Associazione per la soluzione delle controversie bancarie

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Associazione per la soluzione delle controversie bancarie
Con le decisioni dell’ABF,
spunti di dottrina e segnalazioni di giurisprudenza
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
1/2016
QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
1/2016
QUADERNI
DI AGGIORNAMENTO
Con le decisioni dell’ABF,
spunti di dottrina e segnalazioni di giurisprudenza
Le Disposizioni della Banca d’Italia che disciplinano il funzionamento
dell’Arbitro Bancario Finanziario prevedono che le banche e gli intermediari finanziari
adottino un’organizzazione interna tale da assicurare che i propri uffici reclami
conoscano gli orientamenti dell’ABF, si mantengano costantemente aggiornati sugli
stessi e valutino i reclami della clientela anche alla luce di tali orientamenti.
Per supportare gli intermediari Associati nello svolgimento di tale attività e
di quella più propriamente legale, Il Conciliatore BancarioFinanziario ha predisposto
una nuova collana dal titolo “Quaderni di aggiornamento”.
Ogni Quaderno contiene, nella Parte I, le Massime delle decisioni ABF,
elaborate dagli Uffici del Conciliatore BancarioFinanziario selezionando le decisioni
ritenute più significative tra quelle in suo possesso, seguite - per una pronta
consultazione - dal testo della decisione stessa.
Alla Parte I si affiancano eventuali altre due sezioni dedicate, l’una agli
Spunti di dottrina, e l’altra alle Segnalazioni di giurisprudenza.
I Quaderni di aggiornamento, che non hanno alcuna pretesa di completezza
ed esaustività, si pongono come obiettivo quello di contribuire - per quanto possibile all’attività di studio e ricerca dei precedenti ABF, nonché di costituire un agevole
strumento di consultazione per consentire una adeguata valutazione delle decisioni
da assumere.
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
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QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
1/2016
PARTE I
INDICE
Massime di decisioni dell’ABF
Collegio di Coordinamento
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ABF – Collegio di Coordinamento, n. 5861/15 – contratti di cessione del quinto cessione del ramo d’azienda – art. 58 tub – contratto estinto prima del trasferimento difetto di legittimazione della cessionaria – non sussiste
pag. 5
ABF – Collegio di Coordinamento, n. 7854/15 – contratti bancari - capitalizzazione degli
interessi - art. 120, comma 2, tub - divieto - decorrenza
pag. 18
Assegno e cambiale
ABF – Collegio di Milano, n. 8272/15 – assegno bancario – obbligo di pagamento in
contanti al prenditore da parte della banca trattaria – esclusione
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pag. 35
Competenza
ABF – Collegio di Milano, n. 221/16 – competenza – anatocismo – contratto stipulato
ante 2009 - sussistenza – effetti del negozio giuridico
-
pag. 40
Conto Corrente
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ABF – Collegio di Milano, n. 6396/15 – home banking – phishing – adeguata protezione
dei sistemi di accesso
pag. 44
ABF – Collegio di Roma, n. 6645/15 – home banking – phishing – incauta
comunicazione credenziali e otp – colpa grave – sussistenza
pag. 47
Finanziamenti
-
-
-
ABF – Collegio di Roma, n. 7677/15 – cessione del quinto dello stipendio – estinzione
anticipata – quietanza liberatoria – indeterminatezza - irrilevanza - art. 125 sexies
tub
pag. 52
ABF – Collegio di Napoli, n. 1541/15 – finanziamento – estinzione anticipata – validità
della garanzia assicurativa sino alla scadenza del contratto - esclusione
pag. 57
ABF – Collegio di Milano, n. 9007/15 – cessione del quinto – estinzione anticipata –
quietanza liberatoria sottoscritta dal cliente prima dell’estinzione del finanziamento –
art 36 d.lgs. 206/2005 – nullità
pag. 61
Libretti e certificati di deposito
ABF – Collegio di Napoli, n. 5737/15 – certificato di deposito – prescrizione –
opponibilità – cassazione n. 788/2012 – differenza con deposito non a termine
-
pag. 65
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
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QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
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Prova – assunzione dei mezzi di
ABF – Collegio di Milano, n. 8101/15 – strumenti e servizi di pagamento – operazioni
disconosciute – onere probatorio – art. 10 d.lgs. 11/2010 – grava sulla banca provare la
perfetta funzionalità del sistema
-
pag. 70
Questioni procedurali
-
-
ABF – Collegio di Napoli, n. 4011/15 – questioni procedurali – inadempimento
dell’intermediario alla decisione ABF – proponibilità del ricorso contro altro
intermediario - esclusione
pag. 75
ABF – Collegio di Napoli, n. 6795/15 – questioni procedurali – ricorso – mancato
utilizzo della modulistica – sez. vi, par. 1 e 2 disposizioni - conseguenze
pag. 78
Sistemi di informazioni creditizie e Centrale Rischi
-
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ABF – Collegio di Coordinamento, n. 8859/15 – assegno bancario – mancanza di
provvista – segnalazione CAI – preavviso – invio oltre il decimo giorno dalla
presentazione al pagamento del titolo – illegittimità della segnalazione - esclusione
pag. 82
ABF – Collegio di Coordinamento, n. 8859/15 – assegno bancario – mancanza di
provvista – segnalazione CAI – preavviso – invio ad un luogo diverso da quello eletto a
domicilio a norma dell’art. 9-ter, l. 386/1990 – conseguenze
pag. 82
Sistemi di pagamento
ABF – Collegio di Napoli, n. 5757/15 – servizio pos - chargeback - condotta
dell'esercente -frazionamento delle operazioni di pagamento – violazione delle
condizioni generali di convenzionamento – storno operazioni legittimo
-
PARTE II
pag. 87
SPUNTI DI DOTTRINA
ROBERTA MONTINARO Il sovraindebitamento del consumatore: diligenza nell’accesso
al credito ed obblighi del finanziatore, in Banca Borsa Titoli di Credito, fasc. 6, 2015,
pag. 781
pag. 93
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QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
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PARTE III SEGNALAZIONI DI GIURISPRUDENZA
AZIONE REVOCATORIA – COMPROMISSIONE PATRIMONIO DEBITORE – REQUISITI ONERE DELLA PROVA
pag. 94
Cassazione, III sezione civile, 27 ottobre 2015, sentenza n. 21807
FINANZIAMENTO IN POOL – GARANZIE – AZIONE REVOCATORIA - AMMISSIBILITÀ
pag. 94
Cassazione, III sezione civile, 27 ottobre 2015, sentenza n. 21807
STRUMENTI DI PAGAMENTO - BANCOMAT - MANOMISSIONE SPORTELLO ATM PRELIEVO ILLECITO DA PARTE DI TERZI - RESPONSABILITÀ DELLA BANCA – SUSSISTE
Cassazione, I sezione civile, 19 gennaio 2016, sentenza n. 806
pag. 99
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
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QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
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PARTE I
Massime di decisioni dell’ABF
Collegio di Coordinamento
CONTRATTI DI CESSIONE DEL QUINTO - CESSIONE DEL RAMO D’AZIENDA –
ART. 58 TUB – CONTRATTO ESTINTO PRIMA DEL TRASFERIMENTO DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE DELLA CESSIONARIA – NON SUSSISTE
Il Collegio di Coordinamento, con decisione n. 5861/15 del 29 luglio 2015,
ha chiarito il rapporto tra gli artt. 2560 c.c. e 58 TUB in materia di cessione
del ramo d’azienda, soffermandosi in particolare sul carattere di norma
speciale della disposizione prevista dal Testo unico bancario, la quale,
prendendo atto delle peculiarità dell’azienda bancaria, presuppone il
naturale trasferimento dei debiti e dei crediti quali beni aziendali, senza la
necessità di una specifica individuazione; pertanto, in assenza di una
espressa limitazione dell’oggetto del trasferimento e decorso il termine di
tre mesi dall’avvenuta cessione, il cessionario è tenuto a rispondere delle
passività trasferite, a nulla rilevando l’eccezione di carenza di legittimazione
passiva sollevata dalla resistente in relazione ai contratti estinti in data
antecedente al trasferimento del ramo d’azienda.
(cfr. decisione di seguito riportata)
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Decisione N. 5861 del 29 luglio 2015
IL COLLEGIO DI COORDINAMENTO
composto dai Signori:
Dott. Maurizio Massera
Presidente del Collegio ABF di Roma
Presidente
Dott. Flavio Lapertosa
Presidente del Collegio ABF di Milano
Membro effettivo
Dott. Marcello Marinari
Presidente del Collegio ABF di Napoli
Membro effettivo
Prof.ssa Marilena Rispoli Farina
Componente del Collegio ABF di Napoli
Membro effettivo
(designata dal Conciliatore Bancario Finanziario
per le controversie in cui sia parte un cliente
consumatore)
Prof. avv. Andrea Tina
Componente del Collegio ABF di Milano
(designato dal Consiglio Nazionale
dei Consumatori e degli Utenti)
Membro effettivo
[Estensore]
nella seduta del 17/06/2015, dopo aver esaminato
x il ricorso e la documentazione allegata;
x le controdeduzioni dell’intermediario e la relativa documentazione;
x la relazione istruttoria della Segreteria tecnica,
FATTO
Il ricorrente – titolare di un finanziamento contro cessione del quinto dello stipendio
stipulato nel 2006 con una società mandataria di una banca (di seguito: ente finanziatore)
– contesta che al momento dell’estinzione anticipata del prestito non gli sia stato
riconosciuto “un equo ristoro di commissioni e spese assicurative”, come previsto dall’art.
125-sexies TUB. In particolare, con ricorso proposto nei confronti dell’intermediario
resistente, il ricorrente chiede il rimborso della quota del premio assicurativo non goduto e
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Decisione N. 5861 del 29 luglio 2015
il ristoro delle commissioni, per un complessivo ammontare di euro 4.607,15 oltre interessi
legali, nonché il rimborso di Euro 400,00 per spese legali.
L’intermediario resistente eccepisce il difetto di legittimazione passiva, in quanto
l’estinzione anticipata del rapporto controverso risulta avvenuta nel febbraio 2012, quindi
antecedentemente alla cessione, operata dall’ente finanziatore a favore del medesimo
intermediario, del ramo di azienda comprendente i finanziamenti con cessione del quinto.
In proposito, produce copia dell’atto di conferimento del ramo d’azienda, datato 25/6/2012,
con relativo allegato “D”. Precisa altresì che l’atto di conferimento avrebbe avuto ad
oggetto soltanto le posizioni attive al 1° luglio 2012. Giusta tale premessa, segnala che il
titolare effettivo del rapporto in contestazione sarebbe un’altra banca, avendo la stessa
proceduto all’incorporazione dell’ente finanziatore, per cui il ricorrente dovrebbe dirigere le
sue istanze nei confronti di quest’ultima.
Le deduzioni difensive dell’intermediario resistente si fondano esclusivamente sull’asserita
carenza di legittimazione passiva, nel presupposto che il rapporto relativo al contratto di
finanziamento contro cessione del quinto, che è alla base del ricorso, sia rimasto estraneo
alla cessione del ramo di azienda, in quanto estinto in data antecedente all’atto di
conferimento.
Il Collegio di Roma, con ordinanza del 15 maggio 2015, ha rimesso la soluzione della
controversia al Collegio di Coordinamento, in considerazione della rilevanza della
questione dibattuta e della presenza in merito di orientamenti non uniformi fra i singoli
Collegi dell’Arbitro.
DIRITTO
Come evidenziato nella ordinanza di rimessione, in relazione agli effetti determinati dalla
cessione del ramo di azienda e alla applicazione e interpretazione delle previsioni dell’art.
58 TUB, nonché alla loro interazione con la disciplina di diritto comune di cui agli artt. 2556
ss. c.c. – e in particolare, per quanto qui rileva, dell’art. 2560 c.c. – si registra un
orientamento dei Collegi non omogeneo.
A favore dell’accoglimento dell’eccezione, mossa dal medesimo intermediario resistente
nel presente ricorso, appare orientato il Collegio di Napoli in alcune recenti decisioni.
Secondo la decisione n. 1535 del 4/3/2015 del Collegio, “Risulta infatti per tabulas che
parte resistente sia effettivamente subentrata all’intermediario originario erogante nella
titolarità di tutti i rapporti ancora attivi alla data del 30 giugno 2012, con decorrenza dal 1°
luglio 2012. Il conferimento del ramo d’azienda relativo ai finanziamenti contro cessione
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Decisione N. 5861 del 29 luglio 2015
del quinto e delegazione di pagamento si è perfezionato con atto del 25 giugno 2012. È
altresì provato documentalmente che il contratto di finanziamento in questione è stato
pacificamente estinto nel mese di aprile 2010 e non rientra, quindi, tra quelli oggetto di
conferimento da parte dell’originario erogante all’intermediario convenuto, il quale risulta di
conseguenza privo della legittimazione passiva in relazione alle domande spiegate dal
ricorrente” (v. nello stesso senso, fra le altre, la Decisione n. 5313/2014 dello stesso
Collegio). La soluzione così tracciata non appare, tuttavia, del tutto soddisfacente, in
quanto tende a sovrapporre la circolazione del rapporto con quella dei debiti che nel
rapporto trovano la propria fonte, così escludendone a priori la eventuale circolazione. Nel
caso oggetto del presente ricorso, l’avvenuta estinzione del contratto di finanziamento
contro cessione del quinto precedentemente al trasferimento del ramo d’azienda, se
esclude in radice il trasferimento ex art. 58 TUB del relativo rapporto, non preclude,
tuttavia, che oggetto di circolazione possano essere, in ipotesi, unicamente i debiti (e i
crediti) derivanti dal medesimo rapporto. Come noto, la disciplina sulla successione dei
contratti delineata in termini generali dall’art. 2558 c.c. – ma considerazioni analoghe
possono ripetersi anche per l’art. 58, sesto comma, TUB – trova applicazione in
riferimento ai contratti a prestazioni corrispettive non integralmente eseguiti da entrambe
le parti (Cass., 29 gennaio 1979, n. 632, in linea con la più autorevole dottrina in materia);
in caso contrario residueranno, a seconda delle circostanze, posizioni attive (crediti) o
passive (debiti) a carico dell’imprenditore titolare dell’azienda, la cui circolazione è
regolamentata, in termini generali, dagli artt. 2559 e, rispettivamente, 2560 c.c. e, nel
settore bancario dall’art. 58, quarto e quinto comma, TUB.
Più problematica appare la soluzione adottata nella decisione del medesimo Collegio di
Napoli n. 2851/2015, in cui analoga eccezione viene ritenuta infondata nel presupposto
che l’intermediario resistente non abbia, di fatto, provato che il contratto su cui si verte non
fosse compreso nella cessione del ramo d’azienda. Il rigetto dell’eccezione viene motivato
per relationem attraverso il recepimento delle argomentazioni espresse dal Collegio di
Roma in alcune precedenti decisioni. Si afferma, infatti, testualmente: «Nel medesimo
caso, nei confronti della odierna resistente, il Collegio di Roma con decisione n. 4342/2014
si è così espresso: “quanto alla legittimazione passiva dell’intermediario convenuto si
osserva che (…) fra quest’ultimo e la società finanziaria cui faceva capo il contratto di
finanziamento sia intervenuta una cessione, ai sensi dell’art. 58 T.U.B., dei rapporti
giuridici instaurati con il ricorrente. Ciò posto, va considerato, come correttamente statuito
dal Trib. Milano, VI sez. civile, ord. 18 febbraio 2009, che la ratio dell’art. 58 T.U.B. va
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Decisione N. 5861 del 29 luglio 2015
individuata nell’esigenza di agevolare i fenomeni di concentrazione e/o riorganizzazione
bancaria in regime di continuità dei rapporti e dell’attività, al contempo garantendo la
certezza e la chiarezza sulla titolarità dei rapporti giuridici trasferiti. In questo contesto, ‘la
protezione dei terzi è affidata al carattere onnicomprensivo della cessione che, anche
nell’interesse dell’affidabilità del sistema bancario, non può lasciare dubbi sulla titolarità in
capo alla cessionaria di tutte le situazioni giuridiche’ inerenti ai rapporti ceduti. In
particolare, se per i primi tre mesi, decorrenti dagli adempimenti pubblicitari previsti nel
comma 2 dell’art. 58 cit., i creditori ceduti possono esigere l’adempimento tanto dal
cedente quanto dal cessionario, decorsi tre mesi il cessionario risponde in via esclusiva
(art. 58 cit., comma 5) (v. in tal senso, decisione di questo Collegio n. 3075 del 24
settembre 2012). Ciò premesso, questo Collegio (…) respinge l’eccezione di
legittimazione
passiva
adombrata
dalla
finanziaria
resistente
nelle
proprie
controdeduzioni”». Dalla motivazione recepita integralmente dal Collegio di Napoli nella
richiamata decisione emerge l’orientamento espresso dal Collegio di Roma con riguardo
alla cessione del ramo di azienda. In particolare, nella decisione n. 3075/2012 viene
precisato: “Del resto, anche l’Arbitro Bancario Finanziario si è espresso nel senso di non
potersi ammettere che le vicende di riorganizzazione, concentrazione, ristrutturazione, che
interessino imprese bancarie, si risolvano in un aggravio della posizione del cliente, al
quale deve offrirsi, per tutta la durata e cioè in ogni momento del rapporto, chiarezza e
certezza in ordine all’identità dell’intermediario suo interlocutore, senza che possa essergli
richiesto di individuare volta per volta, in relazione a ciascun determinato periodo di
svolgimento del rapporto contrattuale, l’intermediario competente a ricevere le proprie
istanze o le proprie doglianze”. Va tuttavia osservato che le decisioni del Collegio di Roma
sopra menzionate si riferiscono a fattispecie non del tutto analoghe a quella oggetto del
ricorso qui in esame, in quanto nei casi ivi esaminati la carenza di legittimazione passiva
veniva asserita in base a motivi diversi dall’intervenuta estinzione del contratto in data
antecedente alla cessione del ramo d’azienda.
Maggiore attinenza al caso oggetto del ricorso in esame presenta la decisione del Collegio
di Milano n. 822 del 20/4/2011, che si distingue per l’approfondita e ampia analisi della
problematica in questione, ritenendo fondata l’eccezione di carenza di legittimazione
passiva, sollevata dall’intermediario cessionario, ma per un diverso ordine di motivi. La
decisione ritiene, infatti, fondata l’eccezione non in ragione del fatto che il rapporto risulta
estinto in data antecedente al conferimento del ramo di azienda (argomentazione che,
come chiarito, non tiene debitamente conto della distinzione tra i contratti e i debiti da
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questi derivanti, recepita nel dettato normativo – artt. 2558 e 2560 c.c. e art. 58, quinto e
sesto comma, TUB), ma su un’argomentazione più articolata che attiene all’interpretazione
dell’art. 58, quinto comma, TUB in relazione a quanto previsto in termini generali dall’art.
2560 c.c. Al riguardo, nella decisione si osserva: “E’ parimenti noto che, secondo il
costante insegnamento giurisprudenziale, in caso di cessione di azienda, l’iscrizione dei
debiti, inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta, nei libri contabili obbligatori è elemento
costitutivo della responsabilità dell’acquirente dell’azienda e tale elemento non può essere
surrogato dalla prova che l’esistenza dei debiti era comunque conosciuta da parte
dell’acquirente medesimo (Cfr. da ultimo Cass. civ., sez. III, 10-11-2010, n. 22831; Cass.
civ., sez. III, 03-12-2009, n. 25403). Poiché è indubbio che nel caso in esame tale prova
difetta ed è comunque presumibile dai fatti di causa che l’indebito reclamato non fosse per
nulla segnalato nei libri contabili obbligatori della cedente, dall’applicazione dell’art. 2560,
2° comma, c.c. discenderebbe de plano che la cessionaria non risponde del debito in
questione e quindi non essendo parte del rapporto di debito credito fatto valere, difetta di
legittimazione passiva. E’ tuttavia noto come la maggior parte della dottrina specialistica
consideri l’art. 58 TUB come norma parimenti speciale, ovvero sostenga che essa non sia
norma correlata all’art. 2560 c.c., con la conseguenza che, a parere della dottrina
prevalente, trascorsi tre mesi dall’adempimento degli oneri pubblicitari di cui al 2° comma
del medesimo articolo, il cessionario risponde in via esclusiva anche dei debiti che non
risultano dai libri contabili. Tuttavia in senso opposto a tale indicazione dottrinale si è
pronunciato recentemente il Tribunale di Novara con una elaborata sentenza ( cfr. Trib.
Novara 21 settembre 2004, in Contratti, 2005, 461). Tale decisione giurisprudenziale
induce ad un ripensamento dell’orientamento dottrinale prevalente”. Partendo da questo
convincimento, il Collegio di Milano conclude: “Il testo dell’attuale art. 58 TUB non
identifica i crediti ceduti; si limita ad escludere in deroga all’art. 2560, 1° comma, la
solidarietà del cedente. Ma da ciò non si può trarre la conclusione che è necessario
compensare i creditori ceduti estendendo la responsabilità del cessionario anche ai debiti
non iscritti in contabilità, come argomenta la dottrina prevalente”. Nella più recente
decisione n. 3445/15 del 4 maggio 2015, il medesimo Collegio Nord compie un passo
deciso verso il rigetto dell’eccezione di carenza di legittimazione passiva, osservando: “È
vero, infatti, che i conteggi estintivi relativi ai contratti di finanziamento sono stati effettuati
dal mandatario della banca originaria finanziatrice e recano le date del 13.11.2009 e del
15.4.2011,
ossia
date
precedenti
all’atto
di
conferimento
aziendale
a
favore
dell’intermediario attuale resistente. Ma i crediti restitutori da indebito oggettivo reclamati
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dal ricorrente corrispondono pur sempre a passività relative a rapporti giuridici non ancora
esauritisi al 30.6.2012, da considerarsi afferenti al ramo di azienda trasferito secondo
l’interpretazione dell’oggetto del conferimento che il Collegio ritiene di compiere anche in
applicazione dei noti canoni ermeneutici favorevoli al consumatore. Pertanto, essendo
decorsi tre mesi dalla pubblicità dell’atto, tali debiti devono ritenersi di competenza della
società conferitaria se non altro nei confronti del creditore (non rilevando in punto quanto
pattuito con efficacia inter partes), anche se non risultanti dalle scritture contabili del
conferente, in forza del disposto dell’art. 58, comma 5, TUB, che è norma speciale rispetto
all’art. 2560 c.c., caratterizzata dalla finalità di favorire i processi di concentrazione
bancaria garantendo la certezza dei rapporti coi terzi (cfr. da ultimo, Trib. Milano,
18.2.2009 e Trib. Palermo, 14.2.2012, entrambe in www.ilcaso.it)”. Nello stesso percorso
interpretativo, che conduce al rigetto dell’eccezione di carenza di legittimazione passiva, si
colloca la Decisione n. 3673/15 del 7 maggio 2015 del medesimo Collegio di Milano, in
cui, riferendosi alla stessa cessione di ramo di azienda, si afferma che la previsione
contenuta nell’atto di conferimento, secondo cui l’efficacia sarebbe limitata a “ogni attività
e passività, utilità, onere e rischio verificatisi o maturati a partire da tale momento,
restando invece in capo alla conferente fino a tutto il 30 (trenta) giugno 2012
(duemiladodici) compreso”, può spiegare efficacia meramente interna e comportare
soltanto il diritto della cessionaria, che sia chiamata a rispondere nei confronti dei terzi ex
art. 2560, secondo comma, c.c., di agire in regresso avverso la cedente.
Come puntualmente evidenziato nella ordinanza di rimessione, in tale contesto, e con più
specifico riguardo alla interazione tra la disciplina comune di cui all’art. 2560, secondo
comma, c.c. e quella speciale dell’art. 58, quinto comma, TUB, si inserisce la recente
pronuncia della S.C. (sentenza 26 agosto 2014, n.18258) secondo cui “la disciplina
prevista dall’art. 58 TUB deroga a quella dell’art. 2560 c.c., comma 2, nella parte in cui
quest’ultimo prevede che il cessionario d’azienda risponda dei debiti dell’azienda ceduta
anteriori al trasferimento soltanto se essi risultino dai libri contabili obbligatori”. La
richiamata pronuncia della S.C. costituisce l’ultima conferma dell’orientamento della
dottrina prevalente secondo cui “l'art. 58 del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, nel
prevedere il trasferimento delle passività al cessionario, in forza della sola cessione e del
decorso del termine di tre mesi dalla pubblicità notizia di essa (secondo quanto previsto
dal comma 2 dello stesso art. 58), e non la mera aggiunta della responsabilità di
quest'ultimo a quella del cedente, deroga all’art. 2560 cod. civ., su cui prevale in virtù del
principio di specialità” (cfr. Cass., Sez. I, n.10653/2010; conf.: Sez. III, n.18258/2014). In
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particolare, la S.C. ritiene che “il cessionario è esclusivo responsabile delle obbligazioni
contratte dalla cedente, anche se non risultanti dai libri e dalle scritture contabili - salva
l'eventuale azione di rivalsa; disciplina, reputata strumentale rispetto alla tutela degli
interessi dei creditori della cedente, tanto da comportare la nullità della clausola con la
quale le parti prevedono la limitazione della responsabilità del cessionario (così Cass. n.
2464/04)” (Cass. n.18258/2014, cit.). La necessità di dare certezza ai rapporti che
coinvolgono le banche ha imposto, dunque, una deroga alla norma di diritto comune, con
una evidente compressione della tutela dei creditori sociali, in verità garantiti, per altro, dal
controllo di stabilità sul cessionario, che rende improbabile il suo inadempimento. Del
resto, come autorevolmente osservato, “in questo caso si tratta di una disposizione di
favore per i creditori”, in quanto “il cessionario risponderà per tutti i debiti inerenti l’oggetto
della cessione, e non soltanto di quelli risultanti dai libri contabili obbligatori, come prevede
la norma di diritto comune (art. 2560, 2° comma, Cod. civ.)”.
Il Collegio, pur condividendo la soluzione così delineata dalla S.C., ritiene, tuttavia,
necessarie alcune considerazioni sull’effettivo rapporto sussistente tra le previsioni dell’art.
58, quinto comma, TUB e quelle dell’art. 2560 c.c.
La natura speciale dell’art. 58 TUB evidenziata dalla S.C., se certamente implica una
(possibile) integrazione della disciplina generale, non ne determina, per ciò solo, una
deroga. Il punto è lucidamente colto dal Collegio di Milano nella già richiamata decisione n.
822 del 20 aprile 2011 che pone l’accento sulla “applicazione del normale principio di
integrazione tra la normativa speciale dettata dal TUB e quella generale in materia di
cessione di azienda. Il principio di specialità infatti esclude il ricorso alla disciplina
civilistica generale solo in caso di deroga espressa, oppure in caso di incompatibilità di
rationes”. Sulla base di tale premessa, se si condivide, tuttavia, l’ulteriore assunto – fatto
proprio dal Collegio di Milano nella decisione n. 822/2011 cit. e dalla stessa ordinanza di
rimessione – secondo cui “ai sensi degli artt. 2558 e 2560 cod. civ., la cessione del ramo
d’azienda determina la successione del cessionario nei contratti stipulati per l’esercizio
dell’azienda e nei debiti relativi all’azienda ceduta”, non pare possibile procedere ad una
valutazione di piena incompatibilità, sul piano circolatorio, tra le previsioni dell’art. 58 TUB
e quelle dell’art. 2560 c.c. e ad una conseguente (integrale) deroga delle seconde da parte
delle prime. L’art. 58 TUB non identifica, infatti, i crediti o i debiti ceduti, riferendosi
semplicemente ai “debitori ceduti” (quarto comma) e ai “creditori ceduti” (quinto comma);
ma “si limita ad escludere in deroga all’art. 2560, primo comma, la solidarietà del cedente”
(Collegio di Milano, decisione n. 822/2011). La specialità dell’art. 58 TUB non atterrebbe,
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Decisione N. 5861 del 29 luglio 2015
pertanto, alla delimitazione oggettiva dei debiti trasferiti, che rimarrebbe affidata anche nel
settore bancario alle previsioni generali dell’art. 2560, secondo comma, c.c., ma
risiederebbe unicamente nella diversa disciplina della responsabilità del debitore
originario, che viene liberato ex lege, e senza il consenso del creditore, decorsi tre mesi
dalla pubblicazione del trasferimento.
Il ragionamento ora tracciato, seppur corretto nei passaggi in cui si articola, dà, tuttavia,
per presupposto che l’art. 2560 c.c. sia diretto a disciplinare la circolazione dei debiti
aziendali, individuando nei soli debiti che “risultano dalle scritture contabili” quelli oggetto
di trasferimento; aspetto quest’ultimo su cui l’art. 58 TUB non interviene, non consentendo,
pertanto, di ravvisare alcuna deroga all’ipotizzato criterio selettivo dell’art. 2560, secondo
comma, c.c. In realtà, come osservato da autorevole dottrina che ha trovato conferme
anche nella giurisprudenza di legittimità più recente, occorre rilevare che l’art. 2560 c.c. si
limita a regolare le conseguenze del trasferimento dell’azienda per i creditori aziendali, ma
nulla dispone – così come l’art. 58 TUB – circa la sorte dei debiti aziendali nel rapporto fra
alienante ed acquirente: i debiti (così come i crediti) non passano automaticamente in
capo all’acquirente, essendo necessaria a tal fine una specifica pattuizione: “la previsione,
di cui al comma 2 dell’art. 2560 c.c. (…) non determina alcun trasferimento della posizione
debitoria sostanziale, nel senso che il debitore effettivo rimane pur sempre colui cui è
imputabile il fatto costitutivo del debito, e cioè il cedente, nei cui confronti può rivalersi in
via di regresso l'acquirente che abbia pagato” (Cass., 3 ottobre 2011, n. 20153). Può
quindi ritenersi che sotto il profilo della individuazione dei debiti trasferiti le previsioni
dell’art. 58 TUB non paiono porsi in conflitto con quelle di cui all’art. 2560 c.c. A differenza
dell’art. 2560 c.c. che prevede (anche) la responsabilità del cessionario (nei limiti in cui i
debiti “risultano dai libri contabili obbligatori”) indipendentemente dal trasferimento o meno
dei debiti pattuito tra le parti, l’art. 58 TUB, pur non fornendo indicazioni utili per la
delimitazione oggettiva dei debiti (eventualmente) trasferiti, ne presuppone, tuttavia,
l’avvenuto trasferimento, così implicando la necessità di ricorrere ad un criterio di
identificazione che non può, evidentemente, coincidere con quello di cui all’art. 2560,
secondo comma, c.c., destinato a svolgere, come chiarito, una differente funzione.
