“Santa sofferenza!”: la concezione della malattia veicolata all` infanzia

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“Santa sofferenza!”: la concezione della malattia veicolata all` infanzia
Stampa, comunicazione, informazioni: letture per l’infanzia nella sofferenza. Argomento che torna in occasioni
diverse e, naturalmente, pareri contrastanti. Alcuni lettori ci hanno chiesto di parlarne nella rivista. Ne scrive
qui per noi la dottoressa Ilaria Mattioni: una tesi di laurea su ricerche e studi allargati nell’ambito dei periodici
infantili e non solo. Esperienze di anni in quel mondo editoriale. Un dottorato di ricerca attualmente in corso
presso l’Università degli Studi di Macerata.
“Santa sofferenza!”: la concezione della malattia
veicolata all’ infanzia
ILARIA MATTIONI
È piuttosto difficile rintracciare nei periodici oggi
destinati all’infanzia anche solo un accenno a
malattie più rilevanti di un’infreddatura o alla
morte. Se di morte si parla, si tratta di morte accidentale o violenta, mai a seguito di una penosa
malattia. Un discorso parzialmente diverso può
invece essere fatto per la narrativa, in cui troviamo
testi che si occupano tuttora di questo argomento
anche se, per la maggior parte, si tratta di libri
destinati a bambini ospedalizzati o sofferenti di
patologie particolari. Il lodevole tentativo è quello
di sostenere il bambino in un momento difficile
della sua esistenza e di cercare di rendere a lui comprensibile che cosa sta accadendo al suo corpo. Il
pensiero più comunemente diffuso nelle riviste
resta, comunque, quello di preservare il più possibile i bambini da quelli che possono essere generalmente considerati “argomenti tristi”. Non così avveniva nel passato. I bambini possedevano una maggiore familiarità nei confronti della malattia e della
morte e non soltanto perché l’indice di mortalità,
anche infantile, era molto più elevato rispetto ad
oggi, ma anche perché, vivendo in famiglie patriarcali, era più facile per loro vivere accanto a persone
anziane e perciò più soggette ad ammalarsi.
La natura principalmente educativa e non di evasione che connotava i periodici cattolici destinati
all’infanzia(1) li rende una fonte interessante per cercare di capire in che modo l’idea della malattia e
della sofferenza venisse veicolata ai bambini. Dagli
anni venti del Novecento fino alla fine degli anni
cinquanta, rimane immutata la concezione della
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malattia come premio donato da Dio ai fanciulli più
meritevoli come emblema di “elezione”. Ben lungi
dal considerare l’infermità come qualcosa di pauroso da temere, la malattia viene reputata come
un’occasione per espiare i peccati propri e quelli
altrui, un’opportunità per conquistare il Paradiso.
Leggendo le novelle e i racconti che abbondano nei
“giornaletti” di quegli anni, ci si rende immediatamente conto che raramente la malattia è una leggera
indisposizione guaribile con qualche medicinale,
ma che il più delle volte ci si trova davanti a malattie che portano irrimediabilmente alla morte. Del
resto, ciò che è importante in questi racconti non è
la guarigione, ma la missione salvifica che il bambino sofferente, ponendosi come rappresentazione
di Cristo, svolge. I medici sono impotenti, le medicine inutili e hanno come unico scopo quello di
aumentare, poiché amarissime, i meriti del bambino
che, paziente e rassegnato, le trangugia solo per
offrire a Dio anche questo sacrificio. Se, a volte, i
medicinali vengono rifiutati dai protagonisti delle
storie è soltanto perché, in questo modo, la sofferenza risulta maggiore e maggiore è il credito
acquistato agli occhi dell’Altissimo.
Inutilmente cercheremmo oggi, tra le pagine dei
“giornaletti”, un simile messaggio di “educazione
alla sofferenza”, mentre nell’attuale narrativa destinata all’infanzia l’accento viene posto, più che sul
concetto di sofferenza, sul coraggio che il bambino
deve trovare in se stesso, supportato in questo dagli
adulti di riferimento, e sulla guarigione. Interessante a questo proposito risulta essere un testo della
collana Tantibambini della casa editrice Einaudi,
intitolato Voglio essere un albero(2). Il piccolo Leo,
affetto da leucemia, stringe “un’alleanza” con
mamma, papà e il dottor Giacomo per sconfiggere,
con la chemioterapia, il gigante che ha piantato nel
“giardino dei bambini” tante erbacce cattive che
rischiano di far appassire l’albero Leo, rappresentazione del bambino stesso.
Tornando al passato, i modelli emergenti dalle pagine dei periodici cattolici per l’infanzia sono, oltre a
Cristo, cioè colui che “ha abbracciato la croce” e
“bevuto l’amaro calice”, i santi bambini, le cui vite
vengono narrate in racconti a puntate. I piccoli lettori vengono così a conoscenza delle sofferenze di
“santini” quali Maria Filippetto, Anna de Guigné,
Tonino Martínez de la Pedraja che, essendo loro
coetanei, riescono più facilmente a far scattare in
loro il meccanismo dell’immedesimazione e dell’emulazione. La felicità nell’accettazione dei voleri di
Dio risulta essere il comun denominatore di questi
racconti. Così, Anna de Guigné viene definita “la
pallina di Gesù che avrebbe ricevuto con gioia tutti
i colpettini del Padroncino Celeste”(3) e di Antonio
Martínez vengono riportate le parole dette a coloro
che lo assistono durante gli ultimi momenti della
sua vita: “Sono contentissimo perché soffro molto.
Sì, perché sto facendo il ‘mio’ Purgatorio”(4). I santi
bambini vengono proposti come exemplum e presentati in chiave edificante. Viene sottolineato che
la sofferenza conseguente la malattia è “santa” perché può essere mezzo per purificare la propria
anima.
Con la progressiva laicizzazione della società, invece, questo sentimento di accettazione viene sostituito dall’importanza della “lotta” nei confronti della
malattia e alla sua conseguente sconfitta. Così, in
La casa con tante finestre(5), il piccolo scudiero del
cavalier Hector torna dalla guerra con un “male
dentro al cuore”. Il cavaliere lo porta, allora, alla
“casa con tante finestre” dove una “dama” e un
“messere” troveranno il modo di guarirlo. La malattia è vista come un’avventura difficile ma anche un
po’ magica, simile all’affrontare un drago.
Dai racconti della prima metà del Novecento complessivamente emerge, al di là dell’esito tragico che
li contraddistingue, una serie di consigli prodigati al
“malatino” che, anche nelle infermità più banali, i
bambini sono esortati a seguire. Innanzitutto i pic-
coli ammalati sono invitati a non lamentarsi e ad
offrire la propria sofferenza secondo le più varie
intenzioni, in secondo luogo si raccomanda loro di
essere sorridenti, ricordando di ringraziare costantemente le persone che si occupano di loro – dal personale di servizio ai familiari – e, infine, si invitano
i bambini, qualora si accorgessero di essere gravi,
di non parlare di morte “per non addolorare la
mammina”.
La poesia Ad una bambina inferma può essere giudicata, oggi, quasi crudele, ma racchiude tutto ciò
che si voleva venisse accolto dai bambini:
“Su, su, acquietati piccola, ascolta:
“C’era una volta…un re?”
No, ma una piccola come te,
come te sofferente nel bianco lettino,
come te martoriata nel suo corpicino.
E, sai, non piangeva,
no, mai non gemeva,
ma sempre, ma sempre un dolce sorriso aveva.
Io so il suo segreto, lei stessa l’ha detto,
io essere posso un apostolo offrendo i miei forti
dolori, per i peccatori.
