Il Cantico dei cantici: La più bella canzone d`Amore

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Il Cantico dei cantici: La più bella canzone d`Amore
Il Cantico dei cantici: La più bella canzone d’Amore
Bruno Forte
Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei Cantici è stato donato a Israele» (Rabbi Aqiba, citato
in Mishnah Jadajim 3,5). Queste parole di uno dei grandi maestri della tradizione ebraica dicono
incisivamente quanto il Cantico sia stato considerato e amato da essa. Il testo è una delle «meghillot», uno
dei rotoli, cioè, da leggere nella liturgia sinagogale: il fatto che venga proclamato a Pasqua, la festa centrale
fra tutte che celebra la liberazione dalla schiavitù d’Egitto e il passaggio del Mar Rosso, testimonia di quale
considerazione goda Shir Ha Shirim (questo il nome ebraico: il Cantico dei Cantici, il «Cantico sublime»).
Ancora oggi nelle famiglie ebree il sabato è accolto come la sposa del Cantico (in ebraico «shabbat» è
femminile).
Il Libro dello splendore o Zohar riconosce nel Cantico l’intera rivelazione di Dio: «Questo cantico
comprende tutta la Torah; comprende tutta l’opera della creazione; comprende il mistero dei Padri;
comprende l’esilio d’Israele in Egitto e il canto del mare; comprende l’essenza del Decalogo e il patto del
monte Sinai e il peregrinare d’Israele nel deserto, fino all’ingresso nella terra promessa e alla costruzione
del Tempio; comprende l’incoronazione del santo nome celeste nell’amore e nella gioia; comprende l’esilio
d’Israele fra le nazioni e la sua redenzione; comprende la risurrezione dei morti fino al giorno che è il sabato
del Signore» (Libro dello splendore. Teruma 144a).
Nella tradizione cristiana il Cantico gode di una stima non minore: «Beato chi comprende e canta i cantici
della Sacra Scrittura – afferma Origene –, ma ben più beato chi canta e comprende il Cantico dei Cantici»
(Omelia sul Cantico l,l: Pg 13,37).
Attraverso l’uso dell’interpretazione allegorica, tutto il Cantico appare come un paradigma del Cristo: così,
l’Amato che viene saltando sopra i monti di Ct 2,8 è riconosciuto sin dal primo commento cristiano come
«il Verbo, saltato dal cielo fin nel corpo della Vergine, dal sacro ventre sul leg no della Croce, dal legno
negli inferi, di là nella carne (della risurrezione)... infine, dalla terra al cielo» (Ippolito di Roma, Commento
al Cantico, XXI, 2). Le descrizioni del Cantico vengono interpretate come metafore della vita della Chiesa:
«Se tu senti nominare le membra dello sposo, cerca di capire che in realtà sono evocati i membri della
Chiesa» (Origene, Commento al Cantico, libro II, su Ct 4). Muovendo dal Cantico sviluppa la sua
riflessione sui gradi della «violenta carità» Riccardo di San Vittore, combinando genialmente teologia ed
esperienza spirituale per sottolineare come il rapporto d’amore con Dio non lasci nessuno come lo ha
trovato, ma al contrario segni in modo indelebile la sua anima: «Grande è la forza dell’amore, meravigliosa
la potenza della carità» (I quattro gradi della violenta carità, 2).
Al Cantico si ispira la mistica cristiana, celebrando il rapporto d’amore con Dio: basti pensare ai versi di
San Giovanni della Croce: «In una notte oscura / con ansie di amor tutta infiammata, / o felice ventura!, /
uscii, né fui notata, / stando già la mia casa addormentata. / ... / Notte che mi guidasti! /oh, notte amabile più
che l’aurora / oh, notte che hai congiunto / l’Amato con l’amata / l’amata nell’Amato trasformata» (San
Giovanni della Croce, Noche oscura, Strofe l e 5).
Eloquente e ispirativo nelle più diverse stagioni della tradizione ebraico-cristiana, il Cantico continua a
parlare anche oggi: «Questo – afferma Guido Ceronetti – è un Cantico di oggi, per il presente, per servirgli
restando quel che è, un punto lontano» (Il Cantico dei Cantici, Adelphi, Milano 1975. 2005, 114). E
aggiunge: «Colpisce la somiglianza delle sue parole coi gradi più alti del silenzio; è una musica cessata in
ogni suo suono, che affiora come pura memoria» (115). La forza evocativa per ogni uomo, per ogni tempo,
di queste poche parole (1250: 117 versetti), continua a essere riconosciuta: «Per esprimere l’Assoluto in una
visione umana è bastato questo arco brev e» (115).
