quando manchiamo di comunita

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quando manchiamo di comunita
QUANDO MANCHIAMO DI COMUNITA’
La vita cristiana è essenzialmente comunitaria perché:
• Il piano di Dio è quello di salvare tutti gli uomini “ricapitolandoli” (Ef 1,10) sotto l’unico Capo il
Signore, Gesù Cristo, unico salvatore e mediatore tra Dio e gli uomini;
Gesù Cristo riunisce a sé tutti i battezzati per formare un corpo mistico, di cui Egli è il Capo e noi siamo le
membra (Rm 12,4-5; 1Cor 12,12-17),
• Non c’è dubbio che la formazione e la perseveranza del cristiano, specialmente nei nostri tempi,
non è possibile senza una comunità costituita in cui ciascuno trova l’Alimento della Parola e dei
sacramenti e il sostegno della carità fraterna;
• L’evangelizzatore non è un libero banditore ma è un uomo di comunità:
Inviato da una comunità;
Costruisce comunità;
Porta alla comunità, non a se stesso o al suo gruppo
• Non è per caso che, dopo la Pentecoste, si pone subito in primo piano la comunità
(At 2, 42-47; 4, 32-35)
Se con il dono dello Spirito Santo a Pentecoste la Chiesa viene alla luce e si incammina per le strade del
mondo, un momento decisivo della sua formazione è certamente l’istituzione dell’Eucaristia nel Cenacolo.
La Chiesa, comunità cristiana a cui tutti noi apparteniamo, vive dell’Eucaristia, centro della vita ecclesiale e
comunitaria. Lo si vede fin dalle prime immagini della Chiesa, che offrono gli Atti degli Apostoli:
“Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli Apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e
nelle preghiere” (Atti 2, 42).
Nella frazione del pane è evocata l’Eucaristia.
La Chiesa, e pertanto ogni comunità in essa presente, vive del Cristo eucaristico, da Lui è nutrita, da Lui è
illuminata. Il Sacrificio eucaristico è orientato all’unione intima di noi fedeli con Cristo attraverso la
comunione: riceviamo Lui stesso che si è offerto per noi, il suo corpo che Egli ha consegnato per noi sulla
croce, il suo sangue che ha “versato , per molti in remissione dei peccati” (Mt 26,28).
La vita nuova in Cristo che è conformazione al Vangelo presuppone di essere sperimentata e condivisa
nella comunità. Se uno, infatti, rimane da solo, ben presto sarà riassorbito dalle abitudini e dall’ambiente
di prima.
I cristiani sono animati dallo Spirito di comunione per cui quasi per istinto sono portati a mettersi insieme e
a costituirsi in comunità di cui Cristo è il capo e lo Spirito Santo è l’anima.
Nella comunità il cristiano riceve quotidianamente il Pane della Parola e il Pane della vita:
qui trova aperte le fonti della grazia che sono i sacramenti;
qui il sostegno della preghiera e dell’esempio;
qui il luogo dove impegnare le proprie energie e i propri carismi per l’edificazione del Regno;
qui il superamento dell’isolamento e dell’anonimato perché si è tutti fratelli e sorelle in Cristo.
A volte prendiamo l’aratro della predicazione, però ben presto ci voltiamo indietro perché non possiamo
contare su chi ci appoggia e ci sostiene, ci corregge ed accompagna nel campo dell’apostolato.
Soprattutto i leader hanno bisogno di una comunità, essendo coloro che maggiormente soffrono per i
dardi del nemico ed hanno bisogno della protezione dei fratelli nella fede.
Una delle ragioni dello strepitoso fallimento di Paolo nell’Areopago ateniese, è costituita dall’aver lasciato i
fratelli a Berea pretendendo di conquistare la vetta della sapienza in modo personale ed individuale.
Vedendolo solo, gli ateniesi non ebbero la prova dell’esistenza di una nuova forma di relazionarsi e lo
catalogarono come ciarlatano (At 17, 18b).
Però l’apostolo impara bene la lezione e ci lascia una ricca eredità per la storia: il missionario pieno di zelo
trova sempre l’opportunità per evangelizzare. Egli stesso racconta che quando arriva a Troade: “Sebbene
nel Signore mi fossero aperte le porte, non ebbi pace nel mio spirito perché non vi trovai Tito, mio fratello;
perciò congedatomi da loro, partii per la Macedonia” (2Cor 2, 12-13)
Non poté evangelizzare, poiché il suo spirito era inquieto per non aver trovato suo fratello Tito; così parte
angosciato per la Macedonia in cerca di una comunità di amici e di missionari.
Com’è diversa l’esperienza del solitario paolo in Atene, da ciò che è accaduto a Filippi, dove giunse insieme
a Sila: insieme predicarono alle donne e liberarono la giovane posseduta da uno spirito di divinazione.
