שבועון - shalom7
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7 EBRAISMO INFORMAZIONE CULTURA SETTIMANALE שבועון SHALOMשלום Fondazione Museo della Shoah Mario Venezia nuovo presidente 09 AV 5775 S A B A T O L U G L I O 25 Nei villaggi targati Ue in Cisgiordania che sfidano coloni e soldati israeliani Tende e prefabbricati per i profughi accanto agli insediamenti ebraici. Gli aiuti umanitari scatenano una crisi: “Bruxelles favorisce gli arabi” LUGLIO 2015 • AV 5775 N 2 ell'area più contestata della West Bank almeno 250 famiglie beduine vivono in un insediamento di prefabbricati con sopra stampati i simboli dell'Unione Europea. Si tratta delle colline «E-1» che si estendono per 12 chilometri quadrati a Nord-Est di Gerusalemme: gli israeliani vogliono controllarle per garantire continuità fra la città e l'insediamento di Maalei Adumim mentre i palestinesi le ritengono indispensabili per assicurare contiguità, nel futuro Stato, fra Ramallah e Betlemme ovvero Nord e Sud della Cisgiordania. Il braccio di ferro è aspro al punto che l'unico edificio in muratura nell'E-1 è una stazione semivuota di polizia israeliana: muovere un fuscello da queste parti significa innescare tempeste diplomatiche e violenze. Ma percorrendo la strada 437, attorno all'E-1, ci si accorge che in realtà degli abitanti ci sono. Khan Al-Ahmar è un accampamento di beduini della tribù Jahalin dove tutto o quasi viene dall'Ue. Percorrendo la strada sterrata che lo attraversa si superano dozzine di prefabbricati sui quali è stampata la bandiera blu con le stelle dorate. E lo stesso vale per impianti a energia solare, latrine e aule scolastiche. Bandiere a dodici stelle Sul lato opposto della collina c'è un altro accampamento, dove il capotribù Eid Jahalin, mostra con orgoglio la bandiera Ue sul frigorifero, spiegando che «dobbiamo tutto agli europei» a cominciare dalla «Scuola di gomme» che la ong italiana «Vento di Terra» ha realizzato nel 2012. La famiglia di Eid abita in queste tende dal 1951 «quando arrivammo dopo aver perduto le terre nel Negev nel 1948 per mano israeliana» e afferma di aver vissuto «senza aiuti fino all'arrivo degli europei». E mostra un libro di dediche in cui spicca la firma di Ed Miliband, ex leader laburista britannico. Se l'Unione europea ha trasformato l'accampamento beduino in un proprio insediamento de facto è perché il suo ufficio per gli Aiuti umanitari nella West Bank elargisce fondi - dall'inizio dell'anno 5,5 milioni di euro - per «interventi umanitari» a sostegno dei circa 300 mila arabi dell'«Area C» ovvero il 61 per cento della Cisgior- dania che, sulla base degli accordi di Oslo del 1993, resta sotto amministrazione militare e civile israeliana perché è qui che si trovano gli insediamenti ebraici con circa 400 mila abitanti. Ong contro militari Sono oltre una dozzina le maggiori aree di intervento Ue dove unità mobili, scuole, strutture abitative, impianti idrici e solari sono stati consegnati alle tribù beduine, che nell'«Area C» coincidono con la popolazione araba non essendoci centri urbani palestinesi. A Wadi Abu Hindi l'accampamento Ue è stato creato nel 2009, ospita almeno 150 famiglie e cresce di qualche unità mobile ogni settimana nella valle che separa due insediamenti ebraici. Le frizioni Ue-Israele sono all'ordine del giorno. Un rappresentante della Commissione Europea a Gerusalemme, chiedendo l'anonimato, ne spiega la dinamica: «l nostri sono interventi umanitari in territori occupati e non richiedono il permesso alle autorità territoriali». A gestirli sono cinque Ong - i francesi di Acted e Pu-Ami, i norvegesi di Nrc, gli spagnoli di Acf e gli italiani di Gvc - che coordinano una rete capillare di azioni, entrata in aperta collisione con gli israeliani a Susya, a Sud di Hebron, dove la contesa territoriale fra un insediamento ebraico e un villaggio beduino ha visto la Corte Suprema di Gerusalemme autorizzare la demolizione di quest'ultimo, innescando la crisi. Strutture danneggiate Da gennaio sono 104 le «forniture Ue» che i soldati hanno rimosso o danneggiato nei villaggi beduini. «L'Ue ha un'agenda - afferma Ovad Arad, direttore di Regavim, il gruppo israeliano che segue le attività europee - e punta a ostacolare gli insediamenti ebraici, favorendo quelli arabi». E una crisi che minaccia di allargarsi perché il viceministro degli Esteri, Tzipi Hotovely, studia leggi per ostacolare le Ong nell'«Area C» e Bruxelles ha in cantiere la contromossa: un coordinamento fra inviati nella West Bank per intervenire assieme contro i danni alle «strutture Ue». *** di Maurizio Molinari * (La Stampa, 24 luglio 2015) 10 AV 5775 DOMENICA L U G L I O 26 Gaza. Tra i profughi “intrappolati” dal regime palestinese LUGLIO 2015 • AV 5775 I 3 Viagra, hashish e antidolorifici. Così si sopravvive ad Hamas mpegnati tutto il giorno a fermarti ai