La bassa fecondità italiana: la bonaccia delle Antille? - UniFI
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La bassa fecondità italiana: la bonaccia delle Antille? SILVANA SALVINI 1. Premessa I comportamenti familiari e in particolare quelli fecondi della popolazione italiana sembrano ormai rispondere a connotati di grande staticità. Le generazioni si sono da tempo assestate su un numero di figli per donna molto al di sotto del livello di sostituzione e gli attuali trentenni sembrano preferire di gran lunga la permanenza presso la famiglia di origine piuttosto che affrontare i “rischi” di mettere su casa. Anche l’indipendenza economica e una relazione affettiva stabile non rappresentano più i soli requisiti per iniziare la formazione di una propria famiglia. In un racconto-apologo Italo Calvino (1957), riferendosi alla situazione di stallo in cui versava la politica italiana dell’epoca, densa di conflittualità latente e di una mancanza di sbocchi dialettici, racconta, attraverso i ricordi di un vecchio marinaio inglese, l’incontro-scontro di due galeoni, l’uno inglese e l’altro spagnolo, nei mari delle Antille all’epoca delle guerre di corsa e dell’Invincibile Armada. Malgrado i continui stimoli dei nipoti che vogliono strappare una “conclusione” (positiva per il galeone inglese!) alla narrazione del vecchio e insonnolito zio marinaio, il racconto si chiude senza né vinti né vincitori. Calvino suggerisce per bocca del marinaio solo possibili scenari (quello che si sarebbe potuto fare…ma con rischi!) ma i galeoni sembrano poter continuare a fronteggiarsi per l’eternità in un mare senza vento, di “calma piatta”. L’apologo non pare descrivere una situazione di immobilismo, bensì le attività sterili degli attori: i marinai spagnoli e quelli inglesi, il PCI e la DC nella metafora politica, che invece di portare a un evento, sia esso una vittoria o a una sconfitta, portano ad una stasi perenne…. E allora: gli attori protagonisti della congiuntura demografica italiana – le generazioni attualmente in età riproduttiva – si comportano come i galeoni immersi nella gran bonaccia delle Antille? E quali sono le componenti conflittuali, sociali e individuali, dei comportamenti relativi alla formazione delle unioni (ci si sposa sempre meno e più tardi, senza che peraltro si manifestino gli aspetti di disaffezione verso il matrimonio tipici della “seconda transizione demografica”) e alla natalità (si desiderano in media due figli, si ha poi un solo figlio a tutti i costi, ma difficilmente si passa al secondo)? Quali sono le cause per le quali la gioventù italiana non intraprende il cammino verso una condizione di autonomia, verso la formazione di nuovi nuclei familiari? Quali sono i rischi – reali o presunti – dell’abbandono di una situazione di “non scelta”? Accanto ai fattori economici (il costo del matrimonio, della casa di proprietà, dei figli desiderati di alta qualità) certo coesistono fattori psicologici relativi alla paura di alterare un equilibrio fatto di “non eventi”. Dalle indagini quantitative e qualitative svolte, a cominciare dalla Prima e dalla Seconda Indagine sulla fecondità in Italia (indicate con gli acronimi INF-1 e INF-2 e condotte rispettivamente nel 1979 e nel 1995-96), continuando fino alle nostre inchieste svolte in ambito urbano, si avverte che il desiderio di genitorialità permane inalterato anche nelle generazioni più recenti e anche per quelle donne che hanno investito molto in istruzione e che vogliono realizzare le loro aspirazioni di carriera. Ma se i figli sono desiderati, è la realizzazione dei desideri che sembra problematica per la maggior parte di loro. Dall’indagine INF-2 emerge il desiderio pressoché generalizzato di avere figli: ben il 98% delle 20-29enni intervistate dichiarano di volere figli. In media il numero desiderato di figli è pari a 2,1, valore molto superiore al Tasso di Fecondità Totale (TFT) degli ultimi anni (1,2-1,3). Nel corso della vita evidentemente cambiano le prospettive e il divario tra fecondità desiderata (ideale) e numero di figli avuto mostra i disagi della percezione soggettiva di non riuscire a affrontare le difficoltà economiche e di gestione di una famiglia relativamente numerosa. Ecco allora che le cause immediate della bassa fecondità possono riassumersi in due ordini di problemi: quello legato al costo (monetario e non solo) dei figli (figli che sempre più dovrebbero essere considerati un bene sociale, per la collettività e come tali sostenuti) e quello legato alla difficoltà per la donna di gestire i suoi ruoli, di lavoratrice e di madre, in una società in cui le strutture pubbliche non la supportano (e solo le reti di aiuti familiari intervengono ad aiutare, quando possibile) e in una famiglia caratterizzata da una forte disparità nella divisioni dei compiti fra i due partner (Salvini, 1999). In altri paesi europei (caratterizzati da una maggiore eguaglianza di genere e da un maggiore impegno dello stato nel supporto alle famiglie) l’autonomia economica femminile conseguente al sempre maggiore coinvolgimento della donna nel mercato del lavoro sembra favorire la fecondità, conferendo sicurezza economica anche in termini prospettivi. In Italia invece, la partecipazione della donna al mondo del lavoro, sempre più legata alla valorizzazione del capitale umano dipendente dall’aumento dell’istruzione, sembra ancora rivestire un ruolo deterrente, almeno in certi contesti e sotto certe condizioni. Sono questi connotati che, affiancati ad uno dei più bassi livelli di natalità mai registrati, fanno dell’Italia un caso particolare, sul quale conviene soffermarsi sia descrivendo i “numeri” attuali e futuri della popolazione, della sua struttura e dei suoi flussi di rinnovo, sia cercando di sintetizzare le possibile cause della sua staticità demografica. 2 2. I fattori esplicativi della bassa fecondità A parte lo schema esplicativo che si riferisce alla “teoria della transizione demografica”, che attribuisce l’evoluzione delle società europee a partire dalla fine del 19° secolo al processo di modernizzazione economico-sociale (Leibenstein, 1954; Notestein, 1953; Caldwell, 1982), una teoria generale ed unitaria della fecondità sembra mancare. Anche l’approccio interpretativo denominato “Seconda transizione demografica” (van de Kaa, 1987; 1988), teso a interpretare in chiave ideazionale i mutamenti familiari occorsi in Europa a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, non sembra risolutivo per inquadrare i fattori della lowest-low fertility (definita come un livello di TFT al di sotto di 1.3 figli per donna1) che ormai caratterizza gran parte dei paesi europei (Kohler, Billari e Ortega, 2001; 2002). Tale livello, sperimentato da Spagna e Italia già a partire dai primi anni Novanta (Livi Bacci e Delgado Perez, 1992), ha poi caratterizzato anche diversi paesi dell’Europa Centro-orientale ed è possibile che a questo gruppo di “precursori” altri paesi si aggiungano. Si tratta di paesi dalle caratteristiche culturali e socio-economiche molto diverse, le cui differenze e la cui eterogeneità interna non sembrano consentire l’individuazione certa di fattori comuni del processo. Ancora più difficile risulta dunque il tentativo di costruire una teoria della fecondità che valga in assoluto. Un recente approccio esplicativo della lowest low fertility sottolinea in primo luogo – seguendo il percorso di Ryder (1964) e più recentemente di Bongaarts e Feeney (1998), per l’Italia sviluppato da Santini (1974; 1995) – l’importanza del processo di rinvio delle nascite sperimentato dalla coorti (Kohler, Billari e Ortega, 2001; 2002). Proprio il ritardo con cui le diverse generazioni affrontano la maternità/paternità può infatti portare a distorsioni interpretative dei livelli della fecondità attuale. In teoria la maggiore età all’entrata in unione (e la conseguente più elevata età media alla prima nascita) potrebbe essere recuperata e le generazioni – con un inizio precoce o ritardato – potrebbero raggiungere