La fatica di crescere: i giovani e la famiglia

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La fatica di crescere: i giovani e la famiglia
l'università degli studenti
La fatica di crescere:
i giovani e la famiglia
Rita Palidda
S
tudi e ricerche, ampiamente
pubblicizzati dai mass media, hanno tracciato un identikit del giovane-adulto italiano (1834 anni ) che è ormai diventato uno
stereotipo nelle conversazioni quotidiane: si tratta di un soggetto che
vive mediamente una condizione
agiata e domina quasi incontrastato nei luoghi di consumo; percorre
un lungo iter formativo, nel quale
se arriva all’università spende molti
più anni di quelli previsti dai
curricula; accede tardi al mercato
del lavoro, soprattutto se vive nel
Sud del Paese e se è di sesso femminile; si sposa tardivamente (intorno ai 30 anni) e resta fino al
matrimonio in casa dei genitori; rinvia la nascita del primo figlio e nella maggior parte dei casi non farà
un secondo figlio. Comunque, dopo
il matrimonio resta legato alla famiglia di origine da una fitta rete di
scambi di beni e servizi, che di norma seguono un percorso unidirezionale dalla famiglia di origine alla
nuova famiglia.
I dati statistici segnalano significative differenze tra Nord e Sud,
nella propensione al matrimonio e
alla filiazione, ma ormai da anni è
in atto un processo di rapida omogeneizzazione tra i comportamenti
familiari dei giovani, a prescindere
dal territorio di appartenenza, anche se gli stessi comportamenti assumono sovente significati diversi: così se circa il 60% dei giovani
dai 25 ai 29 anni e poco meno di
un quarto di quelli da 30 a 34 anni
vivono in famiglia, chi vive al Sud
dichiara più frequentemente di essere condizionato dalla mancanza
di lavoro o dalla volontà dei genitori, ma la stragrande maggioranza, comunque, afferma di star bene
e di avere un’autonomia soddisfacente.
Analogamente, la riduzione della
fecondità nei contesti ad elevata occupazione femminile è certo
correlata con la difficoltà di conciliare lavoro e oneri di cura, oltre
che con le alte aspirazioni di consumo, mentre nel Sud, dove meno
di un quarto delle ragazze dai 20 ai
34 anni ha un’occupazione (rispetto a quasi il 50% di quelle del Centro-Nord), la riduzione della fecondità scaturisce piuttosto dal rifiuto
delle giovani donne di lasciarsi
fagocitare dal ruolo esclusivo di
casalinghe, oltre ad essere l’unico
modo di salvaguardare livelli di
consumo accettabili, in presenza di
redditi che sono poco più della
metà di quelli di cui dispongono le
giovani famiglie del Centro-Nord.
Significative differenze sussi-
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stono invece, e occorre ricordarlo
in una società che rende invisibili
gli esclusi dal banchetto dei consumi opulenti, tra giovani di ceto
sociale diverso: per una quota cospicua di ragazzi, soprattutto del
Sud, la giovinezza non è affatto una
lunga e comoda moratoria in attesa di assumere ruoli adulti, ma è
una stagione breve in cui essi fanno precoci e inique esperienze di
lavori dequalificati e malpagati, necessari non solo a contribuire al
bilancio delle famiglie di origine, ma
anche a far fronte ai bisogni di nuovi nuclei messi in piedi troppo precocemente.
Emblematici del coesistere al
Sud di modelli di famiglia molto
diversificati sono i dati forniti
dall’Istat sulla fecondità di alcune
grandi città italiane nella seconda
metà degli anni ’90: Catania registra uno dei tassi più bassi di fecondità (0.9 figli per donna), ma è
allo stesso tempo la città con la più
alta percentuale di figli nati fuori
La sindrome di Peter Pan
Il punto di vista di un giovane universitario
Davide Giordano
È
ormai risaputo come si sia mediamente allungata la vita ‘
da giovane’dell’
Italiano moderno, soprattutto se meridionale. Mentre infatti
soltanto qualche decennio fa, raggiunta la maggiore età, o appena dopo, ci si emancipava dal
nucleo familiare d’
origine per crearne uno nuovo
e sostentarlo col proprio lavoro; oggi si tende a
stazionare comodamente nella casa natale anche oltre i trenta anni.
