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Madre Anna Maria Canopi Da donna per le donne L’acqua Incontro con il gruppo Soroptimist 19 settembre 2009 Inserendomi nell’itinerario che già avete percorso lungo quest’anno dedicato al tema dell’acqua, ho pensato di fare con voi un rapido excursus attraverso la Sacra Scrittura - proprio solo alcuni spunti, affinché voi possiate poi proseguire la meditazione - considerando anche la situazione attuale, in cui, a livello planetario, si sta riscoprendo quanto essenziale e prezioso sia il bene dell’acqua per l’umana sopravvivenza. L’acqua è presente nella Sacra Scrittura fin dal secondo versetto della Genesi, là dove si dice che «lo spirito di Dio aleggiava sulle acque». L’opera creatrice è vista anzitutto come un ordinamento che Dio dà alle acque: «Dio… separò le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento… Dio disse: “Le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un unico luogo e appaia l’asciutto”. E così avvenne. Dio chiamò l’asciutto terra, mentre chiamò la massa delle acque mare. Dio vide che era cosa buona» (vv 7-10 passim). Ancora nel libro della Genesi, troviamo l’acqua del diluvio (cf. Gen 6-9). Questa creatura “buona” diventa travolgente e causa di morte. È il mezzo di cui Dio si serve per distruggere il peccato che ha inquinato le creature. Egli con il diluvio non vuole distruggere il genere umano, né gli altri esseri viventi; salva infatti la semente di ogni sua creatura nell’arca di Noè, perché possano ripopolare la terra. Dopo il diluvio compare l’arcobaleno come segno della pace tra il cielo e la terra: quest’acqua è quindi il simbolo della distruzione del peccato per la salvezza dell’uomo: dà la morte per una nuova vita; già possiamo quindi vedere in essa il segno del Battesimo. Ma è a partire dai patriarchi che l’acqua entra in modo decisivo nella storia della salvezza, al punto che proprio a partire dall’acqua – presento o assente – si potrