CAP. 7-Pubblicità - Ufficio Studi MiBAC

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CAP. 7-Pubblicità - Ufficio Studi MiBAC
CAPITOLO 7
Branding, Comunicazione e Pubblicità
Cittadellarte
“Italia in Persona-La missione culturale del prodotto italiano”
presentazione del progetto alla Fiera Internazionale del Libro di Torino, 2004
Foto: M. Scattaro
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Il pregresso dell’esperienza italiana in materia di comunicazione e pubblicità
Quando si pensa alla “creatività” italiana in materia di comunicazione chi ha un po’ di
memoria circa la lunga condivisa stagione della storia repubblicana sorride, si compiace di
una battuta che ha riguardato l’educazione di milioni di bambini e ragazzini (“dopo
Carosello tutti a letto!”) e, appunto, alza la bandiera del maggior fattore di alleanza tra
televisione, consumi e nuovi pubblici della vicenda italiana contemporanea: Carosello!
Un breve programma televisivo trasmesso quotidianamente dal primo canale della Rai
dalle 20.50 alle 21.00 dal 3 febbraio 1957 al 31 dicembre 1976. Praticamente vent’anni. Il
legame del pubblico con quel programma era viscerale. Ebbe solo due sospensioni: in
occasione dell'assassinio di John Fitzgerald Kennedy e la sera della strage di Piazza
Fontana a Milano.
Carosello era spettacolo – lo spettacolo che mescolava il cinema della commedia
all’italiana, i cartoni animati, l’anteprima di quella che poi sarebbe stata la fiction televisiva,
insieme al non sense, ai giochi di gioventù, al nuovo lessico (matusa&capelloni) –
separato dalla pubblicità (che al tempo si chiamava “il codino”) così da lanciare due
messaggi forti e contrastanti: da un lato l’attrazione di un grande pubblico, dall’altro limiti al
puro uso della tv come fattore di accelerazione dei consumi.
Era questa infatti anche l’anomalia di quel fenomeno. Un paese che esprimeva una cultura
politica prudente in materia di centralità dell’impresa nella vita pubblica (tanto che la parola
“impresa” è estranea al lessico costituzionale) e prudente soprattutto nel non trasformare
un veicolo di formazione (anzi di “pedagogia”), come la televisione del monopolio, con una
forza crescente e già robusta almeno come la scuola, in un veicolo troppo caratterizzato
dalla funzione di ampliamento del mercato. Ma nel merito del “processo comunicativo”,
quella vicenda fu il laboratorio di un’industria culturale (quella della comunicazione) che
attorno a quello spazio sostenuto da risorse extra-televisive e quindi con investimenti per il
tempo importanti scaricati sui soggetti produttivi e, alla fine, anche sui consumatori, ebbe
la possibilità di compiere sperimentazioni di linguaggio, di tecniche e di “cultura identitaria”
grazie ad un formidabile processore che aveva il carattere sintetico e abbastanza fulmineo
dello “short”. Innumerevoli i nomi dei talenti del cinema, del teatro, della musica, della
fotografia, dell’animazione, insieme a letterati, poeti, illustratori, coreografi e altri “creativi”
che non hanno disdegnato questa forma di sostegno professionale che non premiava,
come è oggi, il testimonal perché già famoso ma lasciava anzi nell’anonimato il grosso dei
“creativi” perché all’epoca il mondo degli intellettuali si dichiarava contro la televisione ma
non voleva rinunciare ad un comodo integratore finanziario.
Carosello era cominciato nell’Italia appena uscita dalla ricostruzione post-bellica, al
momento dell’avvio sul mercato della motorizzazione di massa (anche se la pubblicità
delle auto era tra quelle vietate in tv) e sarebbe terminato – per lasciare alla pubblicità la
possibilità di spalmarsi tra i programmi e poi di “marcare” i programmi e alla fine anche di
“produrre” i programmi – dopo gli anni della crisi energetica e quindi in piena fase di
ristrutturazione strutturale dell’economia, che assumeva caratteri più globali e si
distaccava dal modello produttivo e consumistico di “casa nostra”.
Gianluigi Falabrino è tra i più noti storici della pubblicità in Italia. Inquadriamo in questa
premessa la sua opinione su questo tema: qual è il più riconosciuto e riconoscibile profilo
"italiano" che caratterizza nella sua vicenda storica il profilo creativo della pubblicità e della
comunicazione?
“Non credo che vi sia un unico profilo italiano nella comunicazione d’impresa, ma che ve
ne siano (o ve ne siano stati) tre diversi filoni, generalmente non comunicanti fra loro o
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addirittura considerati antitetici Il primo è dato dall’impostazione grafica della pubblicità,
che va dalla “rivoluzione” di Campografico (1933) e, attraverso Erberto Carboni,
Castiglioni, Huber e altri, arriva fino agli anni 70, e ha i suoi “regni” in tre grandi aziende:
RAI, Olivetti e Pirelli. L’Olivetti e la Pirelli, insieme all’Italsider, si sono caratterizzate anche
per una visione culturale dell’industria: da qui il mecenatismo artistico, soprattutto della
prima, l’elevata qualità culturale delle riviste delle tre società (non comparabili con le
normali riviste “di prestigio”) e il contributo che tutte hanno dato all’idea dell’arte
“industriale”. Il terzo filone comunicativo, certamente il più diffuso, ha visto gran parte della
pubblicità marketing oriented modellata sullo schema di Carosello, anche dopo la sua fine
(1976): a parere di molti studiosi oltre che di tanti creativi, Carosello non è stato soltanto
una formula che ha rinverdito la Commedia dell’Arte con la comicità degli “spettacolini” e
che con i cartoni animati ha ricreato le favole (Calimero come “Il brutto anatroccolo”), ma
ha abituato alla pubblicità di racconto o di serie: così, nell’ultimo decennio, si sono viste le
serie della ragazzina al telefono (Mi ami, ma quanto mi ami?), della fucilazione nella
Legione Straniera (ripreso recentemente e con meno spirito), delle tre ragazze che fanno
in barca il periplo dell’Italia e che poi vanno alla ricerca dell’Isola che non c’è, e tantissime
altre”.
Naturalmente la pubblicità non nasce in Italia nel secondo dopoguerra, ma ha la sua
prima forte espansione (dopo le origini limitate dalla modeste superfici mediatiche
nell’ottocento) nel primo dopoguerra, con illustratori e creativi di chiara fama (tra cui
Leonetto Cappiello, Leopoldo Metlicovitz e Marcello Dudovich, con i quali diventa una vera
e propria forma d’arte) e poi ha accelerazioni connesse alla gestione del fascismo dei
media e della propaganda (su cui andrebbe naturalmente ampliata fortemente l’indagine).
Forme di pubblicità sono rintracciabili comunque in tutta la storia italiana e ci consentono
di rintracciare condizioni pressoché moderne di uso della comunicazione nella stessa vita
degli antichi romani, come dimostrano tracce archeologiche a Pompei.
Parallela alla vicenda della pubblicità maturano nel rapporto tra sistema di impresa e
società culture comunicative che utilizzano una serie di altre superfici e di modalità per
promuovere le identità aziendali e il loro ruolo prima di tutto nel rapporto tra territorio e
vocazioni di sviluppo, poi tra cultura dell’innovazione e prospettive professionali per i
lavoratori qualificati e le classi dirigenti. Nello stesso periodo compreso tra gli anni
cinquanta e gli anni settanta sul fronte dell’impresa privata sarà l’Olivetti (azienda fino alle
soglie degli anni ottanta in testa alle aspirazioni di lavoro per i laureati italiani) a costruire –
tra Ivrea sede storica dell’azienda e Milano sede delle attività commerciali e comunicative
– modelli comunicativi attraversati dal rapporto con l’arte, la cultura, l’editoria, il design.
Mentre sul fronte pubblico sarà Roma la città di riferimento delle esperienze dei maggiori
gruppi a partecipazione statale in cui, nel campo comunicativo, IRI si segnala per la
stagione di Civiltà delle macchine, diretta da Leonardo Sinisgalli (con derivate nella cultura
comunicative di tutte le sue finanziarie) e ENI si segnala per la forza applicativa di un suo
originale logo (di origine pittorica) e per la tenuta della sua visual identity con applicazioni
internazionali che si identificano con la stessa identità nazionale. Nell’ambito dell’IRI
Alitalia creerà una delle prime e più significative esperienze di applicazione coordinata
della comunicazione, territorio su cui tutte le maggiori aziende italiane utilizzano i
potenziali creativi che si sono stabilizzati attorno alla particolare esperienza del mondo
pubblicitario. Ma anche la grafica applicata ai processi aziendali, ai media, all’editoria –
con scuole e centri di esperienza caratterizzati a Milano – fa segnare storie che oggi
occupano i musei del design e una stagione di maestri che non hanno avuto pari, per
filigrana intellettuale, in altri contesti anche più forti industrialmente. Torino – capitale
indiscussa del car design – ha nella FIAT un forte centro di comunicazione per il traino di
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un prodotto essenziale sul mercato interno di quegli anni e ha – nelle forme soprattutto
dell’immagine e nel presidio esercitato da Cinefiat – un’esperienza comunicativamente
impareggiabile. A metà degli anni settanta le aziende pubbliche e le maggiori aziende
private italiane partecipano alla sperimentazione di “Firma Italia” che porta in mostra in
alcuni musei di paesi interessati alla cooperazione industriale con l’Italia (dall’Iran al
Brasile) gli originali creativi realizzati da grandi pittori, scultori, grafici, registi e artisti in
generale italiani a esclusivo favore della comunicazione aziendale. Una potenza
realizzativa che evidenzia un carattere di questi processi davvero poco sperimentato da
paesi anche a più robusta economia.
