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Madre Anna Maria Canopi
Da donna per le donne
L’acqua
Incontro con il gruppo Soroptimist
19 settembre 2009
Inserendomi nell’itinerario che già avete percorso lungo quest’anno dedicato al tema dell’acqua,
ho pensato di fare con voi un rapido excursus
attraverso la Sacra Scrittura - proprio solo alcuni spunti, affinché voi possiate poi proseguire la
meditazione - considerando anche la situazione
attuale, in cui, a livello planetario, si sta riscoprendo quanto essenziale e prezioso sia il bene
dell’acqua per l’umana sopravvivenza.
L’acqua è presente nella Sacra Scrittura fin dal
secondo versetto della Genesi, là dove si dice
che «lo spirito di Dio aleggiava sulle acque».
L’opera creatrice è vista anzitutto come un ordinamento che Dio dà alle acque: «Dio… separò le
acque che sono sotto il firmamento dalle acque
che sono sopra il firmamento… Dio disse: “Le
acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un
unico luogo e appaia l’asciutto”. E così avvenne.
Dio chiamò l’asciutto terra, mentre chiamò la
massa delle acque mare. Dio vide che era cosa
buona» (vv 7-10 passim).
Ancora nel libro della Genesi, troviamo l’acqua
del diluvio (cf. Gen 6-9). Questa creatura “buona” diventa travolgente e causa di morte. È il
mezzo di cui Dio si serve per distruggere il peccato che ha inquinato le creature. Egli con il diluvio non vuole distruggere il genere umano, né
gli altri esseri viventi; salva infatti la semente di
ogni sua creatura nell’arca di Noè, perché possano ripopolare la terra. Dopo il diluvio compare
l’arcobaleno come segno della pace tra il cielo e
la terra: quest’acqua è quindi il simbolo della distruzione del peccato per la salvezza dell’uomo:
dà la morte per una nuova vita; già possiamo
quindi vedere in essa il segno del Battesimo.
Ma è a partire dai patriarchi che l’acqua entra in
modo decisivo nella storia della salvezza, al punto che proprio a partire dall’acqua – presento o
assente – si potrebbero indicare le grandi tappe
del cammino della discendenza di Abramo.
Sempre pellegrini alla ricerca di Dio, i patriarchi procedevano nel loro cammino scavavando
pozzi, necessitari alla loro stessa sopravvivenza.
Non è difficile scorgere il significato spirituale
di questa realtà di immediata esigenza pratica:
occorre anzitutto scavare un pozzo nel proprio
cuore, occorre scavare interiormente, per progredire nel cammino della ricerca di Dio e per
incontrarsi con lui.
I pozzi, infatti, diventano luoghi di incontri provvidenziali. È presso i pozzi che, in idillici scenari
carichi di pathos umano e spirituale, vengono incontrate le future spose dei patriarchi: Rebecca,
Rachele, Lia... Anche questo non è casuale, ma
è già presagio della Chiesa, la Sposa vicina alle
sorgenti della Vita, le sorgenti delle acque battesimali fecondate dallo Spirito per la generazione
dell’uomo nuovo.
Nel libro dell’Esodo la presenza dell’acqua diventa addirittura centrale, con un valore simbolico
che sarà sempre ripreso e approfondito. Troviamo anzitutto l’acqua del Nilo: a questo grande
fiume è affidato, dentro un cestello di vimini, il
piccolo Mosè, che dai flutti di morte viene provvidenzialmente tratto in salvo. Egli è già simbolo
dell’intero popolo di Israele, che sarà tratto in
salvo dalla potente mano di Dio nella prodigiosa
traversata del Mar Rosso, simbolo per eccellenza del Battesimo. Mentre il popolo di Israele in
fuga dalla schiavitù dell’Egitto trova la salvezza
attraverso queste acque, l’esercito del Faraone
con tutti i suoi carri e i suoi cavalli - simbolo
della potenza malvagia - è da esse sommerso e
vi trova la morte. In senso spirituale, attraversare
le acque del Mar Rosso significa allora lasciare la terra dell’infedeltà - la mentalità pagana,
idolatrica - per entrare nella terra del Signore,
disposti ad intraprendere l’arduo cammino della
purificazione e della fede. Tutto il popolo di Dio
ogni anno, con la festa di Pasqua, rievocherà
questo grande evento salvifico.
Passato il Mar Rosso, il popolo eletto non si trova
subito nella Terra Promessa; per giungervi deve
attraversare il deserto, terra arida, senz’acqua,
luogo di tentazione per svelare i segreti dei cuori. Molte sono, in effetti, le prove che gli israeliti
incontrano lungo il cammino. Ad un certo punto, il popolo, stremato per la mancanza d’acqua,
è così scoraggiato da rimpiangere la schiavitù
d’Egitto e mormorare contro Mosè perché lo ha
condotto a morire di fame e di sete nel deserto,
mentre là aveva acqua e cibo in abbondanza.
Allora interviene il Signore stesso che, per mano
del suo servo fedele, placa le contestazioni degli
israeliti con il dono di una sorgente fatta scaturire
dalla roccia (cf. Es 17,1-7). Anche quest’acqua
è segno profetico di qualche cosa di più grande
che deve ancora avvenire; è simbolo dello Spirito
Santo, della grazia; e la roccia da cui scaturisce
è Cristo stesso. Rileggendo l’Esodo, san Paolo così interpreta questo episodio: «Non voglio
che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono
tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare,
[…] tutti bevvero la stessa bevanda spirituale:
bevevano infatti da una roccia spirituale che li
accompagnava, e quella roccia era il Cristo» (1
Cor 10,1.4).
Per ora, il popolo può bere, può sopravvivere e
continuare il viaggio. Prima di entrare nella terra promessa, però, dovrà attraversare un grande
fiume: il Giordano. Come l’uscita dalla terra di
schiavitù, così anche l’ingresso nella terra promessa esige un ulteriore passaggio purificatore.
Alla guida del popolo c’è ora Giosuè: «Le acque
che scorrevano da monte si fermarono e si levarono come un solo argine… Le acque che scorrevano verso il mare dell’Araba, il Mar Morto,
si staccarono completamente… I sacerdoti che
portavano l’arca dell’alleanza del Signore stette-
ro fermi all’asciutto in mezzo al Giordano, mentre tutto Israele attraversava all’asciutto, finché
tutta la gente non ebbe finito di attraversare il
Giordano» (Gs 3,14ss).
Procedendo in questo rapido excursus, troviamo
largamente il tema dell’acqua anche nei Salmi.
Vi sono versetti bellissimi dai quali si comprende quale valore aveva agli occhi degli israeliti il
bene dell’acqua. Si potrebbero citare tantissimi
salmi, ma, per esempio, nel salmo 36 si legge:
«Quanto è prezioso il tuo amore, o Dio!
Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali,
si saziano dell’abbondanza della tua casa:
tu li disseti al torrente delle tue delizie.
È in te la sorgente della vita,
alla tua luce vediamo la luce» (vv 8-10).
Dio, Amore fontale, è la sorgente stessa della
vita; da lui riceviamo la vita; da lui, dal suo amore, attingiamo continuamente quell’acqua viva
che sazia la sete più profonda dell’uomo, la sua
sete di eternità, di felicità. Molto significativo
in questa linea è, ad esempio, il salmo 87 che
canta già la Gerusalemme celeste, figura della
Chiesa:
«Si dirà di Sion:
“L’uno e l’altro in essa sono nati…”
E danzando canteranno:
“Sono in te tutte le mie sorgenti”» (vv 5.7).
Passando in rassegna tutte le generazioni e tutti
i popoli, nel vederli il Signore li annota, li scrive sul libro dell’anagrafe. Ogni popolo ha nella
Gerusalemme del cielo la sua patria, la sua vera
origine. Dio stesso, l’Altissimo, che l’ha fondata,
la rende sorgente di vita eterna per tutti; di più,
rende tutti partecipi di questa grazia di fecondità spirituale, di maternità. Si ravvivi allora in
noi il desiderio di stare alle sorgenti della vita,
di vivere il mistero della Chiesa, così da esultare
di gioia per la rinascita spirituale di tanti nostri
fratelli che vivono in una condizione di deserto spirituale e aspettano, secondo il disegno di
Dio, di essere irrorati dall’acqua viva della nostra
fede, della nostra preghiera, del nostro amore,
affinché anche il loro deserto possa fiorire.