lo stesso livello di fecondità (intensità finale). Tuttavia l’analisi condotta scomponendo il processo riproduttivo secondo la parità e stimando le tendenze per le coorti, ha dimostrato come spesso i meccanismi di rinvio non vengono seguiti da un recupero delle generazioni e come il ritardo si trasformi in rinuncia (Ongaro, 2002). In altri termini, il rinvio della formazione della famiglia in età relativamente avanzata può, per vari motivi, portare alla rinuncia della maternità (paternità) sia per motivi di minore fertilità sia per radicate abitudini ad un certo modo di vita (Livi Bacci e Salvini, 2000). E’ quindi sulle motivazioni al rinvio delle nascite delle coorti, legate in gran parte all’aumento dell’istruzione e alla conseguente crescente partecipazione lavorativa delle donne che si accentrano in particolare le ricerche sui fattori della bassa fecondità. Ma l’aumento del lavoro femminile, oltre 3 che a spostare in avanti nel ciclo di vita il processo fecondo (indirettamente incidendo sul numero di figli avuto) può agire direttamente sull’intensità del processo, aumentando la proporzione di donne che non desiderano figli o che comunque, pur desiderando vivere l’esperienza materna, realizzano il loro desiderio con un solo figlio. Per le donne italiane la difficoltà di conciliare un lavoro impegnativo extradomestico con una famiglia numerosa emerge, come vedremo in seguito, sia dalle ricerche condotte con dati a livello macro, sia dall’analisi dei dati individuali delle indagini ad hoc. La società italiana aggiunge al quadro definito di “sindrome del ritardo” sopra descritto e alle difficoltà derivanti dal tentativo di conciliare vita lavorativa e vita domestica alcuni tratti peculiari. In primo luogo, la rigidità con cui in Italia fattori individuali e di contesto condizionano le diverse tappe formative del ciclo di vita: fine degli studi, entrata sul mercato del lavoro, uscita dalla famiglia di origine, entrata in unione (quasi sempre il matrimonio), primo figlio (spesso l’unico). Assai legato a questa rigidità, causa e effetto ad un tempo, è il “costo” che il metter su famiglia comporta. Non appaiono per ora in Italia quei connotati di flessibilità, di duttilità e di elasticità con cui in altri paesi europei si esce dalla famiglia di origine per andare a vivere per conto proprio: per studiare, per lavorare, soprattutto per stare con un partner e per fare dei figli. In Italia la forma di unione largamente preferita è sempre il matrimonio – tardivo – e non la convivenza, e la fecondità avviene per la quasi totalità soltanto nel matrimonio (Rosina, 2001; Billari e Rosina, 2003; Salvini, 1999). Dal canto loro le famiglie italiane dimostrano poco entusiasmo nello spingere i figli “fuori dal nido”. Studi recenti svolti tenendo sotto controllo un gran numero di fattori, confermano che, quando i figli vanno a vivere per conto proprio, i genitori manifestano un peggioramento della salute e della qualità della vita (Mazzuco, 2003). A questi figli si attribuisce un valore-costo molto elevato che, in Italia, grava interamente sulla famiglia perché fino ad oggi sono stati scarsi gli incentivi per l’infanzia e per i giovani, non considerati un bene pubblico (Livi Bacci, 1997; 2001). Causa e conseguenza di questi fattori, è il fatto che i giovani sembrano in genere vivere in un contesto caratterizzato, rispetto ad altri paesi europei, da forti legami familiari, che certo non favorisce le scelte autonome di vita (Dalla Zuanna, 2001). Insomma gli eventi del ciclo di vita sono in Italia rigidamente prefissati, legati a decisioni molto ponderate, irrevocabili e troppo “costose” per i giovani adulti. La stasi dunque, la gran bonaccia delle Antille. In sintesi, i fattori della bassa fecondità italiana sono molteplici e riassumibili nella crescente età al matrimonio e nell’aumento della proporzione di chi non si sposa affatto; nella contenuta proporzione di unioni libere e nell’ancora più contenuta propensione ad avere figli fuori dal matrimonio; nel ritardo con cui si “transita” fuori dalla famiglia di origine; nella politica governativa caratterizzata da scarsi interventi a favore del mondo giovanile; nel mutamento del 4 ruolo femminile cui non corrisponde né un adeguamento della mentalità maschile verso una divisione dei compiti familiari e domestici né una risposta soddisfacente della società ai bisogni delle donne in termini di interventi per la conciliazione di famiglia e lavoro (De Sandre, 2000; Golini, 1999). La velocità con cui i processi di mutamento sociale hanno avuto luogo, rispetto ai paesi del Centro e del Nord-Europa, può essere vista come un fattore esplicativo determinante dei comportamenti fecondi in relazione alla non immediata reattività delle strutture e delle istituzioni sociali. Il risveglio politico dei giovani degli anni Sessanta e la forza cui si è imposto il movimento femminista nel decennio successivo hanno rappresentato il motore trainante di tutta una serie di cambiamenti normativi e culturali. Si ricorda la liberalizzazione della vendita dei contraccettivi: fino al 1971, quando fu abrogato dalla Corte Costituzionale, era ancora in vigore l'articolo 553 del Codice Penale, che vietava propaganda e uso di qualsiasi mezzo contraccettivo, punibile fino ad un anno di reclusione. La legge 405 del 1975 istituiva i consultori familiari, tra i cui scopi vi era anche quello di dare assistenza in materia di procreazione responsabile; tuttavia, anacronisticamente, solo un anno dopo il Ministero della Sanità avrebbe autorizzato la vendita degli anticoncezionali nelle farmacie. Un ulteriore passo verso la secolarizzazione dei costumi fu compiuto con la legge sul divorzio - Legge 1° dicembre 1970 n. 898: Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, seguita dal referendum abrogativo, svolto nel 1974, conclusosi con un “no” all’abrogazione – e, infine, con la legge sull’aborto, la legge 194 del 22 maggio 1978, che, nel 1981, ha superato anch’essa un referendum abrogativo. Questi provvedimenti legislativi hanno sancito i mutamenti rapidissimi della tessuto culturale italiano e, in pochissimo tempo, hanno contribuito a mutare i comportamenti degli Italiani senza che le strutture sociali si potessero adeguare al repentino processo di modernizzazione e di secolarizzazione (Livi Bacci, 1997; 2001). Così, i cambiamenti che in altri paesi europei di tradizione non cattolica avevano occupato quasi un secolo di storia, in Italia sono stati compressi in due-tre decenni. E le donne sono state le protagoniste del processo, con il loro ingresso su un mercato del lavoro poco flessibile, in una società “al maschile” anch’essa del tutto impreparata. In sintesi la struttura sociale è rimasta statica sotto tutti gli altri profili ed in particolare per quanto riguarda l’organizzazione del tempo familiare, scolastico, del lavoro e gli aggiustamenti, cui stiamo assistendo tuttora, si sono verificati molto lentamente e quasi a malincuore. La risposta in termini di riduzione del numero di figli era quasi dovuta. Sebbene uno schema teorico di riferimento complessivo sia quindi difficile da delineare, la letteratura sul tema che, come abbiamo avuto modo di sottolineare, è ormai vasta, e le precedenti indagini INF-1 e INF-2 hanno aiutato a “costruire” le ipotesi da verificare con la ricerca i cui risultati sono al centro di questo convegno. 5 Le indagini condotte nelle aree urbane di Udine, Padova, Firenze, Pesaro-Urbino e Messina hanno permesso di verificare alcune assunzioni “forti” sui fattori elencati e hanno aiutato a colmare certe lacune conoscitive sulle ragioni della bassa fecondità italiana (Dalla Zuanna, Salvini, 2001; Salvini, 2002). In particolare, una prima assunzione fa riferimento all’approccio della new home economics che, come base, sostiene la scambiabilità fra i figli (o meglio, il tempo impiegato per fare, accudire ed educare i figli) e il lavoro (o meglio, il tempo impiegato per lavorare). L’analisi delle modifiche nelle condizioni lavorative che sono coincise con la nascita dei figli hanno consentito di misurare come le scelte procreative siano entrate in competizione con le scelte professionali (Ongaro e Salvini, 2003). In seguito verrà ripreso questo punto, che rappresenta una chiave di volta per la spiegazione della bassa fecondità in Italia e che, malgrado i risultati ottenuti dai numerosi studi precedenti, abbisogna di approfondimenti anche alla luce del mutamento in atto sul mercato del lavoro (Salvini, 1985 e 1986; Rampichini e Salvini, 1999 e 2000). La seconda ipotesi parte dall’osservazione che i paesi in cui il sistema di genere nella famiglia è più bilanciato (ossia dove l’impegno dell’uomo verso il lavoro domestico e verso la cura dei figli è significativo), sono anche quelli in cui nascono più figli (Engelhardt et al., 2001; Kögel, 2001). In Italia – come in Spagna, in Grecia e in Giappone – le coppie paritarie sono ancora poco numerose, anche se in aumento specialmente nelle famiglie culturalmente più dotate. La coppia paritaria, dove la “doppia presenza” non è più soltanto riservata alla donna, sembra riuscire a “conciliare” meglio tempi lavorativi e tempi familiari Gli studi sviluppati sui dati derivanti dalle indagini svolte nelle nostre città per le donne lavoratrici hanno messo in luce che il carico di lavoro familiare, in situazioni di asimmetria dei ruoli di cura, è associato, a parità di altri fattori, ad una minore fecondità. Le coppie dove il padre appare più attivo nella cura dei figli e nell’organizzazione familiare evidenziano invece valori maggiori delle probabilità di aumento della parità. L’elemento più importante sembra la flessibilità, la capacità di adattamento e la disponibilità ad una, seppure parziale, redistribuzione dei compiti familiari e di cura dei figli da parte degli uomini, con una conseguente “doppia presenza” anche per gli uomini (Mencarini e Tanturri, 2003). Si è poi voluto rivolgere una particolare attenzione alle donne senza figli, le cui caratteristiche non sono state studiate spesso, forse perché – almeno fino ai nostri giorni – considerate un fenomeno di scarsa dimensione (Tanturri e Mencarini, 2003). Per le generazioni più recenti, tuttavia, si stimano quote crescenti di donne infeconde, circa il 15% per l’Italia nel complesso ma la quota è prevista aggirarsi intorno al 30% per alcune regioni del Nord. Per tentare di capire il processo decisionale che porta in pratica le persone alla rinuncia alla maternità/paternità, con le domande del questionario utilizzato nell’indagine abbiamo cercato di individuare quegli elementi di 6 eterogeneità dipendenti, per così dire, dalla effettiva volontà di rimanere senza figli. In questa ottica, l’analisi ha distinto le donne che non hanno voluto o potuto trovare un compagno con cui formare una famiglia da coloro che, invece, hanno avuto esperienza di coppia stabile. Un primo gruppo di donne è contraddistinto da decisioni precoci, che si sono mantenute nel tempo, di non procreare: le motivazioni alla mancanza della ricerca di avere un figlio sono collegate da un lato, all’instabilità di coppia, dall’altro alla valutazione dei costi di un figlio, sia in termini di tempo sia di costiopportunità. Un secondo gruppo non manifesta una effettiva volontà di non avere figli, rivelando piuttosto di avere rinviato la ricerca di un figlio. Ma tuttavia, per esse, il meccanismo di rinvio ha condotto, almeno al momento dell’intervista, alla rinuncia della maternità. Si tratta di un gruppo abbastanza eterogeneo e, di conseguenza, le motivazioni dei comportamenti sono diversificate, anche se la ragione prevalente risiede nel volere semplicemente passare un periodo in coppia senza figli e solo in posizione più arretrata troviamo le stesse motivazioni legate ai costi e alle rinunce di tempo già rilevate per le donne che fino all’inizio della vita di coppia non volevano aver figli. Sono ancora diverse infine, quanto a meccanismi motivazionali, le donne che hanno manifestato incertezze ma per le quali, alla fine, ha prevalso il “non avere figli” (Tanturri e Mencarini, 2003). 3. Le conseguenze della persistente denatalità Tuttavia, qualsiasi siano le cause della fecondità ben al di sotto della sostituzione generazionale, ne sono certe le conseguenze demografiche: un declino più o meno sostenuto della popolazione e un più o meno forte invecchiamento, entrambi fenomeni caratterizzati da una grande variabilità territoriale (Golini, 1999). Le possibili tendenze future della popolazione italiana sono riassunte dai risultati delle proiezioni al 2051 effettuate dall’ISTAT utilizzando – sull’esempio delle Nazioni Unite – tre ipotesi, caratterizzate da altrettante serie di parametri che disegnano scenari molto differenziati (alcuni risultati, a livello regionale, sono riportati nella tabella 1).2 Secondo l’ipotesi centrale, che descrive lo scenario più accreditato, la popolazione italiana diminuirà nei prossimi 50 anni del 10% (tabella 1). E anche se questo fenomeno può essere visto con favore da alcuni (una minore popolazione può significare una minore pressione demografica, un minore inquinamento, una minore congestione urbana, ad esempio), difficilmente le modifiche strutturali che certamente si verificheranno possono essere ritenute compatibili con un’evoluzione armoniosa della società. La questione non è quindi se in Italia si vivrebbe meglio con un numero minore di abitanti, ma piuttosto se un rapido declino demografico sarebbe sostenibile senza che la società ne uscisse impoverita, da un punto di vista bio-demografico, economico, sociale e politico. Un declino rapido, come quello che appare un destino inevitabile visto l’attuale profilo 7 demografico, comporterà infatti conseguenze certe e indesiderabili. Tra pochi decenni le donne con più di 80 anni saranno più numerose delle ragazze che si affacciano alla vita feconda, e quelle di oltre 70 anni eccederanno le donne al di sotto dei 30. Il rapido invecchiamento comporta necessariamente un ridimensionamento dei meccanismi dei trasferimenti intergenerazionali, il flusso di ricchezza che deriva da coloro che producono ricchezza (e saranno sempre meno) a favore di coloro che, in numero sempre crescente, non lavorano più. Probabilmente in una situazione sociale di questo tipo sarà enormemente difficile mantenere un alto tasso di produttività e di incremento dello sviluppo economico. Il sistema previdenziale potrebbe assorbire una fetta ancora più consistente del prodotto interno lordo e quindi potremo assistere a tutta una serie di ripercussioni che una struttura per età fortemente invecchiata porta sul sistema di welfare (ad esempio, in relazione all’aggravio per il sistema sanitario). La sindrome di una società vecchia, caratterizzata da immobilismo socio-politico, di una società cioè poco vivace e poco disponibile ai mutamenti, sta sollevando quindi da tempo grande allarme sul problema delle “culle vuote”, sia fra gli scienziati sociali sia in ambito politico e decisionale (Livi Bacci e Salvini, 2000). Come avremo occasione di sottolineare più volte nel seguito di questa relazione, l’Italia, che assieme alla Grecia e alla Svezia mantiene il record di nazione europea con la maggiore presenza di anziani (il 18% circa del totale complessivo della nostra popolazione ha almeno 65 anni), è caratterizzata da una grande variabilità territoriale di comportamenti demografici, e la diversa storia della fecondità generazionale sulla quale ci soffermeremo in seguito ha condotto anche a diversi livelli di invecchiamento regionali. Nelle regioni centro-settentrionali, dove il declino della fecondità si è verificato prima ed è stato più veloce (il numero medio di figli per donna attuale è circa 1), ogni 100 bambini ci sono 200 genitori. Di fronte ad un tale squilibrio nei “numeri” delle generazioni, per mantenere un precario equilibrio economico e quindi il funzionamento delle società, durante una generazione ogni giovanissimo dovrebbe prendere il posto di due adulti e questo nel campo produttivo, nel mercato del lavoro, nelle attività sociali e culturali, oltre che nelle relazioni familiari. Ma difficilmente il meccanismo potrà continuare a funzionare nel campo dei servizi, in particolare in campo sanitario e di cura. Le sfide più ardue che dovranno affrontare i nuovi nati riguarderanno il riequilibro della numerosità delle generazioni future - compromessa nelle loro famiglie di origine (di cui loro rappresentano il “figlio unico”) - e dall’operare in un mondo estremamente competitivo, in un mercato del lavoro dove saranno probabilmente sempre più in diminuzione quelle categorie di “lavoro stabile” che hanno rappresentato il mito (ed il rifugio) delle generazioni produttive attuali. 8 Tabella 1 – Ammontare della popolazione delle regioni italiane al 2001 e al 2051, secondo l’ipotesi media configurata dall’ISTAT Regioni Piemonte Valle D’Aosta Lombardia Trentino Alto Adige Veneto Friuli Venezia Giulia Liguria Emilia Romagna Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna ITALIA N. Indice 2001=100 Popolazione Indice di vecchiaia 2001 2051 * 2001 2051 * 4289731 3635474 172 343 120589 115817 148 339 9121714 8627733 135 338 943123 1005285 105 285 4540853 4373678 135 356 1188594 1026071 189 370 1621016 1170018 239 423 4008663 3870589 194 387 3547604 3126853 190 375 840482 814425 184 323 1469195 1449996 167 332 5302302 4986565 123 272 1281283 1213099 141 284 327177 269314 145 310 5782244 5142355 73 221 4086608 3428074 90 267 604807 480480 114 265 2043288 1645685 98 244 5076700 4278483 92 209 1648044 1230453 110 407 57844017 51890447 127 301 100 90 L’indice di vecchiaia (Iv) calcolato per le diverse regioni ci offre in qualche caso uno scenario davvero preoccupante: se oggi in Liguria, la regione italiana con il livello di invecchiamento più elevato (come vedremo questo primato è consolidato dal minimo livello di fecondità, 0,9 figli per donna) ci sono 239 anziani per ogni giovane di età inferiore ai 15 anni, fra 50 anni ce ne saranno oltre 400; e la Campania, attualmente fra le poche regioni italiane dove i giovani superano gli anziani e che presenta il migliore rapporto giovani-anziani, mostrerà all’incirca i rapporti attualmente esistenti fra le generazioni della Liguria. Secondo l’ipotesi intermedia, solo 7 regioni su 20 avranno un Iv minore di 300 anziani ogni 100 giovani e, oltre alla Liguria, anche la Sardegna, che dimostra il declino più recente ma assai più rapido della fecondità fra le regioni italiane, assisterà ad un rapidissimo invecchiamento (oltre 400 anziani per 100 giovani). Dato il ritardo con cui le generazioni hanno iniziato la rincorsa verso il declino della fecondità e il passo accelerato con cui il declino è proseguito verso i livelli bassissimi attuali (TFT=1 figlio per donna), la Sardegna è infatti la regione in cui il processo di invecchiamento, per adesso contenuto (Iv=110), subirà l’incremento più marcato. 9 4. L’Italia in Europa L’Italia non è certo l’unico paese a dover fronteggiare le conseguenze del declino delle nascite ma è fra i pochi nei quali ancora non appaiono sicuri cenni di inversione di tendenza e dove la fecondità sembra essersi stabilizzata su livelli molto bassi, pari a poco più di un figlio per donna. In alcune città appaiono deboli segnali di ripresa, spesso attribuibili alla presenza sempre più massiccia di immigrate a fecondità più elevata (Dalla Zanna e Crisafulli, 2001; Mencarini e Magherini, 2001) ma le evidenze sono ancora sporadiche e non consentono di trarre conclusioni affrettate. La situazione italiana va pertanto inquadrata in un contesto più ampio, che può forse suggerire alcune considerazioni interpretative. Nel 1995 metà della popolazione mondiale viveva in paesi a bassa fecondità, con valori del TFT al di sotto dei 2,5 figli per donna. La maggior parte di questa popolazione presenta una fecondità al di sotto del livello di sostituzione generazionale (circa 2,1), e il 15% del totale mondiale vive in paesi con un TFT al di sotto di 1,8 (Bongaarts e Bulatao eds., 2000). Una buona parte di essi, definiti a “fecondità post-transizionale” o, come già ricordato in precedenza, caratterizzati da livelli di “lowest-low fertility” (TFT pari a 1,2-1,3 figli per donna), si trova in Europa e fra i precursori del processo i paesi della Riva Nord del Mediterraneo spiccano per precocità. Consideriamo quindi le tendenze generali della fecondità italiana rispetto agli altri paesi europei e, in particolare, nell’ambito dell’Europa mediterranea. A partire dal secondo dopoguerra i tassi di fecondità di periodo evidenziano, in Italia come negli altri paesi europei, un arresto nella caduta e un rialzo tra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta (il cosiddetto baby-boom); successivamente, continuano a diminuire in maniera consistente, tanto da dimezzarsi, per alcuni paesi come l’Italia, all’inizio del nuovo millennio (tabella 2). Il rialzo dei valori del TFT della metà degli anni ‘60 rappresenta in genere un effetto di cadenza (con l’eccezione di alcune regioni, fra le quali l’Italia del Centro-Nord dove il TFT delle basse parità manifesta un’evidente tendenza alla crescita, parallelamente al baby boom, Santini, 1995), frutto dell’anticipo della procreazione a seguito di una maggiore precocità della nuzialità. Dopo la metà degli anni Sessanta il fenomeno si inverte e c’è una continua riduzione di fecondità, in Italia e in Europa, in parte legata ad un continuo rinvio del matrimonio e della prima nascita (Livi Bacci e Salvini, 2000). Secondo i tassi di periodo, quindi, molti sono i paesi europei che, come l’Italia, hanno raggiunto, e mantenuto, i più bassi livelli di fecondità registrati per popolazioni nazionali. Recentemente il declino sembra essersi arrestato per alcuni paesi del Centro e del Nord-Europa: Danimarca, Finlandia, Francia, Olanda e Norvegia possono vantare un valore del tasso di fecondità 10 più vicino al livello di sostituzione delle generazioni, seguite da Gran Bretagna e Belgio, mentre i paesi mediterranei si situano all’estremo inferiore della graduatoria, con la Germania. L’intensità della fecondità complessiva delle generazioni non appare soggetta a oscillazioni e, seppure con un andamento più moderato, continua a diminuire, anche se in qualche caso si avvicina molto al livello di rimpiazzo generazionale o, come in Svezia, lo raggiunge (tabella 3). L’andamento dipende certamente dalla netta diminuzione delle parità elevate, ma anche la propensione al 2° figlio sembra evidenziare – per molti paesi – un declino non indifferente (Freika et al., 2001). Tabella 2 – Tassi di fecondità totale di periodo per alcuni paesi del Consiglio d’Europa e per gli anni indicati 1965 Austria 2,71 Belgio 2,62 Danimarca 2,61 Finlandia 2,48 Francia 2,84 Germania 2,50 Gran Bretagna 2,86 Grecia 2,25 Islanda 3,79 Irlanda 4,03 ITALIA 2,66 Olanda 3,04 Norvegia 2,95 Portogallo 3,15 Spagna 2,94 Svezia 2,42 Svizzera 2,61 Fonte: Consiglio d’Europa, 2001 1975 1,83 1,74 1,92 1,68 1,93 1,48 1,81 2,32 2,65 3,43 2,21 1,66 1,98 2,75 2,79 1,77 1,61 1985 1,47 1,51 1,45 1,64 1,81 1,37 1,79 1,67 1,95 2,48 1,42 1,51 1,68 1,72 1,64 1,74 1,52 1995 1,40 1,55 1,80 1,81 1,71 1,25 1,71 1,32 2,08 1,84 1,20 1,53 1,87 1,40 1,18 1,73 1,48 1999 1,32 1,61 1,73 1,74 1,79 1,36 1,68 1,28 1,99 1,88 1,23 1,65 1,84 1,49 1,20 1,50 1,48 2000 1,34 1,66 1,77 1,73 1,89 1,36 1,65 1,29 2,08 1,89 1,23 1,72 1,85 1,52 1,24 1,54 1,50 N. Indice 1965=100 50 64 68 70 67 54 58 57 55 47 46 57 63 48 42 64 57 Tabella 3 – Discendenza finale delle generazioni nate a partire dal 1930 per alcuni paesi europei 1930 1935 1940 1945 1950 1955 1960 1965 Austria 2,32 2,45 2,12 1,96 1,87 1,76 1,69 1,61 Belgio 2,29 2,27 2,16 1,93 1,83 1,83 1,84 Danimarca 2,36 2,38 2,24 2,06 1,91 1,84 1,90 1,91 Finlandia 2,46 2,29 2,04 1,88 1,86 1,90 1,95 1,90 Francia 2,63 2,57 2,41 2,22 2,11 2,13 2,10 1,99 Germania 2,18 2,16 1,97 1,80 1,72 1,67 1,65 1,51 Irlanda 3,50 3,20 3,28 3,04 2,67 2,41 Italia 2,31 2,30 2,15 2,08 1,91 1,83 1,69 1,48 Olanda 2,67 2,49 2,22 2,00 1,89 1,87 1,85 1,76 Norvegia 2,48 2,57 2,45 2,21 2,09 2,05 2,09 2,07 Portogallo 2,94 2,88 2,66 2,42 2,08 2,04 1,90 1,83 Spagna 2,44 2,14 1,90 1,76 Svezia 2,12 2,14 2,05 1,98 2,00 2,03 2,04 1,96 Svizzera 2,18 2,18 2,08 1,86 1,79 1,75 1,77 1,65 Fonte: Consiglio d’Europa, 2001; per l’Italia, Santini, 1995. 11 Nell’ambito dei paesi Mediterranei, la situazione della Spagna, della Grecia e del Portogallo (che a rigore non è un paese che si affaccia sul Mediterraneo ma che a quest’area viene spesso associato per fattori culturali) è molto simile a quella italiana, sia in termini di cadenza della prima nascita, (tabella 4), sia in termini di intensità in relazione ai passaggi di parità (Tabella 5), anche quando si disaggregano le donne secondo il livello di istruzione (Mencarini e Salvini, 2002). Il confronto con la Francia, che evidenzia una più alta probabilità di passaggio alle parità superiori, rende conto dell’effetto del ruolo che i figli terzogeniti hanno sulla discendenza media. Tabella 4 – Età mediana delle madri al primo parto secondo l'età all'intervista e il livello di istruzione, in alcuni paesi europei del Mediterraneo, dati delle indagini Fertility and Family Surveys (FFS) ITALIA FRANCIA SPAGNA PORTOGALLO Istruz. Istruz. Nessuna Istruz. Nessuna Istruz. Nessuna Età Nessuna o medio/alta medio/alta o bassa medio/alta o bassa medio/alta o bassa all’int. bassa istruz istruz istruz istruz < 30 22,2 25,8 21,8 26,3 20,8 25,8 21,7 25,7 30-39 21,7 26,4 22,1 25,3 23,1 25,8 22,0 25,8 40-49 23,2 25,6 22,2 24,7 24,7 25,2 23,1 25,8 Fonte: Mencarini e Salvini, 2002, lavoro svolto nell’ambito del progetto comparativo n. 91 approvato dall’Advisory Group del programma FFS. Tabella 5 - Proporzione di donne che raggiungono la parità successiva entro 60 mesi dalla nascita precedente (*) Parità Classe d'età Unione – 1° figlio < 30 ITALIA Nessuna o Istruz. bassa medio/alta istruz 88 58 FRANCIA Nessuna Istruz. o bassa medio/alta istruz 70 40 SPAGNA Nessuna o Istruz. bassa medio/alta istruz 83 55 PORTOGALLO Nessuna o Istruz. bassa medio/alta istruz 81 58 30-39 40-49 92 91 78 86 82 85 65 74 92 93 82 88 91 91 83 85 1°-2° < 30 30-39 40-49 67 70 64 56 48 52 70 65 61 48 54 53 56 61 69 39 55 68 38 46 55 25 34 50 2°-3° < 30 30-39 40-49 55 21 30 14 14 17 50 45 45 33 30 27 37 26 33 11 17 24 26 25 28 9 11 10 (*) Stime dall'analisi di tavole di sopravvivenza su dati FFS. Fonte: Mencarini e Salvini, 2002. Tuttavia, se i livelli di fecondità europea presentano caratteri percettibili di convergenza, non accade lo stesso in relazione agli altri aspetti della formazione della famiglia, che in Italia mantiene ancora alcuni tratti per così dire “tradizionali” a differenza di quanto accade nella maggioranza dei paesi Europei nei confronti di quella che è stata denominata “Seconda transizione demografica” (Lestaeghe, 1992; van de Kaa, 1987; 1988). Questo processo sembra caratterizzato non solo da una sempre maggiore propensione delle popolazioni europee a vivere in forme familiari alternative a 12 quelle coniugali, quali la convivenza stabile senza alcuna formalizzazione dell’unione con il matrimonio, ma anche da una crescente quota di unioni che si sciolgono per separazione e divorzio e che spesso conducono alla formazione di nuovi nuclei familiari. E’ importante rilevare come in Italia non sia in crisi il modello “ideale” della famiglia, perché il matrimonio rimane un’istituzione molto salda e il numero desiderato di figli, come negli altri paesi europei è di oltre due (De Sandre et al., 1997). Tuttavia ci si sposa sempre di meno e, a differenza della maggior parte dei paesi europei, i matrimoni non sono “rimpiazzati” da una forte propensione alla coabitazione e i figli (molto meno di due) nascono comunque sempre all’interno dell’unione coniugale. Possiamo forse ravvisare in questi comportamenti (che soprattutto si adattano ai comportamenti delle coppie che vivono nell’Italia meridionale) un modello dove le relazioni familiari sono ancora “forti” e le reti di supporto parentali sostengono un modello di società civile più debole rispetto alle realtà nord-europee (Micheli, 2000; Reher, 1998). D’altra parte anche la Spagna e il Portogallo – con connotati e percorsi storici della famiglia simili alle nostre regioni meridionali - presentano maggiori proporzioni di coppie conviventi “sans papier”. In sintesi, quindi, in Italia il matrimonio-istituzione “ tiene”, ma i matrimoni sono sempre meno e sempre più tardivi. Anche se nelle città del Centro Nord indagate nella ricerca le unioni di fatto sono crescenti, queste rappresentano l’anticamera del matrimonio (tardivo), dove si realizza la fecondità (sempre più tardi quindi). Sorge spontanea una domanda: accanto ai fattori sopra ricordati, la fecondità in Italia (rispetto ad altri paesi del Centro e Nord-Europa) è così bassa perché la “fecondità fuori del matrimonio” non ha rimpiazzato quella “all’interno del matrimonio” (Billari e Rosina, 2003)? I dati delle aree urbane da noi indagate non smentiscono questa ipotesi, anche se ci pare di poter individuare nel Centro-Nord alcuni indizi di comportamenti “precursori” del modello Europeo. Sebbene non in maniera marcata, queste nuove situazioni di coppia emergono in particolare a Udine e a Firenze, dove “solo” l’83% delle donne intervistate ha dichiarato di vivere con il marito (contro il 90% delle altre città). A Udine quasi il 9% delle donne dichiara di avere una relazione stabile o di convivere con un compagno e ancora il 7% rivela di non avere, al momento dell’intervista, una relazione stabile. A Firenze quasi il 9% si conferma “attualmente single”, e coloro che hanno un compagno sono l’8%. Nelle altre città, soprattutto Messina, le quote di conviventi sono trascurabili. In questo caso Firenze e Udine evidenziano il comportamento “meno ortodosso” e più aderente al clima laico che le contraddistingue rispetto alle altre città, confermato anche dalla marcata quota di matrimoni sciolti (16%). I dati, molto parziali, sottolineano, ancora una volta, le differenze marcate fra le città del Nord e del Sud. 13 5. L’Italia o le Italie? Nord e Sud a confronto Si sono già anticipati alcuni aspetti che descriveremo adesso con un maggiore dettaglio. Nelle regioni del Centro-Nord, dove si intravedono alcuni tratti precursori del modello familiare europeo (maggiore quote di conviventi, maggiore propensione al divorzio), nonostante la tendenza crescente delle donne senza figli, il figlio unico sembra un obiettivo prioritario, mentre nel “più tradizionalista” Sud il modello familiare preferito sembra essere rappresentato dai due figli (figura 1) (ISTAT, 1997, Santini, 1995). Dovunque si osserva un rinvio marcato del processo fecondo, come si è già sottolineato (figura 2) e dovunque, anche al Sud, le famiglie numerose (le “alte parità”) rappresentano ormai delle eccezioni. Figura 1 – Discendenza finale per grande ripartizione - Coorti 1920-1963 (per 1000 donne) 3500 3000 2500 Nord Centro Sud Italia 2000 1500 19 62 19 60 19 58 19 56 19 54 19 52 19 50 19 48 19 46 19 44 19 42 19 40 19 38 19 36 19 34 19 32 19 30 19 28 19 26 19 24 19 22 19 20 1000 Coorti Fonte: elaborazioni da Santini (1995) Nel Nord, il 50% delle donne nate nei primi anni Sessanta o non ha figli (20%) o ne ha solo uno; molte più donne, nelle coorti più giovani, termineranno la loro vita feconda con un solo figlio rispetto a quante ne avranno due o più. Nel Sud, il modello prevalente è quello di almeno due figli per donna. Da notare che il divario Sud-Nord è demografico ma anche sociale e economico: una maggiore diffusione dell’istruzione femminile e della partecipazione al mercato del lavoro 14 ed un reddito più elevato e maggiori consumi nel Nord, tassi di attività più bassi, così come lo standard di vita medio, nel Sud. Figura 2 – Età media al parto per grande ripartizione - Coorti 1920-1963 29,5 29,0 28,5 Età media 28,0 Nord Centro Sud Italia 27,5 27,0 26,5 26,0 25,5 19 33 19 35 19 37 19 39 19 41 19 43 19 45 19 47 19 49 19 51 19 53 19 55 19 57 19 59 19 61 19 63 25,0 Coorti