Questa premessa segnala solo (nell’impossibilità di esaurire qui una storia che pure
andrebbe scritta in forma organica, toccando tutte le superfici di applicazione del sistema
della comunicazione) che – anche se i corsi di laurea in scienze della comunicazione
vengono introdotti in Italia con decenni di ritardo rispetto alla realtà americana, ma anche
alla realtà francese, sviluppando poi tuttavia una offerta formativa fortunata e ancora di
successo – i laboratori creativi del settore avevano modalità di sperimentazione con
sponde importanti nell’industria (poco e tardi arriveranno nel settore le banche) e con
sponde professionali che hanno attraversato le facoltà di architettura, il sistema editoriale,
il cinema e la tv, costruendo una modellistica, una semiotica e un’economia che possono
essere considerate “con specificità italiana”.
Quando le istituzioni vorranno, solo a metà degli anni ottanta, cominciare la loro storia
comunicativa (dal branding pubblico, che aveva un forte carattere simbolico storico e che è
stato sviluppato in generale rispettando le tradizioni, alla comunicazione di servizio, alle
forme di modernizzazione della segnaletica, fino a vere e proprie campagne di pubblica
utilità) dovranno attingere a questo pregresso travasando idee, persone, format.
Oggi sistema di impresa, sistema istituzionale e sistema dei soggetti sociali
costituiscono un’area di circa cento profili professionali accertati, con un perimetro
occupazionale (diretto e consulenziale) che supera le 300 mila unità, ancora in fase di
moderato assorbimento di risorse e comunque in evoluzione sia per effetto combinato
dell’allargamento disciplinare dell’area del marketing sia, soprattutto, per incidenza
dell’evoluzione tecnologica e di continue nuove superfici di operatività.
Nel 2003 è stata resa nota una stima degli occupati (a cura dell’Istituto Civicom (Rolando,
2003)) nel mercato professionale della comunicazione (con esclusione quindi del settore
giornalistico ed editoriale) con un totale di 260.000 addetti a diverso titolo contrattualizzati,
rispetto a cui il dato tendenziale dei 300 mila occupati costituisce una prevedibile
estensione a tutto il 2007. Essa era articolata nelle seguenti voci:
Media relation: 16.000 (di cui 6.000 nella sfera pubblica, 6.000 nelle imprese e 4.000
nell’area della consulenza)
Comunicazione e pubblicità: 92.000 (di cui 2.000 nella sfera pubblica, 40.000 nelle
imprese e 50.000 nell’area della consulenza)
Web, reti e sportelli (con esclusione dei call center): 86.000 (di cui 41.000 nella sfera
pubblica, 20.000 nelle imprese e 25.000 nell’area della consulenza)
P.R. ed eventi (convegnistica compresa): 38.000 (di cui 5.000 nella sfera pubblica,
18.000 nelle imprese e 15.000 nell’area della consulenza)
Altri settori (tra cui la comunicazione interna): 28.000 (di cui 3.000 nella sfera pubblica,
7.000 nelle imprese e 18.000 nell’area della consulenza).
Stime che dunque determinavano le seguenti aree di occupazione: 57.000 nella sfera
pubblica, 91.000 nelle imprese, 112.000 nella consulenza.
Questi dati forniscono dunque una cornice occupazionale più articolata del solo dato
previsto dalle voci della statistica ufficiale del settore, che stanno nella tabella che questo
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Rapporto riferisce a proposito della sola voce “Pubblicità” con l’indicazione di 64.900
addetti.
Nel testo seguente si farà cenno al profilo attuale e di tendenza del settore.
La tradizione accennata mantiene alcuni percorsi professionali, alcune scuole (alcune
anche di carattere privato esprimono un’elevata soglia di qualità e di credibilità, anche
internazionale), alcuni modelli di riferimento che hanno tuttora senso nell’ambito della
creatività italiana applicata ai profili comunicativi. Anche se il contesto dei soggetti
produttivi è profondamente mutato, così come sono mutate le agenzie di consulenza, lo
scenario e i supporti della pubblicità, in un quadro più globalizzato e più caratterizzato da
un ruolo meno pregnante della grande impresa. Il consolidarsi del Web 2.0. rivoluziona
ormai le logiche stesse dalla domanda e dell’offerta pubblicitaria e comunicativa e
l’advertising on line è uscito da ogni sperimentazione determinando nuovi paradigmi nella
creatività pubblicitaria ormai assecondati da un mutato profilo degli investimenti.
Soggetti pubblici, politici e sociali sono entrati nel campo della comunicazione,
l’accelerazione del marketing territoriale ha creato sviluppi comunicativi in capo a rapporti
sinergici tra istituzioni locali e associazioni o consorzi economici e di categoria. Il successo
di Milano e dell’Italia con l’assegnazione il 31 marzo 2008 dell’Expo 2015 ha dimostrato il
peso che i fattori comunicativi e relazionali (integrati in un complesso quadro di interventi
progettuali) assumono oggi sul terreno della competizione internazionale legando sia
logiche di promozione esterna che logiche di partecipazione e consenso dei sistemi
amministrati.
Lo scenario dei consumi fa poi segnare mutamenti profondi di stili, scelte, predominanza
di prodotti rispetto a quelli di una volta. Cambiamenti che rendono l’analisi sulle attuali
condizioni di sviluppo non paragonabile agli anni che qui – per sintesi espositiva –
abbiamo chiamato “di Carosello”.
Il Rapporto sarà dunque centrato sull’ultimo decennio di sviluppo, pur con la giusta
memoria di un passato prossimo in cui si parlava poco di “economia della creatività”, ma
molto di “creatività dell’economia”.
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Creatività e comunicazione in Italia oggi
Nel solco di alcune continuità
L’epoca di Carosello, come si è detto, è finita da tempo, eppure che si occupa di
pubblicità e in particolare di creatività pubblicitaria continua, dopo 30 anni a riferirsi a quel
particolare tipo di modello.
Per i più si tratta di un’esperienza unica, inimitabile, che ha consentito, come si è detto,
l’importazione di un modello di consumi in un paese, come l’Italia, che si affacciava
appena alla moderna società dei consumi. Quando negli USA le grandi imprese
sponsorizzavano le soap opera, in Italia Miralanza lanciava il famoso concorso legato alla
raccolta delle figurine. Quando i grandi creativi come Bernbach e Ogilvy (1983, 1985)
erano giunti a teorizzare sulla loro attività e a scriverne, in Italia c’erano Caballero e
Carmencita. E ci sono ancora. Ne è passata di acqua sotto i ponti eppure nel 2005
Lavazza, una delle più importanti imprese italiane e anche una delle maggiori investitrici in
pubblicità, ha pensato bene di rispolverare una delle icone della creatività nostrana con
un’operazione definita di retromarketing. E così a Carmencita è stato dedicato in sito
Internet (www.carmencita.it), in cui il noto personaggio dispensa consigli di cuore ai
visitatori, ma Carmencita è anche stata protagonista di una sitcom trasmessa nel preserale
di Italia1 (la trasmissione però non ha riscosso grande successo) ed è attualmente
un’inviata virtuale per la versione on-line del quotidiano La Stampa dove cura una rubrica
di lettere.
Lavazza non è l’unica azienda che ha imboccato la via del retromarketing; che dire del
ritorno di Calimero come testimonial del detersivo Ava (che nel frattempo non è più
dell’italiana Mira Lanza, perché quest’ultima è diventata parte del gruppo Benckiser) anche
lui protagonista di tanti Caroselli assieme all’Olandesina? O ancora come non cogliere il
riferimento ai Caroselli di Calindri nel recente spot del Cynar che ha come protagonisti
“Elio e le Storie tese” che consumano il prodotto attorno ad un tavolino in mezzo al
traffico? La rivisitazione è in chiave ironica, in sintonia con il target a cui ci si vuole
rivolgere, ma la citazione è certamente riconoscibile.
Certo, anche il Tigrotto del cereali Frosties è un personaggio che esiste da tempo, come
pure il Gigante Verde e il Bibendum della Michelin, ma si tratta di personaggi che fanno
parte della mondo della marca, sono i brand characters della visual identity dell’impresa e
come tali sono rimasti costanti e coerenti nel tempo (se pure con qualche necessario
restyling come il noto e recente dimagrimento dell’omino Michelin1).
Non si tratta quindi di un ritorno al passato, ma di una necessaria coerenza del sistema
comunicativo di un’impresa. Perché allora, ci si chiede, riutilizzare, dopo tutti questi anni,
delle icone del passato e, soprattutto, delle icone legate al Carosello? La risposta la si può
trovare forse nelle stesse parole di coloro che, all’interno dei un agenzia di pubblicità, sono
responsabili della creatività (AA.VV, 2003), questi lamentano la difficoltà da parte del
sistema pubblicitario italiano di tagliare definitivamente il cordone ombelicale con il passato
e in particolare con Carosello, che è riconosciuto come un momento di straordinario
esempio di creatività italiana (non a caso al fenomeno sono state dedicate, in anni
relativamente recenti, delle mostre come “Carosello 1957-1977”. Non è vero che fa tutto
brodo”2), ma anche come un limite allo sviluppo di nuove forme di sperimentazione
(Codeluppi, 2000).
1
La notizie è del febbraio del 2007.
La mostra promossa da RAI, Sacis e Sipra con la collaborazione di Agip, Ferrero e Lavazza è stata inaugurata per la
prima volta a Milano il 5 dicembre del '96 e si è conclusa il 23 ottobre '97 a Torino dopo le tappe di Napoli e Roma
(http://www.sipra.it/eventi/carosello/mostra.html).
2
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Il motivo per cui in Italia si ricorre più frequentemente ad una semplice comicità che ad una
sofisticata ironia? Carosello, che ha abituato il pubblico televisivo alle scenette da cabaret
e alle risate un po’ grasse. La causa della sovrabbondanza dei buoni sentimenti?
