Il significato della vita comunitaria per l`apostolato, nella

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Il significato della vita comunitaria per l`apostolato, nella
Che ci unisce in fraternità…
IL SIGNIFICATO DELLA VITA COMUNITARIA
PER L’APOSTOLATO NELLA NOSTRA REGOLA DI VITA
P. Olav Hamelijnck, scj
1. Ciò che rivela la struttura della nostra Regola di Vita
Già l’indice generale della nostra Regola di Vita rivela il rapporto vicendevole fra la vita comunitaria e
l’apostolato. I sottotitoli della sua parte prima (1-8), “Secondo il carisma del Fondatore”, formano quasi una
frase intera, che accenna ormai quella correlazione importante, trovandosi quindi d’accordo con “il carisma
del Fondatore”. Così “la Congregazione suscitata e inviata dallo Spirito” (1) “secondo l’esperienza di fede di
Padre Dehon” (2-5) sta “a servizio della Chiesa” (6-7) “in una comunità fraterna” (8).
In modo analogo anche i sottotitoli della sua parte seconda (9-85), “Alla sequela di Cristo”, indicano quella
relazione, dicendo che viviamo “con Cristo, a servizio del Regno” (9-35) “per continuare la comunità dei
discepoli” (40-85). Una successiva suddivisione di questa parte seconda ne pone l’accento: Siamo “chiamati
a vivere in comunità” (59-79) “al servizio della missione comune” (60-62) “assidui alla comunione fraterna”
(63-69) “in comunità di vita” (70-75).
Troviamo quindi già nella struttura delle nostre costituzioni il fondamento di ciò che tratterà il nostro capitolo
generale: “L’amore di Cristo ci spinge. Appassionati da Cristo che ci unisce in fraternità, annunciamo la
buona novella”.
2. La nostra vita comunitaria al servizio di una missione apostolica
L’opinione centrale della nostra Regola di Vita riguardo al rapporto vicendevole fra la vita comunitaria e
l’apostolato si trova nell’asserzione: “La nostra vita comunitaria è al servizio di una missione apostolica,
secondo la nostra vocazione specifica. Essa si rafforza nel compimento di questo servizio” (61).
Il significato della vita comunitaria per l’apostolato della nostra congregazione consiste, dunque, nell’essere
al servizio di una tale missione, la quale è una “missione comune” (60). Perciò già nella casa di formazione
“tutti i membri della comunità, in una collaborazione leale… si sforzeranno di creare una comunione di vita in
un clima di preghiera, di lavoro e di servizio apostolico” (91). Dall’inizio della sua vita religiosa il candidato
dovrebbe trovare nella comunità uno spirito che lo spinge verso uno zelo apostolico per l’appropriarsene. “La
realizzazione dell’unità di una vita religiosa-apostolica guiderà ogni attività formativa nella comunità” (93).
Evidentemente tutto questo non vale soltanto per le fasi della formazione iniziale ma per tutte le tappe della
nostra vita religiosa.
Sentendosi obbligato al Vangelo di Gesù, proclamando che “la sua Via è la nostra via” (12) e alla dottrina del
Vaticano Secondo, una congregazione che dice di se stessa di trovare “la sua origine nell’esperienza di fede
di Padre Dehon… che s. Paolo ha espresso così: Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di
Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20)” (2), e che vuole orientarsi alla missione del suo
Fondatore nel “ministero dei piccoli e degli umili, degli operai e dei poveri” (31), non può fare a meno di
considerare la sua vita comunitaria come “pro-esistente”, quindi come stare “al servizio” (61), se vuole
prestare al mondo la testimonianza di una vita cristiana autentica.
La vita comunitaria non viene perciò sottomessa a un semplice funzionamento di un’opera apostolica, ma
sta orientata in un modo molto più profondo al compimento della volontà di Dio, per “arricchire la Chiesa” (1).