Le mie lacrimucce versate in silenzio,
ad un magico tocco di Nostro Signore,
divengono perle di grande valore.”(6)
La malattia viene utilizzata anche in chiave
“sociale” per veicolare il concetto di vera ricchezza: essa non è quella del denaro, ma quella della
salute. Così, il bambino povero che guarda invidioso, attraverso il cancello chiuso, i giocattoli
dei fanciulli ricchi, è costretto a ravvedersi del
proprio errore quando scorge “le gambette tutte
deformate” di uno di quei bambini. La conclusione del racconto appare, ai nostri occhi, un po’
caustica: “Il bimbo ormai sorride lieto e se ne va,
contento di essere sano ed invidiato da chi far
capriole, oh, mai potrà!”.(7)
Un’altra funzione che, nei periodici cattolici destinati all’infanzia, svolge la malattia, è quella di
promuovere il processo di crescita e maturazione
personale. Esemplificativo, a questo proposito, è il
racconto a puntate Il marchesino Bruno(8) che narra
le vicissitudini fiabesche che porteranno Bruno a
mutarsi da bambino egoista e presuntuoso a giovane assennato e maturo, pronto ad ereditare il marchesato da suo padre. Fra le tante avversità che il
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fanciullo si trova a dover superare, vi è quella dell’attraversamento dei Regni del Dolore e della
Malattia. Qui Bruno capisce che le sofferenze e la
malattia sono inscindibili dalla vita umana, ma che
proprio da esse “nascono la gioia e la virtù” e che
soltanto la loro conoscenza “forma i grandi caratteri”. Solo provando in prima persona che cosa
significhi soffrire nel corpo, il ragazzo sente
nascere in sé i sentimenti della pietà e della compassione e porta a compimento quel processo di
educazione personale che lo renderà degno e capace di governare rettamente i suoi sudditi.
Nelle fiabe che vengono proposte ai piccoli lettori,
la visione cattolica rende vani i poteri magici che
nulla possono di fronte alla malattia e alla morte.
Mentre nelle favole tradizionali, ad esempio, ne La
bella addormentata nel bosco, Rosaspina può essere salvata dal provvidenziale intervento di una fata
che trasforma la morte in sonno profondo, ciò non
avviene nelle fiabe che troviamo nei periodici cattolici per bambini. Così, la fata Viola(9) vede, impoten-
Esempi di periodici del passato per l’infanzia e l’adolescenza.
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te, morire a causa di una “febbre maligna” la sua
bambina ed è essa stessa a chiedersi, disperata:
“Che mi giova essere fata se non posso riavere la
mia piccina?”. Il messaggio che si vuole veicolare è
un messaggio realistico: la magia non esiste e tutto
è nelle mani di Dio che, solo, può guarire attraverso
un intervento miracoloso.
Affiora, pagina dopo pagina, la concezione che
non è l’infermità fisica, ma la malattia dell’anima,
cioè l’ateismo, a rappresentare il vero pericolo per
l’uomo. Esemplare è la novella La certezza di
Mirka: l’on. Wladimiri è ateo ed appartiene ad
una famiglia “materialista da generazioni”. La
figlia Mirka si avvicina alla fede, ma in seguito a
una malattia diviene cieca. La scienza si dimostra
incapace di guarire Mirka la quale chiede a suo
padre di accompagnarla a Lourdes. L’onorevole
considera la religione e i miracoli come superstizioni ma, vinto dall’amore per la ragazza, decide
di partire con lei. E il miracolo avviene, ma non è,
come potrebbe sembrare naturale, la guarigione
della ragazza: è la conversione del padre.(10)
Innumerevoli, in queste novelle, sono i casi di
persone che, allontanatesi da Dio “per idee assorbite chissà dove”, grazie alla malattia ritrovano la
fede perduta o si convertono. Così, Renata, una
ragazza “guastata da teorie marxiste”, si riavvicina a Dio dopo essere stata assistita da una suora
in una casa di cura.(11)
Sempre in ospedale è ambientata la novella
Dramma in corsia il cui protagonista, Claudio
Seriati, è stato partigiano: nel dopoguerra “il
comunismo lo ha travolto nel suo vortice di estremismo. (…) Odia Dio, da due anni è preda del
male ed è solo col suo dolore inesorabile”. (12)
Accanto a lui è ricoverato padre Gabriele, un giovane cappuccino che, nonostante la malattia, ha
una parola di conforto per tutti. Il suo esempio
porta Claudio a confessarsi e a capire che solo in
Dio c’è vera rassegnazione e felicità.