Carosello che ha celebrato la logica della famiglia felice e ha dato una rappresentazione
edulcorata della realtà. E che dire dell’utilizzo di personaggi famosi come testimonial
pubblicitari? Ancora Carosello, che ospitava i primi personaggi che affermavano la loro
notorietà attraverso la televisione.
Certo ci sono state delle debite eccezioni anche in passato e le parole di Mauro Ferraresi,
docente di Tecniche Pubblicitarie, lo confermano, pur partendo da – e citando, ancora una
volta – Carosello.
Quando nel gennaio del 1976 va in onda l'ultimo Carosello gli ascolti parlavano di circa 19
milioni di italiani sintonizzati, di cui quasi 9 milioni erano bambini. Finisce un'epoca e
finisce, contemporaneamente, la via italiana alla creatività pubblicitaria. Carosello era
ingenuo, Carosello era burocratico, Carosello era ingessato, ma nel contempo si era fatto
molto amare e aveva creato una sua via. Il prodotto era un lontano "di cui", la creatività si
centrava su una vicenda, una storiella che doveva accalappiare l'interessa. Quando si
cominciava a parlare del prodotto (il cosiddetto "codino" che durava pochi secondi ed era
posto alla fine della scenetta o sketch che invece poteva durare tranquillamente più di un
minuto, la comunicazione diventava, piana, esplicativa, diretta, certamente non
pubblicitaria. Era informazione pura e semplice.
All'estero ridevano di noi, dicevano che non è così che si fa pubblicità. Quando siamo
diventati pubblicitariamente adulti abbiamo dovuto ammettere che la scuola italiana di
Carosello non funzionava più e che non c'era una nuova scuola. Ed è cosi anche oggi.
Con alcune importanti eccezioni.
La prima eccezione ha il nome e il cognome di Armando Testa, che è stato il massimo
pubblicitario italiano in epoca di Carosello, e che sopravvive ancor oggi nella omonima
agenzia torinese gestita dal figlio e che ne ha raccolto l'eredità. Lo stile creativo di Testa
era artistico prima ancora che grafico. Per lui il discorso pubblicitario doveva esplicitarsi in
un'opera quasi artistica (l'ippopotamo di Linus, gli abitanti di Papalla, Caballero e
Carmencita). Era vitale per Testa trasformare l'idea creativa in un personaggio, o in una
forma artistica. Dargli corpo. Così come avviene certamente per l'agenzia omonima,
responsabile oggi di quelle creative operazioni che sono le pubblicità di Esselunga, con gli
ortaggi, la frutta, e in generale i prodotti di Esselunga che diventano personaggi, strambi,
onirici, creati direttamente dalla immaginazione grafica dei creativi. Un pane diventa la
faccia di Tutankamen, un ravanello il pittore Raffaello Sanzio, un aglio la strega di
Aglioween, e così via.
Un'altra importante eccezione è certamente costituta Da Emanuele Pirella che ha
indubbiamente avuto uno stile bernbachiano e ricco di understatement. E' riuscito cioè a
coniugare una tipicità anglosassone dentro il novero della cultura creativa italiana. Anche
Pirella non disdegna l'elemento artistico nella pubblicità.
Infine un'ultima menzione va data a Gavino Sanna, ora felicemente in pensione nella sua
Sardegna (ma si è di nuovo messo nell'agone pubblicitario nel 2006 per la Federfarma)
che all'epoca del suo lavoro in Joung & Rubicam ha costruito uno stile ancora una volta
basato sulla bozzettistica.
In sostanza, si può dire che la via italiana alla creatività pubblicitaria è ancora quella
tracciata anni fa da Testa. Il nostro pubblicitario non è un creativo che ha come materia
prima i concetti o i giochi di parole, non usa molto l'ironia e tanto meno il sarcasmo, non si
diverte a spaventare o a scandalizzare (a parte la notevole eccezione di Benetton e del
fotografo Oliviero Toscani) ma è un creativo che ha per materia prima cose, oggetti, e che
costruisce con competenza grafica e artistica nuovi oggetti, nuove forme, nuovi materiali.
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Attuali esperienze creative
Su queste basi si è costruita e profilata la creatività italiana oggi nel settore della
comunicazione.
Può essere illuminante dare uno sguardo ai risultati di una ricerca promossa dall’Art
Directors Club italiano presso i manager delle principali aziende che investono in pubblicità
in Italia (ADCI, 2004) proprio allo scopo di verificare la soddisfazione dei clienti nei
confronti della creatività pubblicitaria, a fronte di un’insoddisfazione serpeggiante anche
negli stessi ambienti delle agenzie.
Uno degli indicatori che viene da sempre citato come esempio di “non compiuta
adeguatezza” della creatività italiana è la scarsità di riconoscimenti che le campagne
nostrane hanno nei contesti internazionali (tipicamente il Festival della Pubblicità a
Cannes). Chi non ricorda il successo di qualche anno fa della campagna Fiat
“Buonaseraaaaa”, che meritò un bronzo a Cannes, e nel 2002 l’oro vinto dallo spot della
Peugeot 206 “Sculptor” (creatività di Marco Mignani3) in cui si faceva uno straordinario uso
dell’ironia? Sono eccezioni a una regola che vede vincitori gli spot di Nike e Budweiser e,
nel 2007, uno spot creato per il web, e quindi liberamente scaricabile, si tratta di Evolution
che appartiene alla campagna Real Beauty promossa da Dove, brand Unilever (Lombardi,
2007).
Dai risultati della ricerca emerge che i manager, pur apprezzando in maggioranza il trend
creativo italiano, riconoscono nel 39,2% dei casi la creatività italiana peggiore di quella dei
paesi avanzati e le motivazioni sono in ordine di importanza: la scarsa propensione a
osare nuove strade/linguaggi, la scarsa apertura e la tendenza al provincialismo,
l’eccessiva dipendenza dalle richieste del cliente, la poca preparazione e sensibilità
culturale.
Le critiche sono comprensibili se si pensa al ricorso ad un “format culturale provinciale”,
come quello usato per alcune delle campagne più viste negli ultimi anni: si pensi al
Paradiso Lavazza che utilizza come testimonial la coppia Paolo Bonolis e Luca Laurenti e
alla campagna Tim con Christian De Sica. Si tratta in entrambi i casi si campagne seriali,
che propongono una storia a puntate di cui lo spettatore può riconoscere la linea narrativa.
Entrambe utilizzano la comicità, immediata, un po’ “cinematografica” (a copione), piuttosto
che l’ironia, l’allusione, più difficili da comprendere e che richiedono maggiore
elaborazione. Entrambe fanno ricorso a testimonial che sono parte del vissuto degli italiani
e che ripropongono quella comicità che per semplificare si indicherà come “centrata sul
ridere delle sventure altrui” che ha come riferimento immediato le disavventure (appunto
cinematografiche) del Rag. Fantozzi. Nulla di nuovo quindi rispetto al modello di Carosello.
Uno dei punti fondamentali che emergono dalla ricerca riguarda l’abitudine, ormai diffusa,
dei manager italiani ad utilizzare lo strumento delle gare sulla creatività per la scelta
dell’agenzia (51,3% degli intervistati dichiara di farne uso) che però non sembra incidere
sul grado di soddisfazione nei confronti del risultato ottenuto (solo il 25% si dichiara molto
soddisfatto e la percentuale non aumenta fra i coloro che ricorrono alle gare). I creativi dal
canto loro si dichiarano contrari a questa prassi che non aiuta il loro lavoro costringendoli a
produrre molti progetti per vederne realizzati pochi o nessuno e, al tempo stesso, non
aiuta le Agenzie che si vedono costrette a togliere risorse ai clienti già acquisiti per
3
Mentre questo capitolo è in scrittura giunge la notizia della scomparsa di questo brillante pubblicitario a cui va un
pensiero di chi scrive, con la memoria allo stile pacato e alla visione sociale della sua professione che ha con coerenza
manifestato in tanti anni di successi.
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investirle nelle gare e, alla lunga, non è positiva neppure per le aziende. La gestione di
una gara, infatti, costa tempo e risorse all’impresa e una volta scelta l’agenzia, questa si
troverà automaticamente a concorrere ad altre gare per conquistare nuovi clienti e non
dedicherà appieno le proprie risorse al cliente già acquisito.
Al tema della scelta dell’agenzia si collega anche quello della remunerazione: finito
orma il tempo del famoso 15% di ristorno (ovvero l’agenzia veniva remunerata dalle
concessionarie ricevendo il 15% del costo per la gestione dell'investimento, percentuale
che si applica sul prezzo al netto di tutti gli sconti di quantità o promozionali) che
attualmente regola meno del 9% dei rapporti (Makno, 2005). Complessivamente, Mario
Abis - Presidente della Makno & Consulting e docente di “Sondaggi e ricerche
sull’opinione pubblica” - sottolinea che:
La remunerazione è ancorata alle specificità del progetto ed all’arco temporale di
riferimento, e non risulta necessariamente correlata all’entità del budget.
Questo si traduce in una progressiva diminuzione del pagamento per la creatività che per i
maggior investitori è passato dal 6,9% del budget del 2003 al 5,6% nel 2005 (Makno,
2005).
Tornando ai dati della ricerca dell’Art Director Club, il clima che emerge non è euforico, ma
di diffusa insoddisfazione che deriva principalmente dalla scarsa rispondenza della figura e
del ruolo del creativo a quello proposto da uno stereotipo comune che lo individua come
una persona innovativa, alla ricerca di nuove soluzioni, indisciplinata.
Secondo i manager intervistati le competenze attribuite ai creativi si concentrano sulle
funzioni più legate alla generazione di idee che non agli ambiti strategici, organizzativi o
produttivi.