Il ‘
giovane-cresciuto’vive di solito una condizione agiata, frequentando i pubs e le discoteche
più in voga, posteggia la propria intelligenza negli atenei molto più di quanto il disco-orario non
permetta; accede (se riesce) con ritardo in un precario mondo del lavoro, si sposa tardivamente
rinviando la nascita del primo figlio al quale, nella maggior parte dei casi, non ne seguirà un secondo.
Si assiste, dunque, da molti anni ad un fenomeno di reviviscenza della famiglia nella scala dei
valori dei più giovani, la famiglia di origine, che –
ha ragione la professoressa Palidda – richiede
minor impegno in termini di responsabilità e fatica, assicura protezione, denaro, servizi in cambio
di qualche ora quotidiana di più o meno fittizia
dedizione.
La permanenza in famiglia dei giovani-cresciuti,
infatti, avviene soltanto a patto di una rinegoziazione dei rapporti con i genitori, i quali subiscono
la presenza intermittente dei figli impegnati nello
studio, nel lavoro, nei divertimenti, nelle scappatelle più o meno giustificate, pur di vederli felici e
in salute. Ciò ha prodotto una generazione di giovani che fa fatica a crescere o che non vuole crescere…
Le cause di tale deficit si possono addurre alla
carenza di lavoro, al tipo di educazione impartita
dagli adulti, al benessere e all’autonomia di cui
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godono oggi i giovani o, più a monte, all’
incertezza economica, sociale, culturale, relazionale in
cui si è costretti a vivere nella società di oggi. In
un mondo che cambia troppo rapidamente politica, tecnologia, lingua, costumi, significati, mode,
la giovinezza non è più un periodo di preparazione in attesa di un futuro da adulti, ma il suo prolungarsi è il riflesso di una società che stenta a
raggiungere un proprio equilibrio, una stabilità
latrice di certezze e costringe le nuove generazioni al perpetuo ruolo di Peter pan.
Pertanto, non è certamente ragionevole sostenere che alla base di questo fenomeno vi sia la
rivalutazione della famiglia come nucleo primario di valori sui quali si fonda e si permea il tessuto della convivenza sociale. Piuttosto ciò che spinge tantissimi giovani a prolungare la permanenza nella propria famiglia di origine è un fenomeno di tipo culturale analogo a quello che si verificò tra la fine degli anni ’
60 e gli inizi degli anni
’
70 ma sostanzialmente opposto. Infatti, mentre
in quel periodo i giovani tendevano ad anticipare
l’
uscita dal proprio nucleo familiare di appartenenza oggi si verifica il contrario. Sicuramente alla
base di quel fenomeno vi era un movimento culturale, quello della beat generation, che rifletteva
il bisogno di costruire una società diversa, un mondo di valori differenti da quelli compassati della
società borghese, sintomatico di una tendenza a
valorizzare l’
altro e il diverso. Alla base, invece,
dell’
attuale fenomeno di stagnazione dei giovani
nella famiglia d’
appartenenza non c’
è un movimento culturale, nessun principio di genesi di una
società migliore, piuttosto, come già detto, la tendenza di una classe generazionale anomala che
vuole preservarsi dalle fatiche e dalle paure che
può riservare una società sempre più complessa
e problematica.
fine settimana, nelle vacanze, nei
periodi di studio o di lavoro). In
effetti, la giovinezza lunga del giovane adulto si configura sempre più
come un percorso tortuoso tra formazione, lavoro, vita in famiglia e
solitudine, in uno scenario economico, politico e sociale di crescente
incertezza, che espone gli individui a rischi crescenti e ricorrenti:
di perdita del lavoro, di obsolescenza delle conoscenze, di crisi delle
solidarietà pubbliche e private.
