maurice m. cotterell le profezie dei maya

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maurice m. cotterell le profezie dei maya
In copertina: illustrazione di Mark Topham
GRAFICA STUDIO BARONI
Alle porte del terzo millennio scoperte e rivelazioni sul futuro della nostra civiltà
Affascina e cattura... il modo di procedere e trarre le conclusioni e chiaro e ben argomentato...
un libro che «costringe» alla lettura
ΤHE SUNDAY TIMES
Una teoria ben elaborata che si legge come un racconto poliziesco... straordinario!
ΤHE DAILY MAIL
Il mondo finirà il 22 dicembre del 2012: è questa l'inquietante profezia che i maya fecero 5000
anni fa. Ma chi erano i maya? Da dove arrivava questo popolo misterioso che edificò straordinarie
piramidi e meravigliosi templi in mezzo alle foreste tropicali dell'America Centrale? Cosa
vogliono dirci le eccezionali iscrizioni che hanno lasciato? Perché scomparvero all'improvviso?
Cosa accadrà nel 2012? Decodificando le complesse intuizioni e rappresentazioni astronomiche e
astrologiche dei maya, Maurice Cotterell e Adrian Gilbert ne annunciano le profezie per l'anno
2012 e, se ci saranno, per quelli seguenti. In questo libro avvincente e per molti aspetti
controverso gli autori rivelano:
• che la nascita e il declino delle ere del mondo e delle civiltà coincidono con i cicli delle macchie
solari
• che una riduzione dell'attività delle macchie solari ha causato una diminuzione della fertilità nel
popolo maya e con ciò l'improvvisa scomparsa di questa civiltà
• che furono gli antichi egizi e i sopravvissuti alla scomparsa di Atlantide a fondare le antiche
civiltà dell'America Centrale.
Un libro straordinario di rivelazioni, scoperte e vaticini per leggere con occhi profetici la
preistoria della nostra civiltà e per capire ciò che il futuro potrà riservarci.
Adrian G. Gilbert ha acquistato fama internazionale grazie a un documentario della BBC sulle
Piramidi; è coautore del libro The Orion Mystery di prossima pubblicazione in Italia presso
Corbaccio.
Maurice M. Cotterell, ingegnere e scienziato, ha pubblicato con successo numerosi libri in tutto
il mondo.
pag. 371 - LIRE 28.000 (i.i.)
ADRIAN G. GILBERT
MAURICE M. COTTERELL
LE PROFEZIE
DEI
MAYA
Traduzione di
Lidia Perria e Stella Boschetti
CORBACCIO
Titolo originale: The Mayan Prophecies
Traduzione dall'originale inglese
di Lidia Perιria del testo di A. Gilbert
e di Stella Boschetti delle appendici di M. Cotterell
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
© Adrian Gilbert and Maurice Cotterell 1995
First published by Element Books Ltd., Shaftesbury, Dorset, UK.
All rights reserved.
This translation published by arrangement
with Linda Michaels Limited,
International Literary Agents.
© 1996 Casa Editrice Corbaccio s.r.l., Milano
ISBN 88-7972-212-3
L'Editore ringrazia la Arnoldo Mondadori Editore per l'autorizzazione a pubblicare i brani tratti da Timeo di Platone; le
Edizioni Paoline per l'autorizzazione a pubblicare i brani tratti da Relazione sullo Yucatán di Diego de Landa.
Alla popolazione del Messico
passata presente e futura
INDICE
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Prologo
I misteriosi maya
La concezione del tempo presso i maya
Una nuova astrologia solare
Maurice Cotterell in Messico
La terra del serpente a sonagli
Il nuovo fuoco, i Chac-Mool e il « teschio maledetto »
Tradizioni transatlantiche
Gli olmechi e Atlantide
Il sole, la sua energia, i suoi influssi
La catastrofe di Atlantide
7
13
41
58
79
120
154
173
189
211
229
1
2a
2b
3
4
5
6
7
8
Appendici
Astrogenetica
L'astrogenetica e i dodici tipi zodiacali
Una razionalizzazione scientifica dell'astrologia
La radiazione solare e la produzione ormonale negli esseri umani
Il ciclo delle macchie solari
Il declino dei Maya
Catastrofe e distruzione
I numeri e il sistema di calcolo dei maya
La straordinaria lastra di Palenque
251
253
254
261
270
280
293
298
301
333
Glossario
Bibliografia
Ringraziamenti
Indice dei nomi
Fonti fotografiche
353
357
361
363
369
PROLOGO
La mattina del 12 settembre 1993 ero seduto nella cucina della casa del mio collega Robert
Bauval, intento a discutere con lui gli ultimi ritocchi al nostro libro The Orion Mystery (Il
mistero di Orione), che stava per essere pubblicato. Era quasi un anno che lavoravamo in simbiosi
a quel progetto e avevamo appena partecipato a una riunione con i rappresentanti del settore
vendite della nostra casa editrice. Euforici per l'accoglienza ricevuta, ma nello stesso tempo
esausti per il sonno perduto, tentavamo di rilassarci leggendo l'edizione domenicale dei giornali.
Mentre ne sfogliavo uno, l'occhio mi cadde quasi subito su un articolo scritto da un certo Michael
Robotham. Sopra le immagini di un palazzo in rovina, di una piramide e di una scultura spaventosa
che raffigurava un dio-pipistrello, campeggiava a caratteri cubitali il titolo SVELATO UN
MISTERO SECOLARE. Sotto il palazzo e sopra un'altra foto, stavolta di un tipo alla Indiana
Jones che sbucava dalla giungla tendendo verso l'obiettivo una lastra di pietra, il titolo a tutta
pagina proclamava: L'UOMO CHE HA DECIFRATO IL CODICE DELLE INCISIONI MAYA.
Ormai non poco incuriosito dall'argomento, accostai una sedia al tavolo e cominciai a leggere
l'articolo.
Appresi che il palazzo e la piramide illustrati nelle foto sorgevano in una zona isolata del Messico
sudoccidentale, in una località chiamata Palenque. Questa faceva parte di un gruppo di città
costruite dai maya, un popolo geniale la cui civiltà declinò improvvisamente nel corso del secolo
IX dopo Cristo. Benché i loro discendenti continuassero a coltivare le colline a nord, Palenque e le
altre città situate in pianura furono abbandonate alla giungla, scomparendo così sotto un
baldacchino di alberi e rampicanti rigogliosi. L'uomo nella foto, colui che a quanto pareva aveva
decifrato il « codice dei maya », era un certo Maurice Cotterell, e la lastra di pietra che
mostrava all'obiettivo era la copia del coperchio di un sarcofago trovato nella piramide. Avevo
già sentito parlare di quella pietra misteriosa, il cosiddetto «coperchio del sarcofago di
Palenque», per lo più in rapporto a teorie su divinità giunte dallo spazio. Perciò restai piuttosto
sorpreso nello scoprire che Cotterell non formulava simili ipotesi azzardate: la sua decifrazione
della lastra sembrava basata su un approccio più scientifico, che analizzava il reperto alla luce
della mitologia maya e di alcune teorie collegate ai cicli solari. Nell'articolo si avanzava un'ipotesi
plausibile sul motivo del repentino crollo della civiltà maya, che a tutt'oggi resta in larga misura
un mistero, e le idee di Cotterell sembravano schiudere nuovi orizzonti.
Leggendo l'articolo, mi resi conto di quanto poco sapessi dei maya, anzi di tutte le civiltà
americane anteriori alla conquista. Come tanti altri, naturalmente, avevo visto qualche
documentario che illustrava misteri come quello delle linee tracciate sul terreno nel territorio
dei nazca, in Perù, ma non avevo un quadro d'insieme della successione delle civiltà dell'America
centrale così come l'avevo, per esempio, per l'Europa, l'Egitto o la Mesopotamia. Inoltre non mi
ero reso conto dell'alto livello di raffinatezza raggiunto dalle piramidi e dai templi del Messico.
Dopo un viaggio compiuto in Egitto per visitare la grande piramide di Giza, tendevo a pensare che
le piramidi fossero o costruzioni imponenti, di una semplicità geometrica, oppure mucchi di
rovine. Le piramidi del Messico erano diverse, simili alle ziqqurat di Babilonia o addirittura alle
pagode cinesi più che alle piramidi dell'Egitto. Eppure erano connesse con il culto dei morti
proprio come le piramidi egiziane e ora sembrava che avessero anche un significato simbolico che
le collegava a una religione astronomica. Quest'ultima connessione mi sembrava particolarmente
suggestiva: Robert Bauval e io eravamo sul punto di pubblicare Il mistero di Orione, proponendo
una nuova teoria astronomica per spiegare l'origine delle piramidi egiziane. Adesso ero ansioso di
sapere se questo Cotterell era in grado di trovare connessioni simili per le piramidi del Messico.
L'articolo non giungeva a tanto, ma prima di deporre il giornale mi ripromisi di indagare sulla
faccenda non appena ne avessi avuto il tempo.
Doveva passare qualche mese prima che mi ritrovassi in macchina, nel maggio 1994, in viaggio
verso la Cornovaglia per conoscere di persona Maurice Cotterell. Il mistero di Orione era stato
pubblicato nel febbraio precedente, accompagnato da un documentario della BBC intitolato La
grande piramide - La porta delle stelle, interpretato da Robert Bauval e da me. Nel giro di una
notte il libro era diventato un best-seller, nonostante la forte opposizione di alcuni autorevoli
egittologi, costernati per il fatto che eravamo riusciti ad aggirare le lungaggini dell'accademia.
Nell'eccitazione che aveva circondato il lancio del libro e la realizzazione del documentario,
avevo quasi dimenticato la lastra del sarcofago di Palenque, quando un conoscente comune mi
mostrò una sintesi dell'opera di Cotterell. Restai colpito dall'ampiezza e dall'originalità del suo
lavoro; sembrava che avesse svolto ricerche non solo sul Messico e sui maya, ma anche su molti
altri argomenti. A quel punto avevo il suo numero telefonico e decisi di chiamarlo; non era
disposto a dilungarsi al telefono, ma ci accordammo perché andassi a trovarlo durante il weekend per dedicare tutto il tempo necessario a esaminare con calma quel vasto complesso di
ricerche. Dopo avere percorso in macchina tortuose stradicciole di campagna fiancheggiate da
alberi e oltrepassato uno stretto cancello posto ad angolo retto rispetto al ripido viale
d'accesso, mi trovai di fronte a una bizzarra costruzione del Settecento, affacciata sul fiume
Tamar. Non fu necessario bussare, perché Cotterell mi aveva sentito arrivare e aprì subito la
porta. Non ci restava altro che presentarci ed entrare in casa a bere una tazza di tè.
Maurice Cotterell ha una quarantina d'anni, anche se può sembrare più giovane; snello e rapido
nei movimenti e nel modo di parlare, ha un temperamento vulcanico. Tenendo in mano le tazze di
tè, salimmo subito nel suo studio, dove, con l’aiuto di una lavagnetta e di alcuni pennarelli, si
accinse a spiegarmi le sue teorie. Parlò per quasi sei ore senza interruzioni, sfornando ogni tanto
un tabulato dalla stampante o usando una trottola come modello tridimensionale per dimostrare
un punto essenziale. Eppure le ore volarono via senza che ce ne accorgessimo, tanto erano
interessanti e originali gli argomenti che mi esponeva. Come uno spettatore interessato alla
trama avvincente di un film, volevo saperne di più e nello stesso tempo ero impaziente di arrivare
alla fine. A volte la nostra conversazione assumeva un carattere profondamente tecnico e io mi
spremevo le meningi nel tentativo di ricordare quello che avevo imparato venticinque anni prima
riguardo alla differenziazione parziale e alla meccanica delle onde. In altri momenti ci
trastullavamo con riproduzioni trasparenti della lastra di Palenque, sovrapponendole l'una
all'altra per produrre bizzarre immagini di divinità e draghi. Il suo lavoro aveva due aspetti, uno
razionale e « scientifico », l'altro intuitivo e « artistico », eppure i due aspetti si intrecciavano,
rivelando puntuali rimandi incrociati. Gli schemi figurativi rivelati dal lavoro sui trasparenti non
difettavano di logica e la scienza, dal canto suo, non era priva di una sua singolare bellezza. I due
aspetti del suo lavoro somigliavano alle due facce di una medaglia, o ai due emisferi del cervello
umano; erano due e nello stesso tempo uno solo. Anche se apparivano diversi, al centro di
entrambe le linee di ricerca c'era lo stesso tema, schiacciante e quasi spaventoso: la totale
dipendenza dell'umanità dai cicli del sole. È un tema schiacciante nel senso che, così come non si
può guardare direttamente il sole senza diventare ciechi, più si studia l'argomento dei cicli
solari, più si comprende fino a che punto noi abitanti del pianeta Terra siamo ciechi alle realtà
che regolano la nostra esistenza. Ed è spaventoso semplicemente a causa della nostra ignoranza.