A questo proposito si è chiesto ad Annamaria Testa, docente, copy writer e consulente di
comunicazione, di illustrare quali sono i presupposti per considerare "creativo" un
professionista, un operatore nel campo della comunicazione. Ecco la sua risposta.
Comunicazione e creatività sono legate da un legame doppio: l’una non si dà senza l’altra.
1.
Non c’è creatività senza comunicazione. La creatività si esprime sempre nel gesto
di un individuo che interagisce in un contesto storico-sociale e all’interno di una comunità.
Comunicare efficacemente è una meta-competenza, preliminare al successo di qualsiasi
attività creativa o sfida innovativa, in ogni campo: artistico, scientifico, tecnologico…
2.
Il gesto creativo si configura anche come un atto di comunicazione, nel momento
stesso in cui si esprime – in un’opera d’arte, in una teoria scientifica, in un’invenzione, in
un’impresa - e viene compreso.
3.
L’atto di comunicazione si configura anche come gesto creativo: il linguaggio è in
sé creativo e generativo (possibilità di dar luogo a infinite frasi e discorsi, che si esprimono
in infiniti contesti, a partire da un numero assai limitato di segni o suoni).
A partire da questa premessa, può sembrare un paradosso il fatto che per gestire
creativamente la comunicazione siano necessarie figure professionali dedicate. Non lo è,
oggi, perché la complessità dei pubblici e la molteplicità delle attività necessarie a
comunicare, dei media, dei linguaggi propri di ciascun medium, richiede competenze
tecniche specifiche per essere gestita in modo finalizzato al raggiungimento di un obiettivo.
Gestire professionalmente la creatività nella comunicazione vuol dire saper progettare
processi e realizzare prodotti di comunicazione per conto di un committente, tenendo
conto dei suoi obiettivi, dei suoi vincoli, delle sue risorse, del suo pubblico. Se serve,
aiutando il committente a metterli a fuoco.
•
Creatività professionale: un professionista può essere ritenuto creativo quando i
processi e i prodotti che realizza raggiungono efficacemente l’obiettivo e presentano dei
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•
•
•
gradi di innovazione nella forma o nel processo. I contenuti appartengono al committente.
Un professionista che sostituisce la propria visione a quella del committente magari riesce
a promuovere se stesso, ma non fa bene il suo lavoro.
Ambiti: costruzione e presidio dell’identità e dell’immagine della marca (se il
committente è un’azienda), dell’immagine (se è una persona fisica). Planning strategico.
Comunicazione pubblicitaria. Supporto redazionale, ufficio stampa. Comunicazione interna
ed esterna. Promozioni e sponsorizzazioni. Packaging. Operazioni di marketing sul
territorio (viral, guerrilla…), e così via.
Specializzazioni: per necessità e tradizione le professionalità della comunicazione
sono a loro volta segmentate e specializzate per competenze: un genio del packaging può
trovarsi a disagio con il planning strategico, e viceversa.
Talenti: per svolgere il suo lavoro, oltre ad avere eccellenti competenze linguistiche,
l’attitudine a tradurre analisi dettagliate in sintesi brillanti, buona cultura di base, capacità di
ascoltare, interpretare, negoziare, una sufficiente esperienza del mondo e una dose di
pragmatismo, ciascun professionista deve: saper gestire la complessità. Ragionare per
obiettivi e secondo i pubblici e i contesti. Saper integrare creativamente, senza travisarli,
contenuti dati in forme nuove ed efficaci che siano attraenti, comprensibili, memorabili,
convincenti. Saper progettare comunicazione adatta a essere veicolata da mass media e
new media, tenendo conto dei linguaggi propri di ciascun medium. Tutto questo
rispettando i tempi e senza sforare i budget a disposizione. Facile, no?
Il creativo ideale quindi deve essere una persona con un solida preparazione che lascia
poco spazio all’idea un po’ romantica dello spirito innovativo e artistico, generatore di idee
che emerge invece dalla ricerca condotta nel 2004 da Eurisko4 sulla percezione che gli
italiani hanno della creatività. In particolare, secondo i giovani universitari appartenenti al
campione, la creatività fa parte degli atteggiamenti degli individui ed è sinonimo di
impulsività, emotività e fantasia. Essere creativi vuol dire avere “un atteggiamento
trasgressivo”, “uscire dagli schemi”. La creatività trova il suo habitat naturale nell'arte
(letteratura, pittura, teatro, cinema, musica), perché solo in questo contesto le qualità
creative innate possono esprimersi. D’altro canto, la scienza non può essere creativa, dato
che per applicarla sono necessarie regole, rigore e fatica.
Dalla stessa ricerca emerge, inoltre, che l’Italia è, per più della metà degli italiani, il paese
della creatività, ma lo è nei settori dell’arte applicata come moda e cucina, mentre appare
poco o per niente creativa nelle aree determinanti per lo sviluppo del paese (finanza,
economia, stampa, università, politica, insegnamento, marketing, tecnologia, letteratura,
industria e ricerca scientifica).
Media e creatività
Eppure, se si dà uno sguardo al panorama pubblicitario contemporaneo si trovano non
poche espressioni che possono essere considerate creative. Certo spesso si tratta di
forme di creatività che si esprimono meglio attraverso i nuovi media che con i mezzi
classici. Si pensi agli spot interattivi di cui il consumatore può decidere la fine, ai lunghi
filmati che Pirelli ha creato per i suoi pneumatici e che si possono vedere solo on line. O,
ancora, alle attività di comunicazione integrata on-line e off-line svolte da Kinder per uno
dei suoi prodotti di punta: l’ovetto.
4
. La ricerca è divisa in due fasi, una qualitativa e una estensiva realizzata, con il metodo CAPI, su un campione di mille
casi rappresentativi della popolazione italiana dai 18 ai 64 anni.
185
Le parole di Alberto Abruzzese, docente di Sociologia della Comunicazione, e tra i
maggiori animatori del dibattito intellettuale in Italia su questi temi, illustrano come i new
media abbiano modificato il rapporto tra creatività e comunicazione.
Il modo corrente di rispondere alla domanda su come stia cambiando la creatività con
l’avvento dei new media è quello di enfatizzare il carattere trasversale – multimediale e
interattivo – delle loro piattaforme tecnologiche senza per questo uscire dalla mentalità dei
paradigmi della comunicazione unidirezionale.
A quel contesto mentale – tipicamente progressista e continuista – appartengono tuttavia
anche le numerose dichiarazioni sulle nuove potenzialità comunicative che nascerebbero
da una creatività prodotta dal basso invece che dall’alto o dal centro; così come le
rivendicazioni di un maggior grado di personalizzazione, da un lato, e di solidarietà
collettiva, dall’altro lato. Vero. Ma sono tutte qualità perfettamente compatibili – nel quadro
di una tradizione democratica e occidentale – con le trasformazioni e anche opposizioni
dialettiche contemplate dai modelli di sviluppo della società moderna, dai suoi poteri,
soggetti e saperi.
Se, invece di riferirci ai perfezionamenti delle strategie comunicative tradizionali e allo
sviluppo delle pratiche di creatività inscritte in queste strategie, ci spingiamo a
circoscrivere nell’area dei new media prevalentemente o esclusivamente le forme di
comunicazione basate sul web (oggi rilanciate in modo particolare dal web 2.0), il modello
di sviluppo dei media storici della società di massa sembra spinto al suo limite massimo,
sulla soglia della disintegrazione.
La creatività vive qui una duplice possibile rigenerazione o meglio due passaggi
dall’incerto esito. Il primo passaggio: abita il consumo separandosi in modo sempre più
deciso e decisivo dalle forme di creatività dei media tradizionali ovvero dalla creatività
inscritta nei loro modi di produzione, distribuzione e consumo. Il secondo passaggio:
franano i paradigmi fondati sulla opposizione tra alto e basso, centro e periferia e dunque
svaniscono progressivamente le dicotomie che ad essi risalgono: tra mente e corpo,
sapere e passioni, persona e moltitudine.
Se la modernità ci ha convinti di una creatività fondata sul talento o sul genio o
sull’eccellenza o sullo sviluppo, gli orizzonti aperti dai new media rivelano invece forme di
creatività che riguardano situazioni e processi, zone di instabilità invece che stabilità,
sconfinamenti di campo invece che mappature, dinamiche di de-civilizzazione invece che
di civilizzazione, zone opache invece che trasparenti, senso del tragico e del comico al
posto della commedia e del romanzo, ibridazioni della carne invece che controllo dei corpi,
corrosione delle etiche, estetiche e politiche dell’appartenenza e dell’identità, culto
dell’abitare ma non di spazi geopolitici, culto del fare e dell’avere ma non dell’essere
amministrati.
I new media possono diventare una creatività né trasmessa, né insegnata né comunicata
ma vissuta. Come dire in qualche modo una creatività evenemenziale, fluttuante,
situazionale, orale, esperienziale, psicosomatica.
Se, in qualche modo, i new media facilitano l’avvento di una forma di creatività più fluida,
essi rendono anche possibile l’accesso dei non specialisti al mondo della pubblicità. Un
buon esempio è rappresentato da quanto è accaduto durante l’edizione del 2007 del
Super Bowl (la finale del campionato di football americano che raccoglie una delle
audience maggiori della programmazione statunitense e i cui spazi pubblicitari sono fra più
costosi). In quest’occasione, la marca di patatine Doritos ha trasmesso uno spot
interamente realizzato dai consumatori (che erano stati invitati dall’azienda attraverso il
web a partecipare ad un concorso): “Doritos ha mostrato sul palcoscenico del Super Bowl
la semplicità, l’antiretorica, la tecnica spontanea da “garage” a costo zero, di un video con
186
il linguaggio parodistico, assurdo, minimalista, diretto sul prodotto, senza pudori, tipico del
mondo virale che si vive su YouTube” (Lombardi, 2007. p. 18). In un’ottica di web 2.0 e di
empowerment del consumatore (Mortara, 2007) il confine tra creatore e fruitore della
pubblicità si è praticamente dissolto.