Giungiamo così al messaggio lasciato dai Profeti. Quando il Signore vuole promettere al suo
popolo un futuro di prosperità e di pace, la promessa è molto spesso legata al dono dell’acqua,
in senso naturale, ma soprattutto spirituale: acqua che calma l’arsura, acqua che fa fiorire i deserti (Isaia), acqua sempre fresca e zampillante
(Geremia), acqua portatrice di vita e di fecondità
(Ezechiele). In breve, è l’acqua dell’abbondanza messianica che purifica, feconda, santifica,
che manifesta la bontà di Dio nel riservare al suo
popolo le sue benedizioni dopo averlo purificato
per renderlo degno di ricevere i suoi doni.
Il deserto è chiamato a rallegrarsi per la magnificenza del Signore:
«Si rallegrino il deserto e la terra arida,
esulti e fiorisca la steppa…
Come fiore di narciso fiorisca;
sì, canti con gioia e con giubilo…» (Is 35,1-2).
Il Signore trasforma il deserto in giardino in senso naturale, ma soprattutto in senso spirituale.
È infatti il cuore dell’uomo il deserto più arido,
come canta il Salmista: «O Dio, tu sei il mio Dio,
dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia,
desidera te la mia carne in terra arida, assetata,
senz’acqua» (Sal 63,2). Ecco, allora, l’accorato
invito del Signore per bocca del suo profeta: «O
voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non
avete denaro, venite» (Is 55,1).
In questo invito ad accorrere al Signore per avere
pienezza di vita e di gioia sono preannunziati il
dono dell’Eucaristia – pane che sazia la fame del
cuore umano – e il dono dello Spirito Santo, sorgente d’acqua viva sgorgata dal costato di Cristo
trafitto sulla Croce.
Allontanarsi dal Signore significa invece fare
esperienza dell’aridità, dell’infelicità, della
morte spirituale. Il Profeta è mandato in quella
lontananza per richiamare il popolo insipiente
e spingerlo a conversione. Nelle parole ammonitrici di Geremia ritorna ancora, con accorati
accenti, il simbolo dell’acqua. Perché Israele è
ridotto all’infelicità? Ha abbandonato il Signore,
«sorgente di acqua viva, e si è scavato cisterne,
cisterne piene di crepe, che non trattengono l’acqua» (Ger 2,13), si è abbandonato all’idolatria,
cercando sicurezza là dove non poteva trovarla.
Questo allontanamento – verificatosi tante volte
nella storia di Israele – porta il popolo eletto ad
una morte spirituale realisticamente descritta da
Ezechiele nella visione delle ossa inaridite. Eppure, su quella pianura di morte passa un soffio
di vita, fiorisce una nuova speranza. E si giunge
così alla visione conclusiva: la nuova umanità;
l’umanità redenta descritta con l’immagine del
tempio da cui scaturisce una sorgente che inonda tutta la terra:
«Mi condusse poi all’ingresso del tempio e vidi
che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso
oriente…. Quell’acqua scendeva sotto il lato destro del tempio, dalla parte meridionale dell’altare… Quell’uomo avanzò verso oriente e con una
cordicella in mano misurò mille cubiti, poi mi
fece attraversare quell’acqua: mi giungeva alla
caviglia. Misurò altri mille cubiti, poi mi fece attraversare quell’acqua: mi giungeva al ginocchio.
Misurò altri mille cubiti, poi mi fece attraversare
l’acqua: mi giungeva ai fianchi. Ne misurò altri
mille: era un torrente che non potevo attraversare, perché le acque erano cresciute; erano acque
navigabili, un torrente che non si poteva passare
a guado. Allora egli mi disse: “Hai visto, figlio
dell’uomo?”. Poi mi fece ritornare sulla sponda
del torrente; voltandomi, vidi che sulla sponda
del torrente vi era una grandissima quantità di
alberi da una parte e dall’altra» (Ez 47,1-7).
Il testo prosegue poi con la splendida profezia:
«Lungo il torrente, su una riva e sull’altra, crescerà ogni sorta di alberi da frutto, le cui foglie non
appassiranno: i loro frutti non cesseranno e ogni
mese matureranno, perché le loro acque sgorgano
dal santuario. I loro frutti serviranno come cibo e
le foglie come medicina» (vv. 12-13).