check-point, e accertarsi che l'uomo alla guida sia tuo padre o tuo marito, paladini della moralità, i tipi di Hamas hanno dimenticato come si corteggia una signora. Offrirle questa sorta di Viagra in polvere non è la migliore delle strategie. E neppure uno solo: due. Devo sembrargli un caso disperato. Questo trentenne che mi è stato affibbiato da Hamas insieme all'autorizzazione a entrare a Gaza, e che non mi lascia sola un minuto, ufficialmente a tutela della mi a sicurezza, ha un compito preciso: non farmi vedere niente. A parte i crimini di Israele, ovviamente. E l'indifferenza, l'inefficienza della comunità internazionale. Gli sprechi dell'Onu. A parte il giro turistico tra sfollati, e macerie e mutilati. Non posso parlare con nessuno. E anche i palestinesi che conosco, mi liquidano rapidi: si sente, hanno paura - poi mi scrivono una mail: quando vai via, ti chiamo e ti dico tutto. Che per telefono parliamo tranquilli. Mi fermano per 3 ore, alla frontiera, perché ho una bottiglia d'acqua, in borsa, ed è Ramadan: il tipo invece mi accompagna a casa, si stappa una birra e si accende una sigaretta. E la sera, prima di cena, come tanti, si fa di Tramadol, un antidolorifico per cani che a Gaza, in mancanza di meglio, è usato come una specie di ecstasy. Ed è vietato. Hamas, se te lo trova addosso, ti arresta. Ed è il vero simbolo di Gaza. Più dei tunnel. Perché ti stordisce, non ti fa sballare. Ti fa dimenticare. Perché Hamas, prima ancora che indignarti, ti fa tristezza. È arrivata al potere nel 2006 con elezioni regolari e democratiche e, se americani ed europei non avessero risposto con le sanzioni, e il blocco degli aiuti, con l'isolamento, le cose sarebbero andate diversamente. Ma oggi, intanto, Hamas è questo: un regime. Non è che i palestinesi, all'improvviso, volessero la sharia: Hamas vinse perché aveva già vinto a livello locale, governava già molte municipalità, e aveva dato prova di onestà e trasparenza. Appariva rigorosa. L'opposto dalla ormai marcia Fatah. La sua icona non erano i razzi, ma Ismail Haniyeh, premier che abitava nel campo profughi di al-Shati. E abita ancora lì, tra le macerie, con l'umiltà di sempre: solo che intanto ha intestato al genero una casa sul mare a Rimai, l'area più bella di Gaza. 2.500 metri quadri con giardino. 4 milioni di dollari. Da buon padre, ha comprato una casa a ognuno dei figli. Che sono 13. L'assedio è stato così feroce che gli israeliani a un certo punto calcolavano le calorie quotidiane necessarie a mantenere i palestinesi sul filo della sopravvivenza fisica: 2.279 a testa: e non lasciavano entrare un grammo di cibo in più. A Gaza, senza i tunnel, sarebbero morti tutti. Anche un afrodisiaco fatto in casa per rendere l’esistenza nella Striscia meno infelice. Spie e abbrutimento. Gli informatori sono ovunque: nessuno parla, beve o fuma, se non chiuso in casa » "MA L'ASSEDIO, oltre che un crimine, è sempre stato anche un gigantesco affare", dice Ebaa Rezeq, una delle ricercatrici locali di Amnesty International. Perché i tunnel, che sono stati distrutti quasi tutti, ormai, erano centinaia. E definirlo contrabbando è fuorviante. I tunnel erano regolamentati da una commissione di controllo, in parte gestiti in proprio, in parte appaltati a terzi. Ognuno, in media, rendeva 100mila dollari al mese. "Ora, invece, tutto arriva con regolari importazioni da Israele. Monopolizzate, ovviamente, dai soliti imprenditori vicini ad Hamas". Perché questa, oggi, è Gaza. Fuoristrada dai vetri blindati, o carretti trainati da asini. Il 70% dei palestinesi vive di aiuti umanitari. Manca il 30% dei farmaci classificati come essenziali. Poi, però, trovi tre tipi di Viagra. E hashish. Che anche quello, poi - se te lo trovano addosso - ti arrestano. L'obiettivo di Hamas è rimanere al potere. Nient'altro. Non governa. Considerato che l'istruzione e la sanità sono a carico dell'Unrwa, l'agenzia Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi, che a Gaza sono l'80% della popolazione, e considerato che poi, appunto, vivono quasi tutti di aiuti umanitari, Hamas dedica ogni sua energia a reprimere non tanto ogni forma di dissenso, dal momento che non esiste più alcuna attività politica, qui: dedica ogni sua energia a reprimere ogni forma di vita. I SUOI INFORMATORI sono ovunque - d'altra parte: è una delle poche opportunità di lavoro a disposizione. Controllano che tu non beva. Che ti vesta in modo appropriato. Controllano cose che neppure noti: ma per esempio, una ragazza, qui, non va in bici. E il sesso fuori dal matrimonio, naturalmente: che è l'ossessione di Hamas. Vietato anche uno scambio accidentale di sguardi. Tutte regole non scritte, perché poi, in realtà, non è in vigore né la sharia né niente, qui: solo la volontà di Hamas. C'è il codice penale, quello di sempre: ma c'è anche un sistema parallelo, e del