Fonte: elaborazioni da Santini (1995) Tra le coorti nate negli anni ‘20 e ‘30 l’andamento della fecondità italiana appare continuamente decrescente a causa essenzialmente della tendenza al continuo declino del Sud, e della stagnazione su bassi livelli del Nord e del Centro. Con le coorti nate negli anni 50 e 60 il declino è molto rapido e riguarda tutte le ripartizioni (figura 1). Mentre nel Nord e nel Centro tutte le coorti descritte si situano al di sotto del livello di rimpiazzo, per il Sud la soglia riguarda le sole coorti nate a partire dagli anni 60 e, sebbene si assista ad un processo di “avvicinamento” sui livelli di bassa fecondità del Nord, anche per le regioni meridionali sussistono ancora differenze. L’età media al parto descrive un ringiovanimento del processo fino alle coorti nate negli anni 40 per poi iniziare un rapido incremento testimone del processo di rinvio che non è ancora terminato (figura 2). Ma anche le ripartizioni presentano una grande eterogeneità al loro interno e i dati di periodo (aggiustati dell’effetto cadenza) e l’intensità delle coorti delle regioni italiane lo evidenziano (tabella 6). Abbiamo scelto di esaminare l’andamento delle regioni Friuli, Veneto, Toscana, Marche e Sicilia dove le indagini svolte in questa ricerca trovano un riferimento naturale. L’aggiustamento (“deperiodizzazione”) porta ad osservare – dal 1970 in poi – valori “liberi” dalla componente temporale decisamente più elevati dei tassi di periodo, che risentono del rinvio delle nascite. La componente di intensità “aggiustata” appare quindi più vicina alle stime per coorte di quanto accade 15 per i valori di periodo. Ad esempio, in Friuli il valore del numero medio di figli della coorte nata nel 1966 è pressoché identico a quello del tasso aggiustato del 1996 (1111 e 1122 rispettivamente figli per 1000 donne), l’anno in cui la coorte del 1966 raggiunge l’età media al parto, mentre il TFT non “deperiodizzato” è molto più basso (975 per 1000 donne). Calcoli analoghi svolti per la Sicilia confermano come la considerazione dell’effetto di cadenza conduca ad una valutazione della fecondità più vicina all’intensità delle generazioni: il TFT “aggiustato” è pari a 1725 nel 1996 contro il valore osservato pari a 1468 e la fecondità finale stimata per la generazione nata nel 1966 è di 1770 figli per 1000 donne. Tabella 6 - Indici di fecondità per le regioni italiane "sedi" della ricerca Regioni 1952 1960 1970 1980 1990 1996 Friuli Veneto Toscana Marche Sicilia 1751 2366 1644 2013 2961 1906 2434 1789 2027 3150 2027 2391 1953 2113 2897 1249 1453 1315 1519 2218 1029 1160 1083 1230 1853 975 1101 995 1085 1468 Regioni 1952 1960 1970 1980 1990 1996 Friuli Veneto Toscana Marche Sicilia 1918 2442 1782 2053 3000 1860 2282 1783 1966 2802 1741 2028 1741 1878 2540 1527 1698 1543 1702 2257 1288 1432 1335 1501 1958 1122 1259 1230 1399 1725 Regioni 1924 1932 1942 1952 1962 Friuli 1859 1858 1758 1591 1307 1-2 figli 1435 1476 1497 1449 1203 3+ 424 382 261 142 104 Veneto 2320 2299 2047 1729 1415 1-2 figli 1514 1604 1597 1512 1270 3+ 806 695 449 217 145 Toscana 1734 1762 1804 1562 1333 1-2 figli 1387 1469 1579 1445 1242 3+ 346 293 216 117 91 Marche 1988 1934 1902 1730 1431 1-2 figli 1471 1516 1579 1555 1300 3+ 517 417 323 175 131 Sicilia 2867 2815 2578 2223 2061 1-2 figli 1539 1603 1657 1641 1642 3+ 1328 1212 921 582 419 (*) Discendenza finale per coorte (Anno - 28), complessiva e relativa alle parità 1-2 e 3+ (in corsivo). Solo per l’ultima coorte l’età media considerata è pari a 30 anni Fonte: elaborazioni da Santini (1995) 1966 1111 1028 83 1253 1136 117 1160 1087 76 1332 1225 107 1770 1482 288 a) TFTM b) TFTM deperiodizzato c) DFC (*) Il mutamento di fecondità osservato distinguendo secondo la bassa parità (1-2 figli) e alta parità (3+) sottolinea, in particolare in Friuli e in Toscana, non solo i livelli trascurabili di figli di 3° ordine, ma anche la diminuzione che le generazioni hanno sperimentato alle basse parità. Un ulteriore dettaglio, offerto dall’esame delle probabilità di accrescimento della parità (tabella 7), conferma quanto già detto sull’esistenza di diversi modelli di fecondità fra Centro-Nord e Sud. In 16 particolare le donne toscane e friulane scelgono in proporzione sempre inferiore di “passare” alla parità 2. Per l’ultima generazione considerata la probabilità stimata di avere il 2° figlio è minore di 0,5 contro lo 0,85 della Sicilia. Tabella 7 – Probabilità di accrescimento della parità per coorte nelle regioni italiane "sedi" della ricerca Regioni Coorti 1924 Parità Friuli 0-1 0,850 1-2 0,688 Veneto 0-1 0,843 1-2 0,796 Toscana 0-1 0,849 1-2 0,634 Marche 0-1 0,829 1-2 0,774 Sicilia 0-1 0,820 1-2 0,877 Fonte: elaborazioni da Santini (1995). 1932 1942 1952 1962 1966 0,854 0,728 0,891 0,800 0,890 0,650 0,842 0,801 0,833 0,923 0,861 0,738 0,872 0,832 0,952 0,659 0,859 0,839 0,858 0,932 0,909 0,594 0,887 0,703 0,924 0,563 0,900 0,737 0,863 0,902 0,786 0,529 0,789 0,609 0,818 0,518 0,822 0,652 0,886 0,853 0,693 0,483 0,715 0,589 0,732 0,483 0,770 0,590 0,851 0,740 Le regioni, abbiamo detto, sono quindi eterogenee nei confronti delle modalità di declino e uno dei motivi di questa non uniformità – sul quale appare interessante soffermarsi – dipende dal diverso ruolo e dalle diverse opportunità delle donne sul mercato del lavoro. 6. Ancora sui fattori della bassa fecondità: il lavoro femminile e i vincoli del “contratto di genere” Riprendiamo il nostro racconto-apologo, la metafora che ci fa riflettere sul rinvio (e poi sulla mancanza) degli eventi demografici che oggi caratterizza le generazioni recenti. Le giovani donne oggi studiano a lungo, e per molte di loro il percorso di studio è anche più lungo e gratificante di quanto sia quello dei loro compagni maschi. Un tale investimento in capitale umano comporta, ovviamente, il desiderio di svolgere un’attività lavorativa soddisfacente, sia in termini di corrispondenza alle specializzazioni ottenute nel periodo di formazione, sia in termini economici e di prospettive di carriera (del resto l’effetto dell’investimento in capitale umano appare confermato dal diverso modello di fecondità, in termini di cadenza e intensità, delle donne intervistate nelle indagini FFS ed analizzate secondo il livello di istruzione, cfr. ancora tabelle 4 e 5). Difficilmente per queste ragazze l’orizzonte immediato si concilia con il matrimonio e con l’avere dei figli. Questi obiettivi, che pure rivestono un’importanza fondamentale per la propria realizzazione e la propria felicità, vengono posposti e l’affettività contenuta in una sorta di limbo provvisorio, mosso, al più, da un solo figlio nel tentativo di conciliare, in una società poco amichevole e in unioni poco 17 paritarie, entrambi i ruoli cui le giovani non vogliono rinunciare, anche se talvolta a prezzo di grandi sforzi e di rinunce del tempo personale. La calma piatta delle Antille è il risultato quindi di forze contrastanti, di aspirazioni limitate da ostacoli di diversa natura che possono tradursi in “non eventi”, in un’apparente pigrizia dei comportamenti che, tuttavia, le giovani donne, interrogate sulle loro esperienze e sui loro desideri, rinnegano con forza (Piazza, 2003). Il dilemma (la scelta di non scegliere) è rappresentato questa volta dalla non scelta/scelta “vincolata” (soprattutto dalle scelte professionali) di avere un (altro) figlio, che spesso si risolve a favore del non evento. Anche a livello complessivo, l’analisi delle serie storiche della componente di periodo dei TFT e dei tassi di attività femminili per le diverse regioni italiane ha confermato la generale relazione negativa fra i due fenomeni (Gottard, Salvini, Santini, 2003). Contrariamente agli altri paesi europei, dove di recente si è assistito ad un’inversione di tendenza, il lavoro rappresenta ancora in Italia un fattore deterrente all’avere figli, e la differenza di segno negli andamenti delle due variabili è stata interpretata come la conseguenza sia della cronica mancanza di servizi per l’infanzia e di strumenti per la conciliazione famiglia-lavoro, sia della disparità di genere che caratterizza i ruoli di cura e di assistenza nella famiglia italiana. Negli altri paesi, specie al Nord e Centro Europa, infatti, uomini e donne che lavorano per il mercato si dividono in maniera più egualitaria i compiti domestici e questo comportamento sembra di fatto favorire, assieme al riconoscimento sociale della genitorialità, la ripresa della fecondità proprio in presenza di andamenti positivi dell’economia e quindi di tassi di attività femminili crescenti (Engelhardt et al., 2001). D’altra parte, studi a livello micro hanno fatto rilevare una serie di legami molto complessi fra percorsi lavorativi e scelte procreative, anche se in generale hanno confermato la relazione negativa fra fecondità e lavoro della donna (Salvini, 1985 e 1986; Drovandi, 1999; Gottard e Moro, 1999; Rosina, 1999; Tanturri, 2001). I risultati dell’analisi delle biografie parallele raccolte con l’INF-2 (che tiene conto di vari fattori socio-economici che mutano nel corso della vita) appaiono nettamente distinti per il Nord e per il Sud dell’Italia. Nelle regioni del Centro-Nord la relazione fra la probabilità di avere un figlio e storia lavorativa mette in luce che, per qualsiasi ordine di nascita, non aver mai lavorato o appartenere alla categoria delle insegnanti aumenta la probabilità di avere un figlio per l’intero periodo di esposizione, così confermando che la condizione non professionale o un lavoro sicuro ma con orario meno impegnativo facilitano l’avere figli. Il contrario avviene, ma solo per quanto riguarda il secondo figlio, per le operaie e le impiegate, rivelando che lavori meno flessibili, anche se non rappresentano un ostacolo a diventare madre, possono deprimere la probabilità di una seconda nascita. Il Sud appare molto più omogeneo per quanto riguarda gli effetti della storia lavorativa, che non riveste un ruolo significativo sulla probabilità di avere un figlio (Rampichini, Salvini, 1998 e 1999). 18 Poiché con le indagini svolte a Udine, Padova, Firenze, Pesaro e Messina si sono confermati i legami negativi fra scelte feconde e scelte lavorative, si è cercato di approfondirne l’interpretazione. A titolo di esempio, riportiamo nella tabella 8 alcuni risultati descrittivi. Nel passaggio al 2° figlio, tutte le città indagate mostrano che le proporzioni di chi “transita” sono al di sotto della media per le donne che hanno lavorato dopo il primo figlio, mentre coloro che non lavoravano in quel periodo hanno avuto il 2° figlio in misura maggiore. Solo Messina evidenzia differenze positive rispetto alla media (per chi non ha lavorato) e differenze negative (per chi ha lavorato) meno squilibrate fra i due gruppi. Le altre città, a fronte di differenze negative contenute, mostrano valori positivi più elevati (Ongaro, Salvini, 2003). Tabella 8 - Proporzione di donne con 1 figlio che “transita” al 2° figlio secondo il luogo di residenza e il lavoro dopo il 1° figlio Donne che: Hanno lavorato dopo il primo figlio Non hanno lavorato dopo il primo figlio Totale Udine 72,5 83,3 74,7 Padova Firenze Pesaro Messina Totale 77,2 71,3 77,7 88,0 76,4 84,6 77,7 87,9 94,0 87,7 78,6 72,5 79,9 91,2 79,4 L’approfondimento dell’analisi ha portato ad alcune riflessioni. In primo luogo la maggior parte delle donne che vivono nelle città indagate cerca di portare avanti sia la carriera lavorativa sia quella materna (Figura 3). Fra le donne con 2 figli questo gruppo è nettamente dominante, seguito (a distanza) da coloro che invece non hanno mai lavorato, dimostrando così che in Italia sono minoritarie le carriere che prevedono interruzioni e riprese dell’attività lavorativa. Altri gruppi di un certo rilievo sono rappresentati da un lato dalle donne a “soglia 2” che hanno “deciso” che il lavoro si può conciliare con la maternità ma che con il 2° figlio non è più possibile farlo e, dall’altro, dalle “mamme a tempo pieno”, coloro cioè che hanno interrotto l’attività lavorativa quando sono diventate madri senza riprendere poi il lavoro. Infine, con un comportamento in controtendenza rispetto alle ipotesi fatte, ci sono le donne che hanno iniziato a lavorare dopo la nascita del 1° figlio, forse per necessità di integrare il reddito familiare: Messina è la città in cui tale figura è più frequente. 19 Figura 3 - Carriera lavorativa delle donne fino al secondo figlio e secondo la parità finale 70 60 50 40 30 20 10 0 Sempre lavorato Soglia 2 Mamme t.p. Carriera in sequenza 2 figli Bisogno soldi Casalinghemamme Il caso? Prima mamma poi lavoro 3 + figli Le donne con 3 o + figli presentano, relativamente, una minore variabilità di percorsi. La stragrande maggioranza si ripartisce tra coloro che hanno sempre svolto un’attività lavorativa anche dopo la nascita del 3° figlio (una quota comunque inferiore rispetto alle donne con 2 figli), e coloro che, al contrario, non hanno mai lavorato. Di un certo rilievo sono anche il gruppo delle donne che smettono di lavorare con la nascita del 1° figlio e quello di coloro che interrompono la carriera lavorativa dopo la nascita del 3° (“Soglia 3”, forse da considerarsi una soglia per l’inconciliabilità). Un ulteriore elemento di riflessione deriva dai risultati dell’analisi dei passaggi di parità in funzione del lavoro che precede le nascite: in tutte le città esaminate le donne lavoratrici mostrano una minore propensione ad avere figli di ordine superiore al primo. I modelli di sintesi, dove sono tenute sotto controllo altre caratteristiche individuali e familiari relative sia a dati oggettivi, quali livello di istruzione e occupazione del partner, sia ad atteggiamenti valoriali, confermano tale risultato. Di fatto, l’occupazione riduce significativamente il rischio di “transitare” dal 1° al 2° figlio, e dal 2° al 3°. Tuttavia un’analisi più approfondita dei mutamenti percepiti nelle componenti del lavoro ha messo in luce che l’effetto del lavoro assume valenze diverse al variare della parità: l’aspetto del reddito sembra dominare l’effetto nella scelta di avere il secondo figlio mentre la gratificazione (e la fatica fisica) del lavoro appare condizionare il passaggio al 3° figlio. Questi risultati sembrano suggerire che – almeno fino al 2° figlio – il lavoro sia una irrinunciabile fonte di reddito familiare e che pertanto il doppio ruolo femminile sia sostenuto in maniera rilevante. La scelta di avere il 3° figlio appare maggiormente influenzata da aspetti valoriali piuttosto che economici, il risultato cioè della volontà della donna di mantenere altri ruoli oltre a quelli legati alla famiglia. 20 Le nostre indagini hanno quindi sottolineato come la probabilità di avere un figlio sia diminuita dalla partecipazione al mercato del lavoro e, d’altra parte, come la propensione a svolgere una professione sia minore per le donne con una maggiore parità. Hanno inoltre rivelato l’importanza del contesto nel condizionare questa relazione, evidenziando l’esistenza di scelte a monte del ciclo di vita, quasi a mostrare l’esistenza di tipologie di donne (e di coppie) con diverse strategie conciliatorie. Accanto al proprio ruolo lavorativo, appare fondamentale, nella formazione del processo decisionale procreativo, il ruolo del contratto di genere con il partner. Come già più volte sottolineato, è proprio all’interno della famiglia italiana che esistono gli ostacoli più forti al mutamento dei ruoli e dei compiti domestici. Infatti, come in passato, è sempre la donna che svolge la maggior parte del lavoro necessario alla gestione familiare e questo anche quando svolge un lavoro extra-domestico. I dati delle indagini confermano uno spaccato della società italiana caratterizzato da una presenza molto marginale della figura maschile nelle attività di cura dei figli. Anche se l’impegno delle donne nel mercato del lavoro favorisce una maggiore condivisione dei partner nei ruoli domestici e di cura dei figli, il sistema di genere appare prevalentemente di tipo tradizionale, costringendo