I giovani adulti della società
globalizzata vedono crescere le risorse disponibili, ma anche le incertezze e i pericoli, che minacciano costantemente sia il processo
di acquisizione delle risorse che la
società ridefinisce costantemente
come indispensabili per vivere, sia
i loro processi di identità; vedono
ampliarsi le possibilità di scelta, ma
sono costretti a muoversi nel labirinto di opportunità e rischi, senza
smarrire la propria continuità biografica. Rischio e incertezza assumono un carattere multidimensionale e dinamico, poiché si riferiscono a risorse di natura diversa,
economiche, culturali e relazionali,
e attraversano le biografie di soggetti tradizionalmente al riparo dall’insicurezza, per appartenenza sociale e culturale.
L’insicurezza, pertanto, si presenta insieme come realtà tangibile, costantemente riprodotta e
ridefinita dall’interagire tra dinamiche del mercato e politiche pubbliche, e come nuovo scenario culturale, che permea l’identità degli
individui e attribuisce nuovi significati alle routines e alle relazioni
quotidiane. La giovinezza, allora,
più che una moratoria dorata che
prepara a un futuro da piccoli
yuppies che col denaro si conquistano la felicità, è piuttosto specchio e metafora di una società che
ha molta difficoltà a trovare nuovi
equilibri tra competitività e solidarietà, che ha puntato sul consumismo e la produttività, senza curarsi dell’ambiente e delle risorse umane, che sbandiera un ideale di benessere, ma deteriora progressivamente la qualità della vita.
Anche se non ne sono consapevoli, le schiere dei giovani di oggi,
assottigliate dalla denatalità, dovranno farsi carico di coorti sempre più numerose di grandi vecchi;
dovranno fare i conti con i bisogni
sempre più pressanti dei popoli
esclusi dallo sviluppo del capitalismo; dovranno imparare a non perdere la fiducia nelle «magnifiche
sorti e progressive» di un mondo
che cambia troppo rapidamente e
insensatamente. Forse, allora, invece che coltivare per i nostri giovani falsi miti di felicità in un terreno minato dalla violenza, dall’iniquità e dall’ignoranza, dovremmo
iniziare con loro un percorso di riflessione sulle preoccupanti derive
della nostra quotidianità e su quelle
delle politiche dei governi, facendo tesoro del loro bisogno di sicurezza, del loro potenziale di solidarietà e creatività.
rischio
e
incertezza
assumono
un
carattere
multidimensionale
e
dinamico
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dal matrimonio e di famiglie con
un terzo figlio. Disuguaglianze socio-culturali e rapidità dei processi
di mutamento, infatti, fanno sì che
mentre una coorte di giovani di ceto
medio rinvii in misura abnorme,
rispetto al passato, la nascita dei
figli, la corrispettiva coorte di giovani svantaggiati continui a generare figli precocemente, prima ancora di sposarsi, dopo una fuitina,
sebbene i trend statistici dicano che
anche loro non andranno al di là
del secondo figlio.
Non meraviglia, dunque, che da
molti anni, passata la stagione delle contestazioni e delle rivoluzioni
culturali, tutti i sondaggi rilevino
che la famiglia risulta al primo posto tra i valori dei giovani. Ma è
per i più la famiglia di origine, che
li impegna meno, in termini di responsabilità e di fatica, offre protezione, reddito e servizi in cambio
di una compagnia e di un affetto,
che sovente sono centellinati. I giovani di oggi sarebbero allora l’effetto perverso del narcisismo di una
generazione di mezzo che ha voluto realizzare un’utopia di felicità e
ha prodotto, invece, una generazione che fa fatica a crescere (ricordo ancora le parole di una madre intervistata qualche anno fa nel
corso di una ricerca sulla maternità: «Io voglio che mio figlio non
soffra mai»).
Si tratta, tuttavia, a mio avviso,
di un’interpretazione troppo schematica per rendere conto dei mutamenti magmatici di una realtà familiare apparentemente statica. Se
guardiamo più attentamente alla
quotidianità e ai problemi del giovane adulto, vediamo una realtà
complessa e molto diversa dal passato: le esperienze di lavoro dei giovani sono molto più precoci e ampie di quanto non emerga dai dati
ufficiali più noti, ma sono molto
spesso temporanee, irregolari e professionalmente incongrue; la permanenza dei giovani in famiglia non
solo avviene all’interno di una rinegoziazione dei rapporti con i genitori, ma spesso cela situazioni di
pendolarismo con realtà di semiconvivenza o di vita da singles (nei