tutto informale, di arresti, punizioni, sparizioni. Compaiono all'improvviso. Le perquisizioni, gli avvertimenti, i fermi sono quotidiani. E anche qui: selettivi."Hai l'aria stanca", mi dice un pomeriggio il mio guardiano. "Lavori troppo. Un paio d'ore in spiaggia, e torni come nuova", mi dice spingendomi fuori. "Ti aspetto qui". E usa il mio appartamento per incontrare un'amica sposata. L'obiettivo di Hamas sembra coincidere con quello di Israele. Per cui Hamas "è il migliore degli alleati", dice Ebaa Rezeq. Perché anche i negoziati di pace, intanto, sono fermi. L'unica cosa che progredisce, qui, sono gli insediamenti. Occupano ormai il 40% di quello che dovrebbe essere il futuro stato palestinese - e che è già, di per sé, solo il 22% di quello che avrebbe dovuto essere secondo il piano dell'Onu del 1948. A Gaza Hamas non ha più il minimo consenso. Ha consenso nella West Bank, in cui ancora è vista come un'alternativa a Fatah. Come il bastione della resistenza. Ma qui che hanno sperimentato i risultati ottenuti dai razzi, e cioè un assedio, tre guerre, e più morti che nell'intera seconda Intifada, con l'Onu che stima siano necessari trent'anni perché Gaza torni come prima, e cioè perché la sua popolazione torni a essere per il 70% sotto la soglia di povertà - qui nessuno sostiene Hamas. I palestinesi vogliono solo andar via. Tutti. L'ostacolo, però, non è tanto il visto per l'Europa. L'ostacolo è l'Egitto. Raggiungere l'aeroporto del Cairo. Nel 2015, il confine di Rafah è stato aperto per 12 giorni. La lista d'attesa lunghissima. E hanno priorità i malati. Ma al solito - 3mila dollari sottobanco e un poliziotto viene a chiamarti per nome. Persino Hamas, qui, è stanca di Hamas. Persino i suoi miliziani vogliono andar via: stanno tutto il tempo a chiederti aiuto per un visto per l'Italia. Anche se guadagnano molto di più di quello che potrebbero mai guadagnare da noi: dai giornalisti stranieri incassano 350 dollari al giorno - quanto uno stipendio mensile. Dollari che poi non sanno come spendere. Se non in Tramadol. Per dimenticare. FRANCESCA BORRI * (Il Fatto Quotidiano, 26 luglio 2015) 11 AV 5775 L U N E D I L U G L I O 27 Yoav, l’ebreo inseguito dalla jihad morto per fermare il killer di Parigi Ecco la storia del ragazzo tunisino che cercò di strappare il mitra a Coulibaly LUGLIO 2015 • AV 5775 S 4 i chiamava Yoav Hattab ed era bello come una giornata di sole a La Goulette, il sobborgo di Tunisi dove quest’estate, proprio in questi giorni, avrebbe ingaggiato interminabili sfide a racchettoni in riva al mare con gli amici Moché, Matoilah, Eytan, e al collo avrebbe avuto, come sempre, una stella di David grande così. Ma lui, quest’anno, non è più tornato a casa. Gli piaceva cantare, con una voce melodiosa che tendeva a stonare, struggente, sui toni più alti. Giocava benissimo a calcio, però quando prendeva il pallone non lo passava mai e gli amici gli gridavano dietro. Era molto religioso, era spiritoso, era innamorato di Delphine da quindici giorni, gli ultimi quindici della sua breve vita. Cresciuto da ebreo in Tunisia, Yoav è stato ucciso, perché ebreo, in Europa: questa è la storia di una delle quattro vittime della presa d’ostaggi all’Hyper Cacher di Porte de Vincennes lo scorso 9 gennaio. Il più giovane, 21 anni appena, il più coraggioso. Era risalito dalla ghiacciaia, dov’era nascosto insieme ad altri clienti del supermercato, per provare a ragionare con Amedy Coulibaly, il sequestratore. Ma l’estremista islamico non sapeva ragionare. Allora Yoav ha provato a sottrargli la mitraglietta; ma il ragazzo coraggioso non sapeva sparare. L’eroe ventunenne dell’Hyper Cacher era uno dei 1500 ebrei di Tunisia che ancora vivono tra la capitale e l’isola di Djerba; un patriota, orgoglioso d’aver votato per la prima volta dopo la cacciata di Ben Ali, perfettamente a suo agio con la kippah in testa e la bandiera tunisina sulle spalle. Secondo dei nove figli del rabbino di Tunisi, Yoav era un ragazzo «multiplo e poliglotta, particolare e universale», così lo descrive il suo amico Johann Taïeb; ma a Tunisi i fratelli Hattab sono e si sono sempre sentiti ragazzi di quartiere: «Del quartiere Lafayette: tunisini duri e puri» dice Avishay, il maggiore. I giovani di confessione ebraica studiano nella scuola diretta dal rabbino Hattab, pregano nella Gran Sinagoga di Avenue de Paris, poi inseguono sogni e palloni sui campetti di periferia come tutti i loro coetanei musulmani, e come loro emigrano per cercare l’Europa, la mixité, una vita migliore. Il sogno francese In Francia Yoav c’era arrivato dopo il diploma, per condurre la non facile vita dello studente lavoratore con pochi euro in tasca. Una vita di banlieue, tra Vincennes e Montreuil; una vita da maghrebino a Parigi, problemi di visto, stanze rimediate, troppi pasti consumati da solo; una vita da ebreo