La forza dei bulbi

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La forza dei bulbi
Premio Dialogare 2014
“Domani? Non so…”
Racconto con segnalazione particolare
La forza dei bulbi
di Guergana Radeva, Scansano
Massagno, 27 marzo 2014
La forza dei bulbi
Sto covando la parola sulla punta della lingua, cerco di darle voce ma ottengo solo
uno stormo di suoni confusi. Cosa mi succede? Non ho ancora imparato per bene
l'italiano e sto già scordando la mia lingua materna? Anche se, a dire il vero, il termine
che cerco di ricordare più che al linguaggio di mia madre apparteneva a quello della
nonna, era stata lei ad insegnarmi il nome dei fiorellini rosa che da bambina amavo
raccogliere laddove la vigna sconfinava nell'ombra, umida e odorosa, del bosco. Un
nome in dialetto perché questa specie di ciclamini selvatici non cresceva da nessun'altra
parte né della Bulgaria né del mondo. Almeno io non ne avevo mai visti altrove. Fino ad
oggi, qui, a quasi duemila chilometri da casa.
E d'un tratto mi sento felice di aver seguito il consiglio di Mirka.
«Vuoi mollare tutto e tornartene a casa?» mi aveva chiesto. «Fa' come ti pare, ma
prima vieni con me in Maremma per la vendemmia, così almeno ti fai i soldi per il
biglietto.»
Dell'Italia non conoscevo nulla al di fuori di Roma. Appena arrivata, la città mi
aveva inghiottita, per risputarmi qualche anno dopo sfinita dai lavori precari e
sottopagati, scoraggiata dalla mancanza di prospettive e povera come prima se non di
più. Tanto valeva tornarmene in Bulgaria, perché come diceva un vecchio proverbio: a
casa anche i muri aiutano. Il benessere materiale sarebbe rimasto il solito miraggio, ma
almeno, per dirla con la canzone, avrei ritrovato quel mio, finora ingenuamente
disprezzato, senso di gravità permanente. Ultimamente non faccio che esprimermi
attraverso citazioni, aforismi e frasi fatte, sempre se trovo forze e voglia di sprecare il
tempo in chiacchiere.
«Stai persa» dice la mia amica, «non ci sei più con il cuore.»
Ecco, questa mi prende alla sprovvista e, come un pugno nel plesso solare, mi fa
piegare. Metaforicamente, certo, anche se avrei preferito alla grande un pugno vero.
Perché, a dire il vero, non ero partita per l'Italia unicamente all'inseguimento del soldo,
era la ragione principale, certo, però covavo anche delle speranze segrete, per me il bel
paese non significava solo prosperità, ma anche borghi antichi a picco sul mare di un
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azzurro così intenso da far lacrimare l'anima, profumo di fiori d'arancio, gelato al
pistacchio sul Ponte dei Sospiri, il David di Michelangelo resuscitato da un improvviso
temporale estivo e perché no, il mio volto riflesso nella Fontana di Trevi, illuminato da un
sorriso infinitamente più lucente delle monetine dorate sul fondale. Venezia e Firenze
erano lontane e tali rimasero, ma a Roma ho vissuto a lungo, allora perché non trovai
mai il tempo per i suoi monumenti? Mi portavo dentro le immagini in bianco e nero di
una eternamente giovane Anita Ekberg, ma ero incapace di collocarla nella frenesia
della città che mi circondava. O forse era me stessa che non riuscivo a collocare,
credevo di aver perso il mio centro di gravità, ma ora, smarrita fra i filari della vigna che
corrono dritti e identici in ogni direzione, mi chiedo se in realtà l'avessi mai avuto, questo
famoso centro di gravità? Avevo visto il sistema del cosiddetto socialismo reale
implodere, distruggendo le certezze della generazione dei miei genitori e avevo
osservato una nuova generazione crescere con aspettative e convinzioni del tutto
diverse, quanto alla mia di generazione, si era trovata in mezzo, stritolata dagli opposti,
irrigidita fra nostalgie e speranze, fra le poesie di Majakovskij e i racconti di Bukowski,
incapace di scegliere definitivamente e senza ripensamenti. Timorosi di ripetere gli errori
dei padri, ma anche privi dell'ottimismo grintoso dei figli, ci eravamo sparsi, irrequieti e
speranzosi, attraverso le frontiere smagliate dell'est, però il mondo si era rivelato più
vasto, freddo e inospitale di quello che avevamo immaginato noi con le nostre ingenue
collezioni di cartoline e vecchi film. Molti miei coetanei avevano fatto già il proprio
inglorioso ritorno, mentre io mi stavo ancora trastullando con il dubbio amletico: restare
o partire?