Al riguardo, se, in mancanza di esplicita o implicita volontà delle parti del negozio di
cessione d’azienda, non è possibile ritenere trasferiti da alienante ad acquirente né i crediti
né i debiti aziendali, in quanto il negozio di cessione importa soltanto il trasferimento
dell’azienda, cioè del “complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio
dell’impresa”, tra cui non è possibile ricomprendere i crediti e i debiti dell’impresa,
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Decisione N. 5861 del 29 luglio 2015
differente discorso deve, invece, farsi per l’‘azienda bancaria’. Come autorevolmente
osservato in dottrina, nell’attività di un imprenditore bancario, i “beni organizzati” in senso
stretto (art. 2555 c.c.) svolgono una funzione certamente meno importante che in altre
imprese e passano sicuramente in secondo piano di fronte alla massa di rapporti
obbligatori (crediti e debiti a fonte contrattuale) che legano alla banca la clientela. Contratti
di deposito, aperture di credito, conti correnti di corrispondenza, mutui, sconti, etc.,
costituiscono l’elemento più rilevante dell’azienda bancaria. Di conseguenza, se la
cessione di tale azienda non comportasse – nel silenzio delle parti – il trapasso di tutti quei
rapporti giuridici, ben poco rimarrebbe, in capo all’acquirente, degli strumenti diretti alla
produzione di reddito coordinati dall’alienante. L’art. 58 TUB prende atto della peculiare
realtà della azienda bancaria e presuppone (per il caso di “cessione a banche di aziende
[e] di rami d’azienda”) il naturale trasferimento dei debiti e dei crediti intesi quali beni
aziendali, senza la necessità di una specifica individuazione dei singoli beni così trasferiti
(così anche Cass., 18258/2014, cit.). Analogamente a quanto avviene nel trasferimento di
azienda disciplinato dagli artt. 2556 ss. c.c., l’individuazione dei beni aziendali oggetto di
trasferimento avviene sulla base del vincolo funzionale e strumentale che lega tra di loro i
beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa; collegamento funzionale che
viene a costituire un criterio di determinabilità sufficiente ai sensi dell’art. 1346 c.c., anche
in assenza di una completa ed analitica individuazione dei singoli beni che compongono
l’azienda e oggetto di trasferimento (Cass., 27 marzo 1996, n. 2714; Cass., 15 maggio
2006, n. 11130; Cass., 21 gennaio 2004, n. 877; Cass. 13 giugno 2006, n. 13676). In
assenza di una chiara e precisa previsione al riguardo, il trasferimento ha, pertanto, ad
oggetto tutti i beni aziendali legati dal vincolo organizzativo e funzionale, senza la
necessità di una analitica individuazione.
La qualificazione dei crediti e, in particolare, dei debiti quali beni dell’azienda bancaria non
comporta, tuttavia, l’inammissibilità di una clausola di esclusione del trasferimento di uno o
più debiti o crediti, in base all’argomento per cui senza il loro trasferimento non potrebbe
realizzarsi una cessione d’azienda (bancaria). La qui condivisa tesi per cui i crediti e i
debiti costituiscono beni dell’azienda bancaria non può ostare all’eventuale esclusione di
singoli debiti o di singoli crediti, dato che una simile evenienza non è in realtà
(necessariamente) pregiudizievole per la conservazione della (o della quota di) azienda
bancaria, così come il mancato trasferimento di singoli beni nella cessione della azienda
(o di un ramo d’azienda) secondo la disciplina generale non ne pregiudica la permanenza
in capo al cessionario. Da un lato, il punto è pacifico nella giurisprudenza di legittimità: per
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Decisione N. 5861 del 29 luglio 2015
la configurabilità della cessione d’azienda non è, infatti, necessario che venga effettuato il
trasferimento di tutti gli elementi che compongono l’azienda, essendo indispensabile che i
beni oggetto del trasferimento conservino un residuo di organizzazione che ne dimostri
“l’attitudine, sia pure con la successiva integrazione del cessionario, all’esercizio
dell’impresa” (Cass., 9 ottobre 2009, n. 21481; Cass., 8 maggio 2013, n. 10740). Dall’altro
lato, l’ampia autonomia attribuita alle parti nella determinazione dell’oggetto del
trasferimento è confermata dallo stesso art. 58 TUB la cui disciplina trova applicazione
anche alla “cessione (…) di beni e rapporti giuridici in blocco”, in cui le obbligazioni cedute
sono quelle che, attraverso un ragionevole svolgimento interpretativo della volontà
negoziale delle parti contraenti, appaiono inerenti all’oggetto della cessione. L’autonomia
così riconosciuta alle parti nella cessione di beni e rapporti giuridici in blocco –
evidentemente sottratta alle previsioni degli artt. 2556 ss. c.c. che presuppongono la
sussistenza di un’azienda (o ramo d’azienda) ex art. 2555 c.c. – non sembra poter trovare
limiti nella cessione d’azienda o di ramo d’azienda (salvo quelli rappresentati dalla
necessità che oggetto del trasferimento sia pur sempre un complesso di beni e/o di
rapporti idoneo a costituire un’azienda o un ramo d’azienda), non essendo giustificata una
diversa tutela del terzo in situazioni che il legislatore ha ritenuto sostanzialmente
analoghe.
Così ricostruito il quadro normativo di riferimento, l’eccezione di carenza di legittimazione
passiva, sollevata dall’intermediario resistente facendo perno sulla data in cui si è
verificata l’estinzione anticipata del contratto di finanziamento (che precede di pochi mesi
quella del conferimento del ramo di azienda da parte dell’ente finanziatore, controparte
originaria del contratto, a favore dell’intermediario resistente), non appare, dunque, idonea
a precludere il trasferimento dei debiti aziendali pur derivanti da rapporti estinti e,
conseguentemente, a mantenere ferma l’esclusiva responsabilità della banca cedente
(sussistente soltanto nei tre mesi successivi agli adempimenti pubblicitari di cui all’art. 58,
secondo comma, TUB).
Alla luce della documentazione prodotta dall’intermediario resistente non risulta in alcun
modo che il cedente e il cessionario abbiano inteso escludere dalla cessione del ramo
d’azienda i debiti a questo riconducibili. Nell’atto di conferimento è stabilito che l’ente
finanziatore “conferisce [all’intermediario convenuto], che accetta, il ramo d’azienda
“Cessione del Quinto” dettagliatamente individuato e descritto nella relazione di stima” di
cui all’allegato A (non prodotto dall’intermediario); viene altresì precisato “che il ramo di
azienda CQS risulta costituito da tutte le attività, passività e rapporti giuridici relativi
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Decisione N. 5861 del 29 luglio 2015
all’operatività attualmente svolta presso l’unità organizzativa “Gestioni Finanziarie e
Convenzioni”” della banca cedente. Dello stesso tenore è la “dichiarazione” riportata
nell’allegato D all’atto di conferimento in questione (documento citato e prodotto
dall’intermediario).
In assenza di alcuna espressa limitazione dell’oggetto del trasferimento, genericamente
individuato nel “ramo d’azienda ‘Cessione del Quinto’”, sembra corretto concludere che
oggetto del trasferimento siano stati tutti i rapporti attivi e passivi inerenti il ramo d’azienda
e che, di conseguenza, il ricorrente può legittimamente esigere dall’intermediario
resistente l’adempimento delle obbligazioni correlate all’estinzione anticipata del contratto,
in ragione della contestazione del conteggio estintivo per asserita violazione delle
disposizioni dell'art.125-sexies TUB, che gli riconoscono il diritto a una riduzione del costo
totale del credito; riduzione pari all’importo degli interessi e dei costi dovuti per la vita
residua del contratto e da determinarsi, in assenza, come nel caso in esame, di una chiara
e precisa distinzione tra costi up-front e recurring, sulla base di un criterio proporzionale
ratione temporis secondo l’orientamento costante seguito dai tre Collegi dell’Arbitro.
In particolare, le commissioni oggetto di contestazione da parte del ricorrente ammontano
a Euro 7.059,60 (“Commissioni dell’intermediario finanziario”) e Euro 3.692,29 (“Polizza
vita”), per un complessivo di Euro 10.751,89. Di conseguenza, considerato il numero di
rate residue (51 su 120), in applicazione del richiamato criterio di calcolo proporzionale
ratione temporis, l’importo rimborsabile al ricorrente ammonterebbe a complessivi Euro
4.569,55 = (51/120 * 10.751,89), cui detrarre l’importo di Euro 51,00, già rimborsato
dall’intermediario resistente nel conteggio estintivo, per un importo residuo di Euro
4.518,55 (oltre interessi legali). In riferimento al rimborso delle spese legali richiesto dal
ricorrente nell’importo di Euro 400,00, il Collegio, in linea con il proprio orientamento sul
punto, ritiene dovuto al ricorrente il rimborso dell’importo di Euro 250,00.
P.Q.M.
Il Collegio, in parziale accoglimento del ricorso, dispone che l’intermediario
corrisponda al ricorrente la somma di euro 4.518,55, oltre interessi legali dalla data
del reclamo al saldo, nonché l’importo di euro 250,00 per spese di assistenza
professionale.
Dispone, inoltre, ai sensi della vigente normativa, che l’intermediario corrisponda
alla Banca d’Italia la somma di Euro 200,00 (duecento/00) quale contributo alle
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Decisione N. 5861 del 29 luglio 2015
spese della procedura e al ricorrente quella di Euro 20,00 (venti/00) quale rimborso
della somma versata alla presentazione del ricorso.
IL PRESIDENTE
firma 1
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QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
1/2016
Collegio di Coordinamento
CONTRATTI BANCARI - CAPITALIZZAZIONE DEGLI INTERESSI - ART. 120,
COMMA 2, TUB - DIVIETO - DECORRENZA
Il Collegio di Coordinamento, con decisione n. 7854/15 dell’8 ottobre 2015,
chiamato a pronunciarsi sull’applicazione della capitalizzazione degli
interessi sui rapporti di conto corrente bancario dopo l’entrata in vigore dal
1° gennaio 2014 dell’art. 120, comma 2, del TUB, come modificato dalla
legge n. 147/2013 —che ha demandato al CICR la definizione delle
“modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in
essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che: a)
nelle operazioni di conto corrente sia assicurata, nei confronti della
clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che
creditori; b) gli interessi periodicamente capitalizzati non possono produrre
interessi ulteriori che, nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono
calcolati esclusivamente sulla sorte capitale” — ha ritenuto che la novella
legislativa abbia “espressamente” abrogato, integralmente sostituendola,
la pregressa norma. Di conseguenza, essendo venuta meno dalla stessa
data l’efficacia normativa anche della delibera CICR del 9 febbraio 2000 - la
quale regolamentava l’anatocismo sulla base del previgente art. 120 TUB ne è stato concluso che l’anatocismo è vietato a decorrere dal 1° gennaio
2014 e che al CICR sia stato conferito il compito di regolamentare le
modalità di calcolo dei soli interessi “semplici”, dovendosi escludere che, in
deroga all’art. 1283 cod. civ. la periodica capitalizzazione degli stessi possa
“in ogni caso determinare la produzione di ulteriori interessi”.
(cfr. decisione di seguito riportata)
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
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Decisione N. 7854 del 08 ottobre 2015
IL COLLEGIO DI COORDINAMENTO
composto dai Signori:
Dott. Maurizio Massera
Presidente del Collegio ABF di Roma
Presidente
Dott. Flavio Lapertosa
Presidente del Collegio ABF di Milano
Membro effettivo
[Estensore]
Dott. Marcello Marinari
Presidente del Collegio ABF di Napoli
Membro effettivo
Prof. Avv. Gustavo Olivieri
Membro effettivo
Componente del Collegio ABF di Roma
designato dal Conciliatore Bancario Finanziario
per le controversie in cui sia parte un cliente
professionista/imprenditore
Prof. Avv. Giuseppe Guizzi
Membro effettivo
Componente del Collegio ABF di Napoli
designato da Confindustria, di concerto con
Confcommercio,
Confagricoltura
e
Confartigianato
nella seduta del 23/09/2015, dopo aver esaminato
x il ricorso e la documentazione allegata;
x le controdeduzioni dell’intermediario e la relativa documentazione;
x la relazione istruttoria della Segreteria tecnica,
FATTO
Con atto prot. il 4.9.2014, preceduto da due reclami, rispettivamente del 7 marzo 2014 e
dell’8 maggio 2014, il ricorrente, titolare di contratto di conto corrente bancario, ha adito il
Collegio ABF di Milano, muovendo una serie di contestazioni. In particolare ha lamentato:
(i) il progressivo innalzamento del tasso di interesse a debito sul conto corrente affidato,
con progressione, a suo dire, rapida dal 6,05% del 31 dicembre 2010 al 15,40% vigente al
momento del reclamo, innalzamento a suo dire attuato senza alcun avviso o accordo; (ii)
la sospensione improvvisa alla fine di giugno 2013 di detto fido; (iii) la capitalizzazione
degli interessi a debito con conseguente anatocismo; (iv) il superamento del tasso soglia
per effetto di anatocismo, commissioni, spese e altri oneri; (v) una illegittima segnalazione
del suo nominativo in Centrale Rischi.
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Decisione N. 7854 del 08 ottobre 2015
Con ordinanza in data 29.1.2015 il Collegio di Milano, ritenuta la particolare rilevanza e
novità della questione, ha deliberato di rimettere l’esame del ricorso al Collegio di
coordinamento.
Vale la pena riportare come segue il testo di tale ordinanza:
“Le doglianze così sintetizzate si inseriscono in un contesto in cui, sempre stando alla
ricostruzione operata dal ricorrente, da un lato, la direzione della filiale di riferimento lo
avrebbe “convinto” a firmare una rinuncia al fido originariamente operante sul citato conto,
dall’altro, egli stesso ha richiesto un piano di rientro dell’esposizione maturata, piano poi
non eseguito, perché solo dopo la sua sottoscrizione egli si sarebbe avveduto
dell’applicazione di un tasso di interesse (il citato 15,40%) a suo dire fissato in modo
unilaterale dalla banca, senza alcuna pattuizione e comunque tale da determinare in un
breve lasso di tempo un’ assurda progressione degli interessi debitori.
Il ricorrente chiede, pertanto, che il Collegio si pronunci riconoscendo l’illegalità
dell’operato della banca e «prendendo i necessari provvedimenti».
L’intermediario, che aveva puntualmente riscontrato i due reclami, in via preliminare
solleva l’eccezione di incompetenza temporale dell’ABF fondata sul fatto che le richieste
avanzate dal ricorrente “risultano riferibili al periodo precedente il 1° gennaio 2009”;
quanto al merito, contesta i vari addebiti affermando, anzitutto, di essersi sempre attenuto
alla normativa di volta in volta vigente sia quanto al preteso superamento del tasso soglia,
(suffragando le proprie dichiarazioni da documentazione risultante da appositi “controlli
disposti presso le competenti strutture di settore della Banca”) sia quanto all’anatocismo,
avendo operato in conformità alla disciplina prevista in materia di capitalizzazione degli
interessi debitori e creditori dalla delibera CICR del 09 febbraio del 2000. Quanto alle
restanti domande, l’intermediario respinge le contestazioni, in quanto non “supportat[e] da
elementi probatori” e non avanzate “nei termini di legge”, e sottolinea il mancato rispetto
del piano di rientro predisposto, su richiesta dello stesso ricorrente, nel dicembre 2013 e
sottoscritto nel febbraio 2014. Di qui le domande di inammissibilità e comunque di rigetto.
L’esame dei reclami e della documentazione prodotta - che valgono ad integrare il
sintetico contenuto del ricorso in cui ci si limita a denunciare “l’operato quanto mai
scorretto e contrario alla legge della Banca” ed in cui il ricorrente sembra concentrarsi solo
sulla questione “dell’immotivato e non concordato aumento del tasso di interesse a debito”
– consentono di rilevare come il ricorrente, che intratteneva presso l’intermediario qui
convenuto il rapporto di conto corrente per cui si controverte, in relazione alla sua attività
come notaio, usufruisse quanto meno dal 2010 di un fido sino a € 100.000 (cfr. estratti
conto prodotti solo parzialmente). Risulta altresì che al 30 settembre 2013 il ricorrente
aveva accumulato un’esposizione di oltre € 72.000 e che, stando a quanto rappresentato
dall’intermediario, sin dal precedente mese di luglio le parti si fossero incontrate per
concordare un rientro rimodulato dell’esposizione. Risulta, infine, che in data 5 febbraio
2014, evidentemente all’esito dei vari contatti avuti e precedentemente ai due reclami cui il
ricorso fa seguito, le parti convenivano e formalizzavano un piano di rientro
dell’esposizione – a quella data pari a € 75.189,81 – in 18 rate di cui la prima di € 20.000
dovuta a fine febbraio”.
Dopo la riportata narrativa, il collegio ABF di Milano ha svolto le seguenti osservazioni in
diritto.
“Preliminarmente, occorre sgombrare il campo dall’eccezione di inammissibilità ratione
temporis sollevata dall’intermediario in considerazione del fatto che il rapporto di conto
corrente cui si riferiscono le domande è stato acceso nel 2004. L’eccezione è infondata,
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Decisione N. 7854 del 08 ottobre 2015
dal momento che le domande qui proposte non si incentrano su vizi genetici del contratto
bensì su comportamenti/operazioni poste in essere tutte post gennaio 2009. Difatti, come
sintetizzato sopra, il ricorrente si duole dell’insussistenza di validi accordi in punto tasso
debitore, dopo quello iniziale del 6.05% convenuto il 31 dicembre 2010 (cfr. primo
reclamo), del successivo superamento del tasso soglia anche per effetto dell’applicazione
di interessi anatocistici e di commissioni varie, dell’indebita segnalazione in Centrale
Rischi, tutti eventi e comunque svolgimenti del rapporto, appunto, successivi al gennaio
2009 e come tali perfettamente conoscibili da questo Arbitro.
Detto questo, appare chiaro che una delle doglianze proposte incide su un tema
estremamente attuale e delicato perché relativa agli interessi anatocistici che nella specie
rilevano ai fini delle determinazioni richieste dall’ultimo trimestre 2010 (il primo estratto dai
documenti informativi prodotto dal ricorrente riporta lo specchietto degli interessi a debito
con decorrenza 31 dicembre 2010 e 1° gennaio 2011: cfr. allegato D) ai giorni nostri.
Ora, se in relazione al periodo sino al 31 dicembre 2013 non possono sussistere dubbi in
merito all’infondatezza delle domande proposte, una volta acclarato che nel caso concreto
(come è: cfr. doc. 1 intermediario) è stata rispettata la disposizione di cui all’art. 120 TUB
ante L. 27.12.2013 n. 147 che impone(va) la identica periodicità per il regolamento dei
rapporti di dare e avere, è evidente come per il periodo successivo la risposta in merito
alle modalità di calcolo degli interessi anatocistici – se sopravvissuti - possa essere molto
meno scontata.
Più in particolare, come è noto, l’art. 120 TUB testo in vigore fino al 31 dicembre 2013,
disponeva che “il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli
interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria,
prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata, nei
confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che
creditori”. Come è altrettanto noto, il CICR, sulla base di tale rinvio, aveva assunto la
delibera 9 febbraio 2000, con cui si prevedeva e disciplinava la produzione di interessi su
interessi nei contratti di conto corrente (art. 2), nei finanziamenti con piano di rimborso
rateale (art. 3) e nelle operazioni di raccolta (art. 4).
La cd. legge di stabilità per l’anno 2014 (Legge 27 dicembre 2013, n. 147), in vigore dal 1°
gennaio 2014, ha riformulato l’art. 120 TUB nei seguenti termini: “il CICR stabilisce
modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere
nell'esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che: a) nelle operazioni in
conto corrente sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel
conteggio degli interessi sia debitori sia creditori; b) gli interessi periodicamente
capitalizzati non possano produrre interessi ulteriori che, nelle successive operazioni di
capitalizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale”. Anche in seguito a
varie critiche mosse alla prima formulazione si è registrato un secondo intervento sul tema
con l’art. 31 del D.L. 24 giugno 2014, n. 91 (cosiddetto D.L. Competitività). In tale
occasione il comma 2 dell’art. 120 TUB è stato riscritto come segue: “il CICR stabilisce
modalità e criteri per la produzione, con periodicità non inferiore a un anno, di interessi
sugli interessi maturati nelle operazioni disciplinate ai sensi del presente Titolo. Nei
contratti regolati in conto corrente o in conto di pagamento è assicurata, nei confronti della
clientela, la stessa periodicità nell'addebito e nell'accredito degli interessi, che sono
conteggiati il 31.12 di ciascun anno e, comunque, al termine del rapporto per cui sono
dovuti interessi; per i contratti conclusi nel corso dell'anno il conteggio degli interessi è
comunque effettuato il 31 dicembre”. Infine – e questo è l’attuale stato dell’arte - la Legge
11 agosto 2014, n. 116, in vigore dal 21.8.2014, ha convertito il citato D.L. 91/2014,
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abrogando tuttavia l’art. 31 e sancendo il ritorno in auge della versione dell’art. 120,
comma 2, TUB, come riscritto dalla legge di stabilità 2014.
Dunque, in conclusione, rispetto alla formulazione in vigore tra il 2000 ed il 2013, il nuovo
art. 120 TUB espunge il riferimento agli “interessi sugli interessi” e introduce un divieto di
produzione di “interessi ulteriori” sugli interessi periodicamente capitalizzati.
In questo quadro si pone il problema di comprendere l’ambito sia temporale che oggettivo
di applicazione della nuova regolamentazione, ambito che, inevitabilmente, può produrre
effetti che vanno ben al di là del caso specifico e che influenzano significativamente
sistemi organizzativi e procedure dell’intero sistema bancario.
Gli elementi che possono essere considerati per arrivare ad una - quanto meno
provvisoria – conclusione su una disposizione che, a prescindere dagli evidenti interessi in
gioco, non è certo di cristallina chiarezza, possono essere riassunti come segue.
Premessa del discorso è che, per un verso, la disposizione rinvia all’emanazione di una
delibera, senza la quale, si potrebbe argomentare adottando una prima tesi, il nuovo art.
120 TUB non può trovare immediata applicazione. E tale delibera allo stato è
insussistente. Per un altro verso, il tema dell’anatocismo non rileva solo nei rapporti di
conto corrente, ma anche, ad esempio, nei contratti di mutuo, così come in altri rapporti
bancari. Il tutto in un contesto in cui l’intervento legislativo, dicono alcuni, pare essere
finalizzato ad eliminare tout court la capitalizzazione degli interessi, così ripristinando il
divieto generale di cui all’art. 1283 c.c.
Anzitutto rileva la relazione di presentazione della proposta di legge alla Camera in cui si
legge: “la presente proposta di legge intende stabilire l’illegittimità della prassi bancaria in
forza della quale vengono applicati sul saldo debitore i cosiddetti interessi composti, o
interessi sugli interessi … la proposta di legge, che per la prima volta tipizza
l’improduttività degli interessi composti, intende mettere la parola fine a un comportamento
riconosciuto illegittimo dalla giurisprudenza, ma costantemente tollerato dal legislatore…”.
Tali espressioni, proprio per la terminologia utilizzata (‘saldo debitore’), sembrano
denunciare, ponendo mente alla questione dell’ambito oggettivo di applicazione, la volontà
del legislatore di appuntarsi solo sui rapporti gestiti in conto corrente, gli unici per i quali
abbia un senso parlare di saldo debitore, e non in generale su ogni tipo di rapporto
bancario.
In secondo luogo non può essere sottaciuto il fatto che l’espressione “produzione di
interessi sugli interessi maturati” è stata sostituita dalla diversa locuzione “produzione di
interessi” e che è stato precisato come “gli interessi ulteriori … sono calcolati
esclusivamente sulla sorte capitale”. Tali previsioni vanno tuttavia inserite nel loro
contesto e cioè una norma non cristallina, per non dire, forse, addirittura contraddittoria,
laddove fa comunque riferimento a interessi “periodicamente capitalizzati” – come a
intendere che sull’importo capitalizzato maturano comunque ulteriori interessi – e a una
pari periodicità nel conteggio degli interessi (cfr. lettera a), precisazione, questa, che
sarebbe del tutto irrilevante se si dovesse concludere che il conteggio degli interessi
debba essere fatto separatamente rispetto al conteggio delle poste dovute in via capitale.
Dunque ad un apparente chiara volontà di elidere tout court dal nostro ordinamento gli
interessi anatocistici una lettura attenta del disposto di legge consente di evidenziare
elementi di segno contrario o che mettono quantomeno in dubbio l’apparente certa
abrogazione.
Quanto, poi, alla tempistica con cui il nuovo art. 120 TUB va applicato, costituisce un dato
di fatto che a 14 mesi dalla sua entrata in vigore il CICR non abbia ancora esercitato la
delega conferitagli dal legislatore. Di qui la necessità di stabilire se detto articolo sia self
executing e trovi quindi immediata esecuzione anche a prescindere dall’emanazione della
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Decisione N. 7854 del 08 ottobre 2015
pur prevista delibera ovvero se medio tempore continui ad operare il vecchio regime
ovvero vi sia un vuoto di disciplina.
In proposito sono già rinvenibili nel dibattito dottrinario (quanto alla giurisprudenza, pare
sussistere solo un obiter dictum nella sentenza resa dalla Corte di Appello di Genova del
17 marzo 2014 pubblicata in dirittobancario.it) alcune prese di posizione.
Contro la natura self executing dell’art. 120, comma 2, TUB si sono pronunciati il Consiglio
Nazionale del Notariato (Ufficio Studi, quesito n. 80-2014/C, ivi richiamato), la Banca
d’Italia, in risposta ad un quesito del 17 ottobre 2014 (riportata in Marcelli, L’anatocismo e
le vicissitudini della delibera CICR 9/2/2000, in www.ilcaso.it, 12.12.2014, pag. 37), ed una
parte della dottrina (Maimeri, La capitalizzazione degli interessi fra legge di stabilità e
decreto sulla competitività, in Riv. dir. banc., dirittobancario.it, 23, 2014, § 5). L’opposta
tesi della natura immediatamente precettiva della norma è stata sposata da altra parte
della dottrina (Dolmetta) e, pare, dalla Sezione VI del Tribunale di Milano.
In estrema sintesi gli argomenti svolti in proposito si incentrano, quanto alla immediata
operatività, su una interpretazione della volontà legislativa nel senso della abolizione
dell’anatocismo in tutti i rapporti bancari, così assegnando alla (nuova) delibera CICR la
mera funzione di fissare le regole di tecnica bancaria e contabile per le scritturazioni
relative alle varie tipologie di contratti.
Quanto, invece, alla non immediata applicabilità delle nuove disposizioni, su una
interpretazione dell’art. 120 TUB che valorizza la delega assegnata al CICR nel senso che
essa deve intervenire nel dettaglio sulla disciplina di tutte le tipologie d’interesse - pur
vincolandola ad un certo contenuto (“Il CICR stabilisce modalità e criteri (…) prevedendo
in ogni caso che …”), in tal mondo riempiendo di contenuto i principi esposti nella norma
primaria che sembra contenere profili non immediatamente operativi. Come a dire che la
delibera del CICR è atto indispensabile affinché la norma primaria possa tradursi in
concreta disciplina, anche sotto il profilo dei tempi di adeguamento dei contratti, il tutto
sostanzialmente in linea con l’esperienza passata.
Infine, per concludere la panoramica degli argomenti disponibili, non può sottacersi il tema
della sorte della precedente delibera del 2000 correlato anche alla successione di
disposizioni dalla Legge di Stabilità del 2014 sino alla legge sopramenzionata dell’agosto
2014. Deve infatti ricordarsi che il D.L. 24 giugno 2014, n. 91, poi convertito con
modificazioni, aveva originariamente previsto che, fino a che non vi fosse stato un
intervento del CICR, avrebbe continuato ad applicarsi la vecchia delibera del 9 febbraio
2000. In tale modo erano state risolte due questioni: il settore non avrebbe subito alcun
vuoto di disciplina; la normativa primaria non avrebbe prodotto, di per sé, alcun effetto
abrogativo sulla vecchia delibera CICR del 9 febbraio 2000, che, in sostanza, sarebbe
rimasta in vigore anche in presenza del nuovissimo comma 2 dell'art. 120 TUB”.
DIRITTO
Dato atto del rigetto da parte del Collegio di Milano della eccezione preliminare di
incompetenza temporale (con motivazione che questo Collegio di Coordinamento
condivide e ribadisce), occorre delimitare l’ambito della controversia ai fini della decisione
di merito.