a Parigi, in strade dove se porti la stella di David al collo rischi l’aggressione. Il rabbino Hattab racconta che i primi tempi suo figlio, quanto telefonava a casa, gli diceva: «Papà, ma qui sui muri c’è scritto “morte agli ebrei!”». Quasi un percorso di formazione alla rovescia, oltre una frontiera già attraversata da tanti ebrei tunisini prima di lui. Per esempio Gabriel Mamou. Lui s’è sentito male la prima volta che gli è sfilato accanto un corteo di solidarietà a Gaza: «C’erano 30 mila persone che gridavano “morte agli ebrei”. In Tunisia non potrebbe mai succedere. Per come abbiamo vissuto noi a Djerba, se io non trovo una sinagoga posso entrare in moschea e fare la mia preghiera». Solidarietà religiosa Non è, naturalmente, il mondo ideale quello che ha cresciuto Gabriel e i ragazzi Hattab. Ma se in Europa - come nota Jacob Lellouche, voce storica della comunità ebraica tunisina - «la gente crede di avere anche la libertà d’odiare l’altro», in Tunisia ancora resiste una solidarietà religiosa tra credenti di fedi diverse, impastata con lunga tradizione di laicità. Il papà di Yoav ci ha raccontato che quando era a Parigi per riconoscere il corpo del figlio, dalla vicina moschea, terminata la preghiera dell’alba, una delegazione è partita per bussare alla porta di casa sua: «“Madame”, hanno detto a mia moglie, “siamo a sua disposizione”. I musulmani qui sono più che fratelli e non abbiamo mai avuto quel genere di problemi. Li abbiamo avuti soltanto in Europa». Islam radicale europeo Già, in Europa, dove mette radici un islam radicale che - così la pensa il rabbino Hattab - «è stato fabbricato, non è l’originale». In Europa dove un terrorista che non sa leggere l’arabo uccide, in nome dell’Islam, il ragazzo di Tunisi che l’arabo lo parla benissimo perché è la lingua in cui la sua mamma ebrea gli ha insegnato a parlare. In Europa dove anche Yoav, che un tempo scriveva su Facebook «Io amo Mosè, amo Gesù, amo Maometto: la pace sia con loro», misura la distanza che passa tra la nostalgia d’un universo ricomposto e una realtà che sempre più ti costringe a schierarti. «Io a Djerba ho moltissimi amici musulmani. In Francia, zero»: così la spiega Gabriel, a Parigi da anni. Quando è morto a Porte de Vincennes, Yoav era appena rientrato da un viaggio di gruppo in Israele, e per lui era stata un’esperienza entusiasmante. Dicono alcuni degli amici più recenti che stesse pensando di trasferirsi là. Dicono i vecchi compagni di scuola, i suoi familiari, che sarebbe invece senz’altro tornato a Tunisi. Un pensiero postato su Facebook prima di salire sull’aereo per Tel Aviv segnala il travaglio, o magari il presentimento: scritto metà in arabo e metà in francese, è una dichiarazione d’amore per la Tunisia, «la nostra magnifica patria, dove non odiamo nessuno». A Gerusalemme, questo è certo, il religiosissimo Yoav avrebbe voluto essere sepolto, ed è lì che riposa: «Per me è molto doloroso saperlo così lontano» confida il padre, il rabbino che mentre interrava il suo magnifico ragazzo a un giorno di viaggio e zero relazioni diplomatiche di distanza, ne ha approfittato per stringergli i piedi tra le mani, «come lui faceva con me, quando avevo dei problemi». Difficile non sentirsi costretti a scegliere tra due bandiere, di questi tempi, se si è un ebreo maghrebino che vive in una banlieue di Parigi. Ma a vent’anni il finale non può che essere aperto, e così è giusto lasciarlo; salvo sapere che tutto può finire in un attimo, perché con mille suggestioni in testa, un amore nuovo e un amico che t’aspetta per fare insieme Shabbat, vai a comprare una bottiglia di vino nel posto in cui sta per entrare un Coulibaly. Perché la fine di Yoav è anche la storia di come si diventa assassini senza aver capito in nome di cosa. Una storia tristissima. «Io sono Yoav» mercoledì su Rai 3. «Io sono Yoav», Il film documento di Sabina Fedeli, Stefania Miretti e Amelia Visintini, andrà in onda mercoledì 29 luglio alle 23,40 su Rai 3, per Doc3, un programma a cura di Fabio Mancini. Girato tra Tunisi, Parigi e Gerusalemme, il documentario ricostruisce la toccante storia di Yoav Hattab, tunisino di confessione ebraica ucciso da Amedy Coulibaly durante la presa d’ostaggi all’Hyper Cacher di Porte de Vincennes, Parigi lo scorso 9 gennaio. di STEFANIA MIRETTI * (La Stampa, 27 luglio 2015) 12 AV 5775 MARTEDI L U G L I O 28 Mario Venezia nuovo presidente della Fondazione Museo della Shoah M ario Venezia è il nuovo presidente della Fondazione Museo della Shoah di Roma. "Nel pomeriggio di oggi - si legge in una nota - si è svolta la seduta del Cda della Fondazione Museo della Shoah alla presenza del vice presidente Paolo Masini, in rappresentanza di Roma Capitale, del consigliere in rappresentanza della Regione Lazio, Massimiliano Smeriglio, del consigliere in rappresentanza della Città Metropolitana, Gemma Azuni, del consigliere in rappresentanza dell'Associazione Figli della Shoah, Riccardo Pacifici, e del neo consigliere in rappresentanza della Comunità Ebraica di Roma, Mario Venezia in sostituzione del dimissionario Leone Paserman". "Il Consiglio ha discusso al primo punto dell'Odg la nomina del nuovo presidente in seguito alle dimissioni per motivi familiari di Leone Paserman - prosegue la nota - I consiglieri all'unanimità hanno espresso gratitudine per il lavoro svolto da Paserman fino ad oggi e lo hanno elogiato per la costanza e la determinazione che hanno contraddistinto la sua presidenza". "Già giovedì 23 luglio, durante la precedente riunione del Cda della Fondazione, il presidente onorario Giovanni Maria Flick aveva chiesto a Paserman di ritirare le dimissioni, certi potesse traghettare la Fondazione in una nuova fase. Paserman ha però confermato la sua volontà di lasciare l'incarico e i consiglieri hanno preso atto della sua decisione - prosegue - Nella riunione odierna si è dunque votato il nuovo Presidente. A guidare la Fondazione sale Mario Venezia, dottore commercialista, consulente d'azienda. Sposato con due figli è da sempre impegnato nelle attività della Comunità Ebraica legate alla Memoria e ai Giovani, sviluppando in qualità di consigliere dell'organizzazione ebraica Benè Berith progetti legati all'innovazione e al mondo delle Start Up". "Il consiglio guidato da Venezia si è subito posto l'obiettivo di formalizzare nelle prossime settimane i bandi per la ricerca di personale e di ricercatori della Fondazione prosegue la nota - Dovrà inoltre organizzare lo spostamento della sede da via Florida alla Casina dei Vallati, con l'obiettivo di inaugurarla il prossimo 16 ottobre. Sarà un luogo dedito alla ricerca e la formazione degli insegnanti e degli studenti in attesa della costruzione del Museo della Shoah a Villa Torlonia". "Il Cda si è inoltre posto l'obiettivo di organizzare nei prossimi mesi una mostra temporanea del lavoro svolto in questi anni dalla Fondazione per la divulgazione della Memoria", conclude la nota. (AdnKronos) Maccabiadi. Oggi lo stadio di Berlino accoglie gli atleti ebrei che il nazismo mise al bando LUGLIO 2015 • AV 5775 L 5 o Stadio Olimpico di Berlino che fu il simbolo del razzismo nazista ospita da oggi la XIV edizione dei Giochi Europei Maccabi. Oltre 2.000 atleti ebrei provenienti da 36 Paesi, compresa l’Italia, prenderanno parte alla competizione sportiva nel luogo da cui il regime nazista lì mise al bando quasi 80 anni fa. La riconciliazione è cosa fatta, è un processo completato e gli ebrei di Germania lo sanno bene spiega l’organizzatore dei Giochi Alon Meyer. “Con questi giochi abbiamo però la possibilità di inviare un messaggio anche al di fuori della Germania”. Un evento dall’alto valore simbolico e tra gli atleti in competizione fino al 5 agosto ci sono anche i nipoti di alcuni sopravvissuti all’olocausto. Margot Friedlander ricorda gli anni bui e sottolinea l’importanza del messaggio che oggi viene da Berlino. “Per me significa molto” dice. “Ripensando al 1943, quando mi nascondevo sotto terra, chi avrebbe mai detto che saremmo sopravvissuti, che gli ebrei sarebbero tornati a vivere in Germania in pace e che un evento sportivo sarebbe stato organizzato proprio nel luogo al quale ci venne negato l’accesso per le Olimpiadi del 1936”. Nel 1936 il Comitato Olimpico tedesco impedì ai cittadi- ni di origine ebraica di prendere parte alla competizione. Oggi alla cerimonia di inaugurazione con cui si apriranno le gare prenderà la parola il Capo dello Stato Joachim Gauck. (Euronews) 13 AV 5775 MERCOLEDI L U G L I O 29 La libertà religiosa à la saudita: frustate in pubblico ai blasfemi LUGLIO 2015 • AV 5775 L 6 ibertà religiosa, nell’oscurantista Arabia Saudita wahabita, significa “intensificare gli sforzi per criminalizzare chi insulta le religioni, i profeti, i libri sacri e i luoghi di culto”. E’ stato chiaro, intervenendo a un simposio internazionale ospitato in Francia e organizzato per discutere di giustizia, promozione dei diritti umani e dei princìpi di tolleranza nel mondo, il direttore per le relazioni esterne del ministero degli Affari islamici, Abdulmajeed al Omari. Non è la prima volta che Riad lancia campagne “pacifiche” contro la blasfemia, ammantando il tutto sotto il velo delle norme internazionali volte a combattere l’intolleranza etnica, religiosa e culturale ovunque nel mondo e trincerandosi dietro l’appoggio di qualche organizzazione internazionale più o meno legata alle Nazioni Unite. “E’ chiaro che la libertà di espressione senza limiti o restrizioni porterebbe a violare e abusare dei diritti religiosi e ideologici”, ha aggiunto. Nessuna parola, ça va sans dire, al Omari l’ha pronunciata sulla condanna a mille frustate, dieci anni di galera e 200 mila euro di