Non si può non chiedersi come un’opera storicamente datata, probabilmente del tardo post-esilio (IV-III
secolo a.C.), abbia potuto esercitare una tale influenza sull’anima ebraico-cristiana e in generale sulla storia
culturale e religiosa dell’umanità. La ragione di questo fascino esercitato dal Cantico sta plausibilmente nel
fatto che esso si muove sulla soglia, in quella sottile striscia di esperienza universalmente umana, dove la
morte è eguagliata solo dall’amore. Scrive ancora Ceronetti: «Forse perché sei la sera, la morte velata –
Cantico, sacro Cantico – di Te ho paura» (128). Proprio così il Cantico è poesia: «Senza poesia non si può
vivere e tanto meno amare. Grazie a Dio c’è poesia nella Bibbia» (D. Garrone, Introduzione al Cantico dei
Cantici, traduzione di G. Bemporad, Morcelliana, Brescia 2006, 30).
Il Cantico è amore portato alla parola, non risolto in essa: «Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu
mi hai rapito il cuore» (4,9). Il Cantico è la prova di come sia l’amore a spingere a parlare dell’amore:
«Urget caritas de caritate loqui» (Riccardo di San Vittore, I quattro gradi della violenta carità, l). Si può
capire il Cantico, allora, solo se si è inquietati dall’amore, feriti da esso, attratti, animati o motivati
dall’esperienza di amare. Per la comprensione del Cantico vale la legge dell’amore: «Amor che a null’amato
amar perdona» (Dante, Inferno, V, 103). Solo l’amore capisce l’amore: solo l’amore introduce nel santuario
del Cantico e ne rivela le profondità abissali.
È l’amore il tema del Cantico: si comprende, perciò, come proprio questo piccolo libro stia al centro di
quella narrazione della storia dell’amore fra Dio e le Sue creature, che è la Bibbia. «Il Primo Testamento
inizia con il grido esultante dell’uomo di fronte alla donna: "Questa, sì, è carne della mia carne, osso delle
mie ossa" (Gen 2,23). Il Nuovo termina con il grido d’amore della sposa per lo sposo divino: "Lo Spirito e
la sposa dicono: Vieni!" (Ap 22,17). In mezzo alla Bibbia, Primo e Nuovo Testamento, vi è il Cantico dei
Cantici, il libro dell’amore, il cuore della Bibbia» (Cantico dei Cantici, nuova versione, introduzione e
commento di G. Barbiero, Paoline, Milano 2004, 8). In quanto libro dell’amore, il Cantico è anche l’unico
libro biblico a essere composto dall’inizio alla fine in forma di dialogo: «Il fatto stesso del dialogo è
significativo, perché indica, nella prossimità, anche la distanza dei due amanti, come è tipico del vero
amore» (ib., 420). Ma di quale amore si tratta? È amore umano, solo umano, quello di cui parla il Cantico?
O è anche amore divino?
Il verbo ’ahev = «amare» è un termine chiave in Shir Ha Shirim, tanto che esso e i suoi derivati vi ricorrono
ben diciotto volte: ’ahavah = «amore» corrisponde ai tre termini greci eros, philìa e agàpe, ed esprime nella
Bibbia ebraica sia l’amore per Dio (cfr. Dt 6,5), sia l’amore di amicizia (1 Sam 18,1: Davide e Gionata), sia
l’amore di un uomo per una donna (Gdc 16,4: Sansone per Dalila). Si tratta di un unico amore che intreccia
le varie possibilità: in tutte è però presente l’Eterno, come sottolineano i maestri ebrei mostrando come la
parola ’ahavah abbia due lettere in comune col nome divino impronunciabile, significato dal Tetragramma
sacro (Jhwh).
L’identità di posizione delle he all’interno dei due termini viene interpretata come l’espressione di un
rapporto mistico fra la coppia umana e il Creatore, in forza del quale l’uomo e la donna nella loro relazione
d’amore rendono presente il Nome divino fra gli uomini. In ogni esperienza veramente umana di amore si fa
esperienza di Dio: questo è il senso che al Cantico dà la professione di fede di 8,6: «Forte come la morte è
l’amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore!».
«Come la morte l’amore chiede tutto. Amare vuol dire perdere la propria libertà e la propria vita, non
appartenere più a se stessi... Bisogna perdersi per ritrovarsi» (i b., 427: cfr. Le 9,24).