È dunque un’acqua feconda e purificatrice, anticipo e segno dell’acqua battesimale, che cura le
ferite del peccato e fa rinascere quali figli della
luce, figli di Dio. «La cristianità degli inizi capì:
in Cristo questa visione si è realizzata. Egli è il
vero, il vivente Tempio di Dio. E Lui è la sorgente di acqua viva. Da Lui sgorga il grande fiume
che nel Battesimo purifica e rinnova il mondo; il
grande fiume di acqua viva, il suo Vangelo che
rende feconda la terra» (Benedetto XVI).
Passando così al Nuovo Testamento, in particolare al Vangelo secondo Giovanni, vediamo il
compimento di tutti questi simboli e profezie.
Siamo nel tempio di Gerusalemme, nell’ultimo
giorno – il giorno solenne – della festa delle Ca-
panne. Gesù, ritto in piedi, grida: «Se qualcuno
ha sete, venga a me, e beva chi crede in me.
Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva» (Gv 7,37-38).
In Gesù, dunque, può trovare vero esaudimento
l’invito rivolto dal profeta Isaia: «O voi tutti assetati, venite all’acqua» (Is 55,1). Anzi, accade
qualcosa di più; c’è un esaudimento che supera
il desiderio stesso dell’assetato. Gesù, Sorgente
d’acqua viva, non solo disseta la sete dell’uomo,
ma se uno crede, «dal suo grembo sgorgheranno
fiumi di acqua viva». Non più soltanto andiamo
alla sorgente della vita per dissetare la nostra
sete, ma anche noi diventiamo sorgente d’acqua,
possiamo anche noi diventare per tutti luogo di
ristoro, di conforto. Diceva ancora Benedetto
XVI nell’omelia di Pasqua di quest’anno: «Noi
tutti conosciamo persone simili che ci lasciano
in qualche modo rinfrescati e rinnovati; persone
che sono come una fonte di fresca acqua sorgiva. Non dobbiamo necessariamente pensare
ai grandi come Agostino, Francesco d’Assisi,
Teresa d’Avila, Madre Teresa di Calcutta e così
via, persone attraverso le quali veramente fiumi
di acqua viva sono entrati nella storia. Grazie a
Dio, le troviamo continuamente anche nel nostro
quotidiano: persone che sono una sorgente. Certo, conosciamo anche il contrario: persone dalle
quali promana un’atmosfera come da uno stagno con acqua stantia o addirittura avvelenata.
Chiediamo al Signore, che ci ha donato la grazia
del Battesimo, di poter essere sempre sorgenti
di acqua pura, fresca, zampillante dalla fonte
della sua verità e del suo amore!». Ecco, allora, l’incontro tra Gesù e la donna samaritana – simbolo dell’umanità alla ricerca di
Dio – nel capitolo 4 del Vangelo secondo Giovanni.
Gesù è in viaggio: con tutti gli uomini egli condivide la fatica e l’insicurezza dell’esistenza terrena. Pellegrino tra pellegrini, un giorno egli stesso
stanco e assetato siede presso un pozzo… Ma
subito quella “pausa di ristoro” si rivela quale
occasione di un incontro da lui preparato. Infatti,
mentre egli siede, una donna samaritana viene,
come tutti i giorni, ad attingere acqua. Questa
volta, però, le accade qualcosa di sorprendente, perché Gesù la sta attendendo. L’iniziativa
dell’incontro parte da lui che, rivolgendosi ad
essa, le chiede da bere. A tale richiesta la samaritana – appartenente a una popolazione dai
giudei considerata eretica – rimane sconcertata,
e, invece di compiere quell’umanissimo gesto di
porgere l’acqua all’assetato, comincia a discutere, rivelando così che la vera povera, bisognosa
di acqua vitale, è proprio lei. Gesù, entrando nel
dialogo serrato che ella va intessendo, la conduce gradualmente ad aprirsi alla grazia e persino
ad attirare altri a credere in lui, il Messia.
È molto significativo che tale incontro avvenga
all’ora Sesta: è l’ora della croce, della suprema
offerta che Cristo fa di se stesso al Padre per noi:
è l’ora della sua sete, l’ora in cui dal suo cuore
trafitto sgorgano quei fiumi d’acqua viva – compiendo la profezia di Ezechiele – cui possono
dissetarsi tutti coloro che vogliono essere salvati,
per diventare a loro volta un fiume che scorre e
va a dissetare i deserti riarsi dell’umanità.