multa comminata al blogger Raif Badawi, arrestato nel 2012 con l’accusa di apostasia per aver “diffuso il liberalismo” in patria e di aver contestato alcune decisioni della magistratura locale perché “troppo ispirate alla sharia”. Nessuna menzione, poi, della procedura – assai poco consona al diritto internazionale che il funzionario saudita ha citato nel suo discorso in terra francese – che sarà seguita per dare attuazione alla sentenza: per diciannove settimane, ogni venerdì il condannato inginocchiato sarà frustato mentre la folla, davanti a lui, urlerà “Allah u akbar”. La schiena di Badawi ha già patito alcune razioni di frustate, tant’è che è difficile oggi dire quanto manchi all’espletamento della pena corporale. Per il resto c’è tempo, ancora sette anni prima che il blogger possa tornare a circolare libero. L’ultimo ad aver messo pubblicamente in evidenza la contraddizione dell’atteggiamento saudita era stato, qualche mese fa, il cancelliere austriaco Werner Faymann: “Non è possibile avere qui un centro che si ripromette di favorire il dialogo interreligioso quando, nello stesso tempo, chi è impegnato in quello stesso dialogo è in prigione. Un centro che rimane in silenzio quando si deve gridare in favore dei diritti umani non è degno di essere definito centro di dialogo”. Il centro in questione è quello intitolato al re Abdullah, con sede a Vienna, che s’era rifiutato di condannare la pena inflitta a Badawi. Al Omari, a ogni modo, ce l’aveva in particolare con il governo islandese, che solo qualche settimana fa ha approvato una legge che – a giudizio delle autorità saudite – di fatto legalizza la blasfemia. A Rejkyavik, d’ora in poi, si potrà dire ciò che si vuole riguardo qualsiasi culto senza rischiare di finire nei guai con l’autorità giudiziaria locale. Chi invece ha compiuto passi più concreti – e meno ambigui – sul fronte della tolleranza religiosa sono gli Emirati Arabi Uniti. Qualche giorno fa, il presidente Sheikh Khalifa bin Zayed al Nahyan aveva annunciato che era stato approvato un pacchetto di provvedimenti in conseguenza dei quali “è vietata la discriminazione sulla base di religione, casta, credo, dottrina, razza, colore, origine etnica”. L’aspetto più originale delle nuove leggi è relativa alla punizione prevista per chi bolla come “infedeli” gli altri. Secondo la sharia, infatti, l’infedele (takfir) o miscredente (kafir) può essere eliminato. “Secondo la legge islamica io non posso uccidere un cristiano o un ebreo, che vivono come protetti. Ma posso uccidere un pagano, un ateo”, ha spiegato l’islamologo Samir Khalil Samir, pro rettore del Pontificio istituto orientale di Roma, aggiungendo in un commento per il portale AsiaNews che “l’islam non dà mai la parità” e parlare in questo caso di anti discriminazione “significa che si dà parità, è superare un concetto totalitario”. Nella legislazione emiratina non mancano i punti oscuri – come il divieto per un musulmano di cambiare religione e la proibizione per i non musulmani di fare proselitismo – ma nel panorama degli stati del Golfo è una sorta di oasi di tolleranza, se si considera che in tutto il territorio nazionale sono presenti ventiquattro chiese aperte al culto. di Matteo Matzuzzi * (Il Foglio, 29 luglio 2015) Hamas proclama il prossimo venerdì 'giornata della collera' e incita alla violenza U na ''giornata di collera'' e' stata proclamata da Hamas per questo venerdi' in risposta agli incidenti verificatisi domenica all'ingresso della moschea al Aqsa fra attivisti palestinesi e reparti della polizia israeliana. Hamas ha incitato i palestinesi affinche' venerdi' affrontino le forze di sicurezza israeliane a Gerusalemme e in tutta la Cisgiordania, provocando scontri e azioni violente con lancio di pietre e bombe incendiarie. 14 AV 5775 G I O V E D I L U G L I O 30 Roma, in mostra Papa Wojtyla e l'ebraismo R oma ospiterà fino al 17 settembre la mostra internazionale “Una Benedizione Reciproca: papa Giovanni Paolo II e il Popolo Ebraico” che, giunta in Italia dopo il tour statunitense, si è aperta ieri in Vaticano negli spazi del Braccio di Carlo Magno, a dieci anni dalla scomparsa del Pontefice. L'esposizione ripercorre in quattro fasi, dalla giovinezza al pontificato, il rapporto tra Karol Wojtyla e il popolo ebraico. Inaugurata per la prima volta nel 2005 alla Xavier University di Cincinnati, la mostra ha girato gli Stati Uniti e ora, con un'esposizione di video, pannelli, fotografie e manufatti artistici, giunge a Roma (fino al 17 settembre con ingresso gratuito) in occasione del cinquantesimo anniversario della dichiarazione conciliare Nostra aetate. Il giovane Karol, nella natia Wadovice, stringe un’amicizia che durerà tutta la vita con Jerzy Kluger: Jerzy viene dalla numerosa Comunità Ebraica di Wadovice. Dal 1938 vediamo lo studente universitario Wojtyla a