le donne, che per vari motivi non sono propense ad abbandonare il mercato del lavoro, a contrarre in maniera sostanziale il tempo per sé e il tempo per il lavoro retribuito (ovviamente quando l’orario di lavoro non è rigido). Per le donne senza figli, il 35% ha indicato tra le motivazioni importanti per non avere voluto figli e il 22% per rinviarli, proprio la carenza di tempo a disposizione. Per le donne con figli, tra le motivazioni per non averne avuti altri, il fatto che con un figlio in più sia il nuovo nato sia i figli già nati sarebbero stati seguiti male ha riscosso il 40% dei consensi (il 43% tra le donne che hanno sempre lavorato e il 28% tra le madri casalinghe). Nel modello esplicativo della probabilità di passare al secondo figlio, per le donne lavoratrici risultano avere effetti significativi l’incremento della partecipazione ai lavori domestici del padre dopo la nascita del figlio; la frequente partecipazione del padre alla cura quotidiana del figlio neonato; l’aggiustamento del tempo nel senso di una contrazione del proprio tempo libero (Mencarini, Tanturri, 2003). In conseguenza di questi risultati si può affermare che una divisione equa, frutto di una reale considerazione dei tempi e delle attività (lavorative per il mercato, di cura e assistenza dei figli, dei compiti domestici e organizzativi familiari) a prescindere dal genere, rappresenterebbe certo la rimozione di un ostacolo sentito fortemente dalle donne, almeno da coloro che, trovandosi nella generazione delle “quarantenni”, ancora si trovano a dover fronteggiare da sole maternità e lavoro, responsabilità ambedue troppo impegnative, se non in condizioni straordinariamente favorevoli di reddito, per scegliere “un figlio in più”. 21 7. Conclusioni. Lavoro e famiglia in un mondo che cambia: le trentenni nel mar delle Antille Le nostre indagini si sono rivolte a donne con almeno un figlio adolescente e, di conseguenza, con un’età media un poco superiore ai 40 anni (Dalla Zuanna e Salvini, 2003). Di esse, la maggior parte ha un lavoro a tempo pieno, e si tratta di un lavoro fisso. Non viene cioè colto, nelle nostre analisi, quella fase di grande mutamento che le giovani generazioni (le “trentenni” di Marina Piazza, 2003) stanno affrontando in termini di inserimento nel mercato del lavoro. Molte di loro sono laureate e molte di loro affrontano l’esperienza lavorativa con grande determinazione e, nel contempo, si scontrano con un mondo molto diverso da quello delle generazioni delle loro madri, le “cinquantenni-sessantenni” delle battaglie femministe degli anni Settanta. Queste ultime, le prime realmente coinvolte in un progetto di carriera che in qualche caso prescindeva dal mero bisogno economico, ambivano al “posto fisso”, che dava sicurezza e spazi per la progettualità, anche familiare, sebbene con tutta quella serie di vincoli e di condizionamenti che hanno portato alla compressione del numero di figli avuto. Le loro figlie, tuttavia, più spigliate e per le quali la strada verso la parità appare meno irta di ostacoli (tanto che per esse il femminismo come rivendicazione di libertà sessuale, ad esempio, non è nelle parole, nei dibattiti, nelle scelte trasgressive, ma è fatto quotidiano, dato per scontato, interiorizzato) hanno di fronte un mercato del lavoro per così dire fluttuante. Per esse, molto probabilmente, la “atipicità” di certe forme lavorative sta assumendo il carattere di “tipicità”, che per le loro madri contraddistingueva il lavoro a tempo indeterminato e che difficilmente veniva cambiato nel corso della vita. Se da un lato queste forme lavorative hanno fatto aumentare il tasso di attività, quali conseguenze potranno portare per le scelte familiari delle giovani donne? A questa domanda non si riesce a dare una risposta simile a quanto sopra descritto per le “quarantenni” intervistate nelle città indagate, ma la letteratura offre qualche spunto che ci proponiamo in futuro di approfondire con inchieste ad hoc. Ed è con questo argomento – riprendendo il racconto-apologo con il quale ho iniziato questo intervento – che voglio concludere, con una riflessione sul futuro ripresa da due pubblicazioni recenti. Il primo libro (Addabbo e Borghi, 2001) contiene i risultati di un’indagine quantitativa sulle lavoratrici con contratti di collaborazione nella provincia di Modena, mentre il secondo (Piazza, 2003), già ricordato, trae le sue conclusioni da indagini qualitative. In entrambi i casi al centro dell’analisi ci sono le generazioni dei primi anni Settanta (delle lavoratrici modenesi oltre il 50% ha un’età inferiore ai 35 anni), e il dilemma in cui si trovano non sempre appare del tutto percepito. Le scelte di fecondità sono quasi sempre rimandate e per loro la 22 gran bonaccia delle Antille pare una metafora adatta. Dai racconti delle “trentenni” emerge, tuttavia, non una “pigrizia” mentale quale causa delle non scelte, piuttosto la percezione di vincoli economici e organizzativi fortissimi. Nel caso delle lavoratrici di Modena un primo limite è la presenza di vincoli di liquidità: la mancanza di credito connesso all’instabilità del lavoro fa rimandare l’uscita dalla famiglia di origine per posporre le spese per acquisto o l’affitto di una casa. Oltre il 50% delle donne intervistate ha dichiarato che il tipo di lavoro costituisce un limite per il soddisfacimento dei piani familiari: in particolare, il 30% lo percepisce come un ostacolo all’avere figli. Sono quindi variegate le sfaccettature con cui le storie professionali interagiscono con le strategie familiari. Se da un lato occupazione e flessibilità possono agevolare l’uscita dalla famiglia di origine, la precarietà del lavoro e l’incertezza del futuro possono rappresentare, per una decisa ripresa della fecondità, ostacoli di eguale portata. Il fenomeno della diffusione dei “lavori atipici” è troppo recente e le analisi effettuate non così ampie da consentire conclusioni circa il mutamento che questa nuova caratteristica del mercato del lavoro potrà portare alle relazioni fra strategie lavorative e scelte familiari (Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna, 2002). E’ però certo che anche questo fenomeno andrà inserito nella difficile equazione che lega la fecondità alla realizzazione delle future politiche tese a conciliare e armonizzare vita familiare e vita lavorativa. 1 Una fecondità estremamente bassa è stata registrata negli 1992-95 nella ex Repubblica Democratica Tedesca (0,8 figli per donna (Golini, 1998). 2 Nell’ipotesi media, le assunzioni evolutive fatte dall’ISTAT sono di un ulteriore miglioramento dei livelli di sopravvivenza sia per gli uomini sia per le donne, che si realizza secondo gli andamenti specifici di ciascuna regione fino al 2030. In seguito, si ipotizza uno scenario di costanza dei livelli di sopravvivenza raggiunti (website: http://demo.istat.it). Per quanto riguarda la fecondità, l’ISTAT fa riferimento ad un modello per generazione ed ordine di nascita. In generale, si ipotizza una ripresa della fecondità nei primi anni del Duemila, più sensibile nelle regioni caratterizzate da un livello di fecondità particolarmente basso. Le probabilità di migrazione specifiche per età, sesso e regione di residenza, stimate in base alla seconda metà degli anni '90, sono mantenute costanti per l'intero periodo di previsione. 23 Riferimenti bibliografici T. Addabbo, V. Borghi 2001, Riconoscere il lavoro. Una ricerca sulle lavoratrici con contratti di collaborazione nella provincia di Modena, Sociologia del Lavoro. Teorie e ricerche, FrancoAngeli editore. F. Billari, A. Rosina 2003, Transizione allo stato adulto e formazione della famiglia in M. Livi Bacci, M. Breschi (a cura di), La bassa fecondità italiana tra costrizioni economiche e cambio di valori, Presentazione delle indagini e dei risultati, Udine, Casa Ed. Forum. J. Bongaarts, G. Feeney 1998, On the quantum and tempo of fertility, «Population and Development Review», 24, 2 , 271-291. J. 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