Il cammino che Gesù ha fatto compiere alla samaritana segna un passaggio dall’ignoranza alla
conoscenza del dono di Dio, dall’incredulità alla
fede, dall’egoismo all’amore, alla comunione e
al servizio. È un cammino che ricomincia ogni
giorno davanti a ogni nuova situazione. Abbiamo
sempre bisogno di ricominciare, perché il dono
della fede – ricevuto mediante il Battesimo, alimentato dalla vita sacramentale e dall’ascolto
della Parola – deve essere custodito e vissuto;
è un dono che fa aumentare in noi la sete, il
desiderio di Dio, finché non lo possederemo
pienamente nella vita eterna. Siamo tutti pellegrini sempre assetati, che anelano ad unirsi al
coro degli eletti, al coro che risuona come voci
di molte acque, a coloro che – dissetandosi alle
sorgenti eterne della vita – cantano l’alleluia pasquale e ringraziano il Padre che ha reso candide le loro vesti nel sangue dell’Agnello.
In questo incontro presso il pozzo di Sicar, Gesù
fa appunto riferimento al dono di un’altra acqua,
all’acqua sorgiva della vita soprannaturale.
L’acqua naturale è bella, è indispensabile, ma
noi abbiamo bisogno di vivere anche nella nostra
dimensione spirituale. L’uomo è fatto per l’eternità e dell’eternità ha una profonda nostalgia.
Per questo non possiamo rassegnarci alla morte
fisica come se fosse l’annientamento di noi stessi; noi non potremo mai accettare la morte. Al
di fuori di una visione di fede, non può esserci
altro orizzonte che la disperazione non guaribile
con vani surrogati di felicità. Gesù stesso davanti
alla morte fisica sudò sangue, perché la morte
è contro la nostra natura umana, che è fisica e
spirituale. Noi siamo fatti per l’eternità. Come
scriveva sant’Ignazio di Antiochia: «Un’acqua
viva mormora dentro di me e mi dice: “Vieni al
Padre”» (Lettera ai romani).
Morendo per noi sulla Croce, Gesù ci ha uniti a
sé come membra del suo stesso Corpo. La sua
vita divina è quindi in noi. Proprio per questo
abbiamo una tensione incontenibile a vivere per
sempre, a vivere nell’Amore che è Dio stesso.
Gesù porta a compimento questo nostro anelito:
è lui la sorgente della vita, cui possiamo dissetarci per vivere eternamente.
Sempre nel Vangelo secondo Giovanni, troviamo il simbolo dell’acqua in altri fondamentali
incontri. Innanzitutto quello con Nicodemo (Gv
3) che, spinto dalla sete di verità, attraversa le
tenebre della notte per recarsi da Gesù e da lui
si sente dire che per entrare nel regno di Dio
bisogna “rinascere dall’alto”, ossia da acqua
e Spirito. È, come interpretarono i Padri della
Chiesa, un’allusione al Battesimo e pure un riferimento alla profezia di Ezechiele: «Verserò su
di voi un’acqua pura… metterò in voi uno Spirito
nuovo» (cfr. Ez 36,25-27). L’incontro con Cristo,
sorgente d’acqua viva, è un evento di grazia che
fa compiere un “salto”, un radicale cambiamento di natura, un passaggio dall’uomo vecchio
all’uomo nuovo, dalle tenebre alla luce, come si
vede in tutti i miracoli compiuti da Gesù, molti dei quali avvengono proprio presso il lago di
Genezaret. Non si possono inoltre dimenticare
le acque miracolose della piscina di Siloe, dove
ritrovano la salute i ciechi, i lebbrosi, i paralitici
che vi si immergono con fede. Gesù chiede sempre la fede; essa è indispensabile perché egli
possa operare il miracolo.
Il Vangelo ci parla anche dell’acqua, che nel suo
nome noi possiamo offrire al povero, al più piccolo dei fratelli; ogni gesto di carità farà sì che
nel giudizio finale possiamo essere chiamati ad
entrare nel Regno della vita eterna quali “benedetti del Padre”.
Quest’acqua offerta all’assetato ci ricorda l’acqua che Gesù stesso chiese prima di spirare sulla
croce. Disse infatti: «Sitio» (Gv 19,28), ho sete:
quella sete era - ed è sempre - sete della nostra
salvezza. Lo stesso desiderio dovrebbe bruciare il
nostro cuore per amore di Cristo e dei fratelli. È un desiderio, una sete che attraverserà tutta la
storia, fino al suo pieno compimento. È questa,
infatti, la parola conclusiva della Sacra Scrittura.