Così la vita comunitaria non trova fine a se stessa. Anzi “la comunità si lascia interrogare dagli uomini in
mezzo ai quali vive” (61). In un certo modo sono proprio loro che danno forma alla vita comunitaria e il suo
apostolato. Così si cerca “di fare delle nostre comunità degli autentici focolari di vita evangelica,
particolarmente con l’accoglienza, la condivisione e l’ospitalità” (63). La comunità, quindi, non diventa
focolare di vita evangelica in quanto si chiude intorno al fuoco, ma in quanto si apre agli altri. I tre prioritari
modi d’agire oppure le tre caratteristiche – accoglienza, condivisione e ospitalità – che fanno di una
comunità un autentico focolare di vita evangelica, vengono proprio dal campo apostolico. Rivela il grande
significato che ne viene concesso il fatto che il Direttorio Generale, normalmente molto conciso, ripete
quest’istruzione (cf. DG 63).
Non soltanto qui, bensì generalmente, vale che le strutture e l’organizzazione di una comunità dovrebbero
essere “un aiuto e un servizio per tutti i suoi membri… per realizzare la sua funzione… apostolica” (70).
“La nostra vita comunitaria… è la realizzazione più concreta della nostra vita cristiana” (63) nella misura in
cui compie il suo fine apostolico. Altrimenti diventerebbe debole, poiché “si rafforza nel compimento di
questo servizio” (61).
Inviati dal Signore come “i testimoni e i servitori della comunione degli uomini in una comunità
fraterna…cerchiamo l’ispirazione e modello nella comunità dei discepoli riuniti attorno al Signore, e nelle
primitive comunità cristiane” (59) che si sono dedicati a vivere il “Sint Unum” (Gv 17,10).
3. Il “Sint unum”
Vivendo la spiritualità e pratica dehoniana del Sint unum “ l’unità fondamentale di tutta la Congregazione è
un valore essenziale… per il bene stesso della Chiesa” (112), ha quindi una dimensione apostolica. Dicendo
dei confratelli che “come membra di Cristo, fedeli al suo pressante invito del Sint unum, essi fraternamente
portano i pesi gli uni degli altri in una medesima vita comune” (8) viene evidente che il Sint unum è orientato
verso il servizio. Nella comunità stessa s’impara e realizza un atteggiamento che trova la sua continuazione
nel servizio apostolico “e nel nostro amore per i piccoli e per quelli che soffrono” (18). Quest’amore si
esprime dentro alla comunità nella cura verso i confratelli malati o anziani. “È in particolare attraverso di essi
che il Signore… ci ricorda la fragilità della nostra condizione; egli vuole essere riconosciuto e servito in
essi… Da parte loro, questi fratelli accetteranno le cure che vengono loro prodigate come espressioni della
carità di Cristo, che ha domandato ai suoi discepoli di accettare i suoi più umili servizi” (68). Il Sint unum si
realizza non soltanto nel servire e nel portare i pesi degli altri, ma, al contrario, anche nell’accettare questo
servizio. Siccome il Padre Dehon ravvisa la causa più profonda della “misera umana nel rifiuto dell’amore di
Cristo” (4) i fratelli malati e anziani possono darvi risposta e prestare la testimonianza dell’accettazione
dell’amore di Cristo nell’accettare la cura e il servizio loro offerto da parte dei loro confratelli.
La comunità compie – per così dire – una tale funzione educatrice per avvicinarsi a un atteggiamento di
disposizione che si esprime in un impegno apostolico oblativo. Perché “il Sint unum…, sottolineato dal Padre
Fondatore, esige… attraverso una educazione all’amore vero, una liberazione progressiva dall’egoismo, che
è rifiuto dell’amore di Dio e della fraternità… e deve portare… alla disponibilità per il servizio di Dio e dei
fratelli, soprattutto dei più poveri e dei più deboli” (95). Il Sint unum, vissuto in comunità fraterna, porta in sé
le conseguenze apostoliche. Perché è il mondo dove Cristo “ricostruisce l’umanità nell’unità. Ed è ancora qui
che egli ci chiama a vivere la nostra vocazione riparatrice, come lo stimolo del nostro apostolato” (23).
4. La testimonianza e il servizio della comunità per la società sulla base di una spiritualità dehoniana
“Nella Chiesa, siamo chiamati a seguire Cristo e a essere nel mondo i testimoni e i servitori della comunione
degli uomini in una comunità fraterna” (59).
Troviamo in questa frase il riassunto del concetto della nostra Regola di Vita rispetto al significato della vita
comunitaria per il nostro apostolato.
È notevole che si faccia notare tanto la testimonianza quanto il servizio, quasi insistendo sul legame fra di
loro. La dimensione testimoniale della nostra vita comunitaria resterebbe insulsa e inefficace se non fosse
espressa in un impegno concreto per il bene della famiglia umana. “Quali discepoli di Padre Dehon,
vorremmo fare, dell’unione a Cristo nel suo amore per il Padre e per gli uomini, il principio e il centro della
nostra vita” (17). Servire la Chiesa mediante il nostro impegno apostolico “suppone una vita spirituale: un
modo comune di accostarci al mistero di Cristo” (16). Con Padre Dehon “riconosciamo che dall’assiduità alla
preghiera dipendono la fedeltà… delle nostre comunità, e la fecondità del nostro apostolato” (76). Inoltre “la
preghiera rafforza il legame della nostra vita comune, e costantemente l’apre alla sua missione” (78). Nella
contemplazione dell’amore di Cristo e nel “modo comune di accostarci al mistero di” (16), lui “troviamo la
certezza della riuscita della fraternità umana, insieme alla forza di lavorarvi” (18), nonostante “il rischio di
insuccesso e di degradazione” (37). Siamo così consapevoli che “senza la preghiera comunitaria la
comunità di fede languisce” (79) e non sarebbe più in grado di testimoniare la nuova realtà “quando tutto
sarà ricapitolato nel Cristo” (20).
La contemplazione del Cuore di Cristo ci porta alla scoperta della comunione universale di tutti i suoi fratelli,
volendoci mettere a loro disposizione e al loro servizio. Perché “dal Cuore di Gesù… nasce l’uomo dal cuore
nuovo… unito ai suoi fratelli nella comunità di carità che è la Chiesa” (3).
Un ruolo importante spetta alla celebrazione dell’Eucaristia, poiché è qui dove “accogliamo Colui che ci fa
vivere insieme… e ci rilancia di continuo sulle vie del mondo, al servizio del Vangelo” (82). È in Gesù Cristo,
nel quale sono uniti tutti i membri dello stesso corpo; è lui che costituisce la dinamica reciproca fra vita
comunitaria e vita apostolica, la rinforza e la conserva. In conseguenza “siamo chiamati a servire con tutta la
nostra vita l’Alleanza di Dio con il suo Popolo, e a operare per l’unità tra i cristiani e tra tutti gli uomini” (84).
Consideriamoci uniti “nella fedeltà dinamica allo spirito e alle intenzioni del Fondatore” (112), Padre Dehon,
che “conosce i mali della società… sul piano umano, personale e sociale” (4). Di seguito vogliamo stare
attenti a “tutto ciò che ferisce la dignità dell’uomo e minaccia la realizzazione delle sue aspirazioni più
profonde” (36). La comunità, vivendo in mezzo agli uomini, “si propone di condividere e sostenere i loro
sforzi di riconciliazione e di fraternità” (61). Culmina nel progetto di testimoniare “nella comunione, anche al
di là dei conflitti, e nel perdono vicendevole… che la fraternità di cui gli uomini hanno sete è possibile in
Gesù Cristo e noi vorremmo esserne i servitori” (65).
La comunione vissuta dai confratelli è un segno che il sogno dell’umanità di una fraternità universale è
realizzabile, in quanto è fondata in Gesù Cristo. È anche un certo modello di come i conflitti esistenti
possono essere superati nella disponibilità alla riconciliazione. Anche “nel rispetto reciproco, nell’amore
fraterno, nella solidarietà e nella corresponsabilità… la comunità si sforza di testimoniare Cristo nel cui nome
è riunita” (67). Sono questi i presupposti per corrispondere al desiderio di Padre Dehon, che si aspetta “dai
suoi religiosi… che siano dei profeti dell’amore e dei servitori della riconciliazione degli uomini e del mondo
in Cristo” (7).