Il ricorrente (non consumatore) ha chiesto l’accertamento della “illegalità dell’operato della
banca”, invocando da parte dell’ABF l’adozione dei “necessari provvedimenti”, senza
peraltro fornire ulteriori precisazioni al riguardo.
Occorre dunque interpretare la domanda (petitum), tenendo conto delle singole censure
(causa petendi).
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Decisione N. 7854 del 08 ottobre 2015
In primo luogo il ricorrente ha lamentato l’ illegittimità dell’aumento del tasso di interesse
debitorio applicato, a far tempo dal 31.12.2010, al rapporto di conto corrente (dal 6,50% al
15,40%), sul rilievo che tali variazioni non sarebbero state precedute da alcun avviso né
basate su una specifica pattuizione.
L’intermediario ha rivendicato la legittimità del proprio comportamento, asserendo di avere
comunicato le variazioni delle condizioni economiche del contratto nel rispetto della
normativa vigente.
Dunque, mentre è pacifico (oltre che documentato) il fatto che i tassi debitori, sia entro il
fido che extra fido (in apparenza cessato dal 3.7.2013), siano stati applicati in aumento dal
31.12.2010 in avanti, è contestato il rispetto da parte della banca del disposto dell’art.118
TUB, a mente del quale qualunque modifica “unilaterale” delle condizioni contrattuali
(compreso il tasso di interesse), oltre ad essere sorretta da un giustificato motivo, deve
essere comunicata espressamente al cliente con forme e tempi specificamente disciplinati
dalla norma. Nel caso di specie non vi è però prova alcuna delle comunicazioni inviate al
ricorrente circa gli aumenti periodici dei tassi di interesse debitorio e pertanto non par
dubbio che tutte le variazioni unilaterali in aumento di tale interesse, apportate dal
31.12.2010 in poi - più esattamente fino alla data del piano di rientro - sono da ritenere
illegittime e quindi inefficaci per violazione del disposto dell’art.118 del TUB.
La soluzione di questo punto controverso rende inutile l’esame della ulteriore censura
riguardante l’asserito (potenziale) sopravvenuto carattere usurario degli interessi debitori
progressivamente applicati, una volta che gli aumenti praticati si ritengano comunque
inefficaci. Al riguardo vale però solo la pena di osservare che il ricorrente non ha fornito
specifiche indicazioni utili per individuare le varie componenti economiche rilevanti per
l’accertamento del superamento del c.d. tasso soglia, venendo così a sollecitare al
collegio ABF un’attività di tipo consulenziale che esula dalle sue funzioni. E pertanto, solo
per esigenze di completezza, può rilevarsi ulteriormente che anche dopo il luglio del 2013
(data in cui parrebbe cessato l’affidamento) il valore legale del tasso soglia sarebbe stato
comunque superiore a quello concretamente applicato al rapporto.
Il problema della illegittimità degli interessi debitori applicati al rapporto si pone peraltro in
termini diversi in relazione al c.d. piano di rientro predisposto dalla banca nel dicembre del
2013 e perfezionato con l’accettazione del ricorrente il 6 febbraio del 2014 (v. all.4
dell’intermediario), laddove veniva prevista tra l‘altro l’applicazione di un tasso di interesse
debitorio del 15,40%.
Qui evidentemente, essendoci una modifica concordata del tasso, non può sovvenire la
disciplina che l’art.118 TUB dedica ai casi di variazioni unilaterali sfavorevoli al cliente.
E proprio per questa ragione il correntista deduce che quell’accordo sarebbe illegittimo
perché da lui sottoscritto senza avere prima preso visione dell’assurda progressione del
tasso in precedenza applicato dalla banca.
Senonchè, così prospettando la questione, il ricorrente adombra un motivo di invalidità
dell’accordo per vizio del consenso il cui accertamento, a prescindere da ogni
considerazione di merito, esula dalla sfera di cognizione dell’arbitro bancario e che, per
esser produttivo di conseguenze utili, sottenderebbe una pronuncia di tipo costitutivo
estranea alla tipologia di decisioni postulabili in questa sede.
Per altro verso, giova ribadire che il tasso contemplato nel piano di rientro non risulta
superiore al tasso soglia, di guisa che non sarebbe neppure rinvenibile un motivo di
illegittimità sostanziale connesso al rispetto della disciplina dell’ usura.
Il ricorrente lamenta poi che la banca abbia sospeso improvvisamente e senza alcuna
segnalazione il fido concessogli, con conseguente illegittimità degli interessi extra fido
applicatigli.
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L’assunto della esistenza di un fido e della mancata comunicazione della sua (eventuale,
come si vedrà) sospensione/revoca non è stato specificamente contestato dalla banca e
pertanto potrebbe considerarsi come fatto incontroverso (art.115, comma 1, c.p.c.).
Tuttavia nessuna delle parti ha indicato quali fossero le caratteristiche del rapporto (a
tempo determinato o indeterminato; quale fosse il termine e la forma dell’eventuale
preavviso, ecc.), mentre negli atti acquisiti al procedimento non si rinviene la copia del
contratto di affidamento (rectius: di apertura di credito in conto corrente) né del documento
integrante la successiva rinuncia (del cliente) o del recesso (della banca).
Dalla contabilizzazione dei soli interessi extra fido a far tempo dal 3.7.2013 può inferirsi
che, almeno da quella data, l’affidamento precedentemente accordato sia stato negato
ma, come detto, nel caso di specie si ignora se ciò sia avvenuto a seguito della rinuncia
del cliente (che nel ricorso adombra la indimostrata ipotesi di essere stato “costretto” a
firmare una rinuncia preparata dalla direzione della banca), nel qual caso non si porrebbe
neppure la questione del preavviso, o per il recesso dell’intermediario, la cui conformità
alla legge dovrebbe però misurarsi sulla lettura delle clausole del contratto, qui mancante.
Ora, premesso che per costante giurisprudenza dell’arbitro bancario (v. ex multis, le
decisioni di Collegio Milano n.372/2013 e Collegio Roma 284/10) il recesso
dell’intermediario da un rapporto di affidamento precedentemente accordato rappresenta
la naturale conseguenza di una valutazione costante del merito creditizio che è tenuto a
effettuare periodicamente (anche in ossequio alla Circolare della Banca d’Italia
n.229/1999, Istruzioni di Vigilanza per le banche, cap.11, Sez.II, par.1 e 2.1.) - valutazione
che non è qui contestata - va da sé che, anche supponendo che vi sia stato recesso della
banca resistente in violazione del disposto dell’art.1845 c.c. o più in generale del dovere di
correttezza e buona fede (artt.1175 e 1375 c.c.), dall’eventuale accertamento della rottura
brutale del credito non potrebbe sortire alcun effetto ripristinatorio della linea di credito
originariamente accordata, ma al più il diritto del ricorrente di ricevere il risarcimento del
danno subito.
Egli però non ha neppure allegato il tipo di pregiudizio sofferto né ha offerto gli elementi
minimi utili ai fini di una sua valutazione equitativa, a cominciare appunto da quelli inerenti
alle modalità di esercizio del recesso, di guisa che la censura riguardante la sospensione
del fido va disattesa per carenza di prova, anche rispetto ai suoi risvolti risarcitori.
Lo stesso dicasi della censura mossa riguardo all’ asserita segnalazione del nome del
ricorrente nella Centrale Rischi della Banca d’Italia (“nonostante l’inesistenza di un suo
rifiuto a sistemare la propria posizione”), posto che di tale argomento si fa cenno solo nel
reclamo dell’ 8.5.2014 e tuttavia non sono disponibili in atti evidenze o ulteriori
informazioni che comprovino la effettiva segnalazione, la sua natura e le circostanze in cui
il ricorrente ne sarebbe venuto a conoscenza. In effetti alla doglianza esposta nel reclamo
non pare seguire alcuna specifica richiesta, così che deve ritenersi che difetti una specifica
domanda sulla quale occorra “provvedere”.
Rimane quindi da valutare la contestata legittimità dell’applicazione degli interessi
anatocistici al rapporto di conto corrente bancario in discussione.
Nessun problema sembra profilarsi per il periodo che va dall’inizio del rapporto fino al
31.12.2013, dato che la Banca, come è stato già evidenziato dal Collegio rimettente,
risulta avere osservato la disciplina vigente al rapporto di conto corrente, sorto (il
3.12.2004) dopo l’emanazione del d.lgs.4 agosto 1999, n.342 e dopo la delibera attuativa
emessa dal CICR in data 9.2.2000.
Il problema si pone invece a far tempo dall’1.1.2014 perché, come è stato già illustrato
nella parte narrativa, da tale data è entrata in vigore la disposizione dell’art.120, comma 2,
del TUB, secondo la nuova formulazione disegnata dalla cd. legge di stabilità per l’anno
2014 (Legge 27 dicembre 2013, n. 147), che il ricorrente ha espressamente richiamato a
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proprio favore nel reclamo dell’ 8.5.2014 e posto a base della tesi del sopravvenuto
divieto dell’anatocismo bancario.
Senonchè nel menzionato reclamo il correntista si è limitato ad affermare apoditticamente
quanto segue:
“Va inoltre osservato che nei conteggi effettuati dalla mia agenzia per il mio conto
corrente, gli interessi calcolati sulla parte debitoria hanno a loro volta prodotto interessi
realizzando la pratica illegittima dell’anatocismo vietato dal’art.1283 c.c.”.
Egli però non ha allegato la relazione contabile della sua ignota agenzia, né ha chiarito
con quali concrete modalità e per quale misura la banca avrebbe effettivamente applicato
a suo debito interessi sugli interessi, eventualità questa che questo Collegio non è in
grado di desumere dalla documentazione prodotta.
Ne discende che la domanda volta all’accertamento della illegittimità degli interessi
anatocistici asseritamente applicati al rapporto risulta del tutto sfornita del benchè minimo
addentellato probatorio e, per tale assorbente considerazione, non può trovare
accoglimento, non essendo consentita in questa sede alcuna forma di verifica officiosa di
natura consulenziale.
Il Collegio non intende però sottrarsi al dovere di affrontare la vexata quaestio iuris del
divieto di anatocismo bancario, così come prospettata dal ricorrente, in quanto l’esame
della quaestio facti posta a fondamento della presente decisione, in connessione con il
principio dell’onere della prova (art.2697 c.c.), non avrebbe neppure avuto ragione di porsi
ove la pratica bancaria dell’anatocismo fosse ritenuta lecita anche dopo la nuova
formulazione dell’art.120 del TUB.
Per meglio inquadrare i termini giuridici della questione si rende opportuna una breve
ricostruzione storica dell’anatocismo bancario.
L’art.1283 c.c. (secondo cui “in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono
produrre interessi dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione
posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei
mesi”) fissa la regola che gli interessi scaduti non possono produrre (ulteriori) interessi,
salvo che, trattandosi di interessi scaduti e dovuti per almeno sei mesi, non intervenga una
domanda giudiziale appositamente finalizzata al loro conseguimento (prima eccezione),
ovvero una convenzione, posteriore alla scadenza degli interessi primari, che li preveda
(seconda eccezione); la norma prevede poi una terza eccezione, e cioè che ricorrano “usi
contrari”, da intendere come usi normativi.
Quest’ultima eccezione venne interpretata diversamente dalle banche, le quali ritennero
che eventuali usi difformi potessero derogare al precetto imperativo dell’art.1283 c.c.,
consentendo la capitalizzazione degli interessi. Infatti gli istituti di credito, a partire dal
1952, su iniziativa dell’ABI, previdero nei contratti bancari la capitalizzazione degli interessi
a favore della banca ogni tre mesi (a marzo, a giugno, a settembre e a dicembre) e quelli
a favore cliente solo annualmente.
Sennonchè la sentenza 11 novembre 1999, n.12057 della 1° Sezione della Corte di
Cassazione vietò l’anatocismo sul rilievo che la clausola di un contratto bancario che
preveda la capitalizzazione degli interessi dovuti dal cliente è nulla in quanto si basa su un
uso negoziale e non normativo.
Successivamente, l’anatocismo nei rapporti bancari venne reintrodotto per via normativa.
Infatti il d.lgs. 4 agosto 1999 n.342 previde, all’art.25, che innovava l’art.120 del Testo
Unico Bancario, la possibilità di un anatocismo nei contratti futuri, delegando il CICR a
stabilire “modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle
operazioni nel’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni
in conto corrente sia assicurata la stessa periodicità di conteggio degli interessi sia debitori
sia creditori”.
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La successiva delibera CICR 9 febbraio 2000 fissò il principio per cui i contratti bancari di
conto corrente potessero prevedere l’anatocismo bancario purchè fosse contemplata la
stessa periodicità nella capitalizzazione degli interessi attivi e passivi: viceversa, in
passato l’uso era quello per cui gli interessi attivi si capitalizzavano annualmente e quelli
passivi trimestralmente.
Peraltro il d.lgs. 4 agosto 1999 n.342 sanò anche la situazione dei contratti conclusi prima
della delibera CICR 9 febbraio 2000: infatti lo stesso art.25 previde che “le clausole
relative alla produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati
anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera di cui al comma 2, sono valide ed
efficaci fino a tale data e, dopo di essa, debbono essere adeguate al disposto della
menzionata delibera, che stabilirà altresì le modalità e i tempi dell’adeguamento. In difetto
di adeguamento, le clausole divengono inefficaci e l’inefficacia può essere solo dal
cliente”.
Ma la Corte Costituzionale, con sentenza 17 ottobre 2000 n.425, dichiarò
l’incostituzionalità per eccesso di delega dell’ultima parte dell’art.25.
Dopo, e per effetto di questa sentenza, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Sez.
Un. 4 novembre 2004,n. 21095), preso atto dell’ablazione normativa operata dalla Corte
Costituzionale, ribadirono il precedente orientamento circa la nullità delle clausole che
prevedevano la capitalizzazione trimestrale degli interessi sui saldi di conto corrente
passivi per il cliente, e le ragioni dell’affermata nullità.
La successiva giurisprudenza della Corte Suprema rimase costantemente conforme
all’orientamento sopra indicato. Così, ad esempio, Cass. Sez. I, 19 settembre 2013, n.
21406 diede per scontata la nullità della clausola in parola e spiegò che essa “impone la
rideterminazione del saldo finale mediante la ricostruzione dell’intero andamento del
rapporto, sulla base dell’estratto conto a partire dall’apertura del medesimo”.
Al’interno del sistema di diritto vivente qui sinteticamente illustrato, è intervenuto l’art. 1,
comma 629, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, che ha così disposto: “All’art.120 del
testo unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n.385, il comma 2 è sostituito
dal seguente: “il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi nelle
operazioni poste in essere nell'esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso
che: a) nelle operazioni in conto corrente sia assicurata, nei confronti della clientela, la
stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori; b) gli interessi
periodicamente capitalizzati non possano produrre interessi ulteriori che, nelle successive
operazioni di capitalizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale”.
Il testo complessivo di tale disposizione, per le considerazioni già enunciate dal Collegio
rimettente, e per le ragioni che verranno poi indicate, non è assolutamente cristallino e ha
prestato il fianco a diverse letture, talune delle quali non disancorate da preoccupazioni
inerenti agli effetti pratici dell’abolizione immediata dell’anatocismo bancario.
Ma, lasciando da parte ogni valutazione di politica economica circa il rilievo che la pratica
dell’anatocismo riveste in diversi Paesi dell’ Unione Europea e circa le paventate ricadute
sistemiche che la sua abolizione in Italia potrebbe determinare nei rapporti concorrenziali
tra banche (valutazioni che non possono però condizionare la funzione interpretativa della
legge rimessa all’ ABF, chiamato a decidere secondo diritto, e che peraltro andrebbero
misurate su un raffronto complessivo del costo del credito nei Paesi della UE), sembra
chiaro almeno il fatto che l’anatocismo previsto dalla legge bancaria sia stato espunto
dall’ordinamento con una norma vigente dal primo gennaio 2014, così come statuito dall’
art.1, comma 749, della legge 147/2013; e che, a circa un anno e nove mesi di distanza
dalla sua entrata in vigore, il CICR non ha ancora deliberato “modalità e criteri per la
produzione di interessi”.
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Ed infatti, solo in data 24 agosto 2015, la Banca d’Italia ha posto in pubblica
consultazione, fino al 23 ottobre 2015, la proposta di delibera del CICR in attuazione
dell’art.120 TUB, che dovrebbe essere approvata e trovare applicazione dall’1 gennaio
2016 con riferimento alle operazioni di raccolta del risparmio e di esercizio del credito tra
intermediari e clienti.
Ora, se si tiene adeguato conto dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale che l’hanno
preceduta, deve convenirsi che la legge 27 dicembre 2013, n.147, vietando l’anatocismo,
non ha fatto altro che “normativizzare” – come accaduto in altre occasioni - un
orientamento giurisprudenziale ormai consolidato (ancorchè non condiviso da parte della
dottrina). Del resto la lettera della norma, al di là di alcune oscurità, depone chiaramente
nel senso di imporre, con effetto immediato, il divieto di anatocismo.
L’abolizione della norma speciale che aveva introdotto l’anatocismo bancario riposa
innanzitutto sul dato testuale, perchè l’art.1, comma 629, della legge n.147/2013,
stabilendo che il vecchio testo dell’art.120 del TUB viene “sostituito” con il nuovo, abroga
espressamente (sostituisce appunto) la norma previgente (art.15 delle preleggi). In ogni
caso la interpretazione abrogatrice della novella emerge con evidenza dal confronto tra
l’incipit del previgente comma 2 dell’art.120 del TUB, che demandava al CICR di stabilire
modalità e criteri per la “produzione di interessi sugli interessi” (vale a dire di disciplinare
sul piano tecnico l’anatocismo nelle operazioni bancarie) e l’incipit del nuovo comma 2
introdotto dall’art.1, comma 629, della legge n.147/2013 che, in sostituzione della
precedente disposizione, demanda al CICR di stabilire modalità e criteri per “la produzione
di interessi” (semplici), e non più per la produzione di interessi sugli interessi (i c.d.
interessi composti o secondari che sostanziano il fenomeno dell’anatocismo).
E proprio il confronto tra la vecchia e la nuova disposizione consente di escludere che il
nuovo riferimento alla “produzione di interessi nelle operazioni poste in essere
nell’esercizio dell’attività bancaria” possa intendersi in senso ampio, nel senso cioè di
ricomprendervi ogni forma di produzione di “interessi”, compresi quelli anatocistici.
La evidenza della descritta vicenda abrogativa, già desumibile dal dato testuale della
legge di stabilità 2014, trova ulteriore riscontro da un lato nella espressa motivazione
dell’intervento legislativo, emergente dalla chiara dichiarazione di intenti dei suoi
proponenti di “mettere la parola fine a un comportamento riconosciuto illegittimo dalla
giurisprudenza, ma costantemente tollerato dal legislatore” (cfr. Relazione alla proposta di
legge n.1661 del 2013, condivisa ora dalla Banca d’Italia nel c.d. “Documento per la
consultazione”, laddove afferma che l’intenzione del legislatore era di “stabilire
l’improduttività degli interessi composti”), e dall’altro dal successivo tentativo, poi abortito,
di ripristinare l’anatocismo bancario, portato avanti con la scrittura dell’art. 31 del D.L. 24
giugno 2014, n. 91 (non convertito in legge), laddove, con altrettanta consapevolezza
(implicante una sorta di interpretazione autentica della legge di stabilità 27.12.2013, n.147)
il legislatore aveva previsto con parallelo incipit di demandare al CICR di stabilire “modalità
e criteri per la produzione, con periodicità non inferiore a un anno, di interessi sugli
interessi”.
Si tratta dunque di un classico caso di abrogazione di una disposizione di legge da parte
di una disposizione successiva avente pari valore gerarchico (art.15 delle preleggi), nel
quale l’interpretazione abrogatrice, già desumibile dal dato testuale, trova puntuale
conforto logico nel principio di incompatibilità (non contraddizione) e nel criterio
ermeneutico storico – evolutivo.
Da qui la conseguenza che, se dall’1.1.2014 è caduta la riserva di anatocismo bancario, i
relativi effetti hanno cominciato a prodursi contestualmente alla data di entrata in vigore
della legge che l’ha determinata.
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Le obiezioni e le perplessità mosse da una parte autorevole della dottrina all’approdo
interpretativo qui proposto, per quanto fondate anche su alcune innegabili ambiguità
letterali del novello art.120 TUB, non appaiono condivisibili.
E’ stato osservato innanzitutto che proprio la delega che la norma di legge attribuisce al
CICR (delegificazione) prospetta la necessità della deliberazione dell’organo delegato
perché la Novella possa trovare concreta attuazione, così intendendosi che il nuovo
comma 2 dell’art.120 TUB, pur in vigore, abbia efficacia solo a seguito della futura delibera
del CICR (una sorta di condicio iuris indeterminata), avente il ruolo di completamento del
precetto normativo primario insufficientemente delineato, e che medio tempore (in pratica
nel periodo che va dall’1.1.2014 al 31.12.2015) continui ad applicarsi la delibera del CICR
emessa il 9 febbraio 2000. Il che sarebbe esattamente in linea con la vicenda che
condusse alla introduzione normativa dell’anatocismo bancario, allorquando l’art.25,
comma 2, del d.lgs.n.342/1999, modificando l’originario art.120 del TUB (che nulla
prevedeva in tema di interessi, mentre per l’anatocismo valeva la regola generale
dell’art.1283 c.c.), attribuì al CICR la potestà di stabilire modalità e criteri per la produzione
di “interessi sugli interessi” maturati nelle operazioni bancarie; e il CICR vi ottemperò con
delibera del 9.2.2000, entrata in vigore il 22.4.2000.
E’ stato dunque sostenuto che, come l’introduzione dell’anatocismo bancario divenne
operativa solo a seguito della delibera del CICR del 9.2.2000, così la sua successiva
abolizione sarebbe applicabile solo a seguito della “delibera” del CICR, a tutt’oggi “non
pervenuta” (se non in fase propositiva).
Premesso che una diversificata soluzione del problema del nesso tra norma primaria e
delibera amministrativa non sembra possa legalmente giustificarsi a seconda che il cliente
sia o meno un consumatore, sembra assorbente il rilievo che, mentre nel primo caso
menzionato l’intervento del CICR aveva effettivamente una funzione determinante e
“completativa” per disciplinare sul piano operativo una pratica positiva introdotta da una
norma di legge (si regola ciò che esiste), nel secondo caso ora in esame, attendere la
delibera del CICR non avrebbe senso alcuno rispetto all’anatocismo, non essendo
concettualmente ammissibile che una norma secondaria regoli contraddittoriamente un
fenomeno che una norma primaria ha estinto e che la nuova norma secondaria non
potrebbe in ogni caso reintrodurre, posto che il mandato conferito al CICR esclude
chiaramente che la capitalizzazione degli interessi possa mai condurre alla produzione di
interessi ulteriori (art.120 comma 2, lett. b, del TUB).
Ed è pure evidente che in base al sistema delle fonti normative di produzione (art.1 delle
preleggi) l’abrogazione immediata (dall’1.1.2014) della norma primaria, che la delibera
CICR del 9 febbraio 2000 aveva inteso attuare, ha contestualmente deprivato quest’ultima
fonte regolamentare del suo necessario presupposto legislativo.
La delega al CICR del resto è stata espressamente prevista dal novello art.120, comma 2,
del TUB solo per indicare le modalità di calcolo degli interessi semplici, di guisa che
nessuna delega può configurarsi rispetto alla disciplina di dettaglio degli interessi
composti, la cui ammissibilità, in conseguenza della abrogazione della disposizione
speciale che con maggiore ampiezza li legittimava nelle operazioni bancarie rispetto al
diritto comune, è ora esclusa del tutto, talchè, in deroga all’art.1283 c.c., viene stabilito che
il CICR, nel regolamentare gli interessi semplici periodicamente capitalizzati, non potrà in
ogni caso determinare la produzione di ulteriori interessi (e la recente proposta di delibera
CICR emanata dalla Banca d’Italia ne dà puntuale conferma all’art.3, laddove ribadisce
che “nelle operazioni indicate dall’art.2, gli interessi maturati non possono produrre
interessi”).
Ipotizzare dunque che, senza la nuova delibera del CICR, l’anatocismo bancario possa
sopravvivere in base alla vecchia delibera, ormai disancorata dalla norma primaria che la
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legittimava, e che la stessa disposizione regolamentare debba condizionare anche la
risoluzione giuridica delle controversie da decidere secondo la nuova legge significa
postulare un sovvertimento dei fondamentali rapporti gerarchici tra fonti del diritto e
fors’anche una inammissibile alterazione costituzionale del rapporto tra poteri dello Stato,
dimenticando tra l‘altro che, quand’anche si ritenesse che la vecchia delibera CICR sia
ancora formalmente vigente, il giudice (e anche l’Arbitro) dovrebbe comunque
disapplicarla per sopravvenuta contrarietà a norma imperativa.
In definitiva l’equivoco circa l’immediata (entrata in vigore e) operatività di tale divieto a far
tempo dall’1.1.2014 è sorto a causa della delega al CICR di stabilire modalità e criteri per
la produzione degli interessi. Ma lo stesso legislatore ha successivamente offerto un
segnale idoneo a orientare l’interprete. Il riferimento, giova ribadirlo, è proprio al tentativo
di reintrodurre l’anatocismo attuato con l’art.31 d.l. n.91 del 2014, modificativo del comma
2 dell’art.120 TUB, con la previsione, nella parte che qui interessa, che “il CICR stabilisce
modalità e criteri per la produzione con periodicità non inferiore ad un anno, di interessi
sugli interessi maturati nelle operazioni disciplinate ai sensi del presente Titolo”. E’
evidente che, in tal modo, il legislatore ha indirettamente offerto l’interpretazione autentica
della normativa del 2013.
In primo luogo, la lettura comparata delle due norme dimostra chiaramente quali fossero,
rispettivamente la volontà del legislatore de 2013 e del 2014 e i limiti delle deleghe al
CICR. In secondo luogo, la seconda norma non avrebbe avuto ragione di essere se la
prima non avesse vietato – da subito – la pratica dell’anatocismo.
Ulteriore indicazione è venuta dal Parlamento che, in sede di conversione del d.l. n.9 1 del
2014, ha espunto proprio la norma sopra trascritta, manifestando così la volontà di vietare
l’anatocismo.
Infine, occorre considerare che la stessa Banca d’Italia, nella “Proposta di delibera
attuativa dell’art.120 comma 2 T.U.B.”, afferma che, nel valutare gli impatti della proposta
di delibera CICR, “l’analisi si sofferma sulle due aree per cui è stato possibile individuare
diverse opzioni regolamentari rispetto alle quali esercitate una discrezionalità, in
particolare: i) la periodicità di contabilizzazione degli interessi; ii) il termine per l’esigibilità
degli stessi”. Poi aggiunge: “Non costituiscono oggetto di valutazione, invece, gli aspetti
che sono stati innovati direttamente dal legislatore nell’emanazione della normativa
primaria, primo fra tutti il nuovo regime di produzione degli interessi sugli interessi”.
Se ne ricava che la stessa Banca d’Italia, per quanto può rilevare a livello interpretativo in
questa sede, dà per scontata l’avvenuta entrata in vigore del divieto di anatocismo e
riconosce che la delega al CICR riguarda solo la periodicità di contabilizzazione degli
interessi e il termine per la loro esigibilità.
Una seconda obiezione muove dal rilievo che la stessa legge bancaria, benché modificata
nella parte relativa alla previsione dell’ applicabilità dell’anatocismo, attribuisce alla
vecchia delibera del CICR la funzione di regolare i rapporti contrattuali tra clienti fino a che
non sia varata la nuova deliberazione.
Si tratta dell’art.161, comma 5, del TUB, secondo cui “le disposizioni emanate dalle
Autorità creditizie ai sensi di norme abrogate o sostituite continuano a esse applicate fino
alla data di entrata in vigore dei provvedimenti emanati ai sensi del presente decreto
legislativo”.
Non v’è dubbio che tale norma, se intesa alla lettera, varrebbe a sterilizzare gli effetti
dell’abrogazione del divieto di anatocismo bancario fino all’approvazione della delibera del
CICR richiamata nell’art.1 comma 629 della legge n.147/2013. Essa, inoltre, sarebbe
anche generalmente giustificata dalla esigenza di evitare perigliosi vuoti applicativi nel
sistema creditizio, nella fase di passaggio da una vecchia a una nuova disciplina
legislativa.
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Decisione N. 7854 del 08 ottobre 2015
Vero è che una parte della dottrina ha sottolineato il carattere meramente transitorio della
norma dettata dall’art.161, comma 5 del TUB, in ragione della sua collocazione nel titolo IX
e della esigenza “storica” di formare il nuovo testo unico di settore senza correre il rischio
di creare vuoti applicativi derivanti dall’abrogazione implicita di disparate disposizioni di
legge preesistenti, abrogate per incompatibilità con l’avvento del d.lgs.385/1993.
Questo argomento potrebbe tuttavia reputarsi indebolito per effetto del sopravvenuto art.2,
comma 2, del d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72 che, in attuazione della direttiva 2013/36/UE,
implicante la introduzione di una serie di modificazioni al TUB, ha statuito quanto segue:
“Le delibere adottate dal CICR, i decreti emanati in via d’urgenza dal Ministero
dell’economia e delle finanze – Presidente del CICR, e i regolamenti emanati dal Ministero
dell’economia e delle finanze ai sensi di norme abrogate o modificare dal presente decreto
legislativo continuano a essere applicate fino alla data di entrata in vigore dei
provvedimenti emanati dalla Banca d’Italia nelle corrispondenti materie. Rimane fermo
altresì, quanto previsto dall’art.161, comma 5, del decreto legislativo 1° settembre
1993,n.385”.