A questa esperienza della totale esigitività dell’amore corrisponde la convinzione che la fede d’Israele non
può essere che riconoscimento della totale appartenenza al Dio unico (cfr. Dt 6,4).
Questa ricchezza di sensi del tema «amore» fa comprendere come del libro dell’amore che è il Cantico siano
state date le più diverse interpretazioni: esse vanno dalla lettura voluttuosa, che ne esalta il senso erotico, a
quella virtuosa, che vi coglie la parabola dell’amore indissolubile, da quella sapienziale, che vi legge la
ricerca e l’amore della Sapienza, a quella mistica, che vi riconosce il canto dell’unione fra l’anima e Dio.
C’è chi ha dato del Cantico un’esclusiva interpretazione simbolica e chi lo ha letto solo in senso letterale,
come canto di amore o collezione di canti nuziali. Una foresta di simboli pervade comunque l’intero testo:
l’Amato, l’amore, il corpo, il giardino, il creato, la società... Il «filo rosso» in questa selva di sensi è
rappresentato dal tema della ricerca amorosa, con l’accentuazione della presenza gustata dopo l’amarezza
dell’assenza, dell’aurora accolta dopo la notte, dell’oblio di sé vissuto come condizione per trovare l’Altro.
Un indizio importante per cogliere nel Cantico la pluralità di sensi riferiti all’amore è il termine Dodî =
«amato mio»: esso contiene le lettere del nome David. Già così, rimanda contemporaneamente al singolo
innamorato di Dio, di cui Davide, il cantore dei salmi, è figura, e al popolo messianico, costitutivamente
legato alla discendenza davidica. In quanto poi il termine ricorre ventisei volte nel Cantico, e ventisei è un
numero sacro per la ghematria ebraica perché è il valore numerale del tetragramma Jhwh, è possibile
riconoscervi anche il riferimento all’Amato divino.
L’amore del Cantico è allora al tempo stesso quello dell’amato per l’amata, quello di Dio per il Suo popolo
e del popolo per Dio, e infine quello del singolo credente per il Signore. Che l’amore in tutta la ricchez za
del suo significato sia il tema dominante del Cantico è mostrato anche dal fatto che il testo si preoccupa di
presentare sin dall’inizio i due protagonisti come l’amata e l’amato. È interessante notare che a pronunciare
il maggior numero di parole nel Cantico sia la donna (una sessantina di versetti), mentre all’uomo ne sono
riservate poco più della metà (trentasei versetti). È questo un implicito riconoscimento dell’inclinazione che
la donna ha verso la sapienza dell’amore, non solo nel senso della capacità oblativa che dimostra, ma anche
della disponibilità a intuire, presentire ed evocare la presenza dell’Amato. Quest’attitudine alla percezione e
alla comunicazione dell’amore è intesa dalla tradizione ebraica come risultante naturale dell’essere la donna
sorgente della vita: se vivere veramente è amare, colei che nella casa accende la candela del sabato per
introdurre la famiglia intera nella vita nuova del riposo divino, la donna, è anche quella che in generale
saprà meglio accendere e alimentare la fiamma dell’amore.
A prendere la parola per prima è lei, l’amata, e lo fa per parlare di lui: «I tuoi amori sono più buoni del vino.
Per fragranza sono belli i tuoi profumi. Profumo che si spande è il tuo nome, per questo le giovinette ti
amarono» (1,2s). Per quanto letterale, la traduzione non rende la musicalità di queste bellissime parole
d’amore: essa gioca sull’assonanza fra il termine shem, che vuol dire «nome», e il termine shemen, che
significa «profumo». Il solo nome dell’amato riempie l’aria di profumo, che incanta lei, come incantò altre.
Nel versetto seguente all’olfatto si unisce il gusto: «Ricorderemo i tuoi amori più del vino» (v. 4: cfr. v. 2).
È come se il ricordo dell’amato abbia un sapore, forte come quello del vino. Tutti i sensi sono convocati per
descrivere l’attrazione che lui esercita su tutto l’essere di lei, passando attraverso l’udito, la visione, il tatto:
«Attirami dietro a te, corriamo!» (v. 4). Così lei si mette alla ricerca di lui , abbandonando la vigna sicura
dei suoi fratelli per cercare lui nel rischio e nell’insicurezza (v. 6). E la ragione di questa scelta è che lui è
l’amore dell’anima sua (v. 7).