5. Il significato apostolico dei consigli evangelici vissuti in comunità
“La nostra professione dei consigli evangelici, vissuta in comunità, è l’espressione primaria della nostra vita
apostolica: essa testimonia la presenza di Cristo e annuncia il Regno di Dio che viene” (60). Anche qui è
legata esplicitamente la vita comunitaria con il nostro apostolato. Così possiamo “testimoniare efficacemente
che il Regno di Dio e la sua giustizia devono essere cercati prima di tutto e attraverso tutto” (38). Si tratta di
“una testimonianza profetica quella che, con la grazia di Dio noi vorremmo portare con la nostra vita
religiosa: impegnandoci senza riserve per l’avvento di una umanità nuova in Gesù Cristo” (39).
5.1. Il celibato consacrato per il Regno di Dio
Soprattutto l’obbligo “del celibato consacrato… per il Regno” rende possibile “di formare delle comunità…
e… un modello di nuova famiglia, fondata sulla forza spirituale dell’amore” (42). Si cerca di partecipare alla
costruzione di una società rinnovata che corrisponde al progetto di Dio e nella quale l’umanità e ciascuno
che ne fa parte può trovare la sua realizzazione completa. Vivendo il voto della castità si crea una comunità
che è costruita sul fondamento dell’amore nel servizio del Regno.
È un modello, un tentativo piuttosto azzardato per la riuscita di una convivenza universale, la quale si deve
sviluppare. Non è per niente statica o perfetta, semplicemente da copiare dalla società. Consapevole della
propria insufficienza, ma anche della forza spirituale dell’amore, l’apostolato presuppone fra l’altro un
ritenersi capace dello sviluppo della comunità e di pretendersi da una trasformazione forse dolorosa, perché
“il nostro celibato consacrato ci fa partecipare alla costruzione di un’umanità nuova, aperta alla comunione
nel Regno” (43). Tutto ciò richiede l’orientamento a Gesù Cristo che “si è dato interamente al Padre e agli
uomini in un amore senza riserve” (41).
Vivendo in comunità un rapporto amichevole “nella carità fraterna… attraverso un incontro autentico,
possiamo trovare la nostra pienezza umana” (42). È un modo concreto “di testimoniare l’amore di Cristo, in
un mondo alla ricerca di un’unità difficile e di rapporti nuovi tra le persone e tra i gruppi” (43). Sappiamo,
infatti, che “la carità deve essere una speranza attiva di quello che gli altri possono diventare con l’aiuto del
nostro sostengo fraterno. Il segno della sua autenticità sarà la semplicità con cui tutti si sforzano di capire ciò
che sta a cuore a ciascuno” (64). Evidentemente, “ognuno di noi nei suoi rapporti con gli altri, ogni nostra
comunità nell’ambiente in cui svolge la sua missione, ha l’obbligo di dare una testimonianza di vita autentica”
(88).
5.2. La povertà al servizio del Regno di Dio
“Cristo si è fatto povero per arricchirci tutti con la sua povertà. Egli ci invita alla beatitudine dei poveri” (44).
Troviamo qui il senso profondo del nostro voto di povertà. Vogliamo rispondere all’invito di Cristo nelle nostre
comunità e trasmetterlo mediante il nostro stile di vita nelle nostre società. La povertà realmente vissuta è il
luogo dove si verifica la credibilità della testimonianza che vogliamo dare, perché “la condivisione dei nostri
beni nell’amore fraterno ci permette di verificare che… siamo segno tra i fratelli” (46). Nella misura, quindi,
nella quale la comunità è disposta a una vera condivisione dei beni come segno dell’amore fraterno, essa è
in grado di testimoniare una “povertà al servizio del Regno” (48) che contribuisce “all’avvento di un mondo
più umano” (37). Risultano conseguenze concrete “dal carattere comunitario della proprietà dei beni” (138)
per la loro amministrazione. “Il nostro modo di amministrare e di gestire i beni deve essere una
testimonianza di vita evangelica. Giustizia, moderazione, aiuto reciproco e condivisione saranno per noi
norme” (139). Anche qui, sul campo economico, si cerca un certo equilibrio fra le necessità della vita
comunitaria e dell’apostolato, dicendo che “pur provvedendo convenientemente ai beni delle persone e delle
comunità e allo sviluppo delle opere, staremo attenti ai doveri della solidarietà, alle necessità dei poveri e
della Chiesa” (140). Questo “esige che ricerchiamo assieme uno stile di vita semplice e modesta” (49).
Vivere la povertà e testimoniarla nella società non si lascia alla discrezione di ognuno. È esplicitamente la
ricerca comunitaria dello stile di vita semplice che aiuta a mostrare come si può “evitare ogni forma di
ingiustizia sociale” (51) e come si può partecipare “alla costruzione della città terrestre e all’edificazione del
Corpo di Cristo” (38). Non fare distinzione nella valutazione fra “il nostro lavoro… retribuito o no… esprime
anche la nostra povertà al servizio del Regno” (48), perché “l’impegno della povertà vuole significare l’offerta
di tutta la nostra vita al servizio del Vangelo” (52).
Vivere il voto di povertà in comunità “ci mette… al servizio di Dio e dei nostri fratelli” (50), soprattutto di
coloro “a cui mancano risorse, ragioni di vivere, speranza” (52), ma anche in vista di una tale formazione di
coscienza della società. “Se prendiamo sul serio il nostro impegno di povertà, saremo pronti alla
condivisione tra di noi e ad andare verso i poveri e i bisognosi… Solo così… potremo risvegliare le
coscienze di fronte ai drammi della miseria e alle esigenze della giustizia” (51).
Il nostro apostolato in favore dei poveri, il nostro “essere presente agli uomini… soprattutto ai più bisognosi”
(52), influenzerà pure la comunità, perché l’esperienza del “persistere della misera… è un richiamo
insistente alla conversione delle nostre mentalità e dei nostri atteggiamenti” (50).
5.3. Aperti a Dio nell’obbedienza
“Col voto di obbedienza, ci mettiamo totalmente al servizio della Congregazione nella missione della Chiesa”
(54), sull’esempio di Gesù Cristo che “si è sottomesso nell’amore alla volontà del Padre: disponibilità
particolarmente evidente nella sua attenzione e apertura alle necessità e attese degli uomini” (53). Pertanto,
anche la nostra obbedienza è orientata verso l’apostolato “per la redenzione del mondo a Gloria del Padre”
(58). La nostra obbedienza è esplicitamente vissuta in comunità. “In una vita comunitaria… con la
disponibilità di tutti, attraverso il dialogo aperto e rispettoso di ciascuno… cerchiamo la volontà di Dio… in
una effettiva corresponsabilità… al servizio del bene comune” (55). Quando la nostra Regola di Vita parla
del servizio dell’autorità ripete che “nelle nostre comunità è in un dialogo sincero e fraterno, alla luce del
bene comune… ricerchiamo insieme la volontà di Dio” (109). Qui entra in gioco il Superiore. Del bene
comune lui “è il primo servitore. Egli stimola la fedeltà… apostolica… della comunità” (56). È ovvio che il
bene comune non si limiti ai bisogni delle comunità e ai loro membri, si tratta anzi di una adeguata, sollecita
e obbediente cooperazione “che inserisce tutta la nostra vita nel progetto di Dio” (54) per il bene di tutta
l’umanità nella “fedeltà di ciascuno di noi e delle nostre comunità alla missione comune” (106).
In questo modo la comunità – vivendo il voto di obbedienza – “come il Cristo-Servo univa i suoi nel comune
servizio del disegno del Padre” (56), si sforza di realizzare ciò che si è proposto attraverso la Regola di Vita:
“In un mondo nel quale gli uomini aspirano alla libertà, vogliamo testimoniare la vera libertà che il Cristo ci ha
acquistato e che si ottiene solo nel consentire al Padre” (57).
È veramente l’amore di Cristo che ci spinge. Appassionati da Lui che ci unisce in fraternità, vogliamo
annunciare la buona novella per mezzo del nostro apostolato, convinti che “la nostra vita comunitaria è al
servizio di una missione apostolica” (61).