Già nel capitolo settimo dell’Apocalisse si ode
un canto di salvezza, intonato dalla moltitudine
di «quelli che vengono dalla grande tribolazione
e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello». Essi, «non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il
sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta
in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà
alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà
ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 7,15-17).
Ecco l’esito finale della vita che ora è cammino
di croce. Mentre siamo ancora per via e siamo
continuamente partecipi della passione di Cristo
per essere purificati, in prospettiva escatologica,
in speranza, già apparteniamo a quella moltitudine di tribolati che sono consolati da Dio. Lo
stato di privazione e di povertà, che ora ci fa
soffrire, avrà termine; le situazioni di tentazione
e di prova, che rendono arduo il cammino della
nostra vita, cesseranno, e Dio asciugherà ogni
lacrima dai nostri occhi (cf. 7,17).
Allora tutte le promesse saranno compiute:
«Ecco, sono compiute!
Io sono l’Alfa e l’Omèga,
il Principio e la Fine.
A colui che ha sete
io darò gratuitamente da bere
alla fonte dell’acqua della vita.
Chi sarà vincitore erediterà questi beni;
io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio»
(Ap 21,5-7)
L’acqua viva diventa veramente l’elemento vitale
della vita eterna, in cui tutti saremo pienamente
purificati e dissetati.
Le ultime parole dell’Apocalisse sono colme di
speranza: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. E chi ascolta, ripeta: “Vieni!”. Chi ha sete,
venga; chi vuole, prenda gratuitamente l’acqua
della vita. Colui che attesta queste cose dice:
“Sì, vengo presto!”. Amen. Vieni, Signore Gesù.
La grazia del Signore Gesù sia con tutti» (Ap
22,17-22, passim).
Così la vicenda dell’umana storia, passando
attraverso l’acqua della tribolazione, sfocia
nell’oceano infinito della consolazione.
Laghi, sorgenti, fiumi e mari: tutto è bellissimo,
ma tutto è soltanto un segno della vera realtà;
tutto rimanda ad una più grande realtà che non
passa. Contemplando la bellezza dell’acqua che
si trova sulla terra, dobbiamo sempre pensare
alla Città celeste, la città che raccoglie tutti i
figli di Dio, dove tutto quello di cui ora ci è dato
di godere avrà il suo compimento in una bellezza
non immaginabile, indescrivibile.
In un mondo dove gli uomini hanno tanta difficoltà a condividere i beni della natura e dove
si inizia a preoccuparsi seriamente per la scarsità dell’acqua, questo bene così prezioso per
la sopravvivenza ci rimanda al tempo stesso ad
un bene ancora più grande e ci mette nella prospettiva della vita eterna. Dio affidò all’uomo la
creazione perché la custodisse e ne usasse con
discernimento e non perché ne diventasse padrone. Usare dei beni della natura a proprio arbitrio e per fini egoistici è innanzitutto un furto a
Dio, poiché tutto appartiene a lui. La nostra stessa vita è sua. Un antico detto interpreta bene
questa realtà della fede: «Vita mancipium nulli
datur, omnibus usu» (Lucrezio). A nessuno la
vita è data in proprietà, a tutti in uso. Possiamo
anche dire: nulla è nostro, ma tutto Dio ci affida
come un seme, come un talento da trafficare.
Quale responsabilità! Ne consegue anche il dovere del rispetto per la natura, la quale non è da
sfruttare per arricchirsi, e tanto meno non è da
manipolare violando le leggi del suo equilibrio.
L’uomo del nostro tempo ha molto di cui rimproverarsi a questo riguardo. Quanto cammino
c’è da fare in questo senso! Significative alcune
frasi di un tema sull’acqua svolto da un bambino
delle scuole elementari di Arzano, paese vicino a
Napoli; esso comincia così: «L’acqua è un dono
di Dio: io lo so che è fresca, quando scende dalla fonte…», e si conclude con una mesta considerazione: «L’acqua è un dono di Dio, ma in
Calabria non ce l’hanno» (Io speriamo che me la
cavo, Mondadori, Milano 1984, p. 87).