Con la testa che mi girava come una trottola, uscimmo dallo studio di Cotterell per gustare
l'ottima cena a base di salmone locale cucinato da sua moglie Ann. Bevendo il vino e mangiando il
dessert, consolidammo la decisione che avevamo già preso e cioè che avremmo scritto un libro
insieme, per rendere accessibili quelle teorie a un pubblico il più vasto possibile. Avendo
collaborato con un altro autore alla stesura del Mistero di Orione, capivo benissimo come fosse
difficile procurare un'adeguata diffusione a idee radicalmente nuove, che mettevano in
discussione i dogmi scientifici dell'archeologia ortodossa. Per un professore è fin troppo facile
avvalersi della propria autorità per mettere a tacere il dibattito accademico su teorie che non
condivide. Perciò non mi sorprese apprendere che anche Cotterell come Bauval, col quale avevo
già lavorato, si era duramente scontrato con l'opposizione del mondo accademico. Le sue idee sui
cicli delle macchie solari avrebbero meritato di per sé una debita attenzione, eppure autorevoli
riviste accademiche si rifiutavano di pubblicare i suoi articoli, in gran parte, ho il sospetto,
perché non era un « esperto » ufficialmente riconosciuto, nel senso ristretto del termine.
Eppure sotto un altro punto di vista, ossia come autore di queste teorie, e cioè l'unica persona
che, per quanto si sa, abbia studiato l'argomento sotto questo aspetto, è il massimo esperto
mondiale. Ci si potrebbe domandare chi sia lo scienziato, se il professore con una sfilza di titoli
accademici che in realtà si limita a starsene seduto dietro la scrivania, oppure l'outsider che
esce allo scoperto con idee originali.
Le idee di Cotterell sono rivoluzionarie ed è naturale che siano controverse; eppure rivelano una
loro coerenza. Il suo studio sulla lastra del sarcofago di Palenque e sui cicli delle macchie solari
comporta una revisione radicale non solo della storia dell'America centrale, ma del nostro
possibile destino. Al giorno d'oggi non si fa che paventare l'assottigliarsi dello strato di ozono,
l’effetto serra, l’inquinamento, la sovrappopolazione e l'esaurimento delle risorse; ma questi
timori sottintendono, nonostante tutto, una grande fiducia nelle capacità della civiltà moderna di
cavalcare la tempesta e di superare qualunque battuta d'arresto. Anche chi ritiene infondata
questa fiducia ed è convinto che dovremmo fare tutto il possibile per tornare a un tipo di vita più
semplice, scevro dalle sovrastrutture superflue della vita moderna, in un certo senso considera
l'umanità capace di determinare le proprie sorti. Tutte le nostre utopie danno per scontato che,
almeno in teoria, sia possibile per l'umanità vivere in pace e in armonia con il pianeta, anche se
questo in pratica non avviene. Eppure cos'è questa, se non una convinzione fallace? E se
esistessero fattori cosmici sui quali non abbiamo la minima possibilità di controllo? E se l'ascesa
e il declino della civiltà stessa fossero governati dal sole, come suggerisce Cotterell? Dovremmo
per questo ostentare disprezzo, nascondendo la testa nella sabbia, oppure tentare di capire
meglio queste influenze?
I maya utilizzavano un calendario complesso ed estremamente preciso. Noi ora siamo in grado di
decifrare almeno in parte i loro geroglifici, che corrispondono per lo più a date: al centro
dell'interesse dei maya c'erano il sole e la convinzione che sul genere umano pendesse la spada di
Damocle di un futuro apocalittico. È facile liquidare le loro ansie come semplici superstizioni, ma
chi può dire se su questo punto non ne sapessero più di noi, come pare suggerire il lavoro di
Cotterell? Dovremmo piuttosto fare del nostro meglio per riportare alla luce queste conoscenze:
è un debito che abbiamo tanto con noi stessi quanto con i nostri figli. Allora, se non altro,
potremo prepararci a cambiamenti globali, anche se non saremo in grado di controllarli. Questo
almeno dovrebbe essere l'atteggiamento responsabile di tutti i veri scienziati: io, comunque, pur
senza arrogarmi il merito delle scoperte di Maurice Cotterell, voglio sapere. Non possiamo fare
altro che confidare che anche voi lettori la pensiate così.
ADRIAN GILBERT
1
I MISTERIOSI MAYA
Nella giungla dell'America centrale sono disseminate le rovine della civiltà di un popolo
circondato da un alone di mistero: i maya. Chi erano? Da dove venivano? Quale messaggio hanno
lasciato in eredità ai nostri tempi? Questi sono soltanto alcuni degli interrogativi che
tormentano esploratori, studiosi e scrittori da oltre duecento anni, da quando cioè furono
riscoperti, nel 1773, i resti della loro città più famosa, Palenque.1 Questa città straordinaria, che
ancora non è stata del tutto riportata alla luce ed è minacciata perennemente dalla giungla che
tenta di inghiottirla, costituisce una delle meraviglie del Nuovo Mondo. I suoi templi e i suoi
palazzi, fatti di calcare di un bianco luminoso e costruiti con una maestria che avrebbe fatto
onore agli artefici del Rinascimento, continuano a suscitare lo stupore di tutti i visitatori. Eppure
solo da quando, nella seconda metà di questo secolo, abbiamo cominciato pian piano a decifrare le
iscrizioni che ricoprono le mura degli edifici più importanti, siamo in grado di apprezzare questo
gioiello in tutto il suo autentico valore.
Il quadro che va emergendo lentamente è quello di un popolo molto diverso dal nostro. A
differenza di noi i maya avevano ben poche proprietà personali, a parte ciò che serviva a
soddisfare le esigenze fondamentali dell'esistenza. Coltivavano la terra usando attrezzi
estremamente semplici per ricavarne il mais e alcuni altri alimenti che erano alla base della loro
dieta, mentre i sovrani, abbigliati con sfarzo, compivano su se stessi riti strani e dolorosi per
assicurare la fertilità della terra. La loro era una società stratificata, nella quale tanto i sovrani
quanto i contadini si attenevano al proprio ruolo, ma esisteva una differenza fondamentale fra
loro e le società oscurantiste che dominavano l'Europa in quello stesso periodo: i maya erano
esperti astronomi. Erano convinti di vivere nella quinta era del sole: prima della creazione
dell'umanità moderna erano esistite quattro razze e quattro ere precedenti, distrutte ogni volta
da spaventosi cataclismi che avevano lasciato in vita solo pochi superstiti in grado di narrarne la
storia. Secondo la cronologia maya, l'era attuale è cominciata il 12 agosto del 3114 avanti Cristo e
dovrà finire il 22 dicembre dell'anno 2012 dell'era cristiana. In quel momento, la Terra così
come la conosciamo verrà distrutta ancora una volta da terremoti catastrofici. Sui maya sono
stati pubblicati molti libri, ma nessuno, finora, è riuscito a spiegare il loro singolare calendario o
il motivo che li ha indotti a stabilire queste particolari date. Mentre si è scritto molto sul
meccanismo del calendario stesso (come sarà esposto con ricchezza di dettagli negli ultimi
capitoli di questo libro), i motivi per cui i maya avrebbero elaborato sistemi cronologici tanto
complessi come il cosiddetto « Lungo Computo » sono rimasti finora avvolti nell'oscurità.
Soltanto ora che la sveglia puntata dai maya sta per suonare, siamo finalmente in grado di capire
quali fossero le loro motivazioni e cominciamo a comprendere che possedevano conoscenze di
importanza vitale non solo per il loro tempo, ma per la sopravvivenza stessa dell'umanità nella
nostra era.
Forse la civiltà maya era primitiva in base al nostro metro di giudizio: non avevano acqua
corrente, ma solo ruscelli gorgoglianti, non avevano né auto né strade, e tanto meno computer,
eppure sotto altri aspetti erano ricchi. Recenti ricerche dimostrano che avevano sviluppato le
1
Il nome Palenque, che in spagnolo significa « steccato », deriva dal vicino villaggio di Santo Domingo del Palenque. Si
ignora l'originario nome maya della città in rovina, ma può darsi che fosse Nachan.
loro facoltà psichiche a livelli che non si ritenevano neanche lontanamente concepibili.2 Come gli
aborigeni dell'Australia, facevano uso attivo dei sogni per predire il futuro e interpretare il
presente. Inoltre erano in grado di osservare i pianeti e le stelle con incredibile precisione, pur
non possedendo né telescopi né strumenti moderni. Soprattutto erano profondamente religiosi,
convinti, come molti cristiani del Medioevo, della necessità di mortificare la carne e praticare il
sacrificio volontario per guadagnarsi l'ingresso in paradiso.3
Fin dagli albori della loro civiltà, durante una breve età dell'oro durata all'incirca dal 600 all'800
dopo Cristo, e fino al periodo post-classico, che durò ancora alcuni secoli, produssero alcune delle
più grandi opere d'arte esistenti al mondo. Poi scomparvero dalle pagine della storia,
misteriosamente come vi erano entrati. A causa di un evento del quale ci è ancora ignota la
natura, la loro civiltà si estinse e i maya abbandonarono le città. Una gran parte dell'area nella
quale un tempo vivevano, studiavano le stelle e costruivano favolose piramidi, è tornata alla
giungla. Mentre i toltechi e in seguito gli aztechi salivano al potere nelle province settentrionali
che circondano l'attuale Città del Messico, i maya superstiti si rifugiarono o fra le colline a sud o
nelle pianure della penisola dello Yucatán, a nord. La zona centrale, che era stata la sede della
loro massima fioritura, fu abbandonata per sempre.
Nel 15114 sbarcò nello Yucatán la prima di numerose spedizioni spagnole che tentarono senza
troppo successo di scoprire una sorgente d'oro; ma ormai anche quella penisola, ultimo avamposto
di una cultura ibrida tolteco-maya, era sprofondata nella decadenza. Costretti per il momento a
rinunciare alla conquista dello Yucatán, gli spagnoli appresero tuttavia dell'esistenza di una preda
molto più grande e ricca a nord e a ovest: l'impero degli aztechi, allora in piena fioritura.
Sarebbe passato molto tempo prima che qualcuno prestasse di nuovo attenzione alla cultura
perduta dei maya.
L'impero di Montezuma
Gli aztechi erano un popolo guerriero che giunse nella valle del Messico durante il secolo XIII
(vedi figura 1). Secondo la tradizione provenivano da un luogo chiamato Aztlán, che si ritiene
situato nel Messico settentrionale e dal quale deriva il nome « azteco », anche se fra loro si
definivano « mexica ». Stando alle leggende narrate in seguito ai cronisti spagnoli, i mexica
furono condotti nella valle di Messico da un veggente di nome Tenoch.
Questi aveva appreso in sogno che lui e il suo popolo dovevano proseguire la migrazione finché
non fossero giunti in un luogo che avrebbe riconosciuto vedendo un'aquila lottare con un
serpente. Una volta arrivati nella valle del Messico, che a quell'epoca era ancora occupata in gran
parte da un vasto lago, scoprirono che le terre circostanti erano già occupate da altre cinque
tribù. Queste popolazioni naturalmente si mostrarono diffidenti verso i nuovi arrivati e
tutt'altro che disposte a cedere le loro terre. Dopo essersi consultate fra loro, però,
raggiunsero un accordo: avrebbero offerto agli aztechi un'isola disabitata al centro del lago,
Secondo un insigne studioso dei maya, Michael D. Coe, ogni nobile maya avrebbe avuto un alter ego chiamato uay.
Questo assumeva la forma di un animale qualsiasi, dal giaguaro al topo, che poteva essere contattato mediante i sogni.
Coe suggerisce inoltre l'ipotesi che alcuni edifici delle città maya fossero luoghi per dormire, nei quali i re maya potevano
rivolgersi a questi spiriti invocando una visione: si veda MICHAEL D. COE The Maya, pp. 200-201.