Tendenze della comunicazione di impresa
La comunicazione d’impresa, ovvero l’insieme di tutti i flussi comunicativi emessi nei
confronti dei diversi stakeholder siano essi interni che esterni, non può prescindere dal
concetto di integrazione; la comunicazione integrata infatti (Collesei, Ravà, 2004) fa
riferimento alla capacità dell’azienda di coordinare tutti gli strumenti di comunicazionedalla pubblicità, alle relazioni pubbliche, dalla visual identity (gestione coordinata di logo,
marchio e lettering) al sito internet, dalle sponsorizzazioni alle promozioni – che devono
essere orchestrati (Fabris, 2003) per contribuire a creare un’immagine unica e distintiva
dell’azienda che si imprima in maniera indelebile nella mente dei diversi interlocutori. Sia
che si parli di comunicazione corporate, che si colloca al vertice del sistema di
comunicazione integrata, che di comunicazione istituzionale maggiormente legata alla
divulgazione dei valori propri e distintivi dell’impresa, che ancora di comunicazione di
brand o di prodotto particolarmente rivolta al consumatore finale, gli strumenti a tutt’oggi
maggiormente utilizzati sono la pubblicità e le relazione pubbliche. Il primo che, come si è
più volte sottolineato, è ancora quello più efficace per “stabilire nella mente del
consumatore una identità distintiva e memorizzabile per il prodotto o per l’impresa”
(Collesei, Ravà, 2003, p. 104) e il secondo il cui ruolo negli ultimi anni ha subito una
decisiva evoluzione. Le relazioni pubbliche, infatti, nell’ottica di una gestione integrata della
corporate communication hanno assunto un ruolo fondamentale di coordinamento e
controllo. Come sottolineano le parole di Adriana Mavellia, presidente del sistema di
imprese delle aziende del settore di Assolombarda:
l'apporto della comunicazione d'impresa e delle relazioni pubbliche all'economia della
creatività è duplice sia nel senso che tali discipline possono agire nella comunicazione
istituzionale quanto in quella di marketing, sia perché danno vita ad una industria della
consulenza oltre che a specifici comparti aziendali.
In particolare la industry della comunicazione eroga professionalmente consulenza e
servizi attraverso agenzie, gruppi di comunicazione integrata, studi professionali,
consulenti singoli che agiscono attraverso figure professionali e addetti fortemente
orientati alla creatività o per provenienza scolastica o per percorso formativo ad hoc o
per attitudine e capacità personali.
Ciò porta facilmente ad intuire come la catena formativa implichi derivate nella scuola ed
Università connesse (lauree specialistiche, Master, corsi professionali, ecc.).
Il secondo elemento creativo agente all'interno dei Gruppi di comunicazione e nelle
strutture imprenditoriali minori è la creazione di strategie d'impresa, veri e propri progetti
creativi ideati per risolvere problemi di comunicazione esterna ed interna delle aziende
clienti. Qui la derivata indotta è data a sua volta dalla catena dei fornitori di creatività
specialistica che agiscono spesso come portatori di conferme di fattibilità dei progetti
stessi. Anche dal lato degli utilizzatori della comunicazione (imprese pubbliche e
private) vi è apporto all'economia della creatività, seppur in percentuale minore, attraverso
alcuni profili di addetti aziendali impiegati nelle Direzioni della Comunicazione. Quando
poi le strategie ed i progetti vengono messi in atto dalle imprese si snoda spesso una
lunga collana della creatività classica (design, prodotti cartacei, video, allestimenti,
scenografie,oggettistica) e di creatività innovativa (web, guerrilla).
187
Da non sottovalutare infine, anche se più difficile da quantificare, il contributo creativo
che i Comunicatori d'Impresa danno alle Direzioni Aziendali per la creazione di prodotti e
servizi come risposta delle imprese all'ascolto dei bisogni della società e del mercato
Naturalmente la collocazione del settore nel quadro della creatività applicata alle
dinamiche relazionali delle imprese è ben circoscritta nel concetto di “competenza
comunicativa” (Morelli, 2003) descrivendo “l’insieme delle abilità linguistiche ed
extralinguistiche , queste ultime di tipo sociale e di tipo semiologica,consolidando in esse
tutto ciò che è indispensabile ad una comunicazione efficace ed efficiente”.
Tendenze della comunicazione pubblica
La pubblicità però non è solo quella legata alla promozione della notorietà della marca.
Esiste, come è noto, anche il ben strutturato settore della comunicazione così detta
pubblica (Rolando, 2003) o di pubblica utilità (Rolando, 2004) o, ancora, comunicazione
non profit, che comprende “l’insieme di attività di comunicazione, messe in atto da un
soggetto pubblico o privato, volte a promuovere finalità non lucrative” (Gadotti, 2001, p.
16). In quest’ambito rientrano le strutture della Pubblica Amministrazione, gli enti
parastatali, le grandi istituzioni, i partiti politici, il sistema associativo e i soggetti della
rappresentanza e le organizzazioni non profit.
A fianco di questi soggetti si trovano però anche aziende pubbliche o private, che operano
quindi all’interno del mercato, con iniziative non profit. Si pensi alle attività di sostegno
delle cause sociali intraprese dalle aziende anche tramite le attività di cause related
marketing (Dash/Abio, Pomellato/WWF, Svelto/Comunità Sant’Egidio e Opera San
Francesco, solo per citarne alcune), ma anche all’attività di sensibilizzazione nei confronti
di tematiche di pubblica utilità (ad esempio l’impegno di Heineken contro la guida in stato
di ebbrezza).
Gli obiettivi della comunicazione sociale – individuabili prevalentemente nella
comunicazione della propria identità, nell’aumento del livello di notorietà, nelle attività di
fundraising e nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica in merito a temi e problemi di
carattere sociale (valori/diritti) – si raggiungono con l’utilizzo degli strumenti tipici della
comunicazione commerciale, con gli stessi media e, spesso, anche servendosi delle
stesse agenzie di pubblicità.
Per comprendere le specificità della comunicazione pubblica – che ha avuto negli anni
novanta un quadro di riferimenti normativi per radicarsi (dalla legge 241 del 1990 alla
legge 150 del 2000, senza dimenticare la costituzione degli uffici per le relazioni con il
pubblico attraverso il decorato legislativo 29 del 1993) – è stato chiesto a Roberto Grandi,
docente di Comunicazione Pubblica a Bologna, come definirebbe oggi i profili di
"creatività" in Italia nel settore della comunicazione sociale, politica e istituzionale.
I tre settori che nel loro insieme rappresentano la comunicazione pubblica si diversificano
anche in relazione ai profili di “creatività”.
Per quanto riguarda la comunicazione sociale una dose rilevante di “creatività” all’interno
del suo processo comunicativo viene ritenuta un forte elemento di valorizzazione. In
questo settore la creatività fa riferimento alle fasi di ideazione, realizzazione e veicolazione
dei vari testi. La committenza “sociale” permette di innovare, anche fortemente, i contenuti,
i modi di esprimerli e i media utilizzati, quindi la comunicazione di marketing e le relazioni
pubbliche, con particolare attenzione ai rapporti con i media e alla costruzione di eventi.
La comunicazione dell’istituzione pubblica avendo obiettivi molto vari – dall’informazione di
servizio all’informazione di cittadinanza - e facendo riferimento a istituzioni tra loro molto
differenti – per dimensioni, mission, strutture - attua modalità di comunicazione creative un
188
po’ a macchia di leopardo. In particolare si tratta di profili creativi che hanno a che fare con
la costruzione di campagne, la creazione di eventi e, anche, di modalità di democrazia
partecipativa attraverso innovazioni nelle comunicazioni che portano a processi inclusivi.
Modalità comunicative creative sono meno applicate in riferimento alla comunicazione
interna.
La comunicazione politica è un po’ prigioniera, in Italia, del clima di campagna permanente
in cui viviamo già da alcuni anni. Si tratta, quindi, di una comunicazione politica che si
configura come campagna elettorale che pone vari limiti ai profili creativi: gli obiettivi a
breve termine, la concentrazione in periodi brevi e intensi che non sedimentano, i vincoli
posti dalle norme specifiche.
Non esiste quindi una sostanziale differenza tra chi si occupa di creatività per il pubblico e
chi invece lo fa per il settore privato. Le differenze se mai si possono rilevare negli
investimenti.
Gli investimenti
Una recente ricerca effettuata da Eurisko (Vita, 2008) rileva che le organizzazioni non
profit italiane derivano i loro finanziamenti principalmente da privati (63,5%), che le
campagne sociali hanno avuto nel 2007 un incremento del 17% rispetto al 2006 e che, in
particolare, sono state effettuate 169 campagne con un investimento complessivo pari a
89.436.000 euro (23.293.000 euro in più dell'anno precedente). La crescita degli
investimenti lordi conferma il trend positivo già iniziato tra il 2005 e il 2006, che aveva
mostrato un incremento percentuale pari all’11,1%. Le informazioni sono confermate dai
dati riportati dall’Osservatorio sul marketing sociale (realizzato da Sodalitas in
collaborazione con Nielsen Media Research) che misura gli investimenti delle imprese
italiane in marketing sociale, e documenta le campagne di CRM realizzate in Italia. La
tabella 1 mostra l’incremento che si è avuto nel 2007 per gli investimenti nelle campagne
di CRM.
