in particolare "le attivita' delle organizzazioni terroristiche palestinesi svolte entro ambienti civili". Intensi combattimenti a Rafah si ebbero - insiste il ministero - sia prima sia dopo gli eventi citati nel rapporto. Il ministero polemizza poi per la metodologia usata da Amnesty "che solleva seri dubbi sui suoi standard professionali". Altre polemiche riguardano l'attendibilita' di testimonianze oculari raccolte in zone sotto controllo di Hamas, e dunque possibilmente viziate. Il ministero sostiene infine che le indagini
interne condotte dalle forze armate israeliane su quegli
eventi sono state "serie ed efficaci" e lamenta che un rapporto sulla guerra a Gaza pubblicato da Israele alcuni mesi
fa non sia stato preso nella dovuta considerazione da Amnesty. (ANSA).
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Parashà Vaetchanàn
Non desiderare la moglie del tuo prossimo
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n questa parashà vi è la ripetizione delle ’Assèret Hadibberòt comunemente tradotte con il termine “I dieci
comandamenti”. In effetti per quanto la parola dibberòt
non abbia il significato di “comandamenti” ma piuttosto di “affermazioni”,
queste dieci dibberòt
sono delle mitzvòt ossia
precetti o comandamenti. Il fatto che vengano ripetute in questa parashà
dopo essere già scritte
nella parashà di Yitrò
non deve sorprendere
perché il libro di Devarìm
si chiama Deuteronomio,
dalla parola greca che significa “ripetizione della
legge”. Devarìm comprende le spiegazioni
delle mitzvòt della Torà
date da Moshè nel mese che precedette la sua
morte.
Nel testo dei Dieci Comandamenti che appare in questa parashà vi
sono alcune differenze
di linguaggio rispetto
al testo nella parashà di
Yitrò. Rav Shimshon Refael Hirsch nel suo commento alla
Torà spiega che queste differenze dipendono dal fatto che
Moshè voleva spiegare la Torà in modo che non restassero
dubbi e ambiguità.
Due di queste differenze appaiono nell’ultimo dei Comandamenti dove è scritto:”Non desiderare (lo tachmòd) la moglie
del tuo prossimo e non desiderare (lo titavè) la casa del tuo
prossimo, il suo campo, il suo schiavo, la sua schiava, è tutto
quello che appartiene al tuo prossimo” (Devarìm, 5:18). Nella lingua ebraica esistono due espressioni diverse per esprimere “desiderio”. In questa parashà appaiono entrambe le
espressioni e viene anche proibito desiderare il campo del
prossimo, mentre nel testo dei Dieci Comandamenti nella
parashà di Yitrò appare solo l’espressione “lo tachmòd” e
non è menzionato il campo. Infatti in Yitrò è scritto: “Non
desiderare (lo tachmòd) la casa del tuo prossimo, non desiderare la moglie del tuo prossimo e il suo schiavo e la sua
schiava e il suo toro e il suo asino è tutto quello che appartiene al tuo prossimo” (Shemòt, 20:14).
Il Maimonide nel Sèfer ha-Mitzvòt scrive che “lo tachmòd”
ha un significato più forte di “lo titavè”. Mentre il primo termine proibisce di desiderare e di impossessarsi di una proprietà del prossimo anche se quest’ultimo non ha nessuna
intenzione di cederla, il secondo termine ci proibisce perfino
di desiderarla. Per trasgredire la proibizione di “lo tachmòd”
è necessario non solo desiderare qualcosa che non ci appartiene ma anche aver compiuto un’azione per prenderne possesso. Il Maimonide definisce la proibizione di “lo tachmòd”
nel modo seguente: “Se una persona desidera [...] qualcosa
che appartiene al suo prossimo e lo preme incessantemente
tramite degli amici o con altri mezzi fino a quando riesce a
ottenerne il possesso, anche se ha pagato un prezzo elevato,
ha trasgredito la proibizione di “lo tachmòd” (Mishnè Torà,
Hilkhòt Ghezelà ve-Avedà, 1:9). Se ne ha preso possesso illegalmente ha trasgredito anche la proibizione di “Non rubare”.
Riguardo al desiderare
la moglie del prossimo,
la proibizione di “lo tachmòd” viene trasgredita nel caso in cui una
persona abbia fatto sì
che il prossimo divorzi la
moglie per poterla così
sposare. La cosa non era
del tutto rara in antichità. Infatti l’imperatore
Augusto prese in moglie
Livia dopo aver obbligato il marito Tiberio Claudio Nerone a darle il divorzio.
Rav Shimshon Refael
Hirsch nel commento al
libro di Shemòt scrive che
l’espressione aggiuntiva
“lo titavè” che appare
nel libro di Devarìm significa che non bisogna
permettere che nulla di
quello che appartiene al
tuo prossimo venga desiderato. Mentre riguardo alla moglie
del prossimo è usata l’espressione più forte “lo tachmòd”,
quando si parla di tutte le altre cose che appartengono al
prossimo viene usata l’espressione più debole “lo titavè”
perché il desiderio di quello che appartiene al prossimo porta alla trasgressione di acquistarla anche contro la volontà
del proprietario. Egli cita il Midràsh Mekhiltà dove è scritto:
“Se ha desiderato, alla fine desidera e ne prende possesso”
(im hitavà sofò lachmòd).
Rav Hirsch aggiunge che il Creatore ci porterà a giudizio non
solo per gli atti di trasgressione ma anche per aver desiderato di impossessarsi di una proprietà proibita. Il desiderare
le cose degli altri è alla base di tutti i peccati. Egli aggiunge
che la pace a la sicurezza nella società non possono essere
assicurati da giudici e polizia; solo una legge che dipende
dalla giustizia divina e che viene interiorizzata dagli uomini
può proteggere la società dai crimini. Il motivo per cui l’espressione “lo titavè”, che comprende tutte le proibizioni
di tipo sociale, appare proprio nel libro di Devarìm prima
dell’entrata nella Terra Promessa e non nel libro di Shemòt,
è che ora i figli d’Israele stavano per uscire dal controllo centralizzato e si sarebbero separati, ognuno nel suo territorio.
Senza più essere sotto l’occhio attento di Moshè, ogni persona doveva rimanere sotto la supervisione della propria coscienza. E dal momento che ora gli israeliti sarebbero diventati proprietari terrieri, la Torà aggiunge il campo alla liste
delle cose che è proibito desiderare.
DONATO GROSSER
Stampa che riproduce un quadro di Simone Cantarini nella
Galleria Reale di Dresda, raffigurante Giuseppe e la moglie
di Potifar. Collezione Grosser