Cracovia affrontare gli anni bui della guerra tra studio e duro lavoro, non lontano dai suoi amici del Ghetto che conoscono gli orrori della Shoah. Nella terza parte viene raccontata la sua ascesa da Prete a Vescovo e Cardinale negli anni fiorenti del Concilio Vaticano II, che segna un drastico cambiamento nel rapporto tra Ebrei e Cristiani. Come Vescovo di Cracovia egli stringe solidi rapporti con la Co- La Spezia. Insulti su Facebook a ebrei: caccia al neonazista LUGLIO 2015 • AV 5775 U 7 na lunga teoria di insulti e calunnie, di attacchi antisemiti. Una sequela interminabile contro Anna Frank e il suo diario dai campi di concentramento nazisti. È un'indagine delicata e al contempo complessa quella avviata dalla polizia della Spezia nei confronti del gestore di una pagina Facebook, il popolare social network, segnalato per aver pubblicato appunto messaggi inneggianti al nazismo e contro l'intera comunità ebraica proprio nel Giorno della Memoria, lo scorso 27 gennaio. Gli accertamenti sono affidati agli specialisti della polizia postale, ma la prima segnalazione riguardante il sito web è giunta alla questura. Gli inquirenti hanno aperto quindi un fascicolo di inchiesta ipotizzando il reato di istigazione all'odio razziale. L'autore ha acceso un profilo Facebook utilizzando nome e cognome, ma l'identità risulta essere ovviamente falsa. Così come il luogo di residenza indicato, negli Stati Uniti d'America, è fasullo: le prime verifiche della Postale hanno consentito di appurare che chi ha scritto quei messaggi antisemiti, ha utilizzato un computer collegato alla rete nella zona della Spezia. Di più: si tratterebbe di persona già finita negli archivi delle forze dell'ordine, che in passato ha già avuto guai con la giustizia e che è stata coinvolta in altre indagini su organizzazioni razziste e neonaziste. L'indagine però è ancora lunga e sarà necessario contattare i gestori del social network per risalire all'indiziato. Nel frattempo però, la pagina incriminata è stata bloccata e non è più raggiungibile. (Il Secolo IXI.it) munità Ebraica. L’ultima sezione rievoca il periodo del Papato, della storica visita alla Sinagoga nel 1986 e del viaggio in Israele del 2000, quando depose nel Muro Occidentale del Tempio di Gerusalemme una preghiera di richiesta del perdono divino per il trattamento riservato nel passato agli Ebrei e per affermare l’impegno della Chiesa ad un percorso di fraterna continuità con il popolo dell’Alleanza. Il visitatore a questo punto è invitato a scrivere una preghiera da inserire in una riproduzione del muro (Kotel): le preghiere raccolte verranno portate al Muro Occidentale senza essere lette. Amnesty falsifica la realtà Israele accusa l'organizzazione che oggi ha presentato un dossier sulla guerra a Gaza A mnesty International "falsifica" la realta' nel suo rapporto sui combattimenti di un anno fa a Gaza. Lo afferma il ministero degli Esteri israeliano, secondo cui il rapporto e' lacunoso "nella metodologia, nella ricostruzione dei fatti, nelle analisi e nelle conclusioni". Amnesty, sostiene il ministero, "ancora una volta dimostra la propria ossessione verso Israele". Amnesty - secondo il ministero degli esteri israeliano - costruisce "una falsa narrativa" quando afferma che le operazioni a Rafah descritte nel rapporto fossero "una reazione diretta all'uccisione e al rapimento di un militare israeliano". Amnesty "sembra aver dimenticato" - prosegue il ministero - il conflitto che era allora ancora in corso, i continui lanci di razzi, la necessita' di neutralizzare tunnel di attacco scavati sotto alla linea di demarcazione fra Gaza ed Israele ed in particolare "le attivita' delle organizzazioni terroristiche palestinesi svolte entro ambienti civili". Intensi combattimenti a Rafah si ebbero - insiste il ministero - sia prima sia dopo gli eventi citati nel rapporto. Il ministero polemizza poi per la metodologia usata da Amnesty "che solleva seri dubbi sui suoi standard professionali". Altre polemiche riguardano l'attendibilita' di testimonianze oculari raccolte in zone sotto controllo di Hamas, e dunque possibilmente viziate. Il ministero sostiene infine che le indagini interne condotte dalle forze armate israeliane su quegli eventi sono state "serie ed efficaci" e lamenta che un rapporto sulla guerra a Gaza pubblicato da Israele alcuni mesi fa non sia stato preso nella dovuta considerazione da Amnesty. (ANSA). 