Tabella 1 – Investimenti in campagne di Cause Related Marketing
Gennaio/Settembre
2006
2.286
66.143
Gennaio/Settembre
2007
6.334
89.436
Differenza 07/06
169
+17%
Totale annunci
Investimento
lordo
(migliaia di )
Totale campagne
145
Fonte: elaborazione personale su dati Sodalitas- NMR.
+177%
+35%
I dati raccolti dall’Osservatorio mettono in luce (Tabelle 2), inoltre, come ci sia stato un
generale incremento di tutti i mezzi utilizzati con particolare rilevanza della stampa (9 punti
percentuali i periodici e 6 i quotidiani).
Tabella 2 - Media utilizzati per la comunicazione sociale
Televisione
Quotidiani
Periodici
Gennaio-Settembre 2006
1,5%
60%
28,7%
Gennaio-Settembre 2007
1,7%
66%
37,7%
189
Radio
0,8%
Affissioni e internet
Fonte: elaborazione personale su dati Sodalitas- NMR.
3,1%
0,5%
Confrontando questi dati con quelli riportati nel Primo Rapporto Sociale in Italia (OCCS,
2005) si può notare come ci sia stato un incremento costante degli investimenti in
pubblicità sociale che al 2003 erano pari a 327.040.000,00 euro. Sempre al 2003 la quota
maggiore di investimenti era legata alle campagne sociali gratuite (soprattutto su tv, radio
e stampa) che rappresentavano quasi il 50% del totale, mentre poco più del 40% era
rappresentato da campagne di natura ministeriale. Il rimanente riguardava campagne
prodotte da soggetti privati.
Ci si rende conto delle differenze di dimensione se si confrontano queste cifre con quelle
riportate nella tabella 3 relative agli investimenti pubblicitari complessivi.
Ciò nonostante è proprio nelle campagne sociali che si soprattutto nel recente passato, è
stato possibile individuare un tentativo di creatività fuori dalla traduzione italiana. Si pensi
alle campagne realizzate da Oliviero Toscani per la Benetton (anche se non si trattava di
pubblicità sociale in senso canonico), sicuramente non tradizionali e non conformiste, ma
anche alle prime campagna di sensibilizzazione realizzate da Pubblicità Progresso nella
seconda metà degli anni ’70 (“Chi fuma avvelena anche te. Digli di smettere”, “C’è bisogno
di sangue. Ora lo sai”) che utilizzavano una modalità enunciativa estremamente forte e
diretta, ben lontana dall’edulcorata realtà proposta dagli spot commerciali.
Tabella 3 - Gli investimenti pubblicitari in Italia (in milioni di )
QUOTIDIANI
PERIODICI E MAGAZINES
PERIODICI PROFESSIONALI
TOTALE STAMPA
TELEVISIONE
ESTERNA
RADIO
CINEMA
TOTALE INVESTIMENTI MEZZI
CLASSICI
PROMOZIONI
DIRECT RESPONSE
RELAZIONI PUBBLICHE
SPONSORIZZAZIONI
INTERNET
TOTALE AREA ALLARGATA
Fonte: elaborazione personale su dati UPA
2005
1.625
1.226
170
3.021
4.916
750
555
75
9.317
2006
1.662
1.280
170
3.112
4.999
777
567
68
9.523
2007
1.770
1.313
300
3.383
5.081
807
601
68
9.940
3.620
2.271
1.842
1.369
131
18.550
3.751
2.314
1.927
1.409
194
19.118
4.217
2.372
2.014
1.446
550
20.539
Dalla tabella emerge ancora la netta predominanza degli investimenti in
comunicazione televisiva e questo nonostante la dichiarata obsolescenza dei mezzi
classici, che non consento l’interazione con il pubblico e che sono meno flessibili e
incapaci di adattare codici e modelli alle mutate esigenze del target (UPA, 2007). Lo
scenario predittivo che emerge dal Futuro della Pubblicità mette in evidenza il differenziale
che si riscontrerà fra il tasso di crescita dell’economia e quello degli investimenti destinati
ai mezzi classici, a testimonianza della loro crescente inefficacia alla profilazione
dell’audience.
190
Di contro si può notare l’incremento notevole degli investimenti nel canale Internet che
testimonia la presa di coscienza degli utenti della volontà dello spettatore di avere un ruolo
attivo anche nell’ambito della comunicazione, con il superamento della fruizione passiva.
Internet, come si è detto, ha permesso la partecipazione alla ‘produzione’
dell’informazione, grazie alla fruizione dei nuovi media interattivi e alla presenza di format
partecipativi (come i blog e i forum).
Sempre i dati forniti dall’UPA consentono si valutare quanto sia, in percentuale, l’incidenza
degli investimenti sul PIL (si vedano le tabelle 4 e 5).
Tabella 4 - Tassi di crescita e indicatori macro economici
TASSI DI CRESCITA REALI
MEZZI CLASSICI (compresi costi di
produzione
INIZIATIVE DI COMUNICAZIONE
INTERNET
PIL
Fonte: elaborazione personale su dati UPA
2005
2006
2007
%
0,6
%
-0,1
%.
-0,3
2008
(stima)
%
0,4
0,9
16,5
0,1
0,8
44,8
1,9
1,1
32,4
2,0
1,3
27,8
1,6
La diminuzione dell’incidenza sul PIL dei mezzi classici che si è riscontrata negli ultimi
anni rafforza l’ipotesi, ancora una volta, del disinvestimento in particolare nella televisione
a fronte di investimenti in altri mezzi e in forme di comunicazione non convenzionali (che
sono cresciute del 3,1% ).
Tabella 5 - Investimenti pubblicitari in rapporto al PIL
TOTALE MEZZI CLASSICI/PIL
TOTALE AREA CLASSICA/PIL
Totale generale/PIL
Fonte: elaborazione personale su dati UPA
2005
2006
2007
0,68
0,73
1,27
0,66
0,72
1,26
0,65
0,71
1,24
2008
(stima)
0,64
0,70
1,24
Le previsioni per il 2008 confermano la ripresa degli investimenti nelle discipline dell’area
allargata e delle forme non convenzionali che si stimano in un +3,2%. Cresceranno anche
gli investimenti sul web (+30,2%) aiutati anche dalla diffusione della banda larga e
dall’aumento delle possibilità di connessioni wireless che favoriranno anche iniziative di
marketing specifico.
Creatività e identità competitiva
Un discorso a parte va fatto per l’area della comunicazione che riguarda maggiormente
il tema dell’identità: la sua costruzione e il suo mantenimento. Gli investimenti in questa
forma di comunicazione non sono ovviamente così facilmente rilevabile, ma ciò
nondimeno sono sempre di più le aziende, le istituzioni e i soggetti di rilievo pubblico e
sociale che perseguono con più attenzione il presidio alla loro identità visuale, come
pre-condizione di qualunque operatività comunicativa che cioè determina strategie di
sviluppo di una pre-condizione relazionale contenuta nella corporate communication. La
contaminazione tra comunicazione e marketing è quindi all’origine di un vasto quadro
191
applicativo di tecniche, prodotti e servizi – sia nell’area commerciale che di servizio –
connessi alla sfera della promozionalità.
Questo ambito – in cui agiscono, alla ricerca di sintesi, profili professionali e disciplinari
differenziati – ha in Italia tradizione e un discreto sviluppo, definendosi il valore aggiunto
creativo proprio nella necessità di raccordare ricerca sociale e identitaria, cultura storica
della tradizione (istituzionale e di radicamento), cultura del design e del processo di
comunicazione integrata, valutazione (nell’utenza e tra gli interlocutori esterni) della
reputazione. I soggetti che dispongono di questo genere di presidio (come lo hanno avuto
grandi aziende e come cominciano ad averlo anche alcune moderne istituzioni, tra cui le
maggiori città consapevoli del ruolo rivestito oggi dal branding pubblico) creano in questo
ambito un vero snodo di regia e di controllo delle attività comunicative e pubblicitarie,
costantemente ricondotto alla valorizzazione (ma anche alla correzione e al
riorientamento) del patrimonio simbolico acquisito.
Come osserva – con riferimento agli sviluppi attuali del presidio – Daniele Comboni,
docente di Comunicazione e operatore professionale nel campo della corporate identity.
Benché il sistema contabile adottato in Italia non permetta di patrimonializzare il brand così
come quello anglosassone (una sorta di “magazzino” in cui sia deposto un bene e dove
questo bene sia l’espressione di un patrimonio intangibile), finalmente anche da noi i temi
legati a branding e identità iniziano a costituire un segmento ben definito della
comunicazione, con una sua dignità, un sistema professionale sottostante, una sua
riconosciuta merceologia.
Dietro all’identità visiva (come viene solitamente chiamata con vocabolo italiano) si cela un
mondo di valori, di riconoscimento simbolico, di appartenenze, di identificazione che in
realtà è vecchio quanto il mondo (basti pensare al valore della bandiera fin dal passato).
Ma è un mondo che, in quanto segmento di comunicazione, si è iniziato a riconoscere
tardi, soprattutto da parte del sistema pubblico. Il settore turistico ad esempio, con la
tematica del “marchio d’area” ha iniziato a scoprire il valor del brand ( e ultimamente
spesso ad abusarne) e forse col turismo è iniziato un processo di assegnazione di identità
attraverso un marchio anche a “prodotti” atipici nei quali il detentore del brand non è un
privato, e neanche una Amministrazione pubblica nel senso letterale, ma una comunità di
stakeholders, che in quell’area esercitano la propria funzione, pubblica e/o privata (dai
residenti alle imprese, dagli esercenti alle amministrazioni).