«Ci fanno il Morellino di quest'uva» mi giunge attraverso il fogliame la voce di
Mirka. «Un vino pregiato, forte e scuro.»
«Mia nonna, invece, faceva il Mavrud, denso e nero, macchialabbra» rispondo.
«Pensa che hanno la stessa radice!» esclama Mirka.
«Ma no, che dici, l'uva da noi è più piccola e le viti sono potate diversamente...»
«Intendevo la radice etimologica, mavrud e morellino vengono entrambi dal latino
mauros che significa "scuro".»
«Sai sempre tutto te!» bofonchio, un tantino risentita per via dell'involontaria
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figuraccia, anche se Mirka non è affatto il tipo che mi riderebbe dietro. Nonostante ciò,
istupidita dal caldo e dalla fatica, insisto: «E allora, visto che sei così istruita, come mai ti
sei ridotta a sgobbare peggio di una contadina?»
«Perché mi piace» risponde lei senza prendersela minimamente, anzi la sua voce
risuona allegra e anche se non posso vederla, ma sento solo il tac tac laborioso delle
forbici con le quali sta tagliando i grappoli, riesco ad immaginare i suoi occhi che ridono
nel nugolo di lentiggini accentuate dal sole. «Adoro la terra e il lavoro all'aria aperta. Non
lo faccio perché costretta, ma perché il contatto con la natura mi trasmette voglia di
vivere e senso di autenticità. Qui è tutto così vero, tangibile, buono e genuino... è anche
così familiare, nonostante le distanze.»
Familiare? Si vede che Mirka da tanto non mette piede nella campagna bulgara. Il
villaggio di nonna che un tempo ribolliva di vita, ora non è che un ammasso di ruderi.
Nessuno lavora più la terra e i pochi contadini che si azzardano a coltivare qualcosa, si
trovano costretti a dormire nei campi e nelle vigne, per fare la guardia al raccolto.
Sospiro, poi metto in bocca un chicco d'uva e d'un tratto, oltre il suo gusto dolce e
succoso, sento diffondersi anche il sapore lievemente acidulo della crosta appetitosa del
pane della mia infanzia. Ingolosita deglutisco, inseguendo l'aroma di mosto giovane e
noci fresche, da sbucciare con dita impazienti e macchiate di linfa... e d'un tratto mi
torna in mente il nome del ciclamino: boturche! Il fiorellino che tengo in mano accoglie
con apatia il nome ritrovato; strappato alla propria terra, appassirà prima di sera. Un po'
come me, ha perso le sue radici. Mi abbasso e scavo con le forbici da pota intorno al
tubero.
«Ma che stai facendo?» Gli occhi di Mirka brillano curiosi fra le foglie. «Cos'è? Un
ciclamino? Lo sai perché si chiama così?»
«No, ma per fortuna ci sei tu a spiegarmelo.»
L'ironia non fa presa sulla mia amica che continua ad elargire nozioni linguistiche:
«Cyclamen, dal greco kyklos, ciclo, ma anche cerchio. per via delle radici rotonde.»
Cerchio. Ciclo. La forza dei bulbi sta nel saper aspettare, anche per anni se
necessario, senza soccombere alle privazioni e alla siccità. Avvolgo il mio tubero in un
fazzoletto di carta e lo infilo in tasca. Forse col tempo riuscirò a dargli una casa, offrirgli
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acqua e luce e guardarlo germogliare. Forse. Nel frattempo aspetteremo... anche anni,
se necessario.
Pulisco le forbici dalla terra e chino la schiena dolente fra i filari.
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