Interviene quindi lui a parlare di lei, «bella fra le donne» (v. 8), e ne descrive le guance, il collo, il
portamento regale (vv. 9s), rivolgendole un invito pieno di suggestione, perché pervaso dalla memoria sacra
di tutto Israele: «Escitene sulle orme del gregge» (v. 8). È il verbo dell’Esodo jasa: l’invito è a mettersi in
atteggiamento di esodo, ad abbandonare le proprie sicurezze per affrontare il nuovo. Come fu per Abramo
(Gen 12,1), così per l’amata l’invito è a lasciare ogni sicurezza per andare verso la terra promessa
dell’amore. Lontani fisicamente, i due sono vicini nell’anima, e il mondo intero sembra invitarli a realizzare
il loro desiderio di incontrarsi: è il senso delle stupende parole dell’amato:
Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!
Perché, ecco, l’inverno è passato,
è cessata la pioggia, se n’è andata;
i fiori sono apparsi nei campi,
il tempo del canto è tornato
e la voce della tortora ancora si fa sentire
nella nostra campagna.
Il fico ha messo fuori i primi frutti
e le viti fiorite spandono fragranza.
Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!
O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi,
mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro (2,10-14).
Fra i due protagonisti si crea così il ponte dell’amore, che non tollera alcuna lontananza e sfida ogni
separazione, perché l’amore è reciproca appartenenza, anche quando si vive la ferita del non essere insieme.
È il senso della formula usata da lei in 2,16: «Dodî lî-wa’anî lô – il mio amato a me e io a lui».
L’espressione dice il totale appartenersi degli amanti nell’amore: si tratta di un’appartenenza caratterizzata
dalla reciprocità, che esclude ogni prevaricazione dell’uno sull’altro, come mostra il fatto che in 6,3 la s
tessa formula è presentata nell’ordine inverso: «lo sono del mio amato e lui è mio». L’amore è insomma
esodo da sé di ciascuno dei due per essere dell’altro. Questa trama complessa di legami d’amore non è
presentata mai staticamente nel Cantico, ma evocata nelle forme proprie dei dinamismi dell’amore: l’amore
è cammino che si apre al cuore e alla vita, e perciò non può non vivere di tappe e di gradi: «Grande è la
forza dell’amore, meravigliosa la potenza della carità. Molti sono i gradi dell’amore e fra essi grande è la
differenza» (Riccardo di San Vittore, I quattro gradi della violenta carità, 2).
Questi gradi o tappe caratterizzano il rapporto dell’Amato e dell’Amata, fatto di ricerca, di incontro, di
nuova ricerca fino al definitivo reciproco possesso: «La fusione delle due persone rende il dialogo
impossibile, mentre dei due amanti del Cantico è caratteristica la parola», e dunque la reciproca ricerca
(Cantico dei Cantici, nuova versione, introduzione e commento di G. Barbiero, Paoline, o.c., 420). Appunto
per durare l’amore ha bisogno di distanza, di incontro, di nuova distanza, di nuovo incontro. Si profilano
così i gradi dell’amore nel Cantico, corrispondenti alle tappe in cui il dialogo fra i due si svolge, fra
lontananza e prossimità. Sono gradi, riferibili sia all’amore umano, che al rapporto con Dio. Il primo grado è
quello dell’amore che cerca. In esso a dominare sono il desiderio e la ricerca, e l’altro è percepito come
l’assente Presenza. Proprio così i due si profilano in questa tappa come mendicanti d’amore, cercatori
ardenti dell’amato altro. Il secondo grado dell’amore è quello del tocco dell’amore, dell’amore, cioè, che
trova e nuovamente perde la persona amata.
Ad aver rilievo è qui il «bacio mortale», ovvero l’incontro con l’Amato, che sembra uccidere e dà la vita,
perché, mentre tutto assorbe, tutto dona. Il movimento della relazione fra i due è quello dell’abbandono di sé
nell’Altro: si delinea qui la grande legge dell’amore, quel morire per vivere, che mostra come vita e morte
stiano nell’esperienza d’amare in fatale duello, che però, quando l’amore c’è, è a favore della vita. Infine, la
terza tappa è quella dell’amore vittorioso. Vi emerge il contesto del giardino fiorito, dove i due non sono più
due, ma Uno, e il ritrovarsi di ciascuno nell’altro è pegno e caparra della vittoria sulla morte, che è la vita
senza fine dell’amore.