Entrambi furono perseguitati, vennero loro strappati gli abiti di dosso e bastonati. I due vennero fatti
prigionieri e cantarono inni e salmi all’unisono. Predicarono insieme al carceriere e vennero da lui lavati e
le loro ferite curate nella medesima notte. Come è diversa la prigione in compagnia di un amico anziché da
soli.
Nella sua ultima carcerazione romana, viene ascoltato da Luca e manda a chiamare Timoteo perché gli
porti anche Marco nel carcere Mamertino. Non vuole rimanere da solo in prigione. Desidera morire
circondato dalla sua comunità.
La comunità non è qualcosa di già dato, ma qualcosa che avviene, accade, in divenire. Non nasce solo
perché esiste un perfetto apparato istituzionale fatto di norme e statuti, seppur necessari, ma dal clima
fraterno che intercorre tra i suoi membri. In altri termini, senza comunione non c’è comunità, senza
autentiche relazioni fraterne ci possono essere norme, decreti, statuti, ma non esserci comunità.
LA COMUNITÀ SI EDIFICA SULLA DEBOLEZZA
Dio ci ha scelti a motivo della nostra debolezza, della nostra vulnerabilità, per guarirla con la sua potenza:
“Considerate infatti la vostra chiamata fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non
molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha
scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e
disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi
davanti a Dio.” (1Cor 1,26-29)
La comunità cristiana non è formata da persone perfette, prive di difetti o di peccati, che possano vantare
davanti a Dio e agli uomini, meriti e privilegi particolari, ma da persone deboli, fragili, che pongono tutta la
loro fiducia nel Signore e nel sostegno reciproco.
Tale debolezza apre alla condivisione, alla reciproca collaborazione, per una vita fraterna vissuta
nell’umiltà. Ne consegue che, per vivere in comunità, bisogna prendere coscienza della propria debolezza,
ossia del proprio peccato, dei propri difetti, per intraprendere, all’interno della vita comune, nel reciproco
confronto con i fratelli e le sorelle, un cammino di trasformazione e restaurazione dell’uomo interiore.
La vita in comunità è il luogo delle relazioni fraterne, ma anche del discernimento personale, ove ciascuno
verifica il proprio atteggiamento, le pulsioni interiori che determinano sentimenti di ribellione, gelosia,
rivalità, ambizioni che affiorano ogni qualvolta entriamo in contatto con gli altri.
Questa esperienza è di vitale importanza perché, lungi dal generare forme di scoraggiamento, favorisce la
conoscenza di se stessi, delle proprie “zone d’ombra” e, nel contempo, attraverso la contrizione o
“frantumazione” del cuore, dell’indicibile dolcezza dell’amore di Dio che si manifesta nonostante la nostra
debolezza:
Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella
debolezza.” Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo
riposi su di me (2 Cor 12,9)
DALLA COMUNITÀ IDEALE ALLA COMUNITÀ REALE
Prendere coscienza della nostra e altrui debolezza significa avere una conoscenza di sé e degli altri reale e
non ideale.
Essere aderenti alla realtà senza programmare una comunità ideale, utopica, proiettando prospettive
fasulle e irrealizzabili è certamente la premessa fondamentale per stabilire autentiche relazioni con gli altri.
I tempi di crisi, di prova, di difficoltà all’interno della vita comunitaria sono tempi di grazia particolari
perché innescano processi di purificazione e di frantumazione dell’immagine ideale che ci siamo fatti di
quella determinata comunità.
Per questo motivo la comunità, il gruppo, non si scelgono, ma si ricevono in dono. Non siamo noi a
decidere in quale comunità andare, quali persone scegliere per creare una comunità, ma è Dio che ci
chiama e ci mette insieme:
“Non voi avete scelto me, ma Io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro
frutto rimanga.” (Gv 15, 16a)
LA COMUNITÀ LUOGO DELLA RECIPROCITÀ
Ciò che distingue una comunità da un gruppo di amici è che in una comunità noi diciamo la nostra
appartenenza reciproca e i nostri legami, annunciamo i nostri scopi e lo spirito che ci unisce. Insieme
riconosciamo che siamo responsabili gli uni degli altri e che questo legame viene da Dio, è un dono di Dio.
E’ Lui che ci ha scelti e chiamati insieme, in un’alleanza di amore e una sollecitudine reciproca.
La vita comunitaria è infatti espressione di reciproca appartenenza è un modo di rendere visibile l’amore
fraterno che unisce persone che vivono insieme.
La reciprocità è di fondamentale importanza, onde evitare che la comunità sia affetta, da una parte da
ipertrofia a causa dell’impegno eccessivo e per certi versi monopolizzante di alcuni che fanno tutti al posto
di tutti; dall’altra da atrofia per l’atteggiamento passivo di molti che, non essendo valorizzati, rimangono ai
margini della vita comunitaria.
In maniera sintetica possiamo dire: non uno né qualcuno è il tutto, ma ognuno e l’insieme di tutti sono il
tutto.