Terminando questo breve excursus sulla concezione
della malattia veicolata all’infanzia, bisogna sottolineare che è necessario combattere la tentazione di
giudicare i vecchi “giornaletti” come terrorizzanti o
tristi solo perché hanno affrontato temi scomodi
quali la malattia o la morte. Al contrario, la loro
valenza educativa consisteva proprio nel trattare
quelle realtà che il bambino, nel bene e nel male, si
trovava a vivere per fornirlo degli strumenti che lo
avrebbero aiutato a fronteggiarle. Proprio questa
concezione, del resto, dopo anni di oblio, sembra
essere riapparsa. Essa è, ad esempio, alla base della
collana Ho bisogno di una storia della casa editrice
Carthusia che si è posta come fine quello di raccontare “cose importanti divertendo”. Realizzata nell’ambito del progetto “Volare sempre” sui bambini
in ospedale, Ho bisogno di una storia è una collana
di albi illustrati che raccontano “storie difficili con
parole leggere”.
Quello che viene costantemente sottolineato, tuttavia, da chi con la sofferenza del bambino si relaziona, medico, pedagogista, educatore o anche scrittore, è l’importanza della presenza dell’adulto. “L’adulto”, spiega Fulvia Degl’Innocenti, giornalista e
scrittrice per bambini “deve porsi come presenza
sicura e aiutare il bambino non solo ad affrontare la
malattia, ma anche a relativizzare il dolore. Per
quanto riguarda favole e racconti occorre creare
immagini narrative adatte ad esemplificare queste
difficili situazioni”.
Il bambino che è aiutato a comprendere ciò che gli
accade, anche attraverso rappresentazioni fantastiche, si sente meno solo e se è difficile continuare a
parlare di “educazione alla sofferenza” in senso
stretto, è però possibile dare anche ai bambini gli
strumenti per affrontare le situazioni più difficili.
Note bibliografiche
1 - D. Palumbo, Voglio essere un albero, Padova, Einaudi Ragazzi, 2007.
2 - Per la stesura di questo articolo sono stati utilizzati soprattutto due
periodici: “Primavera. Rivista per giovanette”, edito dalle Figlie di
Maria Ausiliatrice, ramo femminile della congregazione dei Salesiani
di don Bosco, e “Il Giornalino”, edito dalla Pia Società San Paolo.
3 - D. Palumbo, Voglio essere un albero, cit.
4 - Anna de Guigné, in “Il Giornalino”, XI, 19 agosto 1934, n°
33, p. 5
5 - Antonio Martìnez de La Pedraja, in “Il Giornalino”, XI, 11
novembre 1934, n° 45, p. 5.
6 - B. Masini, La casa con tante finestre, Carthusia Edizioni,
Milano, 2003.
7 - Ad una bambina inferma, in “Il Giornalino”, XI, 2 dicembre
1934, n° 48, p. 10.
8 - Il ricco e il povero, in “Il Giornalino”, XII, 10 marzo 1935,
n° 10, p. 5.
9 - Il marchesino Bruno, in “Il Giornalino”, XI, 8 aprile 1934,
n° 14 e ss.
10 - Viole, in “Il Giornalino”, XI, 15 luglio 1934, n° 28 e ss.
11 - La certezza di Mirka, in “Primavera”, V, 1° novembre 1954,
n° 21, p. 3.
12 - Un seminterrato e poche speranze, in “Primavera”, XIV, 1°
gennaio 1963, n° 1, p. 3.
13 - Dramma in corsia, in “Primavera”, V, 15 maggio 1954, n° 10, p. 3.
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