3
Fra queste pratiche era inclusa la perforazione del pene con una lancia cerimoniale. Una di queste lance è impugnata dal
re Chan Bahlum in un fregio all'interno del Tempio della Croce di Palenque. A quanto pare, far scorrere il proprio sangue
in questo modo era una pratica diffusa anche nello Yucatán, e descritta da fra Diego de Landa nel suo libro Relazione
sullo Yucatán.
4
Secondo de Landa, i primi spagnoli a sbarcare nello Yucatààn furono Geronimo de Aguilar e i suoi compagni, nel 1511.
Tuttavia John Stephens nel suo Incidents of Travel in Yucatán asserisce che Juan Dias de Solis era arrivato prima di
loro, nel 1506, insieme con uno dei compagni di Colombo, Vincent Yanez Pinzόn. Queste prime spedizioni non ebbero
successo e solo nel 1542 Don Francisco Montejo riuscì finalmente a soggiogare gli indios e a scoprire Merida.
2
sulla quale avrebbero potuto stabilirsi, se lo desideravano. L'offerta dell'isola era un'esca
avvelenata, nel senso letterale del termine, giacché gli indigeni sapevano che era infestata da
serpenti velenosi, che nelle loro intenzioni avrebbero dovuto risolvere il problema degli aztechi al
posto loro; ma erano destinati a restare delusi. Quando Tenoch e i suoi seguaci raggiunsero
l'isola, videro il segno che andavano cercando: una grande aquila, intenta a lottare con un
serpente che teneva nel becco, posata su un cactus. Entusiasta, Tenoch dichiarò che quello era il
posto che il sogno gli aveva ordinato di cercare. Inoltre gli aztechi non furono respinti dai
serpenti, giacché nel loro paese di origine questi erano considerati un boccone prelibato.
Ringraziando gli indigeni per aver offerto loro non solo una casa, ma anche una dispensa ben
fornita, accettarono su due piedi l'offerta dell'isola e cominciarono a costruire una nuova città,
chiamata Tenochtitlán dal nome del suo fondatore.
Figura 1 - Tabella cronologica degli imperi indigeni dell'America centrale
In breve tempo gli aztechi divennero la tribù dominante della valle del Messico, unendosi ai vicini
per formare una potente nazione che aveva come capitale Tenochtitlán (vedi fig. 2). Essi a loro
volta furono assimilati dai popoli della valle del Messico, dai quali appresero molto in fatto di
credenze religiose, usanze e attitudini. In sostanza queste idee risalivano agli antichi toltechi, un
altro popolo guerriero che alcuni secoli prima aveva dominato gran parte del Messico e qualche
lembo dello Yucatán.
I toltechi, che avevano posto la loro capitale a Τula, venticinque chilometri a nordovest di
Tenochtitlán, erano un popolo assetato di sangue e nell'ambito della loro religione solare
praticavano regolarmente sacrifici umani. Usando coltelli di ossidiana5, squarciavano il torace
delle vittime e ne strappavano il cuore ancora palpitante per offrirlo al dio sole. Erano convinti,
5
L'ossidiana è una forma di vetro vulcanico presente in natura, che si può tagliare per ricavarne strumenti affilati come
coltelli e punte di freccia. Veniva estratta nella valle di Teotihuacán ed esportata in tutta la Mesoamerica. Oggi la si usa
per ricavarne dei souvenir.
così facendo, di offrirgli il suo cibo preferito, la forza vitale dell'uomo, assicurandosi così che il
sole continuasse a sorgere.
Gli aztechi (quale sarebbe stato l'orrore di Tenoch, se fosse vissuto per vederlo!) adottarono
queste credenze e usanze superstiziose, portandole a limiti assurdi. Il sacrificio umano e in
particolare l'asportazione del cuore, divenne il mistero centrale della loro religione. Si calcola
che per la sola consacrazione del tempio principale di Tenochtitlán siano state sacrificate circa
ventimila vittime. Ogni anno almeno cinquantamila sventurati trovavano la morte in quel modo. Per
soddisfare il vorace appetito di cuori umani del sole, fu costituita un'intera casta di guerrieri,
organizzati in reggimenti, con il compito di fornire nuove vittime ai sacerdoti. Gli aztechi
incoraggiavano le rivolte fra i sudditi del vasto impero, giacché questo forniva loro il pretesto
per inviare l'esercito a fare prigionieri.
Fig. 2 - Il territorio dei maya e dei popoli confinanti
Va da sé che erano molto temuti e odiati dai popoli confinanti del Messico, che ribollivano di
risentimento e sognavano di spodestare gli aborriti aztechi. La loro unica speranza risiedeva nella
leggenda, ormai semidimenticata, che un giorno un re-dio, un bianco con la barba di nome
Quetzalcoatl, sarebbe tornato dalla sponda opposta del mare a liberare il popolo e reclamare il
regno per sé. Brandendo la spada, avrebbe posto fine al dominio azteco inaugurando una nuova
era di pace, prosperità e giustizia. Poiché era stato profetizzato molto tempo prima che
Quetzalcoatl sarebbe tornato in un anno chiamato 1 Canna, fu con una certa trepidazione che,
proprio quell'anno, Montezuma II, re degli aztechi, accolse l'annuncio dell'arrivo nel suo paese di
uomini barbuti con la pelle bianca.
La conquista del Messico
Il 4 marzo 1519 Hernan Cortés sbarcò sulla costa del Messico con undici navi, seicento soldati,
sedici cavalli e alcuni pezzi di artiglieria, occupando subito la città di Tabasco. Prima di spingersi
nell'interno, fondò una nuova colonia spagnola chiamata Vera Cruz, si promosse al grado di
capitano generale e poi, per distruggere ogni possibilità di ritirata, bruciò le navi. Avido di oro e
affiancato da nuovi alleati raccolti nella repubblica indigena di Tlaxcala, si diresse verso la
capitale degli aztechi, Tenochtitlán. Cominciava così una delle avventure più straordinarie di
tutta la storia mondiale: infatti i conquistadores avrebbero distrutto un impero della cui
potenza, al momento dello sbarco, potevano avere appena una vaga idea.
Da principio gli aztechi e i loro nemici locali credettero che l'invasore spagnolo Cortés fosse
davvero il dio Quetzalcoatl6, il cui ritorno dall'oriente era stato profetizzato da tempo. Dio o
meno, Cortés giunse con la spada in mano e, con una campagna durata poco più di due anni,
distrusse del tutto l'impero azteco. Il 13 agosto 1521 Tenochtitlán era nelle sue mani,
Montezuma II era morto e il successore Cuahtemoc, l'ultimo imperatore degli aztechi, era suo
ostaggio7. Fu così che uno dei paesi più ricchi del mondo, che fino a quel momento era del tutto
sconosciuto agli europei, divenne una provincia della Spagna.
Quando Cortés arrivò a Tenochtitlán rimase abbagliato e sbigottito dallo spettacolo che si offrì
ai suoi occhi. Era una metropoli grande e piena di vita, con una cultura propria. La città era
costruita sull'isola originaria, al centro del lago, e circondata da una rete di canali che davano
accesso a una miriade di isolotti artificiali utilizzati per le colture; si coltivavano soprattutto
mais, peperoncini piccanti e fagioli, che ancor oggi sono la base dell'alimentazione in Messico.
La città era enorme in confronto a quelle che Cortés si era lasciato alle spalle in Europa: secondo
alcune stime, contava una popolazione di duecentomila persone. Benché la maggior parte delle
case fosse fatta di canne e intonaco, la nobiltà e i sacerdoti vivevano in magnifici palazzi di
pietra. C'erano anche spiazzi aperti nei quali si tenevano mercati; come in ogni altro centro civile
abitato, anche qui la popolazione barattava merci e servizi in cambio di cibo. Al centro della città
sorgeva un complesso di templi che comprendeva edifici a forma di piramide a gradini 8; questi
erano ricoperti di stucchi policromi e a prima vista dovevano apparire splendidi. Tuttavia intorno
a quei monumenti imponenti aleggiava un fetore spaventoso, perché era là che i sacerdoti
svolgevano i sanguinosi rituali che erano parte integrante della religione azteca. Dopo che il
cuore ancora pulsante delle vittime era stato strappato dal torace e offerto al sole, i cadaveri
venivano scaraventati giù dai gradini della piramide. Venne riferito dagli spagnoli (ma potrebbe
trattarsi di una calunnia) che gli aztechi erano cannibali e che almeno alcune vittime di quei riti
barbari finivano nella pentola.
Qualunque fosse la verità su questo punto, non c'è dubbio che gli spagnoli rimasero
profondamente scossi da quei riti, che indurirono i loro cuori nei confronti tanto della città
quanto dei suoi abitanti. Per quanto risultava agli spagnoli, tutti gli indios erano demoni idolatri e
dovevano essere convertiti al cristianesimo, se necessario con la forza. Dopo avere sconfitto gli
aztechi e catturato Cuahtemoc, Cortés ordinò la distruzione totale della capitale, in modo che
anche il ricordo del suo passato satanico fosse cancellato. Tenochtitlán fu rasa al suolo, i palazzi
e i templi furono abbattuti con la dinamite per riutilizzarne le pietre nella costruzione di nuove
chiese e residenze per i conquistatori. Intanto gli indigeni venivano ridotti in schiavitù e
impegnati nell'arduo lavoro di ricostruzione, ma in breve tempo la popolazione fu decimata
dall'eccesso di lavoro, dalle malattie e dai massacri. Sotto minaccia di morte, gli abitanti del
Messico furono costretti a convertirsi al cattolicesimo, rinunciando alle loro antiche divinità. Si
videro proibire l'uso della scrittura nella loro madrelingua e dovettero imparare lo spagnolo.
Tutte le testimonianze scritte dei tempi antichi che si riuscivano a trovare vennero distrutte. Gli
6
Il nome Quetzalcoatl (in lingua maya Kukulcan) significa « serpente piumato» e viene applicato in modo piuttosto
sconcertante a vari personaggi divini, diversi ma correlati. Il Quetzalcoatl di cui si attendeva il ritorno doveva essere
un'incarnazione del dio immortale omonimo, un po' come Gautama era un'incarnazione di Buddha.
7
Cuahtemoc fu portato come ostaggio da Cortés in Guatemala, dove, una volta esaurita la sua utilità, fu assassinato; e del
resto neanche lui probabilmente si aspettava di più.
8
La più famosa di queste piramidi a gradini era il Templo Mayor che, secondo lo stile proprio degli aztechi, era
sormontato da due templi gemelli dedicati agli dèi Tlaloc e Huitzilopochtli. A Tenochtitlán esistevano numerose altre
piramidi, compresa una di forma ellittica, con una torre rotonda.
idoli e gli altri oggetti di grandi dimensioni che non era facile distruggere, bruciare o fondere,
furono sepolti per cancellarne l'influenza maligna. Degli indicibili atti di crudeltà compiuti
dall'Inquisizione in nome del cristianesimo, probabilmente meno si parla e meglio è. Gli spagnoli in
Messico si comportarono un po' come i cinesi che, sulle orme dell'invasione di Mao nel Tibet, si
diedero a spogliare quel paese non solo dell'oro, dell'argento e di altri metalli preziosi, ma anche
e soprattutto della sua cultura. Per fortuna vi furono uno o due esponenti della Chiesa più
illuminati che fecero del loro meglio per registrare almeno alcune delle tradizioni indigene prima
che scomparissero del tutto.
Il personaggio più notevole fra loro fu il francescano Bernardino de Sahagún, che si recò in
Messico nel 1529 per accompagnare numerosi indios che venivano rimpatriati dopo che erano
stati condotti in giro per la Spagna per il diletto della corte. Da loro riuscì ad apprendere la
lingua locale, il nahuatl.9 In seguito viaggiò in lungo e in largo per il Messico e durante la sua lunga
vita accumulò un vasto repertorio di testimonianze sul folclore, racchiuse in dodici volumi.
Cercando i più colti fra gli indios superstiti e pregandoli di narrare le leggende del loro popolo
con la massima fedeltà possibile, Sahagún riuscì a ricostruire gran parte della storia recente
prima della conquista.