Con tale disposizione il legislatore sembrerebbe, secondo alcune autorevoli opinioni, aver
manifestato l’ intenzione di attribuire una valenza sistematica all’art.161, comma 5, TUB,
proprio per evitare lacune operative nel settore creditizio.
Tuttavia tale esito interpretativo non appare inevitabile e incontrovertibile ove si consideri
che l’art.2 del d.lgs. 72/2015 fa esplicito riferimento alle modifiche del “presente decreto”,
assumendo perciò un carattere di specialità, mentre il riferimento generico all’art.161 TUB
lascia impregiudicato cosa rimanga “fermo” di quella disciplina; d’altro lato, se già l’art.161
avesse avuto l’effetto prospettato, per quale ragione si sarebbe sentita la necessità di
affermare la perdurante vigenza delle delibere, nella prima parte dell’articolo?
Peraltro, anche attribuendo un valore sistematico (e permanente) all’art.161 comma 5 del
TUB, la ragione per la quale il transito dal vecchio al nuovo regime in tema di anatocismo
bancario non può dipendere dalla nuova delibera CICR sta nella ratio della stessa norma:
essa intende ragionevolmente assicurare che, nel caso di successione di leggi primarie
che regolano diversamente una certa materia e che necessitino di disposizioni sub
primarie di dettaglio per essere concretamente applicabili, le vecchie disposizioni
continuino ad essere operanti fino al varo delle nuove, in modo tale che il medesimo
rapporto giuridico (basato ad es. sulla pratica dell’anatocismo) non abbia interruzioni.
Tale dipendenza non ha invece alcuna ragion d’essere quando le norme di legge e quelle
regolamentari abbiano ad oggetto situazioni giuridiche diverse: se la produzione di
interessi composti non è più consentita da una legge primaria, viene meno per ciò stesso
la giustificazione della disciplina di dettaglio, sia pure transitoria, destinata ad attuarla,
sicchè renderla ultrattiva fino a quando non intervenga altra disposizione sub primaria che
regoli il diverso fenomeno della produzione di interessi semplici, sarebbe privo di senso
(non si regolamenta qualcosa che non esiste più).
La interpretazione logica e più ragionevole dell’art.161 comma 5 TUB deve dunque avere
carattere restrittivo, nei termini ora enunciati.
Diversamente opinando, si perverrebbe a questa conseguenza paradossale: l’anatocismo
bancario è vietato dalla legge bancaria a far tempo dall’1.1.2014, ma la stessa legge
bancaria ammette che i rapporti tra banche e clienti continuino (probabilmente fino al 31
dicembre 2015) ad essere regolati secondo criteri contabili che ne presuppongono la
liceità.
Le conclusioni qui enunciate non possono essere inficiate dagli inconvenienti applicativi
che la riformulazione complessiva dell’art.120 del TUB potrebbe eventualmente sollevare
proprio nella parte in cui rimanda alla successiva delibera del CICR.
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Decisione N. 7854 del 08 ottobre 2015
Invero, sono state segnalate da autorevoli voci della dottrina, e anche dalla giurisprudenza
di merito (si vedano per tutte le note ordinanze del 25 marzo e del 3 aprile 2015 emesse
dal Tribunale di Milano in conformità a una linea di pensiero annunciata con la Relazione
di Sezione del 6.2.2014) le oscurità, se non le contraddittorietà, insite nel testo della norma
che, nel rinviare al CICR la determinazione delle modalità e dei criteri di applicazione per
la produzione degli interessi (semplici) nelle operazioni bancarie, da un lato ha sancito
(art.120, comma 2, lettera a) il limite della pari periodicità del “conteggio” degli interessi a
debito e a credito sul conto corrente (trascurando che essi, quali frutti civili, si producono
automaticamente giorno per giorno (ex art.821 comma 3 c.c.), e dall’altro ha stabilito
(art.120, comma 2, lettera b) che gli interessi “periodicamente capitalizzati non possano
produrre interessi ulteriori, che nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono
calcolati esclusivamente sulla sorte capitale”, così configurando una periodica
capitalizzazione degli interessi che concettualmente sembrerebbe integrare il presupposto
operazionale per applicare, almeno una prima volta, gli interessi anatocistici (i quali
tradizionalmente vengono a commisurarsi sulla quota degli interessi primari che viene a
fondersi con il capitale attraverso il fenomeno detto appunto capitalizzazione: sempre che
però essi, come pure la norma ammette, non vengano calcolati separatamente sulla quota
di montante rappresentata dalla sola sorte capitale).
In realtà sembra piuttosto che la legge, nel fissare la delega al CICR, si sia preoccupata di
far definire da un organismo tecnico non già il criterio in base al quale espungere nella
ricostruzione di un conto il calcolo degli interessi anatocistici, bensì la elaborazione delle
modalità contabili idonee a evitare che, attraverso il computo degli interessi semplici, si
venga di fatto a replicare il fenomeno contabile dell’anatocismo, tenendo conto della
circostanza che in passato, dapprima per effetto di un uso contrattuale dichiarato
illegittimo dalla Corte di Cassazione, e in seguito a causa della legittimazione normativa
dell’anatocismo bancario, gli istituti di credito non hanno mai di fatto applicato
contabilmente la regola che consente la produzione di soli interessi semplici e dunque non
dispongono di un know-how comune di riferimento. E questa preoccupazione è facilmente
percepibile nella precisazione che “gli interessi periodicamente capitalizzati non possano
produrre interessi ulteriori che, nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono
calcolati esclusivamente sulla sorte capitale”. Che poi le direttive così indirizzate al CICR
siano davvero perspicue e tecnicamente pertinenti allo scopo è “un’altra storia”,
considerato che la capitalizzazione, termine mai usato prima nella legge bancaria, è
secondo taluni la operazione strumentale al calcolo degli interessi sulla quota di interessi
primari fusa col capitale (vale a dire all’applicazione di interessi anatocistici) e, secondo
altri, fenomeno concettualmente diverso dalla produzione di interessi sugli interessi, ma
perveniente a un risultato economicamente equivalente.
Senonchè addurre un inconveniente pratico rispetto al criterio di contabilizzazione degli
interessi semplici non può comportare la perpetuazione (anzi, la reviviscenza) della legge,
ormai espunta dall’ordinamento, che consentiva il calcolo degli interessi composti.
Si tratta dunque di un problema tecnico contabile che non può influenzare la
interpretazione data al valore del precetto normativo qui in discussione, che, come la
stessa Banca d’Italia ha illustrato nel “Documento per la consultazione” a corredo della
recente proposta di delibera CICR, deve tenere conto non tanto della ambigua, se non
contraddittoria, formulazione letterale dell’art.120 comma 2 del TUB, ma del valore
teleologico della disposizione (sicchè …”si è ritenuto..che l’espressione “capitalizzazione”
possa essere interpretata come sinonimo di “conteggio o contabilizzazione” e che il nuovo
art.120, co. 2, intenda vietare la produzione di interessi anatocistici, non consentendo mai
la capitalizzazione degli interessi nelle operazioni da esso disciplinate, diversamente da
quanto stabilito dal codice civile (art.1283”). In tal guisa la Banca d’Italia sembra avere
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Decisione N. 7854 del 08 ottobre 2015
tenuto conto della “lettura” che della norma controversa hanno fornito le prime pronunce
dei giudici di merito in fase cautelare (il riferimento è soprattutto al Tribunale di Milano; in
senso conforme, v. da ultimo, ex multis, ord. Trib. Biella 7.7.2015; in senso contrario, ma
senza specifica giustificazione argomentativa, v. ord. Trib. Cosenza, 27 maggio 2015;
nello stesso senso v. altresì ord. Trib. Torino, 16.6.2015).
Ne segue che fino a quando non interverrà la nuova delibera del CICR (o una nuova legge
che regoli diversamente la materia), le enunciate oscurità testuali della legge vigente
devono essere nel frattempo superate (per il periodo che va dall’1.1.2014 al 31.12.2015)
dalla prassi contabile per renderle coerenti con il divieto di addebito di interessi
anatocistici, anche perché nessuna deroga alla immediata applicabilità del divieto sancito
dalla norma primaria può derivare dalla emanazione di una norma secondaria, sulla base
di una delega con oggetto specifico concettualmente compatibile.
Certo è che non spetta all’Arbitro Bancario (ma all’Autorità amministrativa competente) il
potere dovere di rivolgere agli operatori bancari indicazioni generali di tecnica contabile e
contrattuale.
Il che lascia impregiudicata non solo eventualità di accordi negoziali più favorevoli al
cliente, giusta il disposto dell’art.127 n.1 TUB, ma soprattutto la valutazione della effettiva
ricorrenza, a seconda delle varie tipologie contrattuali (mutuo, conto corrente, apertura di
credito, ecc.) di fattispecie di anatocismo bancario vietato, essendo ben noto che non tutte
le annotazioni in conto di interessi sono concettualmente qualificabili come anatocismo.
Questo ulteriore problema interpretativo non ricorre però nel caso di specie ove, per le
ragioni già illustrate, la resistente deve limitarsi a stornare gli interessi in aumento applicati
dal 31.12.2010 al 6.2.2014, per una diversa ragione che li rende illegittimi.
In conclusione, tutte le pretese dedotte dal ricorrente, compresa quella relativa alla
richiesta di storno di asseriti e non provati interessi anatocistici, appaiono infondate e
devono essere respinte. Merita accoglimento soltanto la richiesta di storno delle variazioni
in aumento del tasso debitorio (dal 6,50% al 15,40%), applicate unilateralmente dalla
banca in violazione del disposto dell’art.118 TUB nel periodo che va dal 31.12.2010 fino al
6.2.2014, data del piano di rientro con il quale il tasso degli interessi debitori è stato
concordato dalle parti.
Resta precluso l’esame della questione, che avrebbe avuto carattere preliminare,
riguardante l’ammissibilità di tale richiesta alla luce del piano di rientro, dato che il
ricorrente, verso la promessa di una dilazione nel pagamento del suo debito, aveva
rinunciato a sollevare “qualsivoglia contestazione, anche in sede giudiziale, relativa alla
tenuta dei rapporti in oggetto, con particolare ma non esclusivo rifermento alle
metodologie e liquidazione e computo degli interessi applicate dalla banca a far data
dall’accensione dei rapporti” (e dava altresì atto che la capitalizzazione trimestrale degli
interessi era avvenuta in conformità dell’art.120, comma 2, del TUB).
Infatti, trattandosi di circostanza di fatto impeditiva, sarebbe spettato alla resistente
eccepirla e, in difetto, non può il Collegio prospettarla di ufficio ai fini della decisione sul
merito.
Il ricorso va quindi parzialmente accolto nei termini meglio indicati nel dispositivo.
P.Q.M.
“Il Collegio, in parziale accoglimento del ricorso, dichiara l’illegittimità della
variazione del tasso di interesse debitorio applicato al rapporto controverso dal
31.12.2010 al 6.2.2014 e per l’effetto dispone che l’intermediario provveda allo
storno dei relativi interessi in aumento. Rigetta nel resto.
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Decisione N. 7854 del 08 ottobre 2015
Dispone inoltre, ai sensi della vigente normativa, che l’intermediario
corrisponda alla Banca d’Italia la somma di euro 200,00, quale contributo alle spese
di procedura, e alla ricorrente quella di euro 20,00 quale rimborso della somma
versata alla presentazione del ricorso”.
IL PRESIDENTE
firma 1
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Pag. 17/17
QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
1/2016
Assegno e Cambiale
ASSEGNO BANCARIO – OBBLIGO DI PAGAMENTO IN CONTANTI AL
PRENDITORE DA PARTE DELLA BANCA TRATTARIA – ESCLUSIONE
Il Collegio di Milano, con decisione n. 8272/15 del 3 novembre 2015 —
nell’esaminare il ricorso presentato da soggetto non correntista della
convenuta e che lamentava il mancato cambio di un assegno emesso dal
suo datore di lavoro per l’importo di Euro 1.250,00, benché egli si fosse
recato presso la dipendenza traente — ha rigettato il ricorso stesso,
richiamando, al riguardo: un parere ABI (n. 1031 del 26 gennaio 2009
“Cambio di assegni bancari”); la dottrina (il Commento sub art. 4 Legge
assegni, in SALAMONE - SPADA, Commentario breve al diritto delle
cambiali, degli assegni e di altri strumenti di credito e mezzi di pagamento,
4^ ed.); la giurisprudenza di merito (Trib. Ivrea 3/3/2004) e la
giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., n. 535 del 19/1/2000) secondo la
quale, in particolare, “con la convenzione di assegno, consistente nel
mandato, conferito alla banca dal titolare del conto corrente, ad effettuare
i pagamenti che il medesimo ordina mediante l'emissione di assegni con i
quali il correntista-traente promette al prenditore e contestualmente ordina
alla banca trattaria il pagamento, questa ultima non assume alcuna
obbligazione verso il prenditore, ma presta per il traente un servizio di
cassa, svolgendo, per ogni emissione di assegni, funzioni di delegato
passivo”.
(cfr. decisione di seguito riportata)
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
35
Decisione N.8272 del 03 novembre 2015
COLLEGIO DI MILANO
composto dai signori:
(MI) LAPERTOSA
Presidente
(MI) LUCCHINI GUASTALLA
Membro designato dalla Banca d'Italia
(MI) ORLANDI
Membro designato dalla Banca d'Italia
(MI) SANTORO
Membro designato da Associazione
rappresentativa degli intermediari
(MI) TINA
Membro designato da
rappresentativa dei clienti
Associazione
Relatore LUCCHINI GUASTALLA EMANUELE
Nella seduta del 10/09/2015 dopo aver esaminato:
- il ricorso e la documentazione allegata
- le controdeduzioni dell’intermediario e la relativa documentazione
- la relazione della Segreteria tecnica
FATTO
Il ricorrente, soggetto non correntista della convenuta, lamenta la mancata negoziazione di
un assegno emesso dal suo datore di lavoro (ai fini del pagamento dello stipendio
mensile) e tratto sulla medesima convenuta.
Più precisamente, il ricorrente riceveva il pagamento del suo stipendio tramite assegno
bancario emesso su carnet rilasciato dall’odierna convenuta e il 13 agosto 2014 si recava
presso la stessa dipendenza traente, al fine di incassarlo.
Il ricorrente, non correntista della convenuta, si vedeva opporre il rifiuto di quest’ultima al
“cambio” dell’assegno in contanti; dapprima poiché “superiore ad € 1.000,00” e poi, in fase
di reclamo, perché la banca si dichiarava non “obbligata per legge al pagamento di un
assegno bancario”. Gli venivano inoltre rappresentate ragioni di verifica della sua
“solvibilità” benché il titolo avesse “copertura certa”.
Dal momento che tale assegno, pari ad € 1.350,00, rappresentava il suo stipendio
mensile, il ricorrente pativa “numerosi disagi”. Conclusasi infruttuosamente la fase di
reclamo, si rivolgeva all’ABF, chiedendo il risarcimento del danno patito e la refusione
delle spese sostenute.
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Pag. 2/5
Decisione N.8272 del 03 novembre 2015
Il ricorrente ha chiesto il risarcimento del danno nella misura di € 2.000,00 “o di quella
ritenuta di giustizia” oltre “ad € 500,00 per l’intervento legale e spese”.
Nel presentare le proprie controdeduzioni, la convenuta ha precisato di aver dato riscontro
al reclamo ed eccepisce preliminarmente di non aver trovato documenti, riferibili alla data
indicata dal ricorrente (13 agosto 2014), che attestino la presentazione all’incasso
dell’assegno.
Ha sostenuto, comunque, di non essere obbligata alla negoziazione di un assegno “a
chiunque si presenti allo sportello [...] soprattutto se persona non conosciuta”, anche alla
luce del parere ABI 1031/2009 in materia di “Cambio di assegni bancari”.
Ha citato, inoltre, della giurisprudenza di merito e di legittimità sull’accettazione
dell’assegno bancario e sull’assenza di un rapporto cartolare tra banca trattaria e
prenditore dell’assegno.
La resistente ha chiesto che il ricorso venga rigettato.
DIRITTO
Prima di esaminare nel merito la controversia sembra opportuno riportare alcuni aspetti
essenziali ai fini della decisione.
È pacifico che il ricorrente non sia correntista della convenuta. Sostiene di aver tentato di
incassare, in contanti, un assegno emesso dal proprio datore di lavoro (cliente della
resistente) presso la medesima dipendenza della banca che lo aveva tratto.
Sebbene la banca abbia dato riscontro al reclamo, nelle controdeduzioni si eccepisce,
innanzitutto, come non vi sia evidenza che il ricorrente si sia presentato allo sportello per
la (mancata) negoziazione del titolo.
Ad ogni modo, la banca sostiene, con le proprie difese, di non essere tenuta alla
negoziazione dello stesso, citando un parere ABI del 2009 sul punto e della
giurisprudenza in materia di accettazione dell’assegno e del rapporto fra trattaria e
prenditore.
Quest’ultimo sostiene, invece, che, in prima battuta, l’addetto allo sportello avrebbe
opposto l’impossibilità di cambiare un assegno superiore ad € 1.000,00 (cfr. reclamo del
25 agosto 2014, nel quale il ricorrente riferisce che l’assegno era pari ad un valore di €
1.250,00).
Non è in atti copia del titolo e non è dunque noto se lo stesso recasse delle particolarità
tali di cui le parti non fanno cenno (ad esempio, se fosse un assegno bancario “da
accreditare”, come tale non negoziabile in contanti ex art. 42, R.D. 1736/1993).
Non è in atti particolare documentazione relativa al danno sofferto ma è pacifico,
comunque, che la negoziazione non sia avvenuta.
Viene altresì richiesta la refusione delle spese sostenute, relativamente alle quali, tuttavia,
non si rinviene alcuna documentazione, eccezion fatta per il contributo al procedimento
ABF e l’intervento di un legale quale firmatario del ricorso.
Ciò chiarito e venendo all’esame dell’esito della presente vertenza, deve rilevarsi che la
questione centrale che deve essere affrontata inerisce all’asserito rifiuto della convenuta di
negoziare un assegno bancario tratto per conto del datore di lavoro del ricorrente e portato
all’incasso da quest’ultimo, soggetto non correntista.
A questo proposito giova ricordare quanto chiarito nel “Parere ABI 1031 - 26 gennaio 2009
- Cambio di assegni bancari”, ove si legge quanto segue:
“È stato richiesto un parere in materia di cambio di assegni bancari. In particolare si
pongono alla scrivente i seguenti quesiti:
37
Pag. 3/5
Decisione N.8272 del 03 novembre 2015
a) fino a che punto una banca sia obbligata a cambiare un assegno a persona che non
conosce (non client), ma che presenta un documento valido al cassiere;
b) quali sono le eventuali responsabilità della banca che si rifiuti di cambiare l’assegno
anche in presenza di un valido documento di riconoscimento;
c) se vi sia una differenza, in termini di obbligatorietà a cambiare l’assegno bancario, tra
lo sportello della banca trattaria ove è cliente il traente e gli altri sportelli della stessa
banca.
Circa il primo quesito sub a), va precisato che è orientamento diffuso sia della dottrina che
della giurisprudenza di merito e di legittimità quello per cui il beneficiario dell’ assegno
bancario che presenta il titolo alla banca trattaria non può vantare alcun diritto al
pagamento nei confronti di quest’ultima, "né l’ordinamento gli conferisce la legittimazione,
sul presupposto del riconoscimento della relativa titolarità, all’ esperimento di apposite
azioni, di natura cartolare o extracambiaria, per costringere lo stesso istituto di credito
trattario al pagamento della somma portata dal titolo medesimo, ancorché nei limiti dei
fondi esistenti sul conto corrente del traente in base al rapporto di provvista". La stessa
struttura e la funzione dell’assegno bancario comprovano del resto che la banca trattaria
non assume la qualità di debitore cambiario, ma rimane al di fuori del rapporto
intercorrente tra il traente il titolo ed il prenditore.
[…]
Con riferimento al quesito sub b), poiché tra il prenditore ed il trattario non si instaura alcun
tipo di rapporto (sia esso cartolare che extracartolare), non può configurarsi alcuna
responsabilità della banca trattaria nei confronti del beneficiario per il profilo considerato.
In ipotesi di rifiuto "ingiustificato" di pagamento la stessa banca trattaria potrebbe peraltro
esporsi nei confronti del traente ad una responsabilità contrattuale di carattere risarcitorio,
che trova fonte nella convenzione di assegno. Tra i motivi che legittimamente possono
indurre la banca trattaria a rifiutare il pagamento la dottrina annovera il caso in cui il
portatore non sia riuscito a farsi idoneamente identificare.
Anche la giurisprudenza e la dottrina (cfr., ad esempio, il Commento sub art. 4 Legge
assegni, in SALAMONE - SPADA, Commentario breve al diritto delle cambiali, degli assegni e
di altri strumenti di credito e mezzi di pagamento, 4^ ed.) appaiono unanimemente
orientate nel senso di escludere un obbligo della banca nei confronti del beneficiario alla
negoziazione del titolo, ipotizzando una mera facoltà della banca di procedere alla
negoziazione (subordinatamente a certe cautele in punto di identificazione del prenditore)
e ad un’eventuale responsabilità della stessa per immotivato mancato pagamento solo nei
confronti del traente-correntista.
Sul punto appare chiara sia la giurisprudenza di legittimità (CASS., 19/1/2000, N. 535,
secondo la quale “con la convenzione di assegno, consistente nel mandato, conferito alla
banca dal titolare del conto corrente, ad effettuare i pagamenti che il medesimo ordina
mediante l'emissione di assegni con i quali il correntista-traente promette al prenditore e
contestualmente ordina alla banca trattaria il pagamento, questa ultima non assume
alcuna obbligazione verso il prenditore, ma presta per il traente un servizio di cassa,
svolgendo, per ogni emissione di assegni, funzioni di delegato passivo”) sia quella di
merito (TRIB. IVREA 3/3/2004, il quale ha sostenuto che “il possessore dell'assegno
bancario non ha verso la banca trattaria alcuna azione contrattuale diretta. Unico
legittimato ad agire contro la banca trattaria, per l'eventualità di un'illegittima omissione di
pagamento dell'assegno, è il correntista, atteso che solo nei confronti di quest'ultimo, nei
limiti della convenzione di assegno e del rapporto di provvista, il trattario si è obbligato ad
eseguire il pagamento stesso; conseguentemente, solo nei confronti del correntista è
configurabile una responsabilità della banca trattaria per l'ingiustificato rifiuto di pagamento
dell'assegno”).
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Pag. 4/5
Decisione N.8272 del 03 novembre 2015
Da quanto appena rilevato emerge che la condotta dell’intermediario resistente nella
vicenda de qua è stata del tutto legittima e che le domande di parte ricorrente si rivelano
conseguentemente prive di fondamento.
PER QUESTI MOTIVI
Il Collegio non accoglie il ricorso.
IL PRESIDENTE
firma 1
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Pag. 5/5
QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
1/2016
Competenza
COMPETENZA – ANATOCISMO – CONTRATTO STIPULATO ANTE 2009 SUSSISTENZA – EFFETTI DEL NEGOZIO GIURIDICO
Il Collegio di Milano, con decisione n. 221/16 del 12 gennaio 2016 ha
ritenuto sussistere la propria competenza temporale in merito alla
domanda con cui è stato chiesto di dichiarare la nullità delle clausole che
prevedono la capitalizzazione degli interessi inserite in un contratto
stipulato nel 2002, atteso che, trattandosi di un contratto di durata, la
domanda proposta attiene non già ad un vizio genetico del contratto, bensì
agli effetti del negozio giuridico prodottisi anche successivamente al 1°
gennaio 2009.
(cfr. decisione di seguito riportata)
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
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Decisione N. 221 del 12 gennaio 2016
COLLEGIO DI MILANO
composto dai signori:
(MI) LAPERTOSA
Presidente
(MI) ORLANDI
Membro designato dalla Banca d'Italia
(MI) SANGIOVANNI
Membro designato dalla Banca d'Italia
(MI) SPENNACCHIO
Membro designato da Associazione
rappresentativa degli intermediari
(MI) TINA
Membro designato da
rappresentativa dei clienti
Associazione
Relatore SPENNACCHIO GIUSEPPE
Nella seduta del 03/11/2015 dopo aver esaminato:
- il ricorso e la documentazione allegata
- le controdeduzioni dell’intermediario e la relativa documentazione
- la relazione della Segreteria tecnica
FATTO
Con atto protocollato in data 7 gennaio 2015, preceduto da reclamo del 14 aprile 2014, la
ricorrente, titolare di un contratto di mutuo, ha adito il Collegio ABF, muovendo una serie di
contestazioni. In particolare, richiamandosi a quanto previsto dal D.Lgs. n. 342/1999 in
tema di anatocismo ed al successivo intervento della Corte Costituzionale con la
pronuncia n. 452/2000, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 25, comma 3, nonché della
successiva giurisprudenza della Corte di Cassazione, ha agito per chiedere il rimborso
delle somme indebitamente percepite dall’intermediario, dall’inizio del rapporto bancario, in
ragione della capitalizzazione semestrale degli interessi passivi da lei pagati, per un totale
di €. 28.878,00.
La ricorrente ha contestato che l’intermediario aveva negativamente riscontrato il reclamo,
richiamandosi alla correttezza degli interessi applicati allo scoperto di conto corrente,
quando invece il rapporto intrattenuto con la stessa ricorrente era un rapporto di mutuo.
Ha dichiarato, infine, di aver chiuso il proprio rapporto con la resistente, con un saldo attivo
di €. 8.000,00.
L’intermediario resistente ha presentato le proprie controdeduzioni in data 18 marzo 2015,
precisando, nel ripercorrere i fatti oggetto di controversia, che la ricorrente aveva stipulato,
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Pag. 2/4
Decisione N. 221 del 12 gennaio 2016
in data 20 novembre 2002, un contratto di mutuo ipotecario di €. 103.300,00, da
rimborsarsi in un numero minimo di 10 ed un numero massimo di 60 rate semestrali
costanti, al tasso variabile determinato dalla somma di una quota fissa, pari allo 0,75% a
semestre, ed una quota variabile costituita dal tasso semestrale, pari alla metà del tasso
nominale annuo EURIBOR a sei mesi: mutuo che veniva anticipatamente estinto in data
17 marzo 2010. In via preliminare ha formulato tre eccezioni:
- incompetenza temporale del Collegio ABF: la ricorrente, contestando la nullità del tasso
d’interesse contrattuale per violazione del divieto di capitalizzazione degli interessi, ha
lamentato un vizio genetico del contratto;
- assoluta genericità ed indeterminatezza del petitum del ricorso, richiamando sul punto
precedenti della Corte di Cassazione e del Collegio ABF in tema di indeterminatezza
dell’oggetto della domanda;
- richiesta di un’attività consulenziale da parte del Collegio, in quanto domanda volta ad un
generico accertamento della correttezza dei conteggi.
L’intermediario è entrato comunque nel merito della vicenda, premettendo alcuni
chiarimenti in merito alla particolarità del contratto concluso dalla ricorrente. La ricorrente
aveva stipulato un mutuo denominato “affitto”, caratterizzato da tasso e durata variabile: le
rate erano di importo prefissato, comprensivo di quota interessi variabile e di quota
capitale pari alla differenza tra l’ammontare della rata costante e quello della quota
interessi, con conseguente possibilità di variazione della durata del mutuo in funzione della
variabilità del parametro di riferimento e con la conseguenza che, qualora l’ammortamento
del mutuo non fosse avvenuto entro la durata massima contrattuale, l’ultima rata sarebbe
risultata più onerosa, in quanto comprensiva degli interessi e dell’intero capitale non
ancora rimborsato, come previsto dall’art. 6 del contratto.
Il piano di ammortamento del contratto in oggetto era del tipo c.d. “alla francese” e sulla
materia l’intermediario ha richiamato precedenti del Collegio ABF e di giurisprudenza di
merito che hanno riconosciuto la legittimità di tale modalità di calcolo del rimborso, la
quale non comporta alcuna capitalizzazione degli interessi, poiché questi vengono
calcolati unicamente sul debito residuo via via decrescente del periodo precedente cui la
rata si riferisce. Ha, poi, osservato che l’art. 5 del contratto escludeva espressamente la
possibilità di operare una capitalizzazione periodica sugli interessi di mora eventualmente
applicati.
L’intermediario ha chiesto, quindi, nel merito, di respingere l’istanza avanzata dalla
ricorrente, per le ragioni esposte.
DIRITTO
E’ pacifico tra le parti che la ricorrente aveva stipulato con l’intermediario resistente, in
data 20 novembre 2002, un contratto di mutuo, che veniva anticipatamente estinto in data
17 marzo 2010. Nessuna delle parti produce il reclamo né il relativo riscontro.
La ricorrente afferma che il piano di ammortamento produrrebbe un’indebita
“capitalizzazione semestrale degli interessi”. Richiamandosi a precedenti giurisprudenziali
in tema di nullità delle clausole che prevedono la capitalizzazione trimestrale degli
interessi, chiede il rimborso di quanto illegittimamente percepito dall’intermediario per
effetto della capitalizzazione semestrale degli interessi.