In quante altre regioni della terra mancano i
pozzi e le sorgenti! Un adeguato soccorso non
è possibile, se non si apre il cuore a ricevere
quell’acqua viva che è lo Spirito Santo, Spirito di
sapienza e di amore che ci fa vivere da veri figli
di Dio, non egoisticamente, solo per noi stessi,
ma anche per gli altri, riconoscendoli fratelli.
Maria, la Donna ferita sotto la croce
«Vergine Madre, figlia del tuo Figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’eterno consiglio,
tu sei colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che il suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura…
Donna, sei tanto grande e tanto vali
che qual vuol grazia e a te non ricorre
sua disianza vuol volar senz’ali
(Dante, Paradiso XXXIII,1-15 passim).
Vi stupirete, forse, che la mia voce si inserisca con
questi sereni poetici accenti nella dolente sinfonia
di voci che hanno presentato la squallida e triste
situazione della donna, oggi largamente fatta oggetto di violenza; una violenza tanto più ignobile in
quanto consumata entro le stesse mura domestiche in cui la donna dovrebbe poter risplendere come
il sole con il sorriso del suo amore.
Alle figure femminili che sono esposte al vostro
sguardo con i segni delle loro ferite, vengo dunque
a sovrapporre questa splendida icona della Donna
per eccellenza, Maria, la Vergine Madre di Cristo, Figlio di Dio.
Il Poeta mette questa invocazione sulla bocca di san
Bernardo, quando, nella visione della “rosa mistica”
del Paradiso, appare Colei che, acconsentendo al disegno di Dio, ha introdotto nel mondo il Verbo della
vita, il Restauratore dell’immagine di Dio nell’uomo.
In Maria ogni donna riacquista la sua piena dignità,
la sua vera bellezza interiore che nessuna violenza
può distruggere, la sua inviolabile sacralità quale
fonte della vita. Per questo ogni offesa alla sua dignità è una specie di profanazione, un affronto a Dio
stesso che nella sua infinita bontà e condiscendenza
ha voluto nascere da donna (cf. Gal 4,4) e rendersi
nostro “fratello consanguineo” (cf. Eb, 2,11-14).
Alla stirpe di Maria, pur nella fragilità della sua natura, e nonostante le violenze subíte, appartiene
ogni donna che vive secondo il carisma iscritto nella
sua stessa femminilità: quella di essere tutta dedita, con impeto di generosità inesauribile, al servizio
della vita.
E questo sia nella famiglia, sia nella società, sia nel
chiostro, dove, lontano da ogni frastuono, la donna
consacrata nella verginità realizza, nel solco della grazia, una maternità universale che riscatta le
mancate risposte di altre donne a questo sacro
compito. Esse non sono per questo preservate dalla violenza che imperversa nel mondo, perché sono
offerte per il mondo e ne portano misteriosamente
le ferite, così come Maria…
Chi più ferita di Maria rimasta là, sola, sotto la croce
del Figlio esposto al ludibrio delle genti? Eppure quella violenza subíta in silenzio ha contribuito a cambiare il corso dell’umana storia: «Vergine, cattedrale
del silenzio/anello d’oro del tempo e dell’eterno…»,
così ha cantato David M. Turoldo, riconoscendo che
proprio per averle ucciso il Figlio l’abbiamo ricevuta
come nostra Madre, Madre della nostra umanità rigenerata dall’Amore crocifisso. Perciò nessuna forma di violenza può ormai distruggere la vita senza
lasciare speranza di risurrezione.
Donna, forma estrema del Sogno,
anima del mondo,
tu sei il grido della creazione!
(Turoldo, Canti ultimi).
Grazie a Maria, dal cuore ferito di ogni donna, continua a levarsi il grido della nuova creazione, dell’umanità redenta. Ed è un grido di tristezza cambiata
in gioia.
M. Anna Maria Cànopi osb
Abbazia Benedettina «Mater Ecclesiæ»
Isola San Giulio - Orta (Novara)
Interventi di Madre Anna Maria Canopi
o.s.b., Abbadessa del Monastero Mater
Ecclesiae in occasione delle Giornate
sull’acqua 18-19 settembre 2009
promosse dal Soroptimist Alto Novarese
e del 6 novembre 2009 in occasione della
giornata “Voci nel silenzio. La violenza
nega l’esistenza” promossa dalla Regione
Piemonte contro la violenza sulle donne.