15 AV 5775 VENERDI L U G L I O 31 Parashà Vaetchanàn Non desiderare la moglie del tuo prossimo LUGLIO 2015 • AV 5775 I 8 n questa parashà vi è la ripetizione delle ’Assèret Hadibberòt comunemente tradotte con il termine “I dieci comandamenti”. In effetti per quanto la parola dibberòt non abbia il significato di “comandamenti” ma piuttosto di “affermazioni”, queste dieci dibberòt sono delle mitzvòt ossia precetti o comandamenti. Il fatto che vengano ripetute in questa parashà dopo essere già scritte nella parashà di Yitrò non deve sorprendere perché il libro di Devarìm si chiama Deuteronomio, dalla parola greca che significa “ripetizione della legge”. Devarìm comprende le spiegazioni delle mitzvòt della Torà date da Moshè nel mese che precedette la sua morte. Nel testo dei Dieci Comandamenti che appare in questa parashà vi sono alcune differenze di linguaggio rispetto al testo nella parashà di Yitrò. Rav Shimshon Refael Hirsch nel suo commento alla Torà spiega che queste differenze dipendono dal fatto che Moshè voleva spiegare la Torà in modo che non restassero dubbi e ambiguità. Due di queste differenze appaiono nell’ultimo dei Comandamenti dove è scritto:”Non desiderare (lo tachmòd) la moglie del tuo prossimo e non desiderare (lo titavè) la casa del tuo prossimo, il suo campo, il suo schiavo, la sua schiava, è tutto quello che appartiene al tuo prossimo” (Devarìm, 5:18). Nella lingua ebraica esistono due espressioni diverse per esprimere “desiderio”. In questa parashà appaiono entrambe le espressioni e viene anche proibito desiderare il campo del prossimo, mentre nel testo dei Dieci Comandamenti nella parashà di Yitrò appare solo l’espressione “lo tachmòd” e non è menzionato il campo. Infatti in Yitrò è scritto: “Non desiderare (lo tachmòd) la casa del tuo prossimo, non desiderare la moglie del tuo prossimo e il suo schiavo e la sua schiava e il suo toro e il suo asino è tutto quello che appartiene al tuo prossimo” (Shemòt, 20:14). Il Maimonide nel Sèfer ha-Mitzvòt scrive che “lo tachmòd” ha un significato più forte di “lo titavè”. Mentre il primo termine proibisce di desiderare e di impossessarsi di una proprietà del prossimo anche se quest’ultimo non ha nessuna intenzione di cederla, il secondo termine ci proibisce perfino di desiderarla. Per trasgredire la proibizione di “lo tachmòd” è necessario non solo desiderare qualcosa che non ci appartiene ma anche aver compiuto un’azione per prenderne possesso. Il Maimonide definisce la proibizione di “lo tachmòd” nel modo seguente: “Se una persona desidera [...] qualcosa che appartiene al suo prossimo e lo preme incessantemente tramite degli amici o con altri mezzi fino a quando riesce a ottenerne il possesso, anche se ha pagato un prezzo elevato, ha trasgredito la proibizione di “lo tachmòd” (Mishnè Torà, Hilkhòt Ghezelà ve-Avedà, 1:9). Se ne ha preso possesso illegalmente ha trasgredito anche la proibizione di “Non rubare”. Riguardo al desiderare la moglie del prossimo, la proibizione di “lo tachmòd” viene trasgredita nel caso in cui una persona abbia fatto sì che il prossimo divorzi la moglie per poterla così sposare. La cosa non era del tutto rara in antichità. Infatti l’imperatore Augusto prese in moglie Livia dopo aver obbligato il marito Tiberio Claudio Nerone a darle il divorzio. Rav Shimshon Refael Hirsch nel commento al libro di Shemòt scrive che l’espressione aggiuntiva “lo titavè” che appare nel libro di Devarìm significa che non bisogna permettere che nulla di quello che appartiene al tuo prossimo venga desiderato. Mentre riguardo alla moglie del prossimo è usata l’espressione più forte “lo tachmòd”, quando si parla di tutte le altre cose che appartengono al prossimo viene usata l’espressione più debole “lo titavè” perché il desiderio di quello che appartiene al prossimo porta alla trasgressione di acquistarla anche contro la volontà del proprietario. Egli cita il Midràsh Mekhiltà dove è scritto: “Se ha desiderato, alla fine desidera e ne prende possesso” (im hitavà sofò lachmòd). Rav Hirsch aggiunge che il Creatore ci porterà a giudizio non solo per gli atti di trasgressione ma anche per aver desiderato di impossessarsi di una proprietà proibita. Il desiderare le cose degli altri è alla base di tutti i peccati. Egli aggiunge che la pace a la sicurezza nella società non possono essere assicurati da giudici e polizia; solo una legge che dipende dalla giustizia divina e che viene interiorizzata dagli uomini può proteggere la società dai crimini. Il motivo per cui l’espressione “lo titavè”, che comprende tutte le proibizioni di tipo sociale, appare proprio nel libro di Devarìm prima dell’entrata nella Terra Promessa e non nel libro di Shemòt, è che ora i figli d’Israele stavano per uscire dal controllo centralizzato e si sarebbero separati, ognuno nel suo territorio. Senza più essere sotto l’occhio attento di Moshè, ogni persona doveva rimanere sotto la supervisione della propria coscienza. E dal momento che ora gli israeliti sarebbero diventati proprietari terrieri, la Torà aggiunge il campo alla liste delle cose che è proibito desiderare. DONATO GROSSER Stampa che riproduce un quadro di Simone Cantarini nella Galleria Reale di Dresda, raffigurante Giuseppe e la moglie di Potifar. Collezione Grosser