L’intermediario, prima di entrare nel merito per rivendicare la correttezza del proprio
operato e l’infondatezza della domanda della ricorrente, formula tre eccezioni preliminari:
a) incompetenza temporale: la ricorrente invoca la nullità della clausola e, dunque, un vizio
originario, con riguardo ad un contratto concluso nel 2002;
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Pag. 3/4
Decisione N. 221 del 12 gennaio 2016
b) eccessiva genericità ed indeterminatezza della domanda: l’istanza della ricorrente
risulta assolutamente generica ed indeterminata;
c) attività consulenziale richiesta al Collegio.
Va innanzitutto rigettata, da parte del Collegio, l’eccezione preliminare di incompetenza
temporale, in quanto la domanda proposta non sembra incentrarsi su un vizio genetico del
contratto, bensì sugli effetti del negozio giuridico che si sono prodotti quanto meno anche
successivamente al 1° gennaio 2009. Costituisce orientamento costante dei tre Collegi
quello per cui, in caso di controversia avente ad oggetto un rapporto di durata sorto
anteriormente al 1° gennaio 2009 ma ancora efficace successivamente a tale data,
occorre avere riguardo al petitum, onde verificare se esso si fondi su vizi genetici del
rapporto, oppure su una divergenza tra le parti che riguarda effetti del negozio giuridico
prodottisi successivamente al 1° gennaio 2009.
Le altre due eccezioni preliminari, possono considerarsi assorbite nella valutazione sul
merito del ricorso.
Nel merito, quanto al contratto, l’intermediario precisa che si trattava di una particolare
tipologia di mutuo a tasso e durata variabile, con rate semestrali di importo prefissato,
corrispondente ad una quota interessi variabile e ad una quota capitale, pari alla differenza
tra l’ammontare della rata costante e quello della quota interessi. L’intermediario rileva che
il piano di ammortamento era del tipo c.d. “alla francese”, che contempla rate costanti, con
previsione di una quota capitale crescente e di una quota interessi decrescente.
Rileva, altresì, che l’unica questione relativa all’anatocismo poteva porsi nell’ipotesi in cui
la banca, in caso di inadempimento, avesse applicato interessi moratori sull’intero importo
della rata.
Con riguardo alla tematica dell’anatocismo, si segnala che la materia è stata di recente
riformata con una modifica dell’art. 120 TUB, a valere dal 1° gennaio 2014. Il contratto
oggetto di controversia veniva, però, anticipatamente estinto nel marzo 2010.
L’art. 120, comma 2, TUB, nel testo vigente all’epoca dei fatti di cui è controversia,
prevedeva: “Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli
interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria,
prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti
della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori”.
Ad ogni modo, l’orientamento ormai consolidato dell’ABF in materia di anatocismo nei
contratti di mutuo con ammortamento alla francese, è nel senso che non è dato
comprendere il criterio in forza del quale i piani alla francese implicherebbero tale
adombrato indebito (cfr. Coll. Milano n. 2834/2015).
PER QUESTI MOTIVI
Il Collegio non accoglie il ricorso.
IL PRESIDENTE
firma 1
43
Pag. 4/4
QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
1/2016
Conto Corrente
HOME BANKING – PHISHING – ADEGUATA PROTEZIONE DEI SISTEMI DI
ACCESSO
Il Collegio di Milano, con decisione n. 6396/15 del 27 agosto 2015, ha
valutato che “il sistema di un dispositivo di sicurezza a doppio fattore, con
inserimento di OTP”, rappresenta una misura di protezione adeguata,
rispetto agli standard esistenti, dei propri sistemi di accesso alle funzioni di
home banking; pertanto, ha imputando quindi al cliente l’addebito
dell’operazione in contestazione (effettuata, peraltro, anche tramite una
password dinamica).
(cfr. decisione di seguito riportata)
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
44
Decisione N.6396 del 27 agosto 2015
COLLEGIO DI MILANO
composto dai signori:
(MI) LAPERTOSA
Presidente
(MI) LUCCHINI GUASTALLA
Membro designato dalla Banca d'Italia
(MI) ORLANDI
Membro designato dalla Banca d'Italia
(MI) SANTARELLI
Membro designato da Associazione
rappresentativa degli intermediari
(MI) ESTRANGEROS
Membro designato da
rappresentativa dei clienti
Associazione
Relatore (MI) ORLANDI
Nella seduta del 21/05/2015 dopo aver esaminato:
- il ricorso e la documentazione allegata
- le controdeduzioni dell’intermediario e la relativa documentazione
- la relazione della Segreteria tecnica
FATTO
Espone la ricorrente di aver, in data 27/2/2014, denunciato presso la P.G. un bonifico
fraudolento, disposto da ignoti tramite internet banking, addebitato sul conto corrente della
società. L’operazione era stata eseguita in data 26/2/2014 alle ore 13:56; nella giornata
del 27/2/2014, dopo aver visionato la movimentazione, aveva interpellato la dipendente
della contabilità, che aveva riferito di aver avuto “problemi al primo accesso della
giornata”, dichiarando anche che “nonostante avesse inserito le credenziali il sito gliele
richiedeva nuovamente dopo qualche minuto”. La medesima, riscontrando che il bonifico
non era stato eseguito dal proprio personale, aveva contattato il numero verde del servizio
clienti per disconoscere l’operazione. La convenuta non aveva provveduto al riaccredito
dell’importo contestato, ritenendo il personale della società responsabile dell’utilizzo illecito
delle credenziali da parte di terzi.
Replica l’intermediario che l’operazione contestata è stata eseguita in occasione
dell’accesso eseguito dalla dipendente che, effettuando l’inserimento dei “codici per la
seconda volta, ha, di fatto, autorizzato il bonifico di euro 12.450,00. Le verifiche tecnicoinformatico hanno confermato che il predetto bonifico è stato effettuato durante l’accesso
al sistema alle ore 13.57,01 e confermato dalla dipendente con OTP (il codice che appare
45
Pag. 2/3
Decisione N.6396 del 27 agosto 2015
sulla chiavetta O-Key); l’indirizzo IP utilizzato per il bonifico sarebbe lo stesso di quello
utilizzato dalla società ricorrente nella medesima giornata per disporre altri bonifici (in
proposito ha richiamato la decisione ABF 2658/11, che giudica questi dispositivi informatici
di “sicura efficacia”); la società aveva già in passato disposto altri bonifici esteri per importi
anche superiori, rispetto a quello disconosciuto e, quindi, tale da non “segnalare anomalie
nei sistemi di controllo” predisposti dalla convenuta; da quanto riferito dalla filiale
competente, la società ricorrente aveva avanzato analoga domanda di risarcimento anche
nei confronti della banca del beneficiario, che - “sempre da quanto riferito” - avrebbe
accolto in parte la richiesta; circostanza, questa, che potrebbe configurare un
arricchimento senza causa” in favore della società ricorrente.
La ricorrente chiede il rimborso della somma di € 12.450,00, in relazione all’esecuzione
fraudolenta di un bonifico bancario. La resistente insiste per il rigetto.
DIRITTO
Come più volte affermato dai Collegi ABF, le controversie riguardanti l’uso fraudolento di
strumenti di pagamento esigono di valutare da un lato la condotta dei clienti con riguardo
agli obblighi di diligenza nella custodia dello strumento di pagamento e dei dispositivi
collegati; dall’altro la condotta dell’intermediario, il quale è chiamato ad adempiere al
mandato secondo la diligenza professionale e qualificata dell’art. 1176, comma 2, c.c.,
attraverso misure di protezione adeguate rispetto agli standard esistenti, sotto il profilo dei
presidi tecnici adottati. Costituisce indirizzo consolidato dei Collegi dell’ABF quello per il
quale “un sistema di protezione ad un solo fattore (cui può essere assimilato il sistema
statico, adottato nel caso di specie) …. non può essere considerato misura sufficiente a
proteggere adeguatamente il cliente” (così, ABF Milano, n. 536 del 16.3.2011; ma v.
anche, in termini analoghi, ABF Milano nn. 550/2011; 534/2011; 1024/2010; 909/2010;
790/2010; 514/2010; 178/2010; 87/2010; ABF Roma n. 33/2010; ABF Napoli n.
1126/2010).
Orbene, non sembra qui che la banca abbia violato l’obbligo di curare sistemi di accesso
con un adeguato grado di riservatezza e sicurezza, a norma dell’art. 8, comma 1, lett. a),
del d.lgs. n. 11/2010. Risulta in atti una diligente gestione del sito da parte
dell’intermediario, il quale ha dotato il sistema di un dispositivo di sicurezza a doppio
fattore, con inserimento di OTP; nel caso di specie, l’operazione contestata risulta
compiuta mercé ulteriore password dinamica, sicché l’addebito non può che essere
imputato al cliente.
PER QUESTI MOTIVI
Il Collegio non accoglie il ricorso.
IL PRESIDENTE
firma 1
46
Pag. 3/3
QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
1/2016
Conto Corrente
HOME BANKING – PHISHING – INCAUTA COMUNICAZIONE CREDENZIALI E
OTP – COLPA GRAVE – SUSSISTENZA
Il Collegio di Roma, con decisione n. 6645/15 dell’8 settembre 2015, ha
ritenuto che la comunicazione da parte del cliente delle proprie credenziali
all’anonimo mittente di un comune messaggio di posta elettronica —
seguita dalla conferma, mediante l’inserimento dell’apposita one-time
password, dell’operazione di pagamento oggetto di contestazione —
integri gli estremi di un comportamento superficiale e imprudente, con
conseguente sussistenza della colpa grave di cui all’art. 12, 3° comma, del
d.lgs. n. 11 del 2010.
(cfr. decisione di seguito riportata)
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
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Decisione N. 6645 del 08 settembre 2015
COLLEGIO DI ROMA
composto dai signori:
(RM) DE CAROLIS
Presidente
(RM) SIRENA
Membro designato dalla Banca d'Italia
(RM) GEMMA
Membro designato dalla Banca d'Italia
(RM) NERVI
Membro designato da Associazione
rappresentativa degli intermediari
(RM) ROSSI CARLEO
Membro designato da
rappresentativa dei clienti
Associazione
Relatore SIRENA PIETRO
Nella seduta del 30/04/2015 dopo aver esaminato:
- il ricorso e la documentazione allegata
- le controdeduzioni dell’intermediario e la relativa documentazione
- la relazione della Segreteria tecnica
FATTO
Il ricorrente ha affermato che:
-sul suo conto corrente presso la banca resistente, sarebbe stata eseguita
mediante il servizio di home banking un’operazione non autorizzata di pagamento
di € 2.998,00; -non sarebbe incorso in alcuna colpa grave al riguardo, trattandosi
di una frode informatica.
Ciò posto, il ricorrente ha chiesto che: -la banca resistente sia condannata al
pagamento di € 2.998,00 a titolo di restituzione della somma fraudolentemente
sottratta.
La banca ha resistito al ricorso, affermando che:
48
Pag. 2/5
Decisione N. 6645 del 08 settembre 2015
-dalla
denuncia-querela
presentata
dal
ricorrente
all’autorità
di
Pubblica
Sicurezza, risulterebbe che, rispondendo a un messaggio di posta elettronica,
contenente tra l’altro diversi errori grammaticali e sintattici, egli abbia comunicato
a un mittente sconosciuto le credenziali di accesso on line al suo conto corrente; avrebbe inoltre confermato l’operazione di pagamento di € 2.998,00, inserendo
l’apposita one-time password che gli era stata inviata sul telefono cellulare; sussisterebbe pertanto una sua colpa grave.
Ciò posto, la banca resistente ha chiesto che: -il ricorso sia rigettato, perché
infondato in fatto e in diritto.
DIRITTO
La responsabilità di un prestatore di servizi di pagamento è disciplinata dall’art. 12
del d.lgs. 27 gennaio 2010, n.11, il quale ha attuato nell’ordinamento giuridico
italiano la direttiva 2007/64/CE.
Nel caso di specie, è pacifico tra le parti che l’operazione di pagamento non
autorizzata dal ricorrente sia stata effettuata prima che egli effettuasse la
comunicazione alla banca resistente di utilizzo non appropriato del servizio di
home banking.
La responsabilità della banca resistente è pertanto disciplinata dall’art. 12, 3°
comma, del medesimo decreto, il quale statuisce che, «salvo il caso in cui abbia
agito con dolo o colpa grave ovvero non abbia adottato le misure idonee a
garantire la sicurezza dei dispositivi personalizzati che consentono l’utilizzo dello
strumento di pagamento, prima della comunicazione eseguita ai sensi dell’art.7, 1°
comma, lett. b), l’utilizzatore medesimo può sopportare per un importo comunque
non superiore complessivamente a € 150,00 la perdita derivante dall’utilizzo
indebito dello strumento di pagamento conseguente al suo furto o smarrimento».
In virtù di tale disposizione legislativa, il prestatore di servizi di pagamento può
escludere la propria responsabilità per l’utilizzo non autorizzato di uno strumento
di pagamento soltanto provando la colpa grave dell’utilizzatore, la quale
costituisce un fatto impeditivo del risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 2697,
2° comma, c.c.
A proposito di tale onere probatorio, si deve tener conto che, ai sensi dell’art. 10,
2° comma, del d.lgs. n.11 del 2010, «quando l’utilizzatore di servizi di pagamento
neghi di aver autorizzato un’operazione di pagamento eseguita, l’utilizzazione di
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Pag. 3/5
Decisione N. 6645 del 08 settembre 2015
uno strumento di pagamento registrato dal prestatore di servizi di pagamento non
è di per sé necessariamente sufficiente a dimostrare che l’operazione sia stata
autorizzata dall’utilizzatore medesimo, né che questi abbia adempiuto con dolo o
colpa grave a uno o più degli obblighi di cui all’art.7».
Nel caso di specie, questo Arbitro ritiene tuttavia specificamente e concretamente
provato che il ricorrente abbia tenuto un comportamento assai superficiale e
imprudente e che sussistano pertanto gli estremi della colpa grave di cui all’art.
12, 3° comma, del d.lgs. n. 11 del 2010.
Al riguardo, si deve in generale premettere che, secondo la giurisprudenza di
legittimità, la colpa grave è costituita da una «straordinaria e inescusabile»
imprudenza, negligenza o imperizia, la quale presuppone che sia stata violata non
solo la diligenza ordinaria del buon padre di famiglia di cui all’art. 1176, 1° comma,
c.c., ma anche «quel grado minimo ed elementare di diligenza generalmente
osservato da tutti» (Cass., 3 maggio 2011, n.913; Cass., 13 ottobre 2009, n.
21679; Cass., 19 novembre 2001, n.14456).
In particolare, ai sensi dell’art. 7, 1° comma, lett. b), del d.lgs. n.11 del 2010, il
titolare di uno strumento di pagamento ha l’obbligo di «utilizzare lo strumento di
pagamento in conformità con i termini, esplicitati nel contratto-quadro, che ne
regolano l’emissione e l’uso».
Nel caso di specie, il ricorrente ha espressamente dichiarato nella denunciaquerela presentata all’autorità di Pubblica Sicurezza (all. 1 alle controdeduzioni) di
aver comunicato le proprie credenziali all’anonimo mittente di un comune
messaggio di posta elettronica e di aver poi confermato mediante l’inserimento
dell’apposita one-time password l’operazione di pagamento che oggi contesta.
A proposito di un caso strettamente analogo, questo Arbitro ha avuto modo di
rilevare quanto segue: «Ad avviso del Collegio la dinamica della frode appare
quindi sicuramente riconducibile alla categoria del phishing, considerato che
proprio il ricorrente sostanzialmente ammette di aver dato seguito alle “istruzioni”
contenute nella e-mail (che peraltro conteneva errori grammaticali e sintattici
essendo quindi formulata in un linguaggio che avrebbe dovuto destare sospetti) e
ciò in quanto la banca rileva come l’operazione disconosciuta sia stata eseguita
mediante l’utilizzo delle credenziali di accesso private del ricorrente, tra le quali
anche il codice temporaneo inviato via SMS che ha consentito di inserire il
beneficiario tra quelli autorizzati. La richiesta, pervenuta al ricorrente, di effettuare
50
Pag. 4/5
Decisione N. 6645 del 08 settembre 2015
una operazione di riempimento di dati per una “manutenzione regolare delle
nostre sicurezza” avrebbe dovuto quanto meno indurre a verificare la veridicità
della
richiesta
contattando
l’assistenza
clienti,
ed
in
tale
ottica
siffatto
comportamento si ritiene integri nel suo complesso la colpa grave ai fini
dell’esonero della responsabilità dell’intermediario».
Nella decisione del Collegio di Coordinamento n. 3498 del 2012 questo Arbitro ha
chiarito che in tale fattispecie «il cliente è vittima di una colpevole credulità:
colpevole in quanto egli è portato a comunicare le proprie credenziali di
autenticazione al di fuori del circuito operativo dell’intermediario e tanto più
colpevole si rivela quell’atto di ingenuità quanto più si consideri che tali forme di
“accalappiamento” possono dirsi ormai note al pur non espertissimo navigatore di
Internet».
Dando continuità alle precedenti decisioni di questo Arbitro, si ritiene pertanto che
la comunicazione intenzionale delle proprie credenziali a un terzo sconosciuto,
quando essa avviene in risposta a una richiesta estranea al circuito informativo
dell’emittente e palesemente inattendibile, costituisca una colpa grave del cliente,
la quale ai sensi dell’art. 12, 3° comma, del d.lgs. n. 11 del 2010 esclude la
responsabilità del prestatore del servizio di pagamento.
P.Q.M.
Il Collegio rigetta il ricorso.
IL PRESIDENTE
firma 1
51
Pag. 5/5
QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
1/2016
Finanziamenti
CESSIONE DEL QUINTO DELLO STIPENDIO – ESTINZIONE ANTICIPATA –
QUIETANZA LIBERATORIA – INDETERMINATEZZA - IRRILEVANZA - ART.
125 SEXIES TUB
Il Collegio di Roma, con decisione n. 7677 del 30 settembre 2015 —
chiamato a pronunciarsi sulla domanda di ripetizione degli oneri
commissionali e assicurativi non goduti, relativi ad un contratto di
finanziamento contro cessione del quinto dello stipendio — ha accolto le
domande di parte attrice e ha condannato la banca, nonostante la presenza
in atti di una quietanza di pagamento con cui il cliente si dichiara
soddisfatto di quanto ricevuto; quietanza, alla quale, stante la sua
genericità, non si è ritenuto di attribuire valore di rinuncia o transazione
ovvero preclusivo di ulteriori pretese.
(cfr. decisione di seguito riportata)
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
52
Decisione N. 7677 del 30 settembre 2015
53
Decisione N. 7677 del 30 settembre 2015
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Decisione N. 7677 del 30 settembre 2015
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Decisione N. 7677 del 30 settembre 2015
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QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
1/2016
Finanziamenti
FINANZIAMENTO – ESTINZIONE ANTICIPATA - VALIDITA’ DELLA GARANZIA
ASSICURATIVA SINO ALLA SCADENZA DEL CONTRATTO - ESCLUSIONE
Il Collegio di Napoli, con decisione n. 1541/15 del 4 marzo 2015,
nell’esaminare una domanda di rimborso del premio assicurativo non
goduto a seguito dell’estinzione anticipata di un finanziamento, ha
censurato la disposizione contrattuale secondo cui – nonostante
l’estinzione anticipata del rapporto – le garanzie assicurative che coprono
rischi derivanti dal contratto di finanziamento collegato, restano in vigore
fino alla scadenza fisiologica del contratto: tale clausola, infatti,
“consentirebbe alla compagnia di lucrare il premio anche quando il rischio
a fronte del quale esso è corrisposto non esiste più e quindi alcun servizio
viene reso al cliente, dando luogo a un evidente indebito”.
(cfr. decisione di seguito riportata)
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
57
Decisione N. 1541 del 04 marzo 2015
COLLEGIO DI NAPOLI
composto dai signori:
(NA) MARINARI
Presidente
(NA) CONTE
Membro designato dalla Banca d'Italia
(NA) MAIMERI
Membro designato dalla Banca d'Italia
(NA) RISPOLI FARINA
Membro designato da Associazione
rappresentativa degli intermediari
(NA) QUARTA
Membro designato da
rappresentativa dei clienti
Associazione
Relatore MAIMERI FABRIZIO
Nella seduta del 09/12/2014 dopo aver esaminato:
- il ricorso e la documentazione allegata
- le controdeduzioni dell’intermediario e la relativa documentazione
- la relazione della Segreteria tecnica
FATTO
Con ricorso protocollato il 23 maggio 2014, il ricorrente espone che, in data 2 ottobre
2008, concludeva con l’intermediario un contratto di finanziamento per complessivi €
15.376,00, rimborsabili in n. 62 rate mensili da € 248,00. Nel settembre 2010, in
corrispondenza della scadenza della rata di rimborso n. 20, provvedeva ad estinguere
anticipatamente il rapporto e, successivamente, con reclamo del 12 aprile 2014, avanzava
richiesta di rimborso delle commissioni pagate, ma non maturate, e della parte del premio
assicurativo non goduto. Ottenuto riscontro negativo, la parte decideva di rivolgersi
all’Arbitro, limitando, però, la propria domanda alla restituzione degli oneri assicurativi,
oltre spese di procedimento.
Nelle controdeduzioni l’intermediario richiamava l’art. 3.3 delle Condizioni di assicurazione,
secondo cui “in caso di estinzione anticipata del contratto di finanziamento, le garanzie
rimangono in vigore fino al termine del piano di rimborso come definito in fase di
sottoscrizione del contratto”. Inoltre, la parte resistente aggiungeva che, alla data di
richiesta di rimborso, non residuava alcuna frazione di premio assicurativo non fruita, in
quanto la copertura prevista dalle polizze sarebbe terminata il 28 febbraio 2014.
58
Pag. 2/4
Decisione N. 1541 del 04 marzo 2015
In relazione alle reciproche argomentazioni, il ricorrente chiede al Collegio: “1. la parte del
premio assicurativo non goduto: € 406,00; 2. le spese da me sostenute per il ricorso
all’ABF € 20,00. Per un totale di € 426,00”.
Parte resistente chiede al Collegio “di rigettare le domande tutte avanzate nel ricorso de
quo, in quanto il fatto non sussiste”.
DIRITTO
Ristretto il petitum agli oneri assicurativi, il Collegio censura anzitutto la disposizione
contenuta nell’art. 3.3. del contratto e sopra riportata, a seguito della quale, in caso di
estinzione anticipata, le garanzie assicurative rimarrebbero in vigore fino alla scadenza
fisiologica del contratto medesimo. Una siffatta clausola infatti consentirebbe alla
compagnia di lucrare il premio anche quando il rischio a fronte del quale esso è
corrisposto non esiste più e quindi alcun servizio viene reso al cliente, dando luogo a un
evidente indebito. Ciò detto, osserva altresì che dalla documentazione agli atti emerge
come tutte le coperture assicurative sono collegate al fido, nel senso che coprono rischi
che da questo derivano.
Risulta così confermato quel collegamento negoziale che, come è noto, costituisce la base
della tesi, seguita dall’Arbitro ormai pacificamente, per cui anche l’intermediario che eroga
il prestito è solidalmente tenuto alla restituzione dei premi pagati e non goduti. Cfr. da
ultimo la decisione di questo Collegio n. 6831/2014: “negli ormai numerosi precedenti
sottoposti al vaglio di questo Arbitro, si è avuto modo di chiarire che, contrariamente alla
ricostruzione dell’intermediario, la disposizione contenuta nell’art. 22 della legge n.
221/2012 – effettivamente conforme al dato testuale riveniente nell’art. 49 del regolamento
Isvap n. 35/2010 – abbia inteso sancire a livello normativo la sussistenza di un evidente
collegamento negoziale ogni qualvolta l’adesione ad una polizza assicurativa sia associata
alla sottoscrizione di un contratto di finanziamento (cfr. Collegio di Napoli, decisioni nn.
873, 796, 298, 140, 46/2013; 2613, 2612, 2610, 2439, 2280, 1720, 746/2012; 1073, 359,
2466/2011; Collegio di Roma, decisioni nn. 1138/2013; 1979, 491/2012; Collegio di
Milano, decisioni nn. 980, 480, 432/2013; 2730, 2055, 776, 195/2012). Tale associazione,
invero, pur operata mediante la stipulazione di due contratti distinti sotto il profilo formale,
realizza un’operazione economico-giuridica che può essere apprezzata esclusivamente in
modo unitario: la comune intenzione delle parti, infatti, fa in modo che il contratto di
assicurazione, infatti, devii dalla propria causa tipica per essere destinato a coprire il
rischio da eventi che impediscano l’integrale restituzione dell’importo finanziato. Pertanto,
sia dal punto di vista soggettivo sia dal punto di vista oggettivo, viene in essere un
collegamento negoziale che rende le vicende del contratto principale, qual è quello di
credito al consumo, rilevanti anche per quello accessorio, qual è il contratto assicurativo
(cfr. Cass., 16 febbraio 2007, n. 3645; Cass., 10 luglio 2008, n. 18884)”.
Ciò stabilito, alla luce della decisione del Collegio di coordinamento n. 6167/2014,
utilizzando il criterio di calcolo elaborato in base al criterio proporzionale ratione temporis,
il Collegio stabilisce che è corretto quanto richiesto dal ricorrente, vale a dire € 406,00.
P.Q.M.
In accoglimento del ricorso, il Collegio dichiara l’intermediario tenuto alla
restituzione della somma di € 406,00.
Il Collegio dispone inoltre, ai sensi della vigente normativa, che l’intermediario
corrisponda alla Banca d’Italia la somma di € 200,00 quale contributo alle spese
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Pag. 3/4
Decisione N. 1541 del 04 marzo 2015
della procedura e al ricorrente la somma di € 20,00 quale rimborso della somma
versata alla presentazione del ricorso.
IL PRESIDENTE
firma 1
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Pag. 4/4
QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
1/2016
Finanziamenti
CESSIONE DEL QUINTO – ESTINZIONE ANTICIPATA – QUIETANZA
LIBERATORIA SOTTOSCRITTA DAL CLIENTE PRIMA DELL’ESTINZIONE DEL
FINANZIAMENTO – ART 36 D.LGS 206/2005 – NULLITÀ
Il Collegio di Milano, con decisione n. 9007 del 4 dicembre 2015, ha
ribadito che ai sensi dell’art. 36, secondo comma, lett. b), D.lgs. 206/2005,
“Sono nulle le clausole che, quantunque oggetto di trattativa, abbiano per
oggetto o per effetto di: […] b) escludere o limitare le azioni del
consumatore nei confronti del professionista o di un’altra parte in caso di
inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del
professionista”; pertanto, ha giudicato nulla la dichiarazione “liberatoria”
sottoscritta dal cliente, contenente l’espressa rinuncia a qualsiasi domanda
inerente o connessa al contratto di finanziamento, ritenendo che la
dichiarazione stessa venisse nella specie a configurarsi come “una
condizione preventiva e necessaria alla successiva estinzione anticipata del
rapporto” e che, quindi, non fosse volta esclusivamente a disporre di un
diritto facente capo all’interessato, ma avesse l’effetto — inammissibile,
alla luce della normativa richiamata — di incidere sull’esecuzione del
contratto.
(cfr. decisione di seguito riportata)
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
61
Decisione N. 9007 del 04 dicembre 2015
COLLEGIO DI MILANO
composto dai signori:
(MI) LAPERTOSA
Presidente
(MI) CERINI
Membro designato dalla Banca d'Italia
(MI) STELLA
Membro designato dalla Banca d'Italia
(MI) RICCI
Membro designato da Associazione
rappresentativa degli intermediari
(MI) TINA
Membro designato da
rappresentativa dei clienti
Associazione
Relatore TINA ANDREA
Nella seduta del 17/11/2015 dopo aver esaminato:
- il ricorso e la documentazione allegata
- le controdeduzioni dell’intermediario e la relativa documentazione
- la relazione della Segreteria tecnica
FATTO
Successivamente all’estinzione anticipata di un contratto di finanziamento contro cessione
del quinto dello stipendio, concluso con l’intermediario resistente nell’ottobre 2009, con
reclamo del 10 dicembre 2014, la ricorrente chiedeva il rimborso della quota non maturata
delle commissioni bancarie e del premio assicurativo.
Insoddisfatta del riscontro ricevuto dall’intermediario resistente, la ricorrente ha presentato
ricorso all’ABF, con il quale, ribadita la ricostruzione dei fatti illustrata in sede di reclamo,
ha chiesto all’Arbitro il rimborso della somma complessiva di Euro 2.104,44, oltre spese
legali quantificate in Euro 500,00.
Con le proprie controdeduzioni, l’intermediario resistente, segnalato che la ricorrente ha
rinunciato “a qualsivoglia domanda e azione inerente e connessa al contratto di
finanziamento oggetto di estinzione anticipata” e che “tale clausola, tra l’altro, è stata
anche oggetto di firma ulteriore ai sensi degli art. 1341 e 1342 cc.”, ha precisato quanto
segue:
- in sede di conteggio estintivo, ha già rimborsato alla ricorrente la somma di Euro
122,40 in detrazione delle somme dovute a titolo di residuo debito;
62
Pag. 2/4
Decisione N. 9007 del 04 dicembre 2015
-
-
nell’importo relativo alle commissioni dovute all’intermediario resistente è
ricompreso anche quanto corrisposto al mediatore, da considerarsi esclusivamente
up front;
in riferimento al premio assicurativo, la compagnia di assicurazioni ha già
rimborsato alla ricorrente la quota non goduta per l’importo di Euro 410,37.
DIRITTO
Il Collegio ritiene di dover affrontare in via preliminare l’eccezione sollevata
dall’intermediario resistente in merito alla sottoscrizione da parte della ricorrente di una
quietanza che, secondo la ricostruzione presentata dallo stesso intermediario,
comporterebbe la rinuncia della ricorrente ad ogni somma ulteriore a quelle ottenute in
sede di conteggio estintivo.