Dietro al brand si inizia finalmente a profilare un sistema, fatto da un lato di formazione
(attraverso la definizione di profili professionali e formativi sottostanti) e di costruzione di
comunicazione (attraverso il recepimento del branding in tutti i Piani di comunicazione,
privati e pubblici e l’assegnazione al branding di righe di budget e di risorse umane);
all’altro di “racconto di sé” (pensiamo ancora una volta alle bandiere e alla loro
trasposizione simbolica, ma anche storica, nei marchi identitari, ad esempio, di un
territorio); e finalmente di “identità competitiva”, secondo la felice definizione di Simon
Anholt che ne fa il caposaldo della cosiddetta “public diplomacy”, ovvero del sistema
competitivo pubblico tra nazioni, regioni e città, in cui il valore percepito del brand (e della
sua dimensione di sogno ovvero tensione a recarsi in quel paese, quella regione, quella
città) è chiave di volta della dimensione competitiva che conferisce competitività alo
territorio.
192
Proposte e raccomandazioni
Sono qui annotate alcune proposte che incidono sulle dinamiche creative nel settore
della comunicazione e della pubblicità, non quindi tali da abbracciare questioni aperte dal
punto di vista strutturale al dibattito generale sulla normazione e sul negoziato di interessi.
Leggi, codici di autodisciplina, innovazioni tecnologiche costituiscono ambiti di più ampia
attuale discussione di un settore che, comunque, tendenzialmente ha sempre espresso
una certa autoreferenzialità nella gestione dei propri problemi, con poca dipendenza da
forme di intervento economico pubblico (con una curva leggermente ascendente nell’area
dello spending in comunicazione pubblica).
Libertà culturale
La condizione generale di libertà culturale del paese è cornice essenziale per garantire
processi creativi nella dinamica della qualità sociale. Abbiamo chiesto a Francesco
Morace, sociologo, di fare una riflessione sul tema della “creatività sulla creatività”, ovvero
su come si comunica oggi la creatività italiana connessa al made in Italy:
L’originalità e la creatività non stanno nei contenuti, bensì nelle strategie, nei modi, nei
procedimenti per destrutturate, decostruire, scardinare la tradizione filosofica e culturale
dell’Occidente. La creatività nella vita materiale è resa possibile anche da questa maggiore
soglia di libertà che nel quotidiano si esprime attraverso percorsi individuali non prestabiliti,
che sono spesso anche ricreatici, cioè legati al gioco e al divertimento.
La ri-creazione introduce al concetto di ripetizione che nel genius loci italiano gioca un
ruolo fondamentale, e che rende compatibile artigianato e industria, creatività artistica e
logica seriale. In questa prospettiva è la categoria dell’uso a prevalere, dei piaceri ripetuti e
irripetibili della vita quotidiana, del caffè o del vino, del bottone o del filo, della finitura e del
materiale, che hanno appunto una valenza profondamente ri-creativa.
L’incidenza della comunicazione e soprattutto della pubblicità nella vita dei cittadini
(declinati altresì come consumatori, come utenti, come elettori) apre il vasto capitolo delle
problematiche di autodisciplina delle categorie professionali del settore e delle
problematiche di trasparenza della soglia etica dei comportamenti degli operatori, degli
investors e delle superfici mediatiche che è materia in ordine a cui le regole e i parametri
hanno il compito di fornire la massima informazione ai soggetti implicati così da
determinare soglie di responsabilità nel sistema professionalmente coinvolto e negli stessi
utenti. La tutela dei minori e dei soggetti più deboli – in una visione che i soggetti creativi
devono vivere e condividere – continua ad essere ambito di impegno istituzionale in ordine
a cui è segno di civiltà collocare una costante responsabilizzazione sia delle autorità di
governo che soprattutto del sistema legislativo e parlamentare da cui dipendono profili di
garanzia e controllo
Fare sistema. La relazione pubblico-privato. Regolare il negoziato su norme e regole
Da sempre il settore della comunicazione ha una debole interazione con il quadro
istituzionale. Competenza cioè considerata storicamente propria del “mercato” e regolata
da normative tecniche specifiche ma meno da “politiche pubbliche”.
In realtà, l’assunzione di responsabilità da parte di Stato e istituzioni come soggetti
comunicanti o come soggetti interagenti (il settore del branding pubblico e del marketing
territoriale sono due evidenti ambiti applicativi di questo orientamento sinergico) ha aperto
da anni una “contaminazione” culturale e professionale tra ambiti istituzionali e culture
professionali della comunicazione. Un baricentro istituzionale è ancora oggi immaginabile
nel ruolo coordinante della Presidenza del Consiglio dei Ministri – da intendersi anche
come luogo di verifica sull’attuazione di normative interessanti per il settore – ma in stretto
rapporto con altri segmenti che approfondiscono il ruolo del comparto a favore
193
dell’economia, della cultura e degli affari sociali della comunità nazionale (un esempio è
quello del Consiglio Nazionale per il design da poco radicato presso il Ministero per i Beni
e le Attività Culturali, ma altre connessioni sono evidentemente da rintracciare presso
Ministeri – o competenze ministeriali – di carattere economico come quello del Turismo,
dello Sviluppo, del Commercio estero, oltre a quello citato dei Beni Culturali e altri ancora).
Dunque una raccomandazione investe l’opportunità di immaginare uno strumento più
strutturato e di relazione tra competenze istituzionali e comparti creativi della
comunicazione. In tale raccordo tre specifiche istituzioni andranno adeguatamente
coinvolte sollecitando il loro profilo attenzionale a sviluppare iniziativa in questo campo. Si
tratta del Consiglio superiore delle Comunicazioni, presso l’omonimo Ministero (soprattutto
per il raccordo con i nuovi processi tecnologici della comunicazione) e le due Autorità
garanti per le Comunicazioni e per i dati personali (privacy).
Fare sistema. La rappresentazione dello sviluppo del settore.
Il carattere frammentato delle organizzazioni professionali di settore potrebbe essere
sollecitato ad una iniziativa di rappresentazione del rapporto evolutivo di questi comparti
rispetto ai caratteri di un’area di costruzione del valore aggiunto che come si è visto ha una
sua non marginale quota nel perimetro complessivo di ciò che è qui definito come
comparto creativo.
Product placement
Con l’entrata in vigore della “Legge Urbani sul Cinema” (DLS 28/2004), che include un
capitolo riservato al product placement, si è aperta per le aziende la possibilità di inserirsi
e di inserire i loro prodotti all'interno delle pellicole cinematografiche di produzione italiana
(come è noto il fenomeno del product placement trova da sempre ampio riscontro
all’estero, soprattutto nelle produzioni statunitensi, mentre in Italia era stato bandito dal
decreto legislativo 74 del 1992 che lo equiparava alla pubblicità occulta (Mortara, 2005).
Dal 2004 ad oggi non sembra che questa opportunità sia stata colta in maniera adeguata
dalle aziende italiane: sono ancora relativamente pochi, infatti, i casi di produzioni
cinematografiche nostrane che hanno beneficiato degli investimenti in questo strumento
(le eccezioni sono rappresentate da film come Natale a Miami, o Il mio miglior nemico
2005 in cui numerose aziende hanno inserito i loro marchi e i loro prodotti). Il grande limite
del Decreto Urbani, però, è quello di non aver legittimato l’inserimento di brand e prodotti
all’interno delle produzioni televisive (quasi “dimenticandosi” che, nella logica della long
tail, i film approdano comunque all’interno mura domestiche, prima grazie al mercato
dell’home video, poi attraverso i canali satellitari e, infine, attraverso le reti televisive
tradizionali). In questo senso l’Italia (e l’Europa) è rimasta indietro rispetto a quanto
avviene nel resto del mondo (si pensi che il mercato mondiale del product placement in tv
è cresciuto del 46% nel 2004, raggiungendo un volume di 1,8 miliardi di dollari e
superando quello nel cinema). È solo nel dicembre del 2005 che la Commissione Europea
approva uno schema di aggiornamento per la direttiva sulla "Tv senza frontiere" del 1989,
che tiene conto dei progressi fatti in questi anni sui linguaggi e sulle tecnologie televisive.
In questo schema, il posizionamento dei prodotti sarebbe autorizzato insieme con altre
nuove forme di pubblicità, come quella virtuale o interattiva, con l'obbligo però di informare
preventivamente i telespettatori. Il passo successivo viene fatto nel maggio del 2007
quando viene siglato l’accordo tra Commissione e Parlamento Europeo sulla direttiva che
rinnova le norme sulla televisione che, ammorbidendo le regole sulla pubblicità, consente
l’introduzione di prodotti sponsorizzati negli show televisivi e accantona il divieto di inserire
product placement nei set televisivi. L’attuazione è prevista per il 2009 (Martino, 2007), ma
in Italia se ne è parlato pochissimo, questo perché se questo nuovo strumento rappresenta
un’opportunità per le imprese è visto però come una minaccia dalle agenzie di pubblicità
194
che prevedono un’ulteriore frammentazione del budget di comunicazione a discapito
dell’advertising classico.
Diritto d’autore
Il tema del diritto d’autore è di sicura rilevanza nell’ambito delle raccomandazioni che qui si
sono delineate. Il diritto d’autore, infatti, si applica alle «opere dell’ingegno di carattere
creativo che appartengono alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura,
al teatro e alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione» (art.