Durante l'occupazione spagnola, tanto la Chiesa quanto lo Stato dissuadevano energicamente gli
studiosi dal pubblicare qualunque opera potesse rivelare che il Messico prima dell'invasione di
Cortés aveva una civiltà o una storia degna di questo nome. Fu Sahagún ad apprendere dai suoi
amici indigeni che, al contrario, prima degli aztechi era esistita una popolazione più antica che
dominava la valle di Messico e che veniva indicata semplicemente col nome di «toltechi »,10
termine che significa « artista » o « costruttore » e che si riferiva alla loro straordinaria abilità
in questo campo. La loro capitale era stata una città leggendaria chiamata Tollan, dove, sotto la
guida di un capo ispirato dagli dei e chiamato Quetzalcoatl,11 avevano sviluppato le arti e i
mestieri fino a raggiungere un livello molto elevato. Come avrei scoperto in seguito, Quetzalcoatl
era qualcosa di più che un eroe popolare: personificava la meta e gli scopi di una religione
estremamente spirituale e pacifica che un tempo, molto prima dell'avvento degli spagnoli, aveva
dominato gran parte dell'America centrale. A quanto pareva, i toltechi erano anche provetti
astronomi, che tenevano il computo dei giorni e un'accurata registrazione del moto dei pianeti.
Questa età dell'oro era finita quando, intorno al 950 dopo Cristo, Quetzalcoatl era stato
costretto a trasferirsi a est dopo un conflitto interno. In seguito la valle era stata invasa da una
serie di tribù meno civili provenienti dal nord, l'ultima delle quali era quella degli aztechi.12 Gli
aztechi avevano conservato alcune conoscenze degli antichi toltechi, ma molto era andato
perduto, compresa, a quanto pareva, la città di Tollan.
Sahagún era convinto che in effetti prima degli aztechi il Messico doveva aver conosciuto una
grande civiltà, incentrata, precedentemente alla costruzione di Tollan, sulla città abbandonata di
Teotihuacán. Questa località, circa sessantacinque chilometri a nord di Città del Messico,
comprende le imponenti piramidi del Sole e della Luna, a quel tempo sepolte sotto cumuli di terra.
Gli aztechi avevano ereditato dai toltechi la convinzione che un giorno Quetzalcoatl, che era
venerato come un dio, sarebbe tornato a guidare il suo popolo. Inoltre credevano che a
Teotihuacán Quetzalcoatl avesse sacrificato alcuni dèi per consentire al sole di continuare a
muoversi nel cielo. I loro veggenti e profeti sostenevano che sarebbe tornato nella sua città di
origine per rovesciare l'impero azteco.
9
Il nahuatl era la lingua franca dello stato azteco e all'epoca della conquista veniva usato largamente come linguaggio
commerciale in gran parte del Messico meridionale. I maya, comunque, avevano un gran numero di altre lingue.
10
Si ritiene che i toltechi siano arrivati nella valle di Messico intorno all'anno 850 d.C. e siano stati la potenza dominante
fin verso il 1250.
11
Il nome Quetzalcoatl era usato tanto come titolo di un capo quanto come designazione di una delle divinità principali.
12
Si pensa che gli aztechi siano giunti nella valle di Messico nel corso del secolo XIII
Per ironia della sorte, fu proprio a Teotihuacán che Cortés e i suoi uomini combatterono una
battaglia cruciale contro le schiere di Montezuma. Come nel resto dell'America, le armi indigene
non potevano reggere il confronto con le armi da fuoco e le armature degli europei; ciò
nonostante, gli spagnoli erano in netta inferiorità numerica e stavano per essere sopraffatti.
Circondati da molte migliaia di indios armati di lance, sferrarono un disperato attacco e uccisero
il comandante dell'esercito avversario, « Donna Serpente ». Di fronte a quel presagio funesto,
molti indigeni furono assaliti dal panico e abbandonarono il campo di battaglia, consentendo così a
Cortés e agli altri superstiti di fuggire per tornare a combattere in seguito. Infatti un anno dopo
Cortés si ripresentò con un esercito molto più numeroso e conquistò la capitale degli aztechi,
Tenochtitlán.
Dalle ceneri della distruzione doveva sorgere Città del Messico, capitale della Nuova Spagna, la
più ricca di tutte le colonie del re di Spagna. Ben presto la città cominciò ad attirare migliaia di
immigrati, quasi tutti uomini e per lo più avventurieri, missionari e mercanti. Città del Messico fu
costruita come una capitale scintillante di stile europeo, e si fondarono altre città, come
Guadalajara, Veracruz e Acapulco, dando inizio a un nuovo mondo di prosperità per gli immigrati,
anche se non per gli indios, che ricevevano un pessimo trattamento.
Sahagún indagò a fondo su quel periodo storico e rimase scosso dalle storie che udì. Nei suoi
scritti edulcorò gran parte degli episodi che gli indigeni gli avevano narrato sulle atrocità seguite
all'invasione, ma anche così non ricevette l'autorizzazione a pubblicare apertamente la sua opera.
I suoi libri furono condannati all'oblio dagli ambienti ufficiali che tentavano di accreditare
un'immagine positiva della conquista. Comunque, anche se la sua opera fu relegata nell'ombra e
infine andò perduta nella versione integrale, una copia incompleta del manoscritto venne alla luce
nel 1808, durante l'invasione francese in Spagna, e fu pubblicata finalmente nel 1840.13
Racconti di viaggiatori
Gli stranieri, ossia i non spagnoli, ammessi in Messico prima dell'indipendenza furono ben pochi, e
coloro che riuscivano a entrarvi erano controllati con attenzione. Fra coloro che vi riuscirono
c'era un napoletano, Giovanni Careri, che arrivò ad Acapulco, sulla costa occidentale, nel 1697,
dopo un viaggio allucinante durato cinque mesi da Manila, nelle Filippine, che allora facevano
parte anch'esse della Nuova Spagna. Viaggiando in lungo e in largo per il paese, rimase scosso
nello scoprire quante delle sue ricchezze fossero nelle mani della Chiesa. Tuttavia fece amicizia
con un sacerdote che si chiamava Don Carlos de Sigüenza y Gongora ed era stato espulso dalla
Compagnia di Gesù. Questi, avendo coltivato l'amicizia degli indios, era in possesso di una
collezione di valore inestimabile, composta di manoscritti e dipinti sfuggiti ai falò di
centocinquanta anni prima. Fra i suoi amici c'era Don Juan de Alva figlio di un certo Fernando de
Alva Cortés Ixtlilxochitl e diretto discendente dei re di Texcoco. Questo Ixtlilxochitl era un
uomo colto e aveva scritto in lingua spagnola la prima storia del Messico. Sigüenza mostrò l'opera
a Careri, il quale scoprì con stupore che parlava di un antico calendario messicano scomparso al
tempo della conquista. Si diceva che con l'aiuto di quel calendario i sacerdoti aztechi fossero in
grado di tenere una cronologia accurata per lunghi periodi di tempo. Apparentemente era basato
su cicli di 52 e 104 anni, ma registrava anche i solstizi e gli equinozi, oltre al moto del pianeta
Venere.
Sigüenza stesso aveva svolto molte ricerche sulla cronologia dell'antico Messico. Come
professore di matematica all'università del Messico e appassionato di astronomia, era ben
qualificato per condurre ricerche del genere. Utilizzando i rari documenti in suo possesso e
Una copia incompleta dell'opera principale di Sahagún, Historia generai de las cosas de Νueva España, fu pubblicata nel
1840 da Carlos M. Bustamente e tradotta in inglese un secolo dopo. Di solito viene definita « Codice fiorentino ».
13
compiendo accurati calcoli sulle eclissi solari e lunari, oltre che sui movimenti delle comete e
degli altri corpi celesti, era riuscito a ricostruire una cronologia degli indios, tanto precisa da
poter indicare date esatte, fra cui l'inizio dell'impero azteco e la fondazione di Tenochtitlán, nel
1325. Inoltre aveva concluso che prima del regno dei leggendari toltechi era vissuto un altro
popolo, quello degli olmechi,14 ovvero il « popolo della gomma », così chiamato perché viveva nella
regione del Messico in cui crescono spontaneamente gli alberi della gomma. Sigüenza era convinto
che gli olmechi provenissero dalla mitica isola di Atlantide e fossero gli artefici delle piramidi di
Teotihuacán. Iniziò Careri a quello studio esoterico e l'italiano inserì doverosamente la teoria di
Atlantide e il materiale relativo al calendario nel suo libro, Giro del mondo, che scrisse durante il
viaggio di ritorno in Europa. E fu un bene che Careri mettesse nero su bianco, perché subito dopo
la morte di Sigüenza, lo stesso anno, il suo preziosissimo archivio fu disperso o distrutto
dall'Inquisizione. I manoscritti furono acquistati dai gesuiti, ma andarono perduti anch'essi (a
meno che non siano ancora sepolti in qualche biblioteca), quando l'ordine fu espulso dal Messico
nel 1767.
Poiché la maggioranza degli europei era dell'opinione che prima della conquista gli indios del
Messico fossero semplici selvaggi, capaci a stento di contare sulle dita fino a dieci, il rapporto di
Careri sul calendario azteco nel Giro del mondo fu accolto con derisione. Non contribuì a
migliorare la sua posizione il fatto che fosse piuttosto scarso come matematico e non avesse
saputo esporre nel modo migliore gli argomenti di Sigüenza. Comunque, se non altro, aveva
tramandato ai posteri l'idea di un calendario azteco. Ben presto sarebbe arrivato dall'Europa un
altro esploratore che aveva letto Careri, con l'intento di portare alla luce altri aspetti del
passato del Messico.
Il barone Friedrich Heinrich Alexander von Humboldt era una figura ben nota nella letteratura
europea e nei circoli politici, amico di Goethe, Schiller e Metternich. Per puro caso non aveva
partecipato alla spedizione in Egitto con Napoleone e i suoi savants, solo perché la nave sulla
quale doveva compiere la traversata era affondata in una tempesta. Si recò invece in America,
per vedere quali avventure la sorte aveva in serbo per lui laggiù. Nel 1803 arrivò ad Acapulco
dall'Equador insieme ad alcuni amici, munito di molti degli strumenti scientifici più recenti, fra
cui attrezzature per rilievi topografici e telescopi. Dopo aver compiuto varie misurazioni
topografiche della zona, il gruppo si diresse verso Città del Messico, attraversando la regione di
Taxco, ricca di miniere d'argento. Pur essendo protestante, Humboldt ricevette una buona
accoglienza dal viceré, che gli concesse inaspettatamente l'accesso agli archivi riservati del
paese. Dopo averli esaminati, Humboldt rivolse la sua attenzione alle antichità che la città poteva
ancora offrire. Una di queste era un enorme disco solare di pietra, dissotterrato appena dodici
anni prima. Lo aveva già esaminato uno storico, Leon y Gama, che aveva dedicato la propria vita
allo studio di antichi documenti messicani e che, come Sigüenza, parlava correntemente il
nahuatl, la lingua indigena. Egli aveva riconosciuto nella pietra il leggendario calendario azteco
citato da Ixtlilxochitl e Sigüenza. Tuttavia quando aveva pubblicato un opuscolo sulle sue
scoperte in questo campo era stato ridicolizzato dal clero spagnolo, deciso a sostenere che il
disco di pietra era un altare sacrificale e il suo intricato disegno aveva uno scopo puramente
decorativo (vedi fig. 3).
Humboldt, vedendo la pietra ancora appoggiata contro il muro occidentale della cattedrale vicino
al quale era stata scoperta, si trovò d'accordo con Leon y Gama. Da astronomo, riteneva evidente
che la pietra avesse il significato di un calendario. Per il suo occhio allenato era la prova che gli
aztechi possedevano davvero una conoscenza avanzata dell'astronomia e dovevano disporre di un
sistema matematico estremamente sofisticato. Non solo Humboldt confermò l'opinione di Leon y
Gama che gli otto triangoli che s'irradiavano dal centro rappresentavano le varie parti del giorno,
14
Il termine « olmechi », sebbene ancora di uso corrente, non viene più utilizzato negli ambienti accademici; si preferisce
il termine più preciso di « protomaya ».
ma notò inoltre che molti dei simboli usati dagli aztechi per indicare i mesi della durata di
diciotto giorni, erano uguali a quelli usati nell'Asia orientale. Concluse quindi che lo zodiaco in uso
nelle due regioni doveva avere una origine comune.
Figura 3 - Il disco di pietra del calendario azteco
Proseguendo per New York, dove fece visita a un confratello massone, Thomas Jefferson,
Humboldt si dedicò a produrre parecchi volumi in-folio sui viaggi compiuti in America. Queste
opere, una volta pubblicate, avrebbero sbalordito i contemporanei europei. A quanto pareva,
finalmente una figura rispettabile, un uomo di scienza e di prestigio, sfidava l'opinione corrente
che, prima della conquista, gli abitanti del Messico fossero in tutto e per tutto dei selvaggi.