Il Collegio è consapevole che altro Collegio dell’Arbitro, in casi parzialmente analoghi a
quello ora in esame, ha talora attribuito a dichiarazioni simili a quella ora richiamata “un
significato (…) di rinuncia ad ottenere ulteriori somme riferibili al medesimo
finanziamento”, così precludendo la possibilità del cliente di richiedere il rimborso di
importi ulteriori a quelli originariamente riconosciuti (Collegio di Napoli, decisione n.
538/2014). Ciò nonostante, nel caso in esame, il Collegio ritiene che l’eccezione sollevata
dall’intermediario non meriti accoglimento. La dichiarazione ‘liberatoria’ sottoscritta dalla
ricorrente si pone, infatti, chiaramente come condizione preventiva e necessaria alla
(soltanto) successiva estinzione anticipata del contratto ancora in essere, con la
conseguenza che l’impegno così assunto dalla ricorrente appare idoneo a incidere
direttamente sulla esecuzione del contratto stesso e non soltanto sulla mera disposizione
di un diritto di credito della ricorrente, in ipotesi, già maturato. Al riguardo, assume,
pertanto, rilievo quanto previsto dall’art. 36, secondo comma, lett. b), d.lgs. 206/2005,
secondo cui “Sono nulle le clausole che, quantunque oggetto di trattativa, abbiano per
oggetto o per effetto di: a) escludere o limitare le azioni del consumatore nei confronti del
professionista o di un’altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di
adempimento inesatto da parte del professionista”; previsione cui non può che essere data
un’applicazione estensiva nell’ottica di una completa ed efficace tutela del consumatore.
Ne consegue che la dichiarazione sottoscritta dalla ricorrente di rinuncia a qualsivoglia
domanda e azione inerente e connessa al contratto di finanziamento oggetto di estinzione
anticipata e prodromica all’estinzione anticipata del medesimo contratto deve ritenersi
nulla e improduttiva di effetti ai sensi dell’art. 36, secondo comma, lett. b), d.lgs. 206/2005.
A ciò si aggiunga che la richiesta di rinuncia a qualsivoglia domanda e azione inerente e
connessa al contratto di finanziamento oggetto di estinzione anticipata, quale condizione
preliminare per la successiva estinzione anticipata, non appare, inoltre, certamente
conforme ad una condotta rispettosa dei canoni di buona fede e correttezza cui
l’intermediario è comunque tenuto nei rapporti con la propria clientela; così come deve
escludersi, del resto, una piena consapevolezza da parte della ricorrente della
disposizione del proprio diritto all’equo rimborso inderogabilmente previsto dall’art. 125sexies TUB.
Ciò chiarito, il Collegio, disattesa, in conformità al proprio costante orientamento in
materia, l’eccezione preliminare di carenza di legittimazione passiva formulata
dall’intermediario in ordine alla domanda di retrocessione della quota assicurativa (cfr. la
decisione, n. 7216 del 31.10.2014); richiamato il proprio costante indirizzo interpretativo in
materia di rimborsabilità delle commissioni e degli oneri non goduti in sede di estinzione
anticipata dei contratti di finanziamento contro cessione del quinto dello stipendio per la
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Pag. 3/4
Decisione N. 9007 del 04 dicembre 2015
quota parte non maturata, ovvero secondo il criterio proporzionale ratione temporis, tale
per cui l’importo complessivo di ciascuna delle suddette voci viene suddiviso per il numero
complessivo delle rate e poi moltiplicato per il numero delle rate residue (cfr., tra le tante,
la decisione, n. 4919 del 29.7.2014); considerato che l’intermediario resistente non ha
applicato detto criterio in sede di estinzione anticipata; rilevato, con riferimento alle
commissioni bancarie e alle commissioni di intermediazione, che le medesime difettano di
sufficiente specificità al fine di desumerne l’integrale natura up-front, in contrasto con le
esigenze di tutela e di inequivoca informazione del consumatore e che, pertanto, devono
tutte qualificarsi recurring ai sensi dell’art. 1370 c.c.; ritenuto che, alla stregua dei criteri
suenunciati, la somma complessivamente da rimborsare risulta pari a € 2.104,44;
accertato che non sussistono i presupposti indicati dal Collegio di Coordinamento per il
riconoscimento delle spese legali in favore della parte ricorrente.
PER QUESTI MOTIVI
Il Collegio accoglie parzialmente il ricorso e dispone che l’intermediario corrisponda
alla parte ricorrente la somma di € 2.104,44, oltre a interessi dal reclamo al saldo.
Il Collegio dispone inoltre, ai sensi della vigente normativa, che l’intermediario
corrisponda alla Banca d’Italia la somma di € 200,00, quale contributo alle spese
della procedura, e alla parte ricorrente la somma di € 20,00, quale rimborso della
somma versata alla presentazione del ricorso.
IL PRESIDENTE
firma 1
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Pag. 4/4
QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
1/2016
Libretti e certificati di deposito
CERTIFICATO DI DEPOSITO – PRESCRIZIONE – OPPONIBILITA’ –
CASSAZIONE N. 788/2012 – DIFFERENZA CON DEPOSITO NON A TERMINE
Il Collegio di Napoli, con decisione n. 5737/15 del 20 luglio 2015, ha accolto
l’eccezione sollevata dall’intermediario in merito alla avvenuta prescrizione
del diritto alla restituzione del controvalore di un certificato di deposito
sottoscritto nel 1991, e avente scadenza semestrale, per il quale il
ricorrente non ha mai posto in essere atti interruttivi della prescrizione
stessa (nello stabilire il principio di cui è massima, il Collegio ha
espressamente menzionato la sentenza della Corte di Cassazione n.
788/2012, secondo la quale sussiste un diverso regime giuridico tra negozi
di durata e negozi soggetti a termine: in particolare, solo per i primi
l’obbligazione restitutoria della banca sorge solo a seguito di richiesta da
parte del cliente, mentre, per i contratti aventi un termine di scadenza, il
termine prescrizionale decorre da tale data).
(cfr. decisione di seguito riportata)
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
65
Decisione N. 5737 del 20 luglio 2015
COLLEGIO DI NAPOLI
composto dai signori:
(NA) MARINARI
Presidente
(NA) CONTE
Membro designato dalla Banca d'Italia
(NA) MAIMERI
Membro designato dalla Banca d'Italia
(NA) PICARDI
Membro designato da Associazione
rappresentativa degli intermediari
(NA) BARTOLOMUCCI
Membro designato da
rappresentativa dei clienti
Associazione
Relatore BARTOLOMUCCI PIERFRANCESCO
Nella seduta del 26/05/2015 dopo aver esaminato:
- il ricorso e la documentazione allegata
- le controdeduzioni dell’intermediario e la relativa documentazione
- la relazione della Segreteria tecnica
FATTO
Il 14 gennaio 1991 il ricorrente sottoscriveva un certificato di deposito al portatore per lire
130.000.000 al tasso del 10,75%, emesso dall’intermediario resistente con scadenza 15
luglio 1991; tra le condizioni contrattuali era previsto che “il certificato stesso, una volta
scaduto il vincolo, è pagabile soltanto presso la filiale che l’ha emesso”.
Nel mese di luglio 2014, a seguito del ritrovamento di detto documento, il ricorrente si
recava presso la filiale per l’incasso del controvalore, che tuttavia gli veniva negato dal
personale.
Con lettera di reclamo, inoltrato per il tramite di un legale di fiducia, il ricorrente contestava
il mancato incasso; riscontrato negativamente il reclamo da parte dell’intermediario – il
quale adduceva che il certificato stesso non risultava nelle proprie evidenze e comunque
che fosse intervenuta la prescrizione del diritto all’incasso – il ricorrente adiva questo
Arbitro, sempre per il tramite del proprio legale di fiducia.
A sostegno delle proprie richieste deduceva che “il termine di prescrizione in materia di
certificato di deposito al portatore inizia a decorrere solo dal momento in cui il depositario
richiede il pagamento, e non dal momento della costituzione del rapporto o dalla scadenza
66
Pag. 2/5
Decisione N. 5737 del 20 luglio 2015
del vincolo”, anche in ragione della funzione e dello scopo di custodia cui il deposito
bancario assolve. Richiamava, a tal fine, alcune pronunce di questo Arbitro, nonché un
arresto della Corte di Cassazione.
Chiedeva, pertanto, di disporre la corresponsione del controvalore del titolo (pari ad euro
67.139,39), oltre interessi “dal 14.1.1991 al 15.7.1991”, nonché ulteriori interessi dalla data
del 16.7.2014 al soddisfo.
Costituitosi ritualmente, l’intermediario convenuto ricostruiva la vicenda sottolineando che
“non risultano i contatti precedenti ai primi di luglio affermati dal ricorrente”.
Richiamava anch’esso la decisione della giurisprudenza di legittimità citata dal ricorrente, il
cui dictum confermerebbe che “qualora invece il deposito abbia una scadenza, il credito
diviene esigibile allo scadere del termine posto dalle parti e conseguentemente, dalla
scadenza del termine pattuito menzionato, inizia a decorrere la prescrizione per il diritto a
riscuotere le somme oggetto del contratto a termine”, anche ai sensi dell’art. 2935 cod. civ.
Del resto lo stesso certificato, allegato in copia dal ricorrente, emergeva che “la somma
depositata è vincolata per il periodo fissato ed indicato sul certificato di deposito. Non sono
ammessi versamenti successivi a quello iniziale; sono altresì esclusi prima della scadenza
del vincolo prelevamenti totali o parziali della somma depositata”; inoltre le stesse
condizioni prevedevano che “l’esigibilità della somma oggetto del certificato alla scadenza
del 15.7.1991 fa sì che da tale giorno cessi di produrre interessi”: riteneva che tale
impostazione, in virtù della quale “la permanenza della somma presso la depositaria non
comporta la soddisfazione dell’interesse del cliente di essere remunerato attraverso gli
interessi che gli vengono periodicamente accordati”, fosse conforme alla citata decisione
di legittimità del 2012 che aveva fatto registrare un mutamento dell’orientamento
pregresso in tema di depositi senza scadenza.
Sottolineava, altresì, che il regolamento contrattuale escludesse esplicitamente il rinnovo
automatico, dal che doveva dedursi che il rapporto fosse sottoposto alla scadenza
convenuta.
In fatto precisava che, secondo la ricostruzione fornita dallo stesso ricorrente, emergesse
che questi “non solo non ha adoperato la diligenza del buon padre di famiglia, ma neppure
le minime accortezze e cure che anche l’uomo qualunque, il quisque de populo impiega
nell’assolvere alle proprie incombenze e ai propri interessi”; mancanza di diligenza che, a
parere del resistente, doveva essere equiparata alla colpa grave, atteso anche il fatto che
risultasse improbabile che “il certificato di deposito possa essere rimasto dimenticato per
ben venticinque anni”.
Da ultimo rilevava che “appare obbiettivamente probabile che il titolo sia stato ammortato”
anche perché “il certificato stesso non risulta fra quelli scaduti e non rimborsati dalla Filiale
già al 31.1.1998”.
Chiedeva, dunque, il rigetto del ricorso.
Alle controdeduzioni del convenuto replicava il ricorrente, con distinta nota redatta dal
legale di fiducia, il quale precisava di essere in possesso dell’originale del titolo, il quale
non era stato versato in atti per evidenti ragioni di sicurezza; ribadiva le proprie deduzioni,
anche richiamando una decisione di questo Arbitro.
Rilevava che, semmai, sarebbe discutibile solo la questione relativa al pagamento degli
interessi, atteso il fatto che il regolamento negoziale prevedesse espressamente la
mancata corresponsione degli stessi dopo la scadenza. Tuttavia osservava che la
circostanza della mancata esazione del controvalore del certificato potesse
esclusivamente costituire “manifestazione del suo interesse a continuare ad avvalersi della
funzione di custodia connessa al rapporto, ma non ovviamente quella di voler rinunziare
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Pag. 3/5
Decisione N. 5737 del 20 luglio 2015
all’importo oggetto del contratto di deposito”; di contro, la banca – continuando ad avere la
disponibilità delle somme e non dovendo corrispondere interessi, ne aveva tratto sicuro
vantaggio, peraltro senza sottrarsi al proprio obbligo di custodia.
Quanto alla misura degli interessi specificava che questi sarebbero dovuti dalla data della
richiesta di restituzione (16 luglio 2014) e andrebbero calcolati in applicazione della l. n.
162/2014.
Da ultimo, lamentava l’assenza di qualsiasi riscontro probatorio in ordine all’asserito
ammortamento del titolo ; ribadiva peraltro che l’obbligo restitutorio trovasse fondamento
dalle norme di cui agli artt. 1834 e 1771 cod. civ.
DIRITTO
La domanda del ricorrente è relativa all’accertamento del proprio diritto alla restituzione del
controvalore di un certificato di deposito sottoscritto nel 1991, con scadenza semestrale.
A fronte di tale richiesta, l’intermediario convenuto eccepisce l’intervenuta prescrizione del
diritto alla restituzione.
Dall’esame della documentazione offerta in comunicazione dalle parti emerge che detto
certificato prevedesse quale termine di scadenza la data del 15 luglio 1991; il relativo
regolamento contrattuale, invece, disponeva – tra l’altro – che l’intermediario avrebbe
corrisposto il valore del titolo “alla scadenza presso la filiale emittente”.
Risulta altresì dalle deduzioni delle parti costituite che il ricorrente non abbia mai posto in
essere atti interruttivi della prescrizione.
A sostegno delle rispettive ragioni, sia il ricorrente sia l’intermediario resistente richiamano
i principi espressi dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 788/2012, dando della
stessa una diversa interpretazione.
Orbene, a parere del Collegio, coerentemente con le prospettazioni del convenuto, la
giurisprudenza di legittimità ha inteso ribadire in subiecta materia la sussistenza di un
diverso regime giuridico tra negozi di durata e negozi soggetti a termine, ritenendo che
solo per i primi (che non prevedono cioè un termine di scadenza) “l’obbligazione
restitutoria della banca … non deriva ipso iure dall’avvenuto deposito delle somme, ma
sorge solo a seguito della richiesta in tal senso avanzata dal cliente, il quale ha, per
converso, la mera facoltà, e non certo l’obbligo, di esercitare il proprio diritto di credito (alla
restituzione)”.
Deve dedursi, a contrario, che tale principio non possa trovare applicazione per i contratti,
come quello in esame, in cui le parti abbiano apposto un termine di scadenza; in siffatte
fattispecie, infatti, la condizione di esigibilità del credito è rappresentata non già dal mero
esercizio della facoltà di richiedere la restituzione, ma dal decorso del termine di scadenza
pattuito, che costituisce dies a quo per il decorso del termine prescrizionale del diritto ad
ottenere il controvalore del titolo.
Né, ad argomentarsi diversamente, possono essere assunte le decisioni di questo Arbitro
richiamate dal ricorrente, invero relative a fattispecie non pienamente coincidenti con
quelle in esame, posto che esse prevedevano espressamente nel relativo regolamento
negoziale, che le somme non riscosse alla scadenza sarebbero state comunque a
disposizione del legittimato, pur senza produrre interessi; nel caso di specie, invece, il
regolamento negoziale prevede espressamente che il controvalore del certificato dovesse
essere riscosso alla scadenza convenuta, presso la filiale emittente.
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Pag. 4/5
Decisione N. 5737 del 20 luglio 2015
Pertanto detto termine, anch’esso riferito alla improduttività di futuri ulteriori interessi, è
stato prioritariamente indicato quale termine di scadenza del titolo stesso.
Quanto alla richiesta di pagamento degli interessi dal 14 gennaio al 15 luglio 1991 il
Collegio deve limitarsi ad accertare la propria incompetenza ratione temporis, posto che le
disposizioni che regolano il presente procedimento limitano la cognizione dell’Arbitro a
controversie.
P.Q.M.
Il Collegio non accoglie il ricorso.
IL PRESIDENTE
firma 1
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Pag. 5/5
QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
1/2016
Prova – assunzione dei mezzi di
STRUMENTI E SERVIZI DI PAGAMENTO – OPERAZIONI DISCONOSCIUTE –
ONERE PROBABTORIO – ART. 10 D.LGS. 11/2010 – GRAVA SULLA BANCA
PROVARE LA PERFETTA FUNZIONALITÀ DEL SISTEMA
Il Collegio di Milano, con decisione n. 8101/15 del 22 ottobre 2015, in
materia di operazioni di pagamento, ha ribadito come, ai sensi dell’art. 10,
co. 1, D.lgs. n. 11/2010, spetti all’intermediario dimostrare — mediante la
produzione delle relative evidenze probatorie e, segnatamente, dei c.d. log
(trascrizione di tracce informatiche) — che l’operazione contestata sia stata
autenticata, correttamente registrata e contabilizzata e che il sistema non
sia stato compromesso da un inconveniente tecnico occorso al circuito di
esecuzione; con la conseguenza che l’omessa produzione, da parte
dell’intermediario,
della
suddetta
documentazione
determina
l’accoglimento della domanda formulata da parte ricorrente (nel caso di
specie il ricorso aveva ad oggetto un bonifico, eseguito online con il sistema
di sicurezza della firma digitale, successivamente disconosciuto dal cliente).
(cfr. decisione di seguito riportata)
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
70
Decisione N. 8101 del 22 ottobre 2015
COLLEGIO DI MILANO
composto dai signori:
(MI) LAPERTOSA
Presidente
(MI) LUCCHINI GUASTALLA
Membro designato dalla Banca d'Italia
(MI) ORLANDI
Membro designato dalla Banca d'Italia
(MI) SANTARELLI
Membro designato da Associazione
rappresentativa degli intermediari
(MI) GIRINO
Membro designato da
rappresentativa dei clienti
Associazione
Relatore (MI) GIRINO
Nella seduta del 10/09/2015 dopo aver esaminato:
- il ricorso e la documentazione allegata
- le controdeduzioni dell’intermediario e la relativa documentazione
- la relazione della Segreteria tecnica
FATTO
In data 3 novembre 2014 la società odierna ricorrente sporgeva reclamo alla banca
resistente presso cui intratteneva un rapporto di conto corrente con collegato servizio di
internet banking, narrando che il precedente 24 settembre, all’atto di accedere al conto online, il proprio socio amministratore aveva ricevuto una richiesta di aggiornamento dei dati
di identificazione ed era riuscito ad aver accesso alla posizione bancaria societaria solo
dopo l’inserimento di codice utente e password. Nel volgere di qualche ora aveva scoperto
che da tale conto corrente era stato fraudolentemente disposto un bonifico con
beneficiario estero dell’importo di € 13.900,00 e prontamente ne aveva informato la locale
filiale della resistente la quale, tuttavia, aveva avvisato la ricorrente dell’impossibilità di
recuperare la somma in quanto già interamente prelevata dal beneficiario. Quanto occorso
veniva dalla ricorrente imputato alla carenza di sicurezza nel sistema informatico della
resistente il cui servizio di internet banking constava di un sistema di identificazione cliente
mediante unicamente codice utente e password, mentre la attuale tecnologia forniva
abitualmente presidi ben più sofisticati e meno vulnerabili quali ad esempio, il c.d. token.
Non avendo quindi la resistente messo a disposizione della ricorrente uno strumento
idoneo a garantirne la sicurezza nell’operatività ed identificazione, era senza dubbio da
71
Pag. 2/5
Decisione N. 8101 del 22 ottobre 2015
ritenersi responsabile dei danni subiti dalla ricorrente, quantificati in € 13.900,00 oltre €
200,00 di spese legali, di cui richiedeva pronto ristoro.
Nel silenzio della resistente, il 7 febbraio 2015 la ricorrente presentava ricorso in cui
per la narrazione dei fatti rinviava integralmente al reclamo, argomentando in questa sede
circa i doveri propri di ogni intermediario nell’accertamento della provenienza dell’ordine
impartito on-line in capo al cliente in applicazione del principio della c.d. rappresentanza
apparente. Tanto non significando, tuttavia, che, anche una volta dimostrata la
provenienza dell’ordine impartito con le credenziali del cliente e da costui
successivamente disconosciuto, l’obbligo di custodia di tali credenziali fosse stato da
questi necessariamente violato, dal momento che l’utilizzo di codici e password personali
da parte di terzi dipendeva da plurime circostanze, tra cui la violabilità del sistema adottato
dalla banca. Nel caso di specie, come già accennato, la resistente infatti non si era dotata
nemmeno dello standard di sicurezza minimo per un moderno operatore del settore, quale
il citato token e neppure aveva reso operativo il “Servizio on line” pur sottoscritto dalla
ricorrente che avrebbe dovuto inviare un sms ad ogni atto dispositivo sul conto e che
evidentemente nel caso in lite non aveva funzionato. Per tutti questi motivi, la ricorrente
domandava al Collegio in via principale la restituzione dell’intero importo sottratto e pari ad
€ 13.900,00 e in ogni caso la refusione delle spese legali e di procedura.
In 27 marzo 2015 la resistente depositava le controdeduzioni e sottolineava come
nell’immediatezza del bonifico compiuto alle 15.53 del 24 settembre 2014 e disconosciuto
dalla ricorrente, avesse a quest’ultima inviato due e-mail, cui era seguito un ulteriore “alert
comportamentale” sempre via mail in cui veniva segnalato alla cliente il compimento di
un’operazione anomala. Solamente nel volgere della sera la ricorrente aveva contattato il
customer center per denunciare l’accaduto, evidentemente del tutto ignorando quanto
notificatole nel pomeriggio dalla banca e sicuramente troppo tardi per poter recuperare
anche solo parte della somma. Con riguardo poi all’asserito mancato funzionamento del
servizio di sms alert, la resistente faceva presente come la ricorrente ne avesse richiesto
l’attivazione solamente tre settimane dopo quanto occorso, mentre in merito al file
contenente la firma digitale della ricorrente, affermava essere stato inequivocamente
disponibile ai truffatori, presumibilmente attraverso il suo salvataggio nella memoria del pc
della ricorrente o stoccaggio in luogo accessibile a più persone. Dunque nessuna
responsabilità era da imputare alla resistente che, come appena comprovato, si era dotata
di ogni sistema e presidio di sicurezza necessario, mentre l’accaduto doveva ascriversi
unicamente alla colpevole negligenza della ricorrente che, oltre alla mancata giusta
custodia delle proprie credenziali, aveva persino risposto ad un messaggio di tipico e
patente phishing, ulteriormente contravvenendo alle più elementari regole di prudenza e
configurando in questo modo un comportamento gravemente colposo. Pertanto la
resistente chiedeva al Collegio la reiezione del ricorso.
DIRITTO
L’odierna lite verte intorno al disconoscimento di una operazione effettuata tramite il
servizio di home banking a valere sul conto della società ricorrente.
Non v’è dissenso fra le parti sul compimento delle operazioni disconosciute. La difesa
della banca si è appuntata sulla ritenuta sicurezza del dispositivo basato sull’impiego di
una firma digitale. Parte ricorrente ha contestato la circostanza, quantunque appaia
plausibile che, effettivamente, tale dispositivo sia stato effettivamente messo a
disposizione del cliente.
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Decisione N. 8101 del 22 ottobre 2015
Come già affermato in altre occasioni da questo Arbitro (cfr. fra le molte Collegio Napoli,
dec. n. 2504/2014), il sistema che utilizza la firma digitale per inviare i bonifici si colloca fra
quelli dotati del maggior livello di sicurezza e presuppone che il titolare od altro soggetto
rientrante nella suo entourage abbia comunque usato la firma digitale ovvero che la stessa
sia stata clonata per incuria o per colpa grave dell’utilizzatore, In effetti la "firma digitale",
ai sensi della L. 17.12.2012, n. 221 c.d. Codice dell'Amministrazione Digitale – CAD) ed al
combinato disposto degli artt. 1 e 21 dello stesso: "la firma digitale è un particolare tipo di
firma elettronica avanzata basata su un certificato qualificato e su un sistema di chiavi
crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite
la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere
manifesta e di verificare la provenienza e l'integrità di un documento informatico o di un
insieme di documenti informatici. Il documento informatico sottoscritto con firma elettronica
avanzata, qualificata o digitale, formato nel rispetto delle regole tecniche di cui all'articolo
20, comma 3, che garantiscano l'identificabilità dell'autore, l'integrità e l'immodificabilità del
documento, ha l'efficacia prevista dall'articolo 2702 del codice civile. L'utilizzo del
dispositivo di firma elettronica qualificata o digitale si presume riconducibile al titolare,
salvo che questi dia prova contraria".
Sennonché, nel caso specifico, il Collegio reputa che la questione debba dirimersi ad uno
stadio di valutazione anteriore. Non v’è dubbio infatti che gli accadimenti oggetto di lite si
siano verificati nel pieno vigore del d.lgs. n. 11/2010, attuativo della c.d. Direttiva PSD, il
cui art. 10, nella ripartizione dell’onere probatorio in caso di disconoscimento di operazioni,
pone una precisa e graduata sequenza così riassumibile: in prima battuta (art. cit. comma
1°) il prestatore di servizi di pagamento deve provare che l’operazione di pagamento è
stata autenticata, correttamente registrata e contabilizzata e che non ha subito le
conseguenze del malfunzionamento delle procedure necessarie per la sua esecuzione o
di altri inconvenienti; quindi, assolto con successo questo primo onere, necessario ma di
per sé insufficiente a dimostrare che l’operazione sia stata autorizzata dal titolare, il
prestatore deve dimostrare, al fine dell’esonero da responsabilità (art. cit. comma 2°), che
l’uso indebito del dispositivo è da ricondursi al comportamento, fraudolento, doloso o
gravemente colposo dell’utilizzatore rispetto agli obblighi di condotta imposti a quest’ultimo
dall’art. 7 dell’anzidetto decreto (primariamente gli obblighi di custodia del dispositivo e
delle chiavi di accesso).
La norma si snoda lungo un percorso più che logico e condivisibile. Trattandosi di
operazioni di pagamento effettuate mediante sistemi elettronici gestiti o comunque messi a
disposizione da parte dell’intermediario, sul quale lo stesso decreto citato pone specifici
oneri di carattere organizzativo con specifici riguardo alla sicurezza dei sistemi (art. 8,
comma 1° lett. a), la prima necessaria incombenza probatoria consiste nel dimostrare la
perfetta funzionalità del sistema. Allo scopo, il mezzo più semplice per assolvere tale
onere è la produzione dei c.c. log (trascrizione di tracce informatiche) delle operazioni
contestate ovvero di altre, plausibili evidenze in base alle quali desumere la corretta e
regolare autenticazione delle transazioni contestate (cfr. in tal senso, fra le più recenti,
Collegio Milano, dec. n. 605/2015).
Tanto nella specie non è accaduto, non constando agli atti evidenza alcuna idonea a
comprovare la regolarità delle operazioni effettuate. Né può in tal senso supplire, per le
ragioni dianzi espresse, la mera affermazione della regolarità delle operazioni, per quanto
probabilmente effettuate attraverso uno strumento sicuro (firma digitale). Il succitato art. 10
comma 1° non ammette una prova semplicemente presuntiva atteso che l’onere
probatorio non si limita alla dimostrazione dell’autenticazione dell’operazione, ma anche
della sua corretta registrazione e contabilizzazione e del connesso regolare
funzionamento del sistema, non potendosi ragionevolmente escludere che anche il più
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Pag. 4/5
Decisione N. 8101 del 22 ottobre 2015
sicuro dei dispositivi possa essere compromesso da una lacuna o da un inconveniente
tecnico occorso al circuito di esecuzione.
Non essendo stata fornita dall’intermediario prova alcuna al riguardo, la suesposta
gradazione degli oneri probatori impone di accogliere integralmente la domanda del
ricorrente.
PER QUESTI MOTIVI
Il Collegio accoglie il ricorso e dispone che l’intermediario corrisponda alla parte
ricorrente la somma di € 13.900,00.
Il Collegio dispone inoltre, ai sensi della vigente normativa, che l’intermediario
corrisponda alla Banca d’Italia la somma di € 200,00, quale contributo alle spese
della procedura, e alla parte ricorrente la somma di € 20,00, quale rimborso della
somma versata alla presentazione del ricorso.
IL PRESIDENTE
firma 1
74
Pag. 5/5
QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
1/2016
Questioni procedurali
QUESTIONI PROCEDURALI – INADEMPIMENTO DELL’INTERMEDIARIO
ALLA DECISIONE ABF – PROPONIBILITA’ DEL RICORSO CONTRO ALTRO
INTERMEDIARIO - ESCLUSIONE
Il Collegio di Napoli, con decisione n. 4011/15 del 19 maggio 2015, nel
dichiarare irricevibile il ricorso riproposto dal cliente nei confronti del
soggetto finanziatore in ragione dell’inadempimento della società
mandataria, ha ritenuto che, dopo la definizione del procedimento ABF, la
domanda non possa essere avanzata nei confronti del diverso, ulteriore
intermediario destinatario dell’obbligo che si intenda far valere:
“consumatasi con l’atto introduttivo del giudizio la pretesa nei confronti di
uno o più intermediari, non risulta poi possibile (in relazione al successivo
inadempimento alla decisione resa) far valere la stessa, identica situazione
giuridica attiva nei confronti del diverso intermediario pur astrattamente
tenuto alla prestazione richiesta, ma volontariamente escluso dall’azione a
suo tempo promossa” (si veda, però, in senso difforme, Collegio di Napoli
0538090/15).