2575 c.c. e l’art. 1 l. 22.4.1941, n. 633). È evidente che un primo problema si pone nella
definizione di opera dell’ingegno che è definita “come quella creazione intellettuale che
assume una forma esteriore rappresentabile, caratteristica questa che ha un’importanza
cruciale nella de-terminazione dell’oggetto della protezione, appartenente in senso lato alle
categorie fenomenologiche del mondo della cultura” (Lazzareschi, 2007, p. 207). Tra le
categorie soggette a protezione rientrano le opere letterarie (che utilizzano la parola per
esprimersi sia per iscritto che oralmente), le opere e le composizioni musicali (opere
liriche, sinfoniche, musica leggera, canzoni popolari, opere composte di sola musica o di
solo testo), le opere coreografiche e pantomimiche (quelle che utilizzano il corpo come
mezzo di espressione; è necessario però che esista traccia scritta o comunque fissata su
un supporto audio o video). La protezione si estende anche ai prodotti della scultura, della
pittura, dell’arte del disegno, della incisione e delle arti figurative similari, compresa la
scenografia e, nell’ambito architettonico anche gli edifici, gli arredamenti, i giardini sono
stati inclusi, assieme ai disegni, fra le opere da tutelare; ovviamente sono considerate
opere dell’ingegno anche i film e le fotografie. Fra le opere dell’ingegno non si fa
riferimento diretto alla creatività pubblicitaria, anche se la materia è disciplinata, sul piano
generale, dalle norme degli artt. 2222 segg. c.c. e dalla legge 22 aprile 1941, n. 633 e
successive modificazioni apportate dalla L. 18 agosto 2000 n. 248 («nuove norme di tutela
del diritto d’autore» G.U. 206 del 4/9/2000) (Ubertazzi, Ubertazzi, 2003).
Inoltre, con riferimento agli articoli 13 e 44 del Codice di Autodisciplina della
Comunicazione Commerciale chi intende tutelare una futura campagna di comunicazione,
può depositarne gli elementi essenziali (con una sintetica ma significativa descrizione,
eventualmente anche visiva, dell'idea che si intende proteggere).
Dato che il diritto d’autore non tutela l’idea in sé, né le informazioni contenute nell’opera e
neppure il contenuto, ma la forma con cui questi elementi vengono utilizzati, applicare il
diritto d’autore al settore della comunicazione e del branding vuol dire da un lato chiedersi
in che modo siano tutelate le idee creative che sottostanno, ad esempio, ad una
campagna pubblicitaria dall’altro quanto ci si possa ispirare ad un’opera d’arte o quanto so
possa “citare” un film, un quadro o anche una precedente campagna pubblicitaria.
Rapporto con l’Università e la formazione
Come si accennato i corsi di laurea in scienze della comunicazione (e percorsi affini, quali
relazioni pubbliche e pubblicità) hanno avuto radicamento universitario all’inizio degli anni
novanta, dopo decenni in cui le professioni fino allora prevalenti del sistema – quella dei
giornalisti e quella dei pubblicitari – si facevano spesso vanto di non avere una laurea
universitaria ma di concepire la validazione professionale “a bottega”, ovvero
nell’esperienza dei luoghi di esercizio della professione. Il contesto professionale (oggi i
profili professionali disegnati compiutamente nel mercato del lavoro della comunicazione
sono oltre cento), l’incidenza delle nuove tecnologie, la costruzione di un ambito di
riferimento disciplinare di tipo mediologico che comincia ad affrancarsi dall’insieme delle
discipline “genitoriali” (la sociologia, l’economia, la filosofia tra le prime), la straordinaria
crescita del rilievo dell’economia immateriale (Rullani, 2004) attorno a questo quadro di
funzioni e professioni, l’interdipendenza essenziale che si è andata costruendo tra molti
195
settori e quello della comunicazione (la moda, il design, lo sport, lo spettacolo, l’arte, il
patrimonio culturale, il turismo, eccetera), insomma un vasto numero di fattori pongono
l’alta formazione (universitaria e prost-universitaria) nella condizione di reagire
efficacemente alle ironie di chi ancora qualche anno fa criticava la crescita di questo
ambito disciplinare vagheggiando il bisogno di “ingegneri” contro il rischio di sviluppo di
professioni “effimere”. Approccio che in realtà doveva essere inteso come stimolo a
qualificare sempre di più l’offerta formativa nel settore, non dando spazio a offerte deboli e
riciclate ma sostenendo invece ambiti di solida competenza e di capacità dimostrata nella
ricerca e nell’innovazione legate alla didattica. Dunque la raccomandazione che questo
punto sottolinea riguarda proprio l’importanza della connessione con una realtà della
formazione in cui il fattore qualitativo (e le necessarie valutazioni) sia al centro di alleanze
tra istituzioni, imprese e sistemi professionali per mantenere sia vigilanza della cultura
sugli sviluppi professionali, sia vigilanza dei mercati competitivi sul trattamento
accademico. Le competenti istituzioni (educazione, lavoro, cultura e soprattutto università
e ricerca) hanno qui compiti di vigilanza commisurati con il rilievo di raccordo che questo
ambito di offerta formativa esprime nei confronti dell’intero campo della creatività con al
centro un filo rosso certamente rappresentato dalle scienze della comunicazione, dagli
studi sul design, dalle scienze legate al turismo e alla cultura e alla promozione del
territorio, dalle scienze legate all’information&communication technology. Vigilanza che
deve trovare nel costante ascolto dei sistemi professionali e di impresa la fonte di un
continuo aggiornamento dell’offerta formativa che, nel settore, si muove con dinamiche tra
le più veloci esistenti nel campo della formazione universitaria.
Trend
Infine, si vogliono indicare in questa sede alcune tendenze emergenti a livello delle prassi,
anche internazionali. Si tratta di profili che la letteratura professionale e disciplinare
recente ha evidenziato e che vengono richiamati come ambiti di attenzione nel
prolungamento delle indagini e delle rilevazioni sull’evoluzione del settore.
•
Nonostante la pubblicità tradizionale sembri ancora tenere, almeno dal punto di vista
degli investimenti (come si può notare dalla tabella 3), da più parti si legge che è in atto un
processo di evoluzione e di differenziazione (Berman S. J et al., 2007). Il sovraffollamento
mediatico ha definitivamente ridotto l’impatto dell’advertising classico, la diffusione dei
canali tematici, le trasmissioni satellitari o via decoder hanno ridimensionato in maniera
progressiva l’esposizione di alcuni particolari target alla televisione (Lombardi, 2007).
L’esempio che ci viene dagli altri paesi, in primis dagli USA, induce a pensare che da
adesso in poi la pubblicità da sola non basterà più a sostenere l’immagine di marca e ad
aumentarne la notorietà. Sarà infatti necessario utilizzare un’idea creativa che sia media
neutral, ovvero che possa essere declinata su più mezzi senza perdere di efficacia, ma
anzi sfruttando l’effetto accumulo (Lombardi, 2007). Questa strada è già stata imboccata in
Italia da alcune imprese: si pensi a Lavazza e a Ferrero.
•
Un’ulteriore tendenza è quella che vede i creativi coinvolti nel suscitare
l’engagement del consumatore (Lombardi, 2007): ovvero contribuire a far sì che
quest’ultimo sia fatto partecipe, tramite esperienza diretta, delle diverse attività della marca
(si inseriscono in questo contesto gli eventi organizzati ad hoc, le sponsorizzazioni,
l’implementazione di comunità virtuali) e non sia più solo un ricevente passivo delle sue
affermazioni (tipicamente diffuse tramite la pubblicità). A questo proposito sembra
interessante citare il commento fatto agli investimenti in comunicazione non convenzionale
che esemplifica anche la contingente difficoltà di quantificazione sia in termini di spesa che
di numero di addetti: “La prorompente crescita delle forme non convenzionali5, spesso
contigue a quelle consolidate o frutto della loro integrazione creativa, agisce quale ulteriore
5
Rientrano in questa categorie le tecniche di guerrila, di viral e di ambient media.
196
elemento perturbativo, rendendo impossibile la classificazione secondo le usuali modalità,
mentre molti operatori di successo risultano estranei alle categorie e alle famiglie
professionali impegnate nella comunicazione ‘non media’” (UPA, 2007, p. 94).
•
Internet sta assumendo un ruolo sempre più fondamentale, lo dimostrano le
cifre degli investimenti in questo mezzo, ma anche le sperimentazioni continue che si sono
avute grazie al mondo del web. Si pensi, ad esempio, alle potenzialità che l’esistenza di
mondi virtuali quali Second Life ha aperto alle aziende. Si tratta di potenzialità che sono
state spesso sfruttate in maniera troppo tradizionale, replicando cioè nella seconda vita
esattamente quanto avveniva nella Real Life (e le imprese che si sono mosse in questa
direzione sono state anche le prime a disinvestire), ma nonostante apparentemente il
fenomeno si sia rapidamente sgonfiato, le alte potenzialità relazionali e l’elevata
interazione dell’ambiente virtuale, aprono sicuramente nuove strade alle figure creative
emergenti. Si pensi al concorso lanciato da Coca Cola, nell’aprile del 2007, per ideare la
vending machine del futuro, o alle attività promosse dalla Nseries di Nokia. Si tratta del
primo progetto di cinema partecipativo, nella logica tipica del Web2.0 (Prati, 2007),
inaugurato lo scorso 2 ottobre, che avrà come esito un serial movie, Tigri di Carta,
composto da 14 episodi della durata di tre minuti (http://www.playthelab.it/) in cui attori e
registri saranno gli utenti di SL.
•
Infine, per rimanere in ambito italiano, non si possono non citare le
raccomandazioni che i creativi fanno a sé stessi (ADCI, 2004) nell’ottica di rendere il
loro lavoro migliore.
In primo luogo emerge la necessità di prestare una maggiore attenzione al
prodotto e al target a cui si comunica. Spesso infatti, vengono privilegiate le idee e la loro
realizzazione piuttosto che la coerenza con il brief del cliente.
Un altro elemento importante sembra la necessità di tenersi aggiornati sulle
nuove tendenze della comunicazione. Questa mancanza, che spesso è legata anche a
una carenza di tempo, indica che ci sono nuovi spazi per una tipo di formazione continua
che faciliti l’aggiornamento costante.
Last but not least anche i creativi, così come già i manager, lamentano una certa
mancanza di coraggio nel proporre idee innovative che, forse, si può ricollegare alla
pesante, e già citata, eredità di Carosello.
197
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