Oltre a sfruttare le risorse minerarie del paese, gli europei erano ansiosi di potenziarne
l'agricoltura. Poiché la maggior parte del terreno era inadatta all'aratura e alla coltivazione, il
modo più redditizio per utilizzarlo era l'allevamento del bestiame. Questo però significava
espropriare le piccole tenute tradizionali degli indios e la conseguente formazione di grandi
ranch contribuì al disagio delle popolazioni rurali già impoverite. I motivi di scontento non
mancavano e la rivoluzione francese del 1789, con il suo slogan libertà, eguaglianza e fraternità,
dovette agire indirettamente da catalizzatore dei rinnovamenti, tanto in Messico quanto in
Francia. Quando Napoleone depose il re di Spagna per mettere sul trono suo fratello, sorsero
parecchi dubbi sulla legalità del possesso spagnolo del Messico. L'esempio degli Stati Uniti, a
nord, stava a dimostrare che una colonia poteva scuotersi di dosso il giogo dei padroni europei,
quindi non passò molto tempo prima che i messicani entrassero in aperta rivolta. Gli spagnoli
furono scacciati e cominciò un lungo periodo di lotte, che doveva fornire materia ad almeno un
migliaio di western all'italiana per oltre un secolo.
Uno degli effetti collaterali dell'indipendenza messicana fu che rese molto più facile l'ingresso
nel paese agli stranieri che non fossero di nazionalità spagnola. Il risultato fu un afflusso di
numerosi intrepidi esploratori, fra i quali l'inglese William Bullock, salpato nel 1822 da Liverpool
alla volta di Veracruz per ripercorrere le orme di Humboldt fino a Città del Messico. Come
Humboldt, anch'egli rimase seriamente impressionato dal calendario di pietra azteco, che a suo
parere doveva aver fatto parte del tetto del grande tempio di Tenochtitlán, un po' come il
celebre zodiaco egiziano di Denderah, allora trasferito da poco alla Biblioteca Nazionale di
Parigi.15 Dopo avere preso dei calchi in gesso del disco di pietra, Bullock dedicò la sua attenzione
15
Lo zodiaco di Denderah è una mappa astrologica tratta dal soffitto di un tempio nell'Egitto superiore. Risale al tardo
periodo tolemaico (I secolo a.C.) e ritrae le costellazioni in modo figurativo. È stato trasportato nel 1820 alla
Bibliothèque Nationale di Parigi e ora si trova al Louvre.
a un altro reperto che era stato portato alla luce da Humboldt e poi frettolosamente riseppellito
dalle autorità perché troppo orribile a vedersi.
Figura 4 - Coatlicue, la dea della terra
Era una statua imponente, alta due metri e settanta e pesante dodici tonnellate, di Coatlicue, la
dea madre del pantheon nahuatl (vedi fig. 4). Bullock avrebbe annotato: « Ho avuto il piacere di
assistere alla resurrezione di questa orribile divinità, dinanzi alla quale erano state sacrificate
decine di migliaia di vittime umane nel sanguinario fervore religioso dei fedeli infatuati ».
Ricavato da un unico blocco di basalto, l'idolo, di forma vagamente umana, era davvero
spaventoso. La testa era composta da due teste di serpente affrontate; anche le braccia erano
fatte di serpenti, così come il panneggio fremente della veste, intrecciata con le ali di un
avvoltoio. I piedi erano di giaguaro, con gli artigli sguainati come se fossero pronti a ghermire la
preda. Sugli enormi seni sformati pendeva una collana scolpita fatta di teschi, cuori e mani
recise, tutti uniti da viscere. Per quanto strana e terrificante, questa immagine della dea della
vita e della morte, con strani echi della divinità indù Κali, era scolpita con grande perizia.
Chiunque avesse eseguito quello straordinario capolavoro era chiaramente un grande scultore,
all'altezza dei migliori artisti dell'antico Egitto, dell'Europa o dell'Estremo Oriente. Bullock si
rese conto che esisteva una strana dicotomia: com'era possibile che una società tanto sofisticata
producesse una scultura superba ma così incredibilmente selvaggia? Per quale motivo al mondo un
popolo civilizzato poteva desiderare di sacrificare esseri umani a migliaia per soddisfare la sete
di sangue di un pezzo di pietra inerte, per quanto meravigliosamente scolpito? Le autorità
messicane degli inizi dell'Ottocento non avevano risposte a queste domande e così, pur di non
sentirsi costantemente ricordare certe sgradevoli contraddizioni, fecero seppellire di nuovo la
statua in fretta e furia.
Bullock proseguì per visitare Teotihuacán prima di tornare a Londra con una collezione di flora e
fauna esotica da aggiungere ai calchi in gesso di Coatlicue e del disco di pietra del calendario, ai
modellini delle piramidi del Sole e della Luna e ad altri trofei. Questi furono esposti nella « Sala
egiziana » da lui ridisegnata a Piccadilly, e il disco di pietra del calendario fu ribattezzato
«l’orologio di Montezuma» dalla sempre fertile fantasia dei giornalisti inglesi. A parte alcuni
manoscritti rari e i costosi in-folio illustrati di Humboldt, era la prima volta che i reperti
messicani venivano portati in Europa e giudicati per il loro valore intrinseco e non solo per il
contenuto in oro o in argento. Bullock, che era gioielliere e mercante, aveva tuttavia anche altri
motivi, non del tutto filantropici. Infatti utilizzò i proventi della mostra londinese per acquistare
una miniera d'argento in Messico.
La scoperta dei maya
È sorprendente che per oltre due secoli dopo l'invasione di Cortés né gli intellettuali né gli
avventurieri prestassero molta attenzione alle regioni meridionali del paese. Forse a causa del
clima caldo, anzi addirittura torrido, ma più probabilmente a causa della mancanza di risorse
minerarie evidenti, preferirono dirigersi a nord, spingendosi fino alla Florida, al Texas, al Nuovo
Messico e alla California, tutti paesi che erano stati colonizzati dagli spagnoli prima di essere
ceduti agli Stati Uniti, allora in ascesa. Il risultato è che il Messico meridionale resta ancor oggi
più autenticamente indigeno di qualunque altra regione del paese, conserva molte delle sue
tradizioni e manifesta tendenze separatiste. Di recente, nel 1994, nello stato del Chiapas è
scoppiata una rivolta contro il governo centrale messicano. La città di Cristobal de las Casas è
stata occupata dai guerriglieri « zapatisti », così chiamati da Emiliano Zapata, eroe messicano e
combattente per la libertà. Vi sono state molte vittime e l'insurrezione è stata repressa
dall'esercito con una certa difficoltà, causa di estremo imbarazzo per un governo ansioso di dare
alla World Bank l'impressione che il Messico sia un luogo sicuro nel quale fare investimenti. La
popolazione che ha scatenato la rivolta era composta di maya cholan,16 discendenti di una nazione
che un tempo ha prodotto la più grande civiltà precolombiana d'America. Si sapeva ben poco del
suo straordinario passato fino al 1773, quando un canonico della cattedrale di Ciudad Real nel
Chiapas, frate Ordoñez, raccolse la voce che nascosta nella giungla c'era un'intera città
abbandonata, di proporzioni straordinarie. Con autentico spirito coloniale, si fece trasportare in
palanchino dai parrocchiani per quasi cento chilometri fino al luogo in cui sorgeva la presunta
città perduta. Là, completamente avviluppato dalla vegetazione della giungla, si offrì ai suoi occhi
uno spettacolo impressionante: Palenque.
Affacciata sulla verde pianura alluvionale del fiume Usumacinta, questa città abbandonata, che
comprende piramidi, templi e palazzi di calcare bianco, sorge ai piedi di una bassa catena di
colline interamente ricoperte dalla foresta pluviale. Qui are macao e pappagalli dai colori vivaci
volano sulla cima degli alberi e l'ululato delle scimmie si sente in lontananza. In questo scenario
magnifico i maya costruirono la loro città più imponente, che ancor oggi racchiude molti segreti
ed enigmi per gli archeologi e gli storici insieme. Padre Ordoñez descrisse le sue scoperte in una
monografia intitolata Storia della creazione del cielo e della terra, cercando di spiegare le
rovine, che battezzò la Grande Città dei Serpenti, alla luce dei miti locali. Egli sosteneva che
Palenque era stata creata da un popolo proveniente da Atlantide e guidato da un uomo di nome
Votan, che aveva come simbolo il serpente.
La storia di Votan era narrata in un libro dei maya quiché dato alle fiamme nel 1691 dal vescovo
del Chiapas, Nuñes de la Vega. Per fortuna il vescovo aveva copiato parte del testo prima di
16
I maya sono divisi in un certo numero di gruppi linguistici, tutti probabilmente derivati dallo stesso ceppo protomaya. I
gruppi più importanti sono gli yucatecan, della penisola dello Yucatán, i cholan, della regione centrale, e i quiché, ancora
più a oriente, in Belize e Guatemala.
bruciarlo e da questa copia padre Ordoñez aveva ricavato la storia. Secondo il libro, Votan era
arrivato in America con un corteggio di seguaci vestiti di lunghe tuniche. Gli indigeni si erano
mostrati cordiali, sottomettendosi al suo dominio e gli stranieri avevano sposato le loro figlie. Pur
avendo bruciato il libro originale, il vescovo Nuñes era abbastanza interessato alla storia da
prendere sul serio la voce che vi era riportata, secondo la quale Votan aveva collocato un tesoro
segreto in una casa buia e sotterranea. Cercando quel tesoro per tutta la sua diocesi, alla fine
aveva creduto di trovarlo, ordinando a chi lo custodiva di arrendersi e di consegnarlo: ma si era
trovato di fronte a qualche giara d'argilla chiusa, alcune pietre verdi (probabilmente giada) e
qualche manoscritto. Questi ultimi li aveva subito bruciati sulla piazza del mercato insieme al
libro di Votan.
Secondo la copia finita fra le mani di Ordoñez, Votan aveva attraversato ben due volte
l'Atlantico per tornare nell'antica patria, chiamata Valum Chivim, che il frate identificava con la
città di Tripoli in Fenicia. Era sottinteso dunque che Votan fosse un navigatore fenicio che aveva
scoperto le Americhe forse due millenni o più prima di Colombo. Secondo la leggenda, in almeno
uno dei suoi viaggi in patria Votan aveva visitato una grande città nella quale era in costruzione un
tempio che avrebbe sfiorato il cielo, anche se era condannato a portare a una confusione delle
lingue. Il vescovo Nuñes, nel suo libro Constitutiones Diocesanos de Chiapas, affermava che la
città visitata da Votan doveva essere Babilonia, con la sua famosa torre; ammesso che la vera
torre di Babele fosse una ziqqurat e che Babilonia fosse la città più grande della terra al tempo
dei navigatori fenici, era un'idea allettante. Le ziqqurat della Mesopotamia erano piramidi a
gradini sormontate da templi, molto simili nell'aspetto alle piramidi di Palenque, quindi l'idea non
era tanto peregrina quanto potrebbe sembrare.
In seguito alla scoperta di Ordoñez, fu ordinata un'ispezione ufficiale delle rovine, della quale fu
incaricato un capitano di artiglieria, Don Antonio del Rio. Egli mise al lavoro squadre di indigeni
per disboscare la giungla con i machete, riportando alla luce uno dopo l'altro degli edifici
straordinari. Uno dei suoi assistenti eseguiva disegni delle costruzioni e calchi dei rilievi in
stucco, che erano di eccezionale bellezza. Del Rio era convinto che gli edifici fossero opera degli
antichi romani e citava altri esperti convinti che nell'antichità l'America settentrionale fosse
stata visitata da egiziani, greci, britanni e altri.
Questo rapporto, inviato a Madrid, incontrò l'opposizione del clero e finì sepolto negli archivi
senza clamore. Non tutto però andò perduto, dato che ne fu eseguita una copia, conservata a
Città del Guatemala. La pubblicò un italiano, il dottor Paul Felix Cabrera, il quale nella premessa
concluse che i cartaginesi dovevano essere giunti in America in epoca anteriore alla prima guerra
punica (264 a.C.) e, incrociandosi con fanciulle indigene, avevano dato origine al popolo degli
olmechi. Questa versione riveduta e corretta del rapporto di del Rio giunse finalmente a Londra,
nelle mani del libraio Henry Berthoud, che la fece tradurre e pubblicare a sue spese sotto il
titolo Description of the Ancient City Discovered Near Palenque (Descrizione dell'antica città
scoperta nei pressi di Palenque). Questa fu la prima relazione pubblicata sulle rovine di Palenque
e come al solito ci volle un estraneo al mondo scientifico per stamparla.
Negli anni che seguirono vari altri avventurieri europei raggiunsero Palenque per indagare da soli
sulle favolose rovine. Maximilien Waldeck, ex allievo di Jacques David,17 eseguì alcune belle
incisioni degli edifici. Un americano, John Stephens, e il suo amico inglese Frederick Catherwood,
che in precedenza aveva disegnato schizzi di rare antichità del Vicino Oriente, si dedicarono alla
misurazione dei templi e delle piramidi di Palenque. Lavorando in condizioni spaventose,
sofferenti di malaria e soggetti agli attacchi incessanti di zecche e mosche, i due realizzarono il
primo vero rilievo topografico del sito archeologico. Alla fine pubblicarono le loro scoperte, con
17
Jacques Louis David (1748-1825) fu uno dei più importanti pittori francesi della Rivoluzione. Fervente rivoluzionario
egli stesso, dipingeva in stile neoclassico. Nominato pittore di corte dall'imperatore Napoleone I, eseguì due dipinti
notevoli, L'incoronazione (di Giuseppina Beauhamais) e La distribuzione delle aquile. Al tempo della restaurazione
borbonica fu esiliato e si ritirò a Bruxelles.
molte eccellenti illustrazioni, in quello che divenne un best-seller del tempo, Incidents of Travel
in Central America, Chiapas and Yucatán (Episodi di viaggio in America centrale, Chiapas e
Yucatán).
Sebbene Stephens e Catherwood avessero fatto del loro meglio per attirare l'attenzione del
pubblico su Palenque e altre antiche città maya come Copán, Quiché e Uxmal, non potevano
procedere oltre nel loro lavoro, non conoscendo la lingua scritta o parlata dei maya. Ci voleva uno
studioso con la preparazione intellettuale necessaria per decifrare il codice del linguaggio maya
allo stesso modo in cui Champollion aveva decifrato i geroglifici egiziani.
Quest'uomo era l'abate Brasseur de Bourbourg. Francese come Champollion, partì per l'America
nel 1845, recandosi a New York prima di imbarcarsi per il Messico. Laggiù, grazie all'influenza di
amici potenti, riuscì ad accedere agli archivi del viceré e a leggere con i suoi occhi la storia degli
aztechi scritta da Ixtlilxochitl. Fece anche amicizia con un discendente di uno dei fratelli di
Montezuma, che gli insegnò il nahuatl. Viaggiando per tutto il paese in cerca di testi antichi, poté
salvare dall'oblio numerosi manoscritti di grande valore che allora languivano nei conventi e nelle
biblioteche. Fra questi c'era il Popol Vuh, che lo studioso tradusse dopo aver appreso i dialetti
maya dei cakchiquel e dei quiché, e che si rivelò uno dei grandi testi epici mondiali, un mito
poetico della creazione. Tornato a Parigi, l'abate lo pubblicò e si mise al lavoro su un'opera molto
più grande, l'Histoire des Nations Civilisées du Méxique et de l Amérique Centrale (Storia delle
civiltà del Messico e dell'America centrale). Ormai era ben introdotto presso le autorità
spagnole, che gli consentirono l'accesso agli archivi di Madrid. Qui trovò il manoscritto originale
del vescovo Diego de Landa, Relación de las Cosas de Yucatán (Relazione sullo Yucatán). Grazie al
fatto che il testo conteneva disegni dei geroglifici maya relativi al calendario, Brasseur de
Bourbourg riuscì a decifrare almeno in parte la loro lingua.
Sempre a Madrid conobbe un discendente di Hernan Cortés, un professore chiamato Jean de Tro
y Ortalano, che aveva in suo possesso un documento noto col nome di Codex Troanus, che
apparteneva da generazioni alla sua famiglia. Questo documento di settanta pagine, in seguito
riunito con l'altra metà, il Codex Cortesianus di quarantadue pagine, e ribattezzato « codice di
Madrid », costituisce il manoscritto maya più grande esistente al mondo, per quanto si sa finora.
Forse ingenuamente, Brasseur in questo documento maya trovò sostegno ai miti atlantici narrati
dagli indigeni della Mesoamerica. Egli riteneva che una grande isola continentale, Atlantide, si
estendesse un tempo dal golfo del Messico alle isole Canarie. I maya, a suo parere, discendevano
dai superstiti di un grande cataclisma, o meglio una serie di cataclismi, che avevano inghiottito
quel continente. Inoltre avanzò l'ipotesi rivoluzionaria che la civiltà fosse nata ad Atlantide, e
non nel Vicino Oriente come si riteneva generalmente, e che fossero stati i superstiti di
Atlantide a introdurre la civiltà in Egitto, oltre che nell'America Centrale. Queste idee non
furono prese sul serio dagli ambienti accademici, come tuttora avviene, ma se non altro fornirono
una spiegazione a certe sconcertanti somiglianze fra la scrittura maya e quella egizia.
Altri preziosi documenti messicani furono copiati e incorporati nei nove tomi, ponderosi e
riccamente illustrati, dell'opera di un altro inglese, Lord Kingsborough. Egli era convinto che i
maya discendessero dalle tribù perdute d'Israele,18 e nel suo monumentale trattato incluse
lunghe dissertazioni in questo senso. Particolare interessante, inserì un'illustrazione tratta dal
Codex Borgianus che rivelava come i segni usati nel calendario maya per indicare i venti giorni del
mese (vedi fig. 3) corrispondessero alle varie parti del corpo umano, un po' come le
raffigurazioni medievali dei dodici segni dello zodiaco e dei loro attributi. Commentando questo
18
L'antico regno di Israele, governato dal re Davide a Gerusalemme, fu diviso in due dopo la morte di Salomone. Guidate
dalla tribù di Giuseppe, dieci delle dodici tribù originali di Israele formarono uno stato a sé con una nuova capitale,
Samaria. Andarono « perdute » dopo che questo nuovo regno di Israele (Samaria) fu invaso dagli assiri e il suo popolo fu
mandato in esilio. Furono sostituite da non israeliti, definiti dalla Bibbia «samaritani». Le due tribù rimanenti del regno
meridionale di Giudea, quella di Giuda e quella di Beniamino, rimasero e divennero note col nome di ebrei. Da allora la
sorte dei discendenti delle « tribù perdute » è oggetto di dispute.
particolare nel suo libro Mysteries of the Mexican Pyramids (I misteri delle piramidi del
Messico), e senza motivo apparente, Peter Tomkins19 suggerì che l'immagine fosse connessa con
la teoria che l'energia vitale del sole si distribuisce attraverso i vari pianeti nelle ghiandole del
corpo umano da essi controllate.
Le prime fotografie delle piramidi messicane furono scattate da un francese, Claude Charnay,
che lavorava sotto gli auspici del ministro delle Belle Arti di Napoleone III Viollet-le-Duc. In
seguito Charnay compì scavi a Teotihuacán ed eseguì dei calchi in cartapesta dei rilievi di
Palenque; questi ultimi furono inviati a Parigi. Ebbe un rivale sul campo, nella persona di un inglese
che faceva parte del servizio coloniale, Alfred Maudsley. I risultati del meticoloso rilievo
topografico delle rovine maya e dei loro testi ideografici compiuto dal Maudsley furono
pubblicati infine in una edizione in venti volumi fra il 1889 e il 1902.20 Egli eseguì con grande
difficoltà dei calchi in gesso delle stele maya, che inviò in Inghilterra, dove furono confinati nel
seminterrato del Victoria and Albert Museum di South Kensington, a Londra. E là probabilmente
sono rimasti abbandonati da allora.
La lastra di Palenque
All'inizio del secolo gli avventurieri e i viaggiatori che fino a quel momento avevano dominato il
campo dovettero cedere gradualmente il passo a una nuova ondata, quella degli archeologi
professionisti. Sebbene l'archeologia del Nuovo Mondo fosse, e sia tuttora, una parente povera
di quella europea e del Vicino Oriente, pian piano il velo che celava le città dei maya si stava
sollevando. Gran parte della giungla che circondava Palenque fu disboscata, rivelando appieno i
suoi monumenti per la prima volta da quando erano stati abbandonati, oltre mille anni prima. La
scoperta di resti appartenenti a una cultura anteriore a quella dei maya e soprattutto di enormi
teste di basalto, diede consistenza alla leggenda che gli olmechi fossero stati la prima razza
civile dell'America centrale. Le moderne tecniche di scavo e un decisivo passo avanti nella
comprensione del calendario maya resero possibile la datazione dei monumenti con una precisione
tale che negli anni '50 si giunse a ricostruire una cronologia generalmente accettata per quanto
riguarda l'ascesa e il declino delle civiltà mesoamericane.
In quel periodo gli archeologi di Palenque avevano scoperto varie tombe ben fornite, talvolta
incluse nelle piattaforme dei templi e persino nei palazzi. Tuttavia queste risultarono
insignificanti in confronto alla scoperta fatta da un archeologo messicano, Alberto Ruz, nel 1952.
Fra le rovine di Palenque si trova un edificio notevole, conosciuto col nome di tempio delle
Iscrizioni (vedi tavv. 1 e 2). Questo edificio, che sorge in cima a una piramide a gradini alta
sessantacinque metri, ha un pavimento fatto di grosse lastre di pietra. L'attenzione di Ruz fu
attirata da quel pavimento quando notò che una delle lastre aveva sulla superficie una doppia fila
di fori, chiusi da tasselli in pietra asportabili. Decise che vi erano stati collocati per poter
sollevare la pietra e procedette subito a farlo, ma, nel sollevare la lastra, scoprì che al di sotto vi
era una scala riempita di ghiaia (vedi tav. 8). Furono necessarie quattro stagioni di scavo per
sgomberare il vano della scala, che a metà strada cambiava direzione, ma arrivato in fondo,
all'incirca alla stessa altezza della base della piramide, Ruz trovò una camera. Sul pavimento del
locale, sotto la ghiaia, c'erano gli scheletri di sei giovani adulti, quasi certamente vittime di
sacrifici umani. All'estremità opposta c'era un passaggio, bloccato da una grossa lastra
Peter Tompkins, un autore americano, è più noto per The Secrets of the Great Pyramid (I segreti della grande
piramide) (1971) e The Secret Life of Plants (La vita segreta delle piante), scritto in collaborazione con Christopher
Bird. La sua opera Mysteries of the Mexican Pyramids (I misteri delle piramidi messicane) (1976) riferisce con dovizia di
dettagli la storia degli studi sulle piramidi in Messico e le numerose teorie, spesso bizzarre, avanzate per dar loro una
spiegazione.
20
Biologia Centrali-Americana, Archaeology: testo, più quattro volumi di tavole.
19
triangolare (vedi tav. 7). Scostandola gli archeologi rimasero sbalorditi nello scoprire una tomba
intatta (vedi tav. 6).
La camera funeraria si rivelò di notevoli dimensioni: nove metri di lunghezza per sette di altezza.
Lungo le pareti si susseguivano figure a rilievo in stucco, dall'abbigliamento molto arcaico, che
oggi si ritiene siano rappresentazioni dei Nove Signori della Notte della teologia maya. Sul
pavimento erano disposti vari oggetti che sembravano collocati li con uno scopo ben preciso: si
trattava di due figure di giada e di due teste meravigliosamente modellate. Comunque l'elemento
di interesse più immediato era la tomba in sé, chiusa da un enorme coperchio rettangolare,
ricoperto di incisioni intricate che componevano rilievi altamente stilizzati. Sollevando il
coperchio, i ricercatori sbalorditi trovarono all'interno un autentico tesoro di oggetti d'arte
maya. Il viso del defunto, ormai decomposto, era coperto da una splendida maschera a mosaico di
giada (vedi tav. 3). L'uomo sepolto nella tomba portava ciondoli alle orecchie in giada e
madreperla, numerose collane di grani tubolari di giada e anelli di giada alle dita. Aveva un grosso
pezzo di giada in ciascuna mano e un altro in bocca, una pratica tipicamente cinese, ma diffusa
anche presso i maya e gli aztechi. Per quanto splendido fosse questo tesoro (e la maschera di
giada è tuttora la più bella che sia mai stata trovata), la scoperta più sconcertante era
rappresentata dal coperchio del sarcofago (vedi tav. 20).
La lastra di Palenque pesa circa cinque tonnellate ed è troppo grande per essere rimossa dalla
tomba, dove si trova tuttora. E stata oggetto di attenta osservazione da parte di studenti e
studiosi ansiosi di interpretarne i misteriosi disegni. Il più celebre è lo scrittore e studioso
svizzero di fatti extraterrestri, Erich von Däniken. Nel suo libro Chariots of the Gods (I carri
degli dèi), egli ha avanzato l'ipotesi che la figura enigmatica al centro della lastra rappresenti un
essere giunto dallo spazio a bordo della sua astronave. Va da sé che un suggerimento del genere
gli ha attirato lo scherno degli archeologi che operano nel settore. Benché essi siano riusciti a
identificare l'uomo sepolto nella tomba come un re di Palenque molto rispettato e chiamato
Signore del Sole Pacal morto nell'anno 683 d.C. all'età di ottant'anni, non c'era nulla che
suggerisse che a quell'epoca lui o chiunque altro in Messico avesse mai visto una navicella
spaziale, per non parlare di guidarla. Come le teorie precedenti che collegavano i maya con
Atlantide, l'antico Egitto e le tribù perdute d'Israele, le teorie sul dio come astronauta maya
sono finite nel limbo delle ipotesi respinte. Eppure, per quanto sgradite alla corrente dominante
nel mondo accademico, le sue tesi erano in sintonia con le mode degli anni '60 e il suo libro
divenne un best-seller internazionale. Volenti o nolenti, gli archeologi che si occupavano del
Messico si trovarono di fronte a un pubblico fin troppo disposto ad accogliere le teorie di von
Däniken e la lastra di Palenque divenne un totem che rappresentava tutto ciò in cui egli credeva.
Non c'è da stupirsi che si mostrassero diffidenti quando Maurice Cotterell si fece avanti con una
nuova e discussa ipotesi di interpretazione della lastra, durante la sua visita in Messico nel 1992.
I maya sono circondati da un grande mistero, tuttora insoluto. Da dove venivano? Per quale
motivo hanno costruito i loro monumenti? Come mai sono scomparsi all'improvviso, abbandonando
le loro favolose città all'abbraccio vorace della giungla? Sono questi gli interrogativi pressanti
che hanno lasciato perplesse generazioni di esploratori e visitatori di Palenque e delle altre città
maya. L'archeologia ci ha fornito alcune risposte, soprattutto grazie alla decifrazione dell'antico
calendario maya, ma finora non è riuscita a spiegare i veri moventi dei maya. In questo senso
sembra che la lastra di Palenque rappresenti un indizio importante e, a quanto pare, stiamo
finalmente per decifrare il suo codice.
segue da pag. 13
2
LA CONCEZIONE DEL TEMPO PRESSO I MAΥA
Ricostruire il calendario maya
Non c'è dubbio che la distruzione integrale delle vestigia dell'antico Messico abbia prodotto
danni irreparabili. Nei primi anni del dominio spagnolo è andato perduto un numero così alto di
archivi, monumenti e persino lingue, che probabilmente vi sono molti aspetti della cultura degli
antichi maya dei quali non sapremo mai nulla. Nonostante tutto, negli ultimi due secoli sono stati
compiuti grandi passi in avanti e molto è stato ricuperato dalle ceneri della storia. L'esplorazione
e la registrazione delle rovine maya da parte di dilettanti appassionati come Stephens, Maudsley
e Charnay ne ha rappresentato soltanto una parte. Di eguale interesse e di importanza quasi
altrettanto grande è il costante lavoro di decifrazione dei testi maya a opera di altri studiosi. 1
primo, e sotto certi aspetti il più importante, è stato anche il personaggio più pittoresco, Charles
Etienne Brasseur de Bourbourg. Ormai disprezzato dal mondo accademico e ritenuto quasi un
pazzoide per la sua fede nell'esistenza di Atlantide, ai suoi tempi invece era molto stimato negli
ambienti più elevati della società europea, e fu persino incaricato dal governo di Napoleone III di
scrivere il testo di un libro sullo Yucatán. Le incisioni che dovevano accompagnare il testo di
Brasseur erano del conte Jean-Frederick Waldeck, anch'egli considerato oggi-
segue da pag. 14
Spigolature
pag. 108-109 Autore: Adrian G. (Gilbert) Maurice M. (Cotterell)
Per quanto poté capire Cotterell, la critica fondamentale alle sue tesi era che i Maya non avevano
a disposizione l’acetato per i trasparenti, quindi qualunque scoperta potesse aver fatto usando
quel metodo non era valida. In apparenza questo era un argomento solido. Naturalmente i Maya
non avevano copie dell’acetato della lista di Palenque con le quali giocherellare come aveva fatto
lui, ma ne avevano davvero bisogno? Poteva esserci una un’altra spiegazione. Se ne avesse avuto il
tempo, Cotterell avrebbe citato il Popol Vub, che diceva:
… e i re sapevano se vi sarebbe stata una guerra, e tutto era chiaro ai loro occhi; vedevano se
vi sarebbe stata morte, e carestia, se vi sarebbe stato conflitto…
Per Cotterell, il Popol Vub era il libro del passato, del presente e del futuro. Conteneva anche
un’allusione rivelatrice all’intelligenza superiore della quale erano dotati i padri fondatori:
… Essi vedevano, e potevano vedere lontano all’istante, riuscivano a sapere tutto quello che vi
era al mondo. Quando guardavano, vedevano subito tutto intorno a loro e contemplavano di
volta in volta l’arco del cielo e il volto rotondo della terra. Le cose nascoste (in lontananza) le
vedevano tutte, senza doversi muovere; subito vedevano il mondo… grande era la loro
saggezza.
Per quanto concerneva Cotterell, i Maya non avevano affatto bisogno di trasparenti. Ne erano
prova sufficiente i loro scritti e la loro sofisticata conoscenza dell’astrologia, dell’architettura e
della scienza. Benché non si sapesse in che modo esattamente avessero acquisito le loro elevate
facoltà di percezione dello spazio , era convinto di averne la prova davanti a sé, nelle immagini
che aveva decodificato nella lastra. I Maya erano di sicuro molto più progrediti dei popoli
confinanti, essendo quasi gli unici fra le tribù indigene del Nordamerica a possedere un linguaggio
scritto. Loro soltanto facevano uso del calendario del Lungo Computo, che nella sua complessità
superava di gran lunga quello degli aztechi, dei tolteci e di qualsiasi altra civiltà precolombiana.
Costruivano le loro città e i loro templi con quel genere di gusto artistico che si associa a una
cultura elevata, e a loro, o almeno ai loro avi, era largamente accreditata la prima coltivazione di
mais sotto forma di coltura stabile. Tutte queste realizzazioni notevoli indicavano un’intelligenza
eccezionale, almeno fra i capi.
pag. 166-167-168 Autore: Adrian G. (Gilbert) Mautrice M. (Cotterell)
Il “teschio maledetto”
Una scoperta che a prima vista sembra priva di connessioni con quanto si è detto finora, e
comunque eccezionale, fu compiuta nel 1927 in quello che allora si chiamava Honduras Britannico
e ora è diventato Belize. Alcuni anni prima un celebre archeologo, il dottor Thomas Gann, docente
di Archeologia del Centroamerica all’università di Liverpool, aveva annunciato la scoperta di
un’antica città sul corso del Rio Grande, non lontano dal confine con il Guatemala. Si tratta di un
sito estremamente singolare, poiché sembra di un’età anteriore ai maya e si ignora chi siano stati
i fondatori. In un articolo publico sul London Illustrated News del 26 luglio 1924, Gann scrive:
Gli edifici consistono in piramidi a terrazze rivestite di grosse pietre, alle quali sono
accostate a un lato ampie gradinate di pietra. La prima costruzione liberata dalla vegetazione
e dal terriccio era una piramide tronca della lunghezza di 27,5 metri per 22,5 di lato, alta
dieci metri… L’intera piramide era completamente riversa da blocchetti di arenaria e calcare
tagliati con cura, alla faccia inferiore dei quali aderiva in molti casi uno strato di selce dello
spessore di due centimetri. Per cementare questa pietre non è stato usato alcun tipo di malta
o materiale simile…
Prima di allontanarci, battezzammo la città Lubaantun, che in lingua maya significa
letteralmente “il luogo delle pietre cadute”. Questa città è diversa da tutte le altre città
maya conosciute perché non vi sono palazzi e templi di pietra che sovrastino le grandi monoliti
recanti iscrizioni con la data in cui furono eretti, che sono stati innalzati dai maya a intervalli
di vent’anni, e più tardi di cinque anni, in tutta l’America centrale e lo Yucatàn.
Gann conclude così il suo articolo:
Le rovine del Rio (Lubaantun) costituiscono uno dei siti maya più antichi, che risale a un’epoca
anteriore ai resti di qualsiasi altra città attualmente nota nell’America centrale.
Fu in questo luogo, ancor oggi difficilmente accessibile, che nel 1927 la figlia diciassettenne di un
pittoresco personaggio chiamato F.A. Mitchell_Hedges scoprì un manufatto piuttosto sinistro: un
teschio di cristallo assolutamente perfetto. Ora sappiamo che gli indios del Centroametica erano
estremamente abili nel lavorare l’ossidiana, o vetro vulcanico; numerosi utensili, armi e oggetti
rituali di ossidiana sono stati rinvenuti in tutto il Messico e nelle regioni occupate dai maya.
Questo teschio è diverso, comunque, in quanto è fatto di cristallo di roccia ed è costruito con
tanta abilità da avere persino le mascelle mobili. Eppure nessuno, che io sappia, è riuscito a
formulare un’ipotesi plausibile sulla tecnica usata per realizzare il teschio in un’epoca in cui non
erano in uso strumenti di ferro. Si calcola che ci sarebbero voluti centocinquanta anni di lavoro
intenso per levigare il cristallo, duro quasi quanto un diamante, usando la sabbia come abrasivo.
Resta comunque il fatto che il teschio esiste ed è stato realizzato o ai tempi della civiltà della
città perduta di Lubaantun che, come si è detto, è cronologicamente anteriore a tutti gli altri
resti maya, o addirittura prima. Ne ho dedotto quindi che, se i progenitori dei maya disponevano
della tecnologia adatta per levigare il cristallo di roccia ricavandone forme arrotondate, è
probabile che anche i loro discendenti la conoscessero. Pertanto non è inconcepibile che i maya
fossero in grado di costruire lenti convesse sufficienti se non altro a funzionare da lenti
ustorie.
Quello che potremmo definire il “teschio maledetto” è di puro cristallo di roccia, e secondo gli
scienziati ci saranno voluti più di cento cinquanta anni, generazioni e generazioni di individui al
lavoro per tutti i giorni della loro vita, intenti a sfregare pazientemente con la sabbia un
immenso blocco di cristallo di roccia fino a ricavarne finalmente un teschio perfetto.14
E’ antico almento tremila e seicento anni secondo la leggenda era usato dal sommo sacerdote dei
maya quando compiva riti esoterici. Si dice che quando il sacerdote evocava la morte con l’aiuto
del teschio, questa arrivasse infallibilmente, e il teschio è stato descritto come l’incarnazione di
ogni male. Non mi preme trovare spiegazioni a questo fenomeno.
Senza indugiare sulle presunte proprietà macabre di un simile teschio di cristallo, quello che mi
interessava far notare è che l’autore cita una leggenda che le associa con i sacerdoti maya e i
loro riti esoterici. Era possibile, pensai, che uno di tali riti fosse stato la cerimonia del nuovo
fuoco? Senza metterne alla prova l’efficacia sotto questo aspetto è difficile affermare con un
certo grado di attendibilità che avrebbe potuto svolgere quella funzione, ma il cranio
arrotondato doveva avere senza dubbio delle proprietà simili a quelle delle lenti. In caso
affermativo, credo che si sarebbe potuto usarlo per focalizzare i raggi del sole in modo da
accadere un fuoco.
pag. 196-197-198-199 Autore: Adrian G. (Gilbert) Mautrice M. (Cotterell)
Atlantide, il mito anteriore al diluvio
Come si è visto, uno dei temi ricorrenti dei numerosi libri che sono stati scritti sui maya è la loro
possibile connessione con la cosiddetta civiltà perduta di Atlantida. La sola idea di evocare
questa connessione, popolare tra gli studiosi di discipline esoteriche, suscita risate e derisione
da parte di che professa di sapere quasi tutto quello che c’è da sapere sull’archeologia
dell’America centrale. Ma Atlantide si può davvero liquidare in modo sbrigativo definendola un
mito, oppure dietro la leggenda c’è qualcosa di concreto? Spinto dalla sensazione che poteva
essere così, mi accinsi a riprendere in esame le prove con occhi nuovi.
La prima notizia scritta che abbiamo di Atlantide risale a Platone, che in due dei suoi ultimi
dialoghi, Crizia e Timeo, fornisce una sintesi della storia. Secondo quanto afferma nel Timeo,
riporta ciò che fu narrato a Solone, il grande legislatore di Atene, quando fece visita a Sais in
Egitto. Crizia, uno dei personaggi di Platone, riferisce la storia a Socrate così come gli è stata
tramandata dal nonno, chiamato anch’egli Crizia. Con parole che rammentano da vicino la
convinzione dei maya che la Terra subisca catastrofi periodiche, un sacerdote egiziano spiega a
Solone che essi conoscono la storia del mondo ben oltre quelle dei greci:
Voi [gli ateniesi] in primo luogo vi ricordate di un solo diluvio terrestre, mentre prima ce
n’erano stati già molti, e in oltre non sapete che la razza umana più bella e migliore visse
proprio tra voi, nella vostra terre, e da essa discendete tu e tutta la vostra cittadinanza
attuale, essendone rimasto allora il piccolo seme; ma tutto questo vi sfugge perché per molte
generazioni i sopravvissuti sono morti senza ever conosciuto la scrittura.7
Stando al racconto di Platone, un tempo esisteva una grande isola continentale al centro di quello
che ora è l’oceano Atlantico, e furono i greci di Atene a impedire l’invasione dell’Europa e
dell’Asia da parte della popolazione dell’isola.
Dicono infatti i nostri testi che la vostra civiltà [Atene] arrestò un enorme esercito, che Gli
aztechi (quale sarebbe stato l'orrore di Tenoch, se fosse vissuto per vederlo!) adottarono
queste credenze e usanze superstiziose, portandole a limiti assurdi. Il sacrificio umano e in
particolare l'asportazione del cuore, divenne il mistero centrale della loro religione. Si calcola
che per la sola consacrazione del tempio principale di Tenochtitlán siano state sacrificate circa
ventimila vittime. Ogni anno almeno cinquantamila sventurati trovavano la morte in quel modo. Per
soddisfare il vorace appetito di cuori
Quello che stupisce davvero in questo racconto, scritto intorno al 350 avanti Cristo, è che non
solo rappresenta la prima fonte scritta sull’esistenza di Atlantide, ma rivela che almeno gli
egiziani conoscevano il continente americano. Afferma infatti in modo categorico che esiste
tutto un continente opposto intorno a quello che allora era vero e proprio mare. Anche ammesso
che si voglia negare l’esistenza del continente scomparso di Atlantide, questa testimonianza
offre un voglioso sostegno alla tesi di contatti precolombiani fra Vecchio e Nuovo Mondo: in
quale altro modo gli egiziani avrebbero potuto apprendere che esisteva un altro continente sulla
sponda opposta dell’Atlantico? Il racconto di Platone continua:
In quest’isola di Atlantide si era formata una grande e straordinaria monarchia, che dominava
tutta l’isola e anche molte altre isole e regioni del continente; inoltre governava, da questa
parte dello stretto, la Libia fino all’Egitto e l’Europa fino alla Tirrenia [Toscana].9
Si direbbe quindi che Attende fosse una grande potenza navale che dominava non solo l’Europa
occidentale, ma anche parte del continente al quale si accennava poco prima, vale a dire
l’America. Non basta; si direbbe che l’impero di Atlantide intendesse espandersi ancor più a
oriente per assumere il controllo anche dei paesi del Mediterraneo orientale, compresi Grecia ed
Egitto. Si costruì un’alleanza per sconfiggere gli invasori e liberare dal loro gioco gli abitanti
delle coste del Mediterraneo, a est e a ovest. Platone aggiunge poi:
Ma in seguito si verificarono immensi terremoti e cataclismi, al sopraggiungere di un sol
giorno e di una sola notte terribili, in cui il vostro esercito [ateniese] fu inghiottito tutto
quanto dalla terra, e anche l’isola di Atlantide s’inabissò nel mare e sparì; ecco perché anche
ora, quel mare risulta ormai inaccessibile e inesplorabile, essendoci l’ostacolo dal fango dei
bassifondi che l’isola depositò inabissandosi.10
L’altro resoconto del mito in Platone, nel Crizia, riferisce che sono trascorsi novemila anni dalla
dichiarazione di guerra fra coloro che vivevano all’esterno e tutti coloro che vivevano all’interno
delle Colonne d’Ercole. Non sappiamo quanto tempo sia durata la guerra, ma è chiaramente
sottinteso che era cominciata prima che gli abitanti di Atlantide assumessero il controllo della
Libia e dell’Europa fino alla Toscana. Dal momento che il dialogo di Platone è stato scritto intorno
al 350 a.C., per lo scoppio di questa guerra occorre calcolare una data intorno al 9500 a.C. E’
davvero una data incredibile, molte migliaia di anni prima dell’inizio riconosciuto della storia
greca o egiziana, e in un’epoca in cui l’Europa cominciava appena a emergere dall’ultima era
glaciale.
Accettare il resoconto di Platone per il suo lavoro letterale pone al ricercatore problemi enormi
e in apparenza insormontabili, perché lascia troppi interrogativi in sospeso. Se davvero è esistita
un’isola continentale come la Libia e Asia (probabilmente intesa come Asia minore ovvero la
Turchia) che è sprofondata tra le onde , come mai oggi non ve ne sono tracce? Non solo, ma
secondo Platone gli egiziani del suo tempo possedevano ancora registrazioni scritte degli eventi
che si erano verificati nel loro paese a quell’epoca. Eppure l’egittologia moderna ci informa che la
civiltà egiziana a tutti gli effetti cominciò intorno al 3100 a.C., con la prima dinastia. Secondo i
testi moderni, all’epoca indicata da Platone gli egiziani erano nomadi del paleolitico che
trascorrevano il tempo dando la caccia ai leoni, capre, coccodrilli e ippopotami, e non erano
ancora riusciti ad addomesticare gli animali. E’ possibile che un popolo del genere tenesse degli
annali relativi a una guerra mondiale delle proporzioni di quella descritta da Platone?
E’ questa la dicotomia in cui ci troviamo allo stato attuale. Da un lato Platone, grande filosofo e
discepolo di Socrate, il quale racconta una storia che include informazioni importanti che non
avrebbe doluto conoscere (vale a dire l’esistenza del continente americano dalla parte opposta
dell’Atlantico); e dall’altro le prove della scienza moderna, che dichiarava fallace il mito di
Atlantide. Esiste una via per uscire da questa impasse? E quali ripercussioni può avere, in caso
affermativo, sulla nostra conoscenza delle civiltà maya in America? Queste sono le domande che
ora richiedono una risposta.
pag. 207-208-209 Autore: Adrian G. (Gilbert) Mautrice M. (Cotterell)
Il continente perduto e i suoi archivi
Come abbiamo visto, la storia della presenza degli abitanti di Atlantide in Egitto non è nuova, ma
i dati di Cayce vi aggiungono un risvolto inedito. A prestar fede alle parole che pronunciò nel
sonno, l’epoca in cui Atlantide fu sommersa dalle acque (secondo i suoi calcoli al 10.600 a.C.) fu un
periodo turbolento per tutto il mondo abitato. L’Egitto, data la sua posizione geografica, era uno
dei pochi luoghi sicuri del mondo e perciò fu invaso non solo dagli abitanti di Atlantide che
provenivano dall’occidente, ma anche da altre popolazioni giunte da oriente. Questi nuovi venuti
erano bianchi caucasici provenienti dalla regione del monte Ararat, che ora appartiene alla
Turchia orientale. Poiché a quel tempo gli abitanti autoctoni della valle del Nilo erano negri e gli
abitanti di atlantide per lo più rossi, l’Egitto divenne una sorta di crogiuolo razziale. Fra queste
stirpi diverse, gli abitanti di Atlantide erano ovviamente i più evoluti in senso culturale e avevano
portato con sé una parte della loro tecnologia, compresa la capacità di sollevare grossi massi di
pietra e di costruire piramidi. Invece gli invasori di origine orientale predominavano, secondo
Cayce, sul piano militare e furono loro, sotto il re Osiride, a governare il paese. Da quella strana
mescolanza sarebbe nata una nuova civiltà, con una nuova religione: un amalgama dell’antico
animiamo dei negri, che erano la popolazione indigena, della religione di Atlantide e di quella di
Osiride e dei suoi seguaci.
Parte di questa vicenda è stata tramata nel racconto biblico del diluvio, sia pure in modo un po’
confuso. Se Mosè, il presunto autore della Genesi, era nato e cresciuto in Egitto e vi era stato
educativo, appare probabile che quella da lui accreditata fosse la versione egiziana della leggenda
del diluvio universale. Nella Genesi si narra che l’arca di Noè si arenò sul monte Ararat e che egli
ebbe tre figli, Sem, Cam e Jafet, i progenitori delle tre razze. Se identifichiamo Noè con
Osiride, secondo Cayce un immigrato che proveniva dalla regione del monte Ararat, i suoi “figli”
biblici corrispondono alle tre razze dell’Egitto: gli abitanti di Atlantide, dalla pelle rossa, i
bianchi dell’Ararat e i negri Egiziani. Questo coincide con il racconto di Cayce, secondo il quale
Osiride era il sovrano di un regno unito e multinazionale.
Questo, comunque, non è tutto quello che il “profeta dormiente” aveva da dire in merito ad
Atlantide. In numerose letture egli affermò che i superstiti del continente perduto avevano
portato con sé dei resoconti della loro storia precedente. Questi, a suo dire, erano stati sepolti
con cura in una camera segreta non lontano dalla grande Sfinge che vigila sulle piramidi di Giza.
Un’altra serie di queste registrazioni d’archivio sarebbe stata presa in consegna da altri
sopravvissuti al cataclisma, per essere sepolta nella regione dello Yucatàn in Messico. Cayce
sosteneva che prima della catastrofe di Atlantide un sacerdote di nome Iltar aveva lasciato
Poseidia (l’isola principale) insieme con un gruppo di seguaci che appartenevano alla casa reale di
Atlan per dirigersi a ovest, raggiungendo lo Yucatàn:
Poi, lasciando la civiltà di Atlantide (più esattamente di Poseidia), Iltar, insieme a un gruppo di
compagni che discendevano dalla casa di Atland, seguaci del culto dell’ONU, con circa dieci
individui abbandonò l’isola di Poseidia e si diresse a occidente, raggiungendo quella che ora
sarebbe una parte dello Yucatàn. E là cominciò, con l’attività dei piccoli che vi abitavano, lo
sviluppo di una civiltà che divenne grande come lo era stata nella terra di Atlantide.24
… I primi templi eretti de Iltar e dai suoi seguaci andarono distrutti nel periodo del cambiamento
fisico nei contorni della terra. Ciò che ora è stato trovato, insieme con una parte già rinvenuta e
rimasta ignorata per molti secoli, era allora un amalgama di popoli provenienti da Mu, Oz e
Atlantide.
Questo è lo scenario più vicino a quello di un “san Patrizio” che sono riuscito a trovare, e mi
sembra plausibile identificare Iltar (per usare il suo nome atlanteo) il grande profeta che i maya
in seguito venerarono sotto il nome del saggio Zamma. Secondo Cayce, oltre all’archivio sepolto
presso la Sfinge in Egitto ne esistevano un altro, portato da Iltar nello Yucatàn, e un terzo
ancora nascosto nel cuore stesso di Atlantide. Se solo potessimo metter le mani su quegli archivi,
forse conosceremo con certezza la verità sulle origini della civiltà dei maya e sul modo in cui
acquisirono la loro profonda conoscenza dei cicli delle macchie solari.
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Contatto con Tullio Egidio
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Contatto con Anna Maria Mandelli
www.cristallidiatlantide.it

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