(cfr. decisione di seguito riportata)
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
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Decisione N. 4011 del 19 maggio 2015
COLLEGIO DI NAPOLI
composto dai signori:
(NA) MARINARI
Presidente
(NA) CARRIERO
Membro designato dalla Banca d'Italia
(NA) CONTE
Membro designato dalla Banca d'Italia
(NA) RISPOLI FARINA
Membro designato da Associazione
rappresentativa degli intermediari
(NA) BARTOLOMUCCI
Membro designato da
rappresentativa dei clienti
Associazione
Relatore GIUSEPPE LEONARDO CARRIERO
Nella seduta del 05/05/2015 dopo aver esaminato:
- il ricorso e la documentazione allegata
- le controdeduzioni dell’intermediario e la relativa documentazione
- la relazione della Segreteria tecnica
FATTO
Esperito ricorso a questo Collegio (al fine del riconoscimento dei diritti conseguenti
all’anticipata estinzione di un finanziamento dietro delegazione di pagamento) nei confronti
della sola società mandataria, in esito al quale il giudicante (in parziale accoglimento dello
stesso) dichiarava parte convenuta tenuta alla restituzione dell’importo complessivo di
2.021,26 euro, oltre a interessi legali dalla data del reclamo (decisione n. 4737/2014), il
cliente (svolta la fase del reclamo) reitera (con l’assistenza del proprio difensore) la
domanda (comprensiva dei capi della stessa già giudicati non meritevoli di accoglimento)
nei confronti del finanziatore. Ciò anche in ragione dell’inadempimento dell’intermediario
soccombente, al quale accertamento ha fatto seguito la pubblicazione dello stesso nei
modi e nelle forme previsti dalla vigente disciplina.
Costituitosi, il resistente svolge le proprie difese nel merito e conclude per il rigetto del
ricorso.
76
Pag. 2/3
Decisione N. 4011 del 19 maggio 2015
DIRITTO
Il ricorso è manifestamente irricevibile. Quanto alla riproposizione della stessa domanda,
vale solo osservare che nel procedimento davanti all’ABF, diversamente da quanto
avviene nei giudizi innanzi all’A.G., l’accertamento contenuto nella decisione del Collegio
non fa stato tra le parti né impedisce alle parti di ricorrere ad ogni altro mezzo previsto
dall’ordinamento per la tutela dei propri diritti ed interessi. Ma ciò non autorizza a ritenere
che, dopo la decisione, il ricorso possa essere riproposto per un nuovo esame davanti allo
stesso Collegio decidente o ad altro Collegio dell’ABF. Invero, la decisione, una volta che
sia stata comunicata alle parti, non può più essere modificata. Se ne può chiedere la
correzione “nei soli casi” in cui sia affetta da errori “materiali” o “di calcolo” (Disp. cit., Sez
VI, § 5), vale a dire da errori del tutto estranei al processo valutativo compiuto dal
giudicante (v., fra le tante, la decisione di questo Collegio n. 1685/2012 e del Collegio di
coordinamento n. 3962/2012), restando così esclusa ogni altra possibilità di riesame della
decisione resa.
Né è possibile ritenere che quella stessa domanda possa essere avanzata, dopo la
definizione del giudizio, nei confronti del diverso, ulteriore intermediario destinatario
dell’obbligo che si intenda far valere. Osta infatti a ciò (oltre ai limiti fisiologici della
pronuncia, cfr. Cass. n. 18725/2007) la struttura del procedimento presso l’ABF, all’interno
del quale non trova applicazione l’istituto dell’intervento su istanza di parte ex art. 106 cod.
proc. civ. Non nei confronti del convenuto, essendo detto procedimento a legittimazione
disuguale, con conseguente preclusione di azioni di rivalsa o di chiamate in garanzia. Non
nei confronti dell’attore, il quale non può (in relazione alle difese del convenuto)
provvedere all’integrazione del contraddittorio nei confronti del terzo. Discende da tale
preclusione che, consumatasi con l’atto introduttivo del giudizio la pretesa nei confronti di
uno o più intermediari, non risulta poi possibile (in relazione al successivo inadempimento
alla decisione resa) far valere (scilicet, esercitare una sorta di opportunistico diritto di
pentimento) la stessa, identica situazione giuridica attiva nei confronti del diverso
intermediario pur astrattamente tenuto alla prestazione richiesta ma volontariamente
escluso dall’azione a suo tempo promossa. Dal sistema così delineato emerge pertanto
che, nel procedimento innanzi all’ABF, non è mai ammissibile una nuova valutazione sul
merito di una domanda che sia stata già oggetto di decisione, anche se tra parti diverse.
P.Q.M.
Il Collegio dichiara il ricorso irricevibile.
IL PRESIDENTE
firma 1
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Pag. 3/3
QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
1/2016
Questioni procedurali
QUESTIONI PROCEDURALI – RICORSO – MANCATO UTILIZZO DELLA
MODULISTICA – SEZ. VI, PAR. 1 E 2 DISPOSIZIONI - CONSEGUENZE
Il Collegio di Napoli, con decisione n. 6795/15 dell’ 8 settembre 2015, in
accoglimento dell’eccezione sollevata dalla banca, ha dichiarato irricevibile
un ricorso in quanto non redatto sulla modulistica prevista dalle
“Disposizioni sui sistemi di risoluzione stragiudiziale delle controversie in
materia di operazioni e servizi bancari e finanziari” (ancorché completo di
tutti gli elementi sostanziali all’uopo richiesti, ad eccezione della categoria
di appartenenza del ricorrente – consumatori o imprenditori –), rilevando
che in base alle vigenti Disposizioni, il ricorso deve essere redatto
utilizzando la modulistica pubblicata sul sito internet dell’ABF e reperibile
presso tutte le Filiali della Banca d’Italia aperte al pubblico e che, a fronte
del mancato rispetto di tale requisito formale, il Presidente del Collegio ABF
possa dichiarare, con provvedimento monocratico, l’inammissibilità del
ricorso stesso.
(cfr. decisione di seguito riportata)
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
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Decisione N. 6795 del 08 settembre 2015
COLLEGIO DI NAPOLI
composto dai signori:
(NA) CARRIERO
Presidente
(NA) CONTE
Membro designato dalla Banca d'Italia
(NA) BLANDINI
Membro designato dalla Banca d'Italia
(NA) RISPOLI FARINA
Membro designato da Associazione
rappresentativa degli intermediari
(NA) BARTOLOMUCCI
Membro designato da
rappresentativa dei clienti
Associazione
Relatore RISPOLI FARINA MARILENA
Nella seduta del 07/07/2015 dopo aver esaminato:
- il ricorso e la documentazione allegata
- le controdeduzioni dell’intermediario e la relativa documentazione
- la relazione della Segreteria tecnica
FATTO
La ricorrente, cointestataria di un rapporto di conto corrente intrattenuto presso la banca
convenuta, rappresenta che :
- in data 01.12.2013 alle ore 13:12 prelevava presso un ATM dell’intermediario l’importo di
€ 500,00; dopo aver digitato il codice segreto le veniva erogata, in luogo di quanto
richiesto, la minor somma di € 350,00.
- in data 01.02.2014 alle ore 16:23 tentava un altro prelievo di € 500,00 presso il
medesimo sportello ATM, ma otteneva l’erogazione di € 400,00.
A fronte di ciò il 12.03.2014 invia un reclamo alla banca chiedendo la restituzione della
differenza tra quanto addebitato e la somma effettivamente erogata per un totale di €
250,00.
In tale sede chiede, inoltre, che l’intermediario fornisca, ai sensi dell’art. 10 D.lgs. 11/2010,
prova che l’operazione di pagamento sia stata correttamente registrata e contabilizzata; a
tal fine invita ad esibire il giornale di fondo relativo alle giornate del 1 dicembre 2013 e del
1 febbraio 2014 e i relativi verbali di quadratura di cassa.
Non ottenendo alcun riscontro dalla controparte, la cliente si rivolge all’Arbitro, ribadendo
la legittimità delle proprie doglianze.
79
Pag. 2/4
Decisione N. 6795 del 08 settembre 2015
La convenuta ricostruisce i fatti da cui scaturisce l’odierna controversia in modo
parzialmente difforme: precisa, infatti, che il secondo prelievo non è avvenuto – come
asserito dalla ricorrente - il 1 febbraio 2014, bensì il 31 gennaio 2014 alle ore 16:23.
Riferisce, inoltre, di aver fornito riscontro al reclamo – presentato in data 12 marzo 2014 –
il successivo 7 aprile, invitando la cliente ad avviare una pratica di disconoscimento presso
la filiale di riferimento; la ricorrente non ha però dato seguito a tale richiesta, rendendo
così impossibile l’avvio di un’indagine interna al fine di verificare quanto accaduto.
In punto di diritto eccepisce preliminarmente l’irricevibilità del ricorso per i motivi sopra
esposti.
Nel merito della questione evidenzia di aver appurato tramite il giornale di fondo ATM la
regolarità delle operazioni svolte dallo sportello bancomat della filiale.
In particolare allega:
- estratto giornale di fondo ATM del 01.12.2013 da cui risulta che l’operazione n. 1165
delle ore 13:12 è stata effettuata senza anomalie, con regolare emissione di n. 10
banconote dal cassetto per un totale di € 500,00 ; da tale documentazione è verificabile
anche la regolarità di tutte le operazioni effettuate nello sportello ATM tra le ore. 12:45 e le
ore 13:30.
- estratto giornale di fondo ATM del 31.01.2014 da cui risulta che l’operazione n. 668 delle
ore 16:23 è stata effettuata senza anomalie, con regolare emissione di n. 10 banconote
dal cassetto per un totale di € 500,00; dalla documentazione è verificabile anche la
regolarità di tutte le operazioni effettuate nello sportello ATM tra le ore 16:00 e le ore
16:45.
La ricorrente chiede all’ABF la restituzione dell’importo di € 250,00, nonché la “refusione
delle spese da quantificarsi in via equitativa, oltre interessi, in considerazione della
condotta dilatoria dell’intermediario” e la restituzione della somma di € 20,00 a titolo di
contributo versato per attivare la procedura.
La resistente si oppone alla domanda e chiede in via pregiudiziale di dichiarare il ricorso
irricevibile: - poiché non è stato presentato attraverso l’apposita modulistica; per il
comportamento omissivo della cliente nella fase di reclamo.
In via subordinata di respingere il ricorso in quanto infondata la richiesta restitutoria
avanzata dalla ricorrente.
DIRITTO
Il Collegio deve decidere sulle doglianze della ricorrente che lamenta la mancata
erogazione di banconote in occasione di due prelievi bancomat da uno sportello ATM
dell’intermediario resistente.
In via preliminare il Collegio si deve pronunziare sulle eccezione di l’irricevibilità del
ricorso sollevate dalla resistente per la quale in primo luogo questo non risulta redatto
sulla modulistica prevista dalle “Disposizioni sui sistemi di risoluzione stragiudiziale delle
controversie in materia di operazioni e servizi bancari e finanziari”.
Chiede, altresì, la resistente che il ricorso sia dichiarato irricevibile “per il comportamento
omissivo della ricorrente in fase di reclamo, dal momento che il mancato completamento
della procedura di disconoscimento non ha consentito alla banca una valutazione delle
istanze della cliente”.
Il Collegio rileva che il ricorso è stato presentato senza l’utilizzo della modulistica ufficiale.
Esso tuttavia contiene tutti gli elementi richiesti dal modulo in questione :dati anagrafici;
data e sottoscrizione; copia del reclamo; dichiarazione di mancata sottoposizione della
controversia all’Autorità giudiziaria; documento di identità della ricorrente; copia del
versamento del contributo spese. La ricorrente ha omesso solamente di indicare la
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Pag. 3/4
Decisione N. 6795 del 08 settembre 2015
categoria di appartenenza (consumatore o professionista/imprenditore.
I Collegi ABF - in periodo antecedente alle modifiche regolamentari che hanno tra l’altro
introdotto i poteri monocratici del Presidente - si sono espressi in casi analoghi nel senso
dell’ammissibilità di ricorsi presentati in mancanza del modulo ufficiale ma “redatti nel
rispetto dei requisiti inderogabilmente prescritti dalla normativa vigente”. Si veda Collegio
di Roma, Decisione n. 1139 del 01.06.2011; Decisione n. 515 del 11.06.2010.
Al riguardo, il Collegio rileva che le vigenti Disposizioni ABF ribadiscono che il ricorso “è
redatto utilizzando la modulistica pubblicata sul sito internet dell’ABF e reperibile presso
tutte le Filiali della Banca d’Italia aperte al pubblico” (cfr. sez. VI, Par. 1); a fronte del
mancato rispetto di tale requisito formale le Disposizioni prevedono infatti che il Presidente
del Collegio ABF possa dichiarare, con provvedimento monocratico, l’inammissibilità del
ricorso (Cfr. Sez. VI, Par. 2).
Quanto alla mancata collaborazione nella fase del reclamo, che avrebbe pregiudicato, in
buona sostanza, l’effettivo svolgimento dello stesso, la banca riferisce di aver inviato alla
cliente una nota, datata 7 aprile 2014, con cui invitava ad avviare una pratica di
disconoscimento presso la filiale di riferimento al fine di poter avviare un’indagine interna.
L’intermediario non prova, tuttavia l’avvenuta ricezione della missiva da parte della
cliente, che invece asserisce di non aver ottenuto alcun riscontro al reclamo.
Pertanto il collegio ritenendo accoglibili le eccezioni sollevate dalla resistente si orienta,
alla luce delle precedenti considerazioni, per dichiarare l’irricevibilità del ricorso.
P.Q.M.
Il Collegio dichiara il ricorso irricevibile.
IL PRESIDENTE
firma 1
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Pag. 4/4
QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
1/2016
Sistemi di informazioni creditizie e Centrale Rischi
ASSEGNO BANCARIO – MANCANZA DI PROVVISTA – SEGNALAZIONE CAI –
PREAVVISO – INVIO OLTRE IL DECIMO GIORNO DALLA PRESENTAZIONE AL
PAGAMENTO DEL TITOLO – ILLEGITTIMITA’ DELLA SEGNALAZIONE ESCLUSIONE
Il Collegio di Coordinamento, con decisione n. 8859/15 del 27 novembre
2015, ha escluso che, da parte del traente del titolo impagato per
mancanza di provvista, possa essere invocato il mancato rispetto, da parte
della banca, del termine di dieci giorni entro cui il preavviso di revoca deve
essere inviato (cfr. l’art. 9-bis della L. n. 386/1990): detto termine deve,
infatti, intendersi stabilito nell’interesse dei terzi e non nell’interesse del
traente dell’assegno.
ASSEGNO BANCARIO – MANCANZA DI PROVVISTA – SEGNALAZIONE CAI –
PREAVVISO – INVIO AD UN LUOGO DIVERSO DA QUELLO ELETTO A
DOMICILIO A NORMA DELL’ART. 9-TER, L. 386/1990 – CONSEGUENZE
Il Collegio di Coordinamento, con decisione n. 8859/15 del 27 novembre
2015 – nel ribadire l’obbligo della banca ad inviare il preavviso di revoca
presso il domicilio eletto dal traente, a norma dell’art. 9-ter della L. n.
386/1990 - ha tuttavia rilevato che, nella fattispecie, risulta che la società
ricorrente abbia comunque ricevuto la comunicazione in parola e che
pertanto l’interesse sostanziale tutelato dalla citata disposizione sia stato
comunque soddisfatto; con la conseguenza che detta violazione da parte
della banca non ha determinato la illegittimità della segnalazione in CAI
della parte ricorrente, posto che quest’ultima ben avrebbe potuto sottrarsi
alle conseguenze negative, provvedendo al pagamento tardivo del titolo.
(cfr. decisione di seguito riportata)
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
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Decisione N. 8859 del 27 novembre 2015
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Decisione N. 8859 del 27 novembre 2015
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Decisione N. 8859 del 27 novembre 2015
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Decisione N. 8859 del 27 novembre 2015
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QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
1/2016
Sistemi di pagamento
SERVIZIO POS - CHARGEBACK - CONDOTTA DELL'ESERCENTE FRAZIONAMENTO DELLE OPERAZIONI DI PAGAMENTO – VIOLAZIONE
DELLE CONDIZIONI GENERALI DI CONVENZIONAMENTO – STORNO
OPERAZIONI LEGITTIMO
Il Collegio di Napoli, con decisione n. 5757 del 21 luglio 2015, ha ribadito
che il frazionamento dell’operazione di pagamento, eseguito dall’esercente
mediante più strumenti di pagamento, costituisce una grave violazione
delle condizioni generali di convenzionamento, le quali vietano
espressamente tale condotta, e legittima l’intermediario — in presenza
contestazione da parte dei titolari di detti strumenti — ad addebitare
all’esercente medesimo il controvalore della transazione.
(cfr. decisione di seguito riportata)
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
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Decisione N. 5757 del 21 luglio 2015
COLLEGIO DI NAPOLI
composto dai signori:
(NA) MARINARI
Presidente
(NA) PARROTTA
Membro designato dalla Banca d'Italia
(NA) BLANDINI
Membro designato dalla Banca d'Italia
(NA) RUSSO
Membro designato da Associazione
rappresentativa degli intermediari
(NA) GUIZZI
Membro designato da
rappresentativa dei clienti
Associazione
Relatore PERSONALE ESTERNO - RUSSO GIUSEPPE
Nella seduta del 19/05/2015 dopo aver esaminato:
- il ricorso e la documentazione allegata
- le controdeduzioni dell’intermediario e la relativa documentazione
- la relazione della Segreteria tecnica
FATTO
La società ricorrente con ricorso depositato in data 16.12.2004 adiva l’ABF deducendo di
aver concluso in data 21.10.2014 la vendita di merce per un importo complessivo di €
15.780,00 corrisposto dall’acquirente con carta di credito.
La ricorrente precisava che al momento del pagamento - attenendosi fedelmente ai propri
obblighi ed al fine di garantire la regolarità delle transazioni - provvedeva a verificare
l’identità del titolare della carta e la corrispondenza della sottoscrizione riportata sulla
stessa rispetto a quella apposta sul documento d’identità e sulla nota di spesa e - una
volta eseguite le transazioni - controllava la corrispondenza tra il numero di carta impresso
sulla tessera e quello stampato sulle ricevute di spesa emesse dal POS conservando una
copia fotoriprodotta sia di queste ultime, sia dei rispettivi scontrini fiscali. La citata somma
veniva pertanto regolarmente accreditata sul conto corrente della società.
In data 24.10.2014, tuttavia, l'intermediario chiedeva il riaddebito del controvalore delle
transazioni in questione realizzate mediante l’utilizzo improprio di carte di credito clonate,
nonostante, per sua stessa ammissione le transazioni fossero oggetto di verifica.
88
Pag. 2/6
Decisione N. 5757 del 21 luglio 2015
La ricorrente, in sede di reclamo, ritenendo di avere correttamente operato chiedeva il
riaccredito dell’importo riaddebitato; in tale sede contestava il modo di operare della
convenuta contrario alla convenzione di affiliazione e alla normativa in materia in base alla
quale sull’esercente grava solo l’onere di rispettare le regole di prudenza e i principi di
correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto senza che possa essere chiamato
a rispondere delle condotte illegittime poste in essere dai terzi.
A tal proposito, la ricorrente richiamava la sentenza del Tribunale di Milano del 9.11.1992
in merito alla diligenza richiesta all’esercente nella verifica della firma ed osservava che la
convenuta attraverso il passaggio della carta nel POS avrebbe potuto verificare l’esistenza
di un proprio rapporto contrattuale con il titolare della carta stessa ed eventualmente
comunicare tempestivamente all’esercente la presenza di eventuali anomalie […], al fine
di bloccarne l’utilizzo.
L’intermediario riscontrava negativamente la richiesta che veniva riproposta con il
presente ricorso.
La ricorrente chiedeva all’Arbitro la restituzione della somma di € 15.780,00,
illegittimamente riaddebitata.
La resistente depositava controdeduzioni con le quali precisava che - sulla base delle
verifiche condotte - presso il punto vendita della ricorrente, in data 21.10.2014, veniva
perfezionato un acquisto di beni per il valore complessivo di € 15.780,00 il cui pagamento
veniva suddiviso in tre transazioni effettuate con altrettante carte di credito emesse da una
banca cinese.
Il proprio sistema automatico di sicurezza rilevava subito la presenza di anomalie
meritevoli di approfondimento nelle citate transazioni e, dopo i primi controlli interni, con
fax del 4.11.2014 veniva interpellato l’emittente delle carte che confermava la natura
fraudolenta delle operazioni (all. 1 e 2). All'esito delle citate verifiche veniva attivato il
meccanismo del chargeback chiedendo alla banca della ricorrente il riaddebito delle
operazioni.
La convenuta precisava che sempre in data 21.10.2014 presso la ricorrente, oltre alle tre
transazioni contestate, ne venivano tentate altre tre, con esito negativo, con due diverse
carte di credito, pure rivelatesi contraffatte, per un totale di € 18.010,00 (all.3).
Evidenziava, altresì, che alla data dei fatti il fatturato annuo dell’esercente ammontava a €
45.500,00 in netto contrasto con quello realizzato nella sola giornata del 21.10.2014.
Inoltre, l'intermediario, replicava che la ricorrente non avesse fornito alcun elemento
idoneo a dimostrare l’esecuzione dei controlli che dichiarava di aver eseguito; in
particolare non risultavano annotati sugli scontrini di vendita gli estremi del documento
controllato, come richiesto dall’art. 6 Regolamento (all. 7). Inoltre l’importo totale
dell’operazione veniva frazionato in tre transazioni in violazione dell’art. 15 del richiamato
Regolamento; per contro ribadiva di avere correttamente operato disponendo lo storno
della cifra incassata in conformità dell’art. 12 del Regolamento e la sospensione della
convenzione per giustificato motivo e comprovati motivi di sicurezza ai sensi del
successivo art. 17.
La convenuta, infine, precisava che - diversamente da quanto affermato dalla ricorrente in
sede di reclamo - le operazioni in questione venivano effettuate con la lettura della banda
magnetica e senza la lettura del microchip che le avrebbe inibite (all. 5 e 6).
Alla luce delle suddette motivazioni, l'intermediario concludeva per il rigetto del ricorso.
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Decisione N. 5757 del 21 luglio 2015
DIRITTO
Oggetto del ricorso è la contestazione di riaddebito effettuata dall'intermediario del
controvalore di alcune transazioni, rivelatesi fraudolente.
In primo luogo, va chiarito che dalle verifiche istruttorie è emerso che dai memorandum di
spesa e dagli scontrini allegati dalla ricorrente si evince chiaramente che il prezzo della
vendita di € 15.780,00 è stato frazionato in tre transazioni poste in essere con altrettante
carte, nell’arco di quattro minuti (e ciò in violazione a specifica disposizione contrattuale).
Va altresì precisato che come si può evincere sugli scontrini non risultano annotati gli
estremi del documento di riconoscimento del titolare (altra violazione degli obblighi
contrattuali).
L’intermediario ha comprovato che le transazioni sono state autenticate con la lettura della
banda magnetica. Ha altresì comprovato l’esistenza di altre tre transazioni non andate a
buon fine.
Sulla base delle evidenze istruttorie e dei riferimenti delle parti emerge che la richiesta di
riaddebito delle transazioni all’esercente datata 24.10.2014 non sia stata preceduta da
alcuna richiesta di documentazione.
Risulta agli atti il fax inviato il 04.11.2014 al corrispondente straniero con il quale la
resistente chiedeva conferma della genuinità delle tre transazioni; la provenienza del
relativo riscontro risultante dalla dicitura counterfait apposta accanto ad ogni transazione
non è invero verificabile.
Non è agli atti il contratto di convenzionamento, l’intermediario si è limitato ad allegare
copia del Regolamento esercenti, invero non sottoscritta dalla ricorrente.
Invero all’art. 6 del Regolamento esercenti prodotto dall’intermediario (produzione non
contestata dalla ricorrente) emerge che in effetti l’esercente aveva l’obbligo di attenersi
scrupolosamente ad alcune preventive verifiche del pagatore. Non pare però sussistere
l’obbligo di annotare il documento di riconoscimento sullo scontrino (obbligo invero
previsto nella maggior parte delle convenzioni).
Tuttavia le modalità in cui si sono svolte le operazioni di pagamento fanno sorgere molti
dubbi sull’autenticità delle transazioni e sulla diligenza del ricorrente ed in particolare:
1) il fatto che la carta fosse stata emessa da intermediario straniero (circostanza risultante
dalla carta stessa come è noto che riporta il nominativo dell’intermediario emittente);
2) l’importo elevatissimo della transazione avrebbe dovuto indurre la società ricorrente a
prendere tutte le cautele del caso;
3)il frazionamento dell’importo, non ammesso dagli accordi in essere fra le parti;
4) il mancato utilizzo del chip che nel 2014 si presenta come una circostanza oltremodo
dubbia ed incauta.
A tale riguardo si richiama anche giurisprudenza ABF in senso sfavorevole alla richiesta di
parte ricorrente, tra le quali: Collegio di Napoli decisione n. 7966/2014 che non ha accolto
il ricorso sulla base della seguente motivazione. Nel caso di specie è pacifico e non
controverso tra le parti che la ricorrente non ha rispettato, nell’ambito dell’operazione di
utilizzo della carta presso il proprio esercizio, le condizioni generali di convenzionamento,
là dove le stesse vietano espressamente il c.d. frazionamento dell’importo.
Tanto allora basta per giustificare il riaddebito dell’importo pure precedentemente
accreditato, costituendo tale comportamento esercizio di un legittimo potere contrattuale.
Né ad esito diverso si potrebbe pensare di giungere invocando la nullità di una clausola
contrattuale siffatta. Una simile eccezione – peraltro solo molto genericamente ventilata
dalla ricorrente – non può trovare accoglimento.
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Decisione N. 5757 del 21 luglio 2015
Gli è, infatti, che l’invalidità della clausola con cui l’emittente ribalti sull’esercente il rischio
del disconoscimento dell’operazione da parte del titolare della carta può ragionevolmente
prospettarsi solo quando essa preveda un ribaltamento automatico, e che prescinde del
tutto da considerazioni circa la diligenza o meno della condotta dell’esercente, ma non può
certo postularsi l’invalidità nella più limitata ipotesi in cui essa accolli il rischio del
disconoscimento all’esercente, allorché questi con il suo comportamento non rispettoso
delle procedure di spendita della carta abbia incautamente finito per agevolare
l’operazione rivelatasi poi fraudolenta. In questi casi, ed entro questi limiti, la validità della
clausola deve necessariamente affermarsi, anche perché essa altro non fa che dare veste
contrattuale a una soluzione che è già implicita nel sistema: nel senso che essa permette
all’emittente di recuperare dall’esercente quanto questi non aveva, in realtà, titolo di
vedersi corrisposto, appunto per aver operato in violazione del contratto di
convenzionamento.
Ed inoltre, sempre in tema di divieto di frazionamento delle operazioni, si segnala la
decisione del Collegio di Napoli n. 1985/2012 a tenore della quale
si rileva che: l’art. 11 della convenzione intercorrente tra l’esercente e la emittente impone
espressamente all’esercente di evitare di frazionare le operazioni di vendita in più
transazioni elettroniche e/o in più documenti di vendita; detta disposizione non è stata,
invece, affatto osservata, come chiaramente risulta dalla ricostruzione dei fatti e dalla
documentazione agli atti.
Nel medesimo articolo si prevede, altresì, che in caso di inosservanza, da parte
dell’Esercente, degli obblighi e delle regole comportamentali posti a suo carico dal
presente Contratto, la Società si riserva di non rimborsare le transazioni, fermi restando i
casi di sospensione e recesso.
Alla luce di quanto innanzi deve ritenersi, pertanto, legittimo il comportamento assunto
dalla resistente allorché, all’esito della ricezione della segnalazione di blocco delle carte,
da un lato ha dato ordine alla banca di appoggio di disporre l’addebito cautelativo a carico
dell’esercente degli importi derivanti dalle operazioni sospette, dall’altro ha disposto gli
accertamenti del caso onde verificare la regolarità delle operazioni in questione.
Chiarito quanto innanzi in ordine al legittimo operato dell’emittente in merito all’iniziale
addebito degli importi oggetto delle transazioni, ulteriormente si rileva che, ai sensi
dell’art.9, comma 2, della convenzione, “la Società ha comunque diritto al rimborso, anche
nell’interesse di terzi, di quanto corrisposto all’Esercente, nel caso di documenti di vendita
già pagati e che risultassero successivamente irregolari ai sensi delle condizioni di cui al
presente Contratto addebitando di propria iniziativa il Conto Corrente dell’Esercente
medesimo”.
Ebbene, dalla documentazione agli atti emerge palesemente la irregolarità delle
transazioni eseguite, come confermata dai successivi accertamenti disposti dall’emittente.
Ma di tali irregolarità l’esercente, se avesse usato la dovuta diligenza, ben poteva
accorgersi o, quantomeno, fortemente sospettare al momento della reiterata utilizzazione
delle carte di credito, proprio in ragione della molteplicità degli indici alla sua evidenza,
come puntualmente segnalati dalla resistente nelle controdeduzioni in atti.
Ed infatti, non vi è dubbio che: il numero e gli importi delle transazioni eseguite con la
stessa carta in un brevissimo lasso temporale (agli atti risulta, ad esempio, addirittura il
regolamento con un’unica carta di credito di n. 13 transazioni in soli 11 minuti per un
importo complessivo di € 59 mila, una per € 4 mila, le restanti tutte di € 5 mila); l’utilizzo
reiterato delle carte di credito; più autorizzazioni concesse le une di seguito rispetto alle
altre; le carte emesse da banche straniere, senza neppure sede in Italia; le fatturazione in
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Decisione N. 5757 del 21 luglio 2015
favore di residenti in Italia; sono tutti elementi che - già singolarmente - rappresentano
indici fin troppo significativi per essere, se non colpevolmente, trascurati.
Alla luce di tutto quanto innanzi, pertanto, questo Collegio, nel valutare, in ragione della
convenzione sottoscritta tra le parti e delle evidenze documentali agli atti, corretto il
comportamento assunto dall’emittente in ordine all’addebito, a carico dell’esercente, degli
importi oggetto delle transazioni su carta, ritiene non meritevole di accoglimento il ricorso.
PQM
Il Collegio non accoglie il ricorso.
IL PRESIDENTE
firma 1
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QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
1/2016
PARTE II
Spunti di dottrina
ROBERTA MONTINARO Il sovraindebitamento del consumatore: diligenza nell’accesso al credito
ed obblighi del finanziatore, in Banca Borsa Titoli di Credito, fasc. 6, 2015, pag. 781
L’autore esamina il crescente fenomeno del sovraindebitamento, che viene distinto tra “attivo” e
“passivo”.
Con il primo si intende una situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il
patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, con conseguente rilevante difficoltà di
adempiere le proprie obbligazioni ovvero la definitiva incapacità di adempierle regolarmente; il
secondo, invece, è causato da sopravvenienze, ossia eventi imprevisti e non voluti.
L’indagine si concentra sugli strumenti normativi volti a prevenire il fenomeno e a consentire di far
fronte all’esigenza di protezione del debitore sovraindebitato. In particolare, fermo restando che la
decisione di far credito resta un atto discrezionale del finanziatore, sullo stesso incombono obblighi
precontrattuali diretti, da un lato, a tutelare l’interesse del consumatore a non veder interrotte
ingiustificatamente le trattative, dall’altro, a poter ponderare l’entità del finanziamento rispetto alla
propria capacità di rimborso.
L’autore analizza quindi le procedure per la gestione dello stato di sovraindebitamento dirette alla
ristrutturazione dei debiti e/o alla cancellazione degli stessi per effetto della esdebitazione.
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
93
QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
1/2016
PARTE III
Segnalazioni di giurisprudenza
AZIONE REVOCATORIA – COMPROMISSIONE PATRIMONIO DEBITORE – REQUISITI -ONERE DELLA
PROVA
Cassazione, III sezione civile, 27 ottobre 2015, sentenza n. 21807
In tema di azione revocatoria ordinaria non è richiesta la totale compromissione della consistenza
del debitore, essendo sufficiente il compimento di un atto che renda più incerta e difficile la
soddisfazione del credito; inoltre, grava sul convenuto l’insussistenza del rischio ad hoc in ragione di
ampie residualità patrimoniali.
FINANZIAMENTO IN POOL – GARANZIE – AZIONE REVOCATORIA - AMMISSIBILITÀ
Cassazione, III sezione civile, 27 ottobre 2015, sentenza n. 21807
La Corte – accertato che, nella fattispecie, l’erogazione di un finanziamento da parte di più banche
era indice di una anomalia sottostante e che la concessione di nuove linee di finanziamento
garantite dal pegno oggetto di causa era finalizzata al salvataggio della debitrice principale – ha
ritenuto che vi sia stata consapevolezza da parte degli istituti di credito della pesante
compromissione del patrimonio della società e di quello del suo fideiussore e che l’impugnazione
era solo mirata a sollecitare una rivalutazione dei fatti e delle prove, preclusa in sede di legittimità.
(cfr. sentenza di seguito riportata)
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
94
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETTI
Giovanni B.
- Presidente
Dott. AMENDOLA Adelaide
- rel. Consigliere Dott. ARMANO
Uliana
- Consigliere Dott. STALLA
Giacomo Maria
- Consigliere Dott. D'AMICO Paolo
- Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 26494/2012 proposto da:
BANCA MONTE PASCHI SIENA S.P.A. (OMISSIS) in persona del Dr.
B.E., domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA
DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato
LUCONI MASSIMO, giusta procura speciale a margine del ricorso;
- ricorrente contro
L.AR.A
FASHION
SRL in persona del suo legale rappresentante
F.O., domiciliata ex lege in ROMA, presso
la
CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli
avvocati SCIUBBA PIETRO, ANNA ARDITO, FERDINANDO PREVIDI giusta
procura speciale in calce al controricorso;
- controricorrente e contro
BANCA POPOLARE EMILA ROMAGNA SCARL (OMISSIS),
BI.GI.;
- intimati nonchè da:
BANCA POPOLARE DELL'EMILIA ROMAGNA SOCIETA' COOPERATIVA in persona
del suo legale rappresentante, Presidente Rag.
C.E.,
elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE FLAMINIO 76 presso lo
studio dell'avvocato CARLO MACCALLINI che la rappresenta e difende
unitamente all'avvocato SERGIO ROCCO giusta procura speciale a
margine del ricorso;
- ricorrente contro
L.AR.A
FASHION
SRL in persona del suo legale rappresentante
F.O., domiciliata ex lege in ROMA, presso
la
CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli
avvocati PIETRO SCIUBBA, ANNA ARDITO, FERDINANDO PREVIDI giusta
procura speciale in calce al controricorso;
- controricorrente e contro
BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA S.P.A.,
BI.GI.;
- intimati avverso la sentenza n. 1343/2011 della CORTE D'APPELLO di BOLOGNA,
depositata il 15/11/2011, R.G.N. 650/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
09/09/2015 dal Consigliere Dott. ADELAIDE AMENDOLA;
udito l'Avvocato MASSIMO LUCONI;
udito l'Avvocato ANTONELLA CARNEVALI per delega;
udito l'Avvocato PIETRO SCIUBBA;
udito l'Avvocato ANNA ARDITO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
FUZIO Riccardo, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione notificata il 26 ottobre 2000 L.A.R.A. Fashion s.r.l.
convenne innanzi al Tribunale di Modena Banca Popolare Veneta s.c.a.r.l., Banca Monte dei
Paschi di Siena s.p.a., Banca Popolare dell'Emilia Romagna s.c.a.r.l. nonchè Bi.Gi., chiedendo che
95
venisse dichiarato inefficace nei suoi confronti, ex art. 2901 c.c., l'atto di pegno da questi costituito
in favore dei predetti istituti bancari, a garanzia delle aperture di credito, nella misura di lire un
miliardo ciascuno, che sarebbero state concesse al gruppo Nadini s.p.a., del quale il Bi. era
all'epoca legale rappresentante nonchè fideiussore.
Espose l'attrice di essere in credito nei confronti della società garantita della somma di lire
1.340.000.000, portata da quattro cambiali, tutte protestate.
Resistettero i convenuti.
Con sentenza del 1 marzo 2007 il giudice adito rigettò la domanda.
Proposto dalla soccombente gravame, la Corte d'appello di Bologna, con la pronuncia ora
impugnata, emessa in data 15 novembre 2011, l'ha invece accolta.
Il ricorso della Banca Monte dei Paschi di Siena è affidato a due motivi.
In epoca successiva alla notifica dello stesso, autonomo ricorso, sulla base di un solo motivo, è
stato presentato anche dalla Banca Popolare dell'Emilia Romagna.
A entrambi ha resistito con distinti controricorsi L.A.R.A. Faschion s.r.l..
Quest'ultima e Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. hanno altresì depositato memoria.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
1 I due ricorsi devono essere riuniti ex art. 335 c.p.c., in quanto proposti avverso la medesima
sentenza. Partendo dal ricorso della Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., con il primo motivo
l'impugnante lamenta violazione dell'art. 342 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., n. 3.
Oggetto delle critiche è il rigetto della eccezione di inammissibilità del gravame.
Assume invero l'esponente che, in spregio al disposto della norma processuale innanzi richiamata,
la quale, nel testo applicabile ratione temporis, esige l'indicazione dei motivi specifici
dell'impugnazione, l'appellante si sarebbe limitata a definire erronea la decisione del Tribunale di
Modena, richiamando la ritenuta inoperatività del disposto dell'art. 117 del TUB nonchè la
negativa risposta alle retoriche domande poste nella memoria di replica.
2 Le critiche sono gravemente carenti sotto il profilo dell'autosufficienza e non sfuggono, pertanto,
alla sanzione dell'inammissibilità.
Va premesso che il decidente non ha affatto ignorato l'eccezione di inammissibilità dell'appello
per aspecificità dei motivi, ma l'ha motivatamente disattesa evidenziando che non solo l'appellante
aveva bene individuato i capi della sentenza di prime cure oggetto delle critiche, ma ne aveva
anche argomentatamente censurato le valutazioni giuridiche, di fatto e istruttorie.
Ora, è ben vero che, quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la
nullità del procedimento o della sentenza impugnata e, in particolare, un vizio afferente alla nullità
dell'atto introduttivo del giudizio, di primo grado o d'appello, per indeterminatezza dell'oggetto
della domanda, delle ragioni poste a suo fondamento, o per aspecificità delle censure, il giudice di
legittimità non deve limitare la propria cognizione all'esame della sufficienza e logicità della
motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, essendo investito del potere di
esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, ma tanto purchè la
critica sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di
rito, e segnatamente in conformità alle prescrizioni dettate dall'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art.
369 c.p.c., comma 2, n. 4.
E invero l'esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al
giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo, presuppone comunque
l'ammissibilità delle doglianze (cfr. Cass. civ. 10 ottobre 2014, n. 21421; Cass. civ. sez. un. 22
maggio 2012, n. 8077), onde il ricorrente non è dispensato dall'onere di specificarne il contenuto,
secondo i criteri elaborati in punto di autosufficienza del ricorso per cassazione, segnatamente
indicando i fatti processuali che sono, a suo avviso, alla base dell'errore denunciato.
3 Ora, nella fattispecie, l'impugnante, venendo qui a sostenere che la Corte territoriale ha
erroneamente ritenuto specifici motivi di gravame che tali non erano, omette tuttavia di riportarli
in maniera compiuta, posto che si limita a estrapolare, da un tessuto argomentativo non enucleato
96
in conformità alla portata precettiva dell'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2,
n. 4, taluni rilievi svolti dall'appellante.
Tale approccio, basato sulla decontestualizzazione delle scarne espressioni richiamate,
equivalendo, in definitiva, a un mero rinvio all'atto difensivo della controparte, marca le proposte
censure in termini di inammissibilità per difetto di autosufficienza (Cass. civ., 20 settembre 2006,
n. 20405). Si ricorda, in proposito, che il rispetto del canone di autosufficienza risulta fondato
sull'esigenza, particolare del giudizio di legittimità, di consentire alla Corte di valutare la decisività
delle doglianze, sia che si riferiscano a una prova, orale o documentale, di cui si lamenti l'omesso
o l'insufficiente esame da parte del giudice di merito, sia che si riferiscano a un error in procedendo,
e tanto anche in ottemperanza al principio per cui la responsabilità della redazione dell'atto
introduttivo del giudizio fa carico esclusivamente al ricorrente, di talchè il difetto di ottemperanza
alla stessa non deve essere supplito dal giudice, per evitare il rischio di un soggettivismo
interpretativo da parte dello stesso nell'individuazione di quali atti o parti di essi siano rilevanti in
relazione alla formulazione della censura.
4 Si prestano a essere esaminati congiuntamente il secondo motivo del ricorso principale e l'unico
motivo del ricorso li incidentale, articolati su argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili.
Oggetto delle critiche è il positivo apprezzamento del giudice a quo in ordine alla sussistenza delle
condizioni per il vittorioso esperimento dell'azione revocatoria.
Segnatamente, denunciando violazione degli artt. 2901, 2729, 2727 e 2697 c.c., ex art. 360 c.p.c.,
n. 3, nonchè mancanza, insufficienza e contraddittorietà della motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5,
sostengono la Banca Monte dei Paschi di Siena e la Banca Popolare dell'Emilia Romagna che la
valutazione del giudice d'appello, difforme da quella del primo decidente, sarebbe viziata da una
continua confusione tra l'esposizione del Bi. e quella della società garantita.
E invero, la sentenza impugnata ignorerebbe sia che le sole collezioni di quadri del Bi. e del
Gruppo Nadini s.p.a. erano state stimate da Christiès da un minimo di 35.000.000.000 a un
massimo di 120.000.000.000 di lire; sia le deposizioni rese dai testi escussi, in ordine alla assoluta
affidabilità del primo.
Del tutto arbitraria sarebbe poi la valorizzazione, in chiave indiziante della scientia fraudis, della
natura di finanziamento in pool del prestito garantito dal Bi. con il pegno di cui era stata chiesta la
declaratoria di inefficacia, in contrasto con prassi bancarie ormai consolidate.
5 Anche tali critiche non colgono nel segno.
Val la pena ricordare che, in tema di revocatoria ordinaria, non essendo richiesta, a fondamento
dell'azione, la totale compromissione della consistenza del patrimonio del debitore, ma soltanto il
compimento di un atto che renda più incerta o difficile la soddisfazione del credito, l'onere di
provare l'insussistenza di tale rischio, in ragione di ampie residualità patrimoniali, incombe sul
convenuto che eccepisca, per questo motivo, la mancanza dell'eventus damni (cfr. da ultimo Cass.
civ. 3 febbraio 2015, n. 1902).
A ciò si aggiunga che, allorchè l'atto di disposizione sia successivo al sorgere del credito,
condizione per l'esercizio della stessa è che il debitore fosse a conoscenza del pregiudizio delle
ragioni del creditore e, trattandosi di atto a titolo oneroso, che di tanto fosse consapevole il terzo,
la cui posizione - per quanto riguarda i presupposti soggettivi dell'azione - è sostanzialmente
analoga a quella del debitore, con la precisazione, dirimente, per quanto di qui a poco si dirà, che
la prova del predetto atteggiamento soggettivo può essere fornita tramite presunzioni il cui
apprezzamento, al pari di quello dell'eventus damni, è devoluto al giudice di merito ed è
incensurabile in sede di legittimità ove congruamente motivato (cfr. Cass. civ. 30 dicembre 2014,
n. 27546;
Cass. civ. 12 dicembre 2012, n. 22878; Cass. civ. 17 agosto 2011, n. 17327).
6 Tanto premesso sul piano dogmatico, nella fattispecie il decidente ha dichiaratamente dissentito
dalla negativa valutazione del Tribunale, in ordine alla sussistenza del requisito dell'eventus
damni, assumendo che essa era stata formulata sulla base del solo rapporto tra il valore di stima
della collezione d'arte di apparente proprietà del Bi. e l'entità del credito vantato da L.A.R.A.,
97
laddove andava considerata la complessiva esposizione debitoria dello stesso. Elencate quindi le
numerose e ingentissime obbligazioni da cui il convenuto era gravato, ha ricordato che la società
garantita, solo pochi giorni dopo la costituzione del pegno, aveva subito il protesto di uno dei titoli
portati da L.A.R.A.; non aveva pagato i dipendenti e, in rapida successione, aveva deliberato la
propria messa in liquidazione e chiesto l'ammissione alla procedura di concordato preventivo.
Quanto poi alla condizione della scientia fraudis, ha ritenuto che, a prescindere dal contenuto di
una scheda interna della Banca Popolare dell'Emilia Romagna, riproducente quello di una
interrogazione rivolta alla Centrale Rischi, significativi elementi di giudizio potevano trarsi dallo
stesso finanziamento in pool effettuato dalla Banche appellate, indice di una ineludibile anomalia
della situazione sottostante.
7 In giudizio del collegio tali argomentazioni, assolutamente corrette sul piano logico e giuridico,
complete ed esaustive, resistono ai rilievi delle impugnanti.
E' sufficiente al riguardo evidenziare che la consistenza patrimoniale del debitore giammai va
valutata in relazione alle sole poste attive, ma anche, e forse specialmente, a quelle passive,
considerato che, come innanzi precisato, il requisito dell'eventus damni postula il compimento di
un atto che renda anche solo più difficile la soddisfazione del credito.
A ciò aggiungasi che, pacifico essendo che la concessione di nuove linee di finanziamento
garantite dal pegno oggetto di causa era finalizzata al salvataggio della debitrice principale, non
può tacciarsi di illogicità l'assunto che, a monte di siffatta operazione del tutto straordinaria, c'era
la piena consapevolezza, da parte degli istituti coinvolti nella stessa, della pesante compromissione
del patrimonio di Nadini s.p.a. e di quello del suo fideiussore.
In definitiva, le censure delle ricorrenti, attraverso la surrettizia deduzione di violazioni di legge e
di vizi motivazionali, in realtà inesistenti, mirano solo a sollecitare una rivalutazione dei fatti e
delle prove, preclusa in sede di legittimità.
I ricorsi sono respinti.
Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo a carico di ciascuna delle
impugnanti.
PQM
P.Q.M.
La Corte, pronunciando sui ricorsi riuniti, li rigetta entrambi;
condanna le ricorrenti al pagamento delle spese di giudizio, liquidate, per ciascuno delle
impugnanti, in complessivi Euro 5.200,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi), oltre spese generali e
accessori, come per legge.
Così deciso in Roma, il 9 settembre 2015.
Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2015
98
QUADERNI DI AGGIORNAMENTO
1/2016
STRUMENTI DI PAGAMENTO - BANCOMAT - MANOMISSIONE SPORTELLO ATM - PRELIEVO
ILLECITO DA PARTE DI TERZI - RESPONSABILITÀ DELLA BANCA – SUSSISTE
Cassazione, I sezione civile, 19 gennaio 2016, sentenza n. 806
In caso di manomissione dello sportello ATM della banca da parte di soggetti terzi, con conseguente
captazione della carta del cliente e prelievi fraudolenti in suo danno, la misura della diligenza della
banca nell'adempimento delle proprie obbligazioni deve essere valutata tenendo conto dei rischi
connessi alla natura dell'attività esercitata e, nel caso specifico, dell'obbligo di custodia, gravante
sulla banca, dello sportello automatico esposto al pubblico ed adibito all'erogazione di denaro
contante (nel caso in esame il vicedirettore della filiale, raccolta la segnalazione sul
malfunzionamento dello sportello ATM e sull'avvenuta trattenuta dello strumento di pagamento,
aveva tranquillizzato il cliente rimandando al giorno seguente le verifiche necessarie, omettendo,
inoltre, l'esame delle immagini raccolte dalle telecamere a circuito chiuso, le quali avrebbero
permesso di individuare tempestivamente l'avvenuta manomissione della strumentazione).
(cfr. sentenza di seguito riportata)
a cura del Conciliatore BancarioFinanziario
99
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI PALMA Salvatore
- Presidente
Dott. NAPPI
Aniello
- Consigliere Dott. GIANCOLA Maria Cristina
- Consigliere Dott. ACIERNO Maria
- rel. Consigliere Dott. FERRO
Massimo
- Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 16829/2009 proposto da:
S.G. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato
in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 20, presso l'avvocato ANTONINI
MARIO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato MAURIZIO
BARRELLA, giusta procura a margine del ricorso;
- ricorrente contro
INTESA BCI S.P.A.;
- intimati avverso la sentenza n. 213/2008 della CORTE D'APPELLO di CAGLIARI,
depositata il 28/05/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
22/10/2015 dal Consigliere Dott. MARIA ACIERNO;
udito, per il ricorrente, l'Avvocato MAURIZIO BARRELLA che ha chiesto
l'accoglimento del ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
VELARDI Maurizio, che ha concluso per l'inammissibilità o in
subordine per il rigetto del ricorso.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
S.G. ha convenuto in giudizio la Cariplo - Cassa di Risparmio di Cagliari, attualmente Intesa BCI
s.p.a., deducendo di essere correntista della banca; di aver tentato di eseguire un prelievo bancomat
presso di essa il 9/9/1999 senza riuscirci perchè l'apparecchio, dopo aver trattenuto la carta,
visualizzava la scritta "carta illeggibile" e successivamente "sportello fuori servizio"; di aver
immediatamente segnalato l'inconveniente al vicedirettore della filiale che si trovava presso
l'istituto e di aver ricevuto l'indicazione di tornare il giorno dopo; di averlo fatto e di aver constatato
il mancato rinvenimento della carta predetta. I giorni 9 e 10 settembre ignoti effettuavano
consistenti prelievi per oltre 7000 Euro. L'attore affermava di aver comunicato per iscritto l'evento
al vice direttore e di aver sporto denuncia all'autorità giudiziaria il successivo 13 settembre.
La banca deduceva la tardività della segnalazione e della denuncia del fatto. Il Tribunale rigettava
la domanda rilevando che non era stata eseguita regolare comunicazione entro 48 ore dall'accaduto
così come prescritto nell'art. 14 delle condizioni generali di contratto.
La Corte d'Appello ha confermato il rigetto sulla base delle seguenti argomentazioni:
l'indebito prelievo è ascrivibile in via esclusiva alla responsabilità dell'appellante. Le riprese video
della fase del prelievo hanno evidenziato che il S. è stato vittima di una truffa da parte di persona
ignota che si è avvicinato a lui e, con il pretesto di volerlo aiutare nell'operazione, ha
evidentemente visto e memorizzato il PIN, avendo in precedenza manomesso il funzionamento
dell'apparecchio in modo da poter recuperare la disponibilità della carta rimasta al suo interno.
L'appellante ha commesso l'imprudenza di digitare il PIN sotto gli occhi del truffatore, senza aver
tempestivamente attivato il blocco, mediante numero verde così come sollecitato dal funzionario,
limitandosi ad allertare il direttore della filiale della mancata restituzione della carta ma omettendo
di far menzione della presenza di un terzo. Così facendo l'appellante ha violato in particolare la
disposizione contrattuale che impone la segretezza del PIN. Avverso tale pronuncia ha proposto
ricorso il S. affidandosi a due motivi.
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Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Nel primo motivo di ricorso viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell'art. 1176 c.c., per
avere la corte territoriale individuato nell'esclusiva responsabilità del ricorrente la causa del danno
patrimoniale dal medesimo subito. La decisione assunta si è posta in contrasto con il canone di
buona fede dal momento che il S. aveva immediatamente avvisato la banca del cattivo
funzionamento dello sportello Bancomat e del trattenimento della carta. Non è stato, di
conseguenza, preso in considerazione il grave difetto di diligenza dell'istituto all'esito di tale
segnalazione in quanto non è stata posta in essere nessuna cautela atta ad evitare il danno a fronte
della segnalazione dello spossessamento. Da parte della banca è stata attuata una condotta
radicalmente omissiva in violazione dell'art. 1176 c.c., comma 2.
Lo sportello era costantemente ripreso da una telecamera e conseguentemente poteva essere
verificato agevolmente come si era svolta effettivamente l'operazione. L'istituto poteva essere a
conoscenza delle truffe ma nulla aveva posto in essere. Secondo quanto stabilito dalla
giurisprudenza di legittimità (Cass. 13777 del 2007) banca avrebbe dovuto porre in essere
strumenti idonei a garantire gli impianti da manomissione, rispondendo in mancanza dei relativi
rischi.
Il motivo si chiude con rituale quesito di diritto.
Nel secondo motivo viene dedotta l'omessa motivazione su un punto decisivo della controversia
consistente nel fatto che la corte territoriale non ha considerato le contestazioni specifiche in ordine
all'ammontare dei prelievi effettuati da ignoti in misura ben superiore ai limiti giornalieri (2500
Euro) e la previsione contrattuale secondo la quale in caso di mancata comunicazione tempestiva
dell'indebito od illecito uso della carta restano a carico del titolare le conseguenze pregiudizievoli
fino ad un massimo di 300 Euro.
In particolare l'art. 34, delle Condizioni generali di contratto prevede che in caso di smarrimento,
furto o sottrazione della carta o del PIN, il titolare deve darne immediata comunicazione alla
Cariplo con qualsiasi mezzo. Entro le 48 ore deve seguire conferma scritta da presentare
direttamente o mediante lettera raccomandata, corredata da copia conforme della denuncia sporta
alle autorità competenti. Ove la comunicazione avvenga dopo l'uso indebito od illecito le
conseguenze pregiudizievoli rimangono a carico del cliente fino a 300 Euro. Il titolare risponde di
tutti gli utilizzi se ha agito con dolo o colpa grave, ovvero in conseguenza di quanto previsto nel
presente articolo nonchè nel precedente art. 31.
Il ricorrente tuttavia ha immediatamente informato la banca dell'avvenuta sottrazione della carta e
della presenza di un terzo, constatando la mattina successiva che il bancomat non era stato
rinvenuto ma ricevendo assicurazioni in ordine alla circostanza giustificata dal funzionario della
banca come temporaneo blocco o malfunzionamento.
Il primo motivo è fondato. La Corte d'Appello nel riconoscere l'esclusiva responsabilità del
ricorrente per aver consentito l'individuazione del PIN ad un terzo e non aver provveduto
all'immediato blocco della carta, non ha svolto uno scrutinio effettivo del comportamento
contrattuale della banca secondo il parametro della diligenza professionale ex art. 1176 c.c.,
comma 2. A tale verifica invece la Corte territoriale era tenuta sotto due profili. Il primo
consistente nell'indagine della condotta del funzionario che ha raccolto la denuncia immediata del
malfunzionamento del bancomat il quale invece di mettersi in allarme per la sottrazione della carta
da parte dello sportello ha differito il controllo al giorno successivo; il secondo consistente
nell'omessa verifica mediante il sistema di telecamere incontestatamente attivato (ed
assolutamente necessario al fine d'integrare l'obbligo di diligenza specifica) dell'avvenuta
manomissione del medesimo da parte di terzi. Omettendo l'esecuzione di tale indagine la Corte
d'Appello ha sostanzialmente non applicato il parametro della diligenza specifica posta a carico
della banca nonostante il chiaro orientamento espresso dalla prima sezione di questa Corte in una
fattispecie del tutto analogo secondo il quale:
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"Ai fini della valutazione della responsabilità contrattuale della banca per il caso di utilizzazione
illecita da parte di terzi di carta bancomat trattenuta dallo sportello automatico, non può essere
omessa, a fronte di un'esplicita richiesta della parte, la verifica dell'adozione da parte dell'istituto
bancario delle misure idonee a garantire la sicurezza del servizio da eventuali manomissioni,
nonostante l'intempestività della denuncia dell'avvenuta sottrazione da parte del cliente e le
contrarie previsioni regolamentari;
infatti, la diligenza posta a carico del professionista ha natura tecnica e deve essere valutata
tenendo conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento ed assumendo quindi come
parametro la figura dell'accorto banchiere". (Cass. 13777 del 2007).
Nel presente giudizio il ricorrente ha espressamente affermato (e provato con la riproduzione delle
conclusioni dei due gradi di merito) di aver contestato puntualmente e tempestivamente la
violazione dell'art. 1176, secondo comma, cod. civ. La manomissione dello sportello costituisce
una circostanza incontestatamente derivante dal mancato rinvenimento della carta al suo interno e
dalla sua sottrazione ed utilizzazione da parte di terzi. Risulta pertanto evidente l'omesso
accertamento della violazione del dovere di diligenza specifica derivante dal rapporto contrattuale
e dalla peculiarità degli obblighi di custodia dello sportello bancomat.
Come precisato nella sentenza sopra citata la diligenza professionale nella specie deve valutarsi
non solo con riferimento all'attività di esecuzione contrattuale in senso stretto ma anche in
relazione ad ogni tipo di atto e operazione oggettivamente riferibile ai servizi contrattualmente
forniti. Nella specie, è stata del tutto elusa dalla corte d'Appello l'indagine volta a verificare se la
banca sia tenuta a garantire la sicurezza del servizio bancomat dalle manomissioni di terzi anche
quando il titolare della carta non abbia rispettato l'obbligo di chiedere immediatamente il blocco
della medesima o abbia favorito la conoscenza del PIN da parte di terzi.
L'art. 1176 secondo comma, cod. civ. lascia imprecisata la questione della misura della diligenza
nelle obbligazioni inerenti l'esercizio di un'attività professionale ma la sua valutazione di carattere
tecnico deve essere commisurata alla natura dell'attività ed in particolare alla specificità
dell'obbligo di custodia di uno strumento esposto al pubblico avente ad oggetto l'erogazione di
denaro. Ad integrare l'indagine non eseguita dalla corte territoriale devono essere inclusi non solo
i comportamenti omissivi della banca (l'omessa verifica continuativa della manutenzione dello
sportello mediante le telecamere in uso) ma anche quelli commissivi consistenti nella specie
nell'ambigua indicazione, sollecitata dall'immediata lamentela del cliente relativa alla sottrazione
della carta, di tornare il giorno dopo per la riconsegna, sulla base di un ragionevole affidamento
della sua insottraibilità unita al suggerimento non univoco del blocco.
Del tutto ignorata, infine anche la circostanza del prelievo in misura molto superiore al plafond
contrattuale da ritenersi un ulteriore profilo di malfunzionamento del sistema da valutare ai fini di
un esame complessivo della diligenza professionale posta a carico della banca.
L'accoglimento del primo motivo determina l'assorbimento del secondo e la cassazione con rinvio
della sentenza impugnata. Il giudice del rinvio dovrà valutare se il comportamento della banca sia
in ordine al riscontrato difetto di manutenzione e custodia, sia in ordine alla condotta accertata del
responsabile presente nella sede della medesima, sia in ordine al prelievo largamente eccedente il
plafond giornaliero possano integrare il difetto di diligenza e art. 1176 c.c., comma 2, anche a
fronte del comportamento non osservante dell'obbligo contrattuale di non favorire la lettura del
PIN e di provvedere al blocco immediato.
PQM
P.Q.M.
La Corte, accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo.
Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del presente procedimento alla Corte
d'Appello di Cagliari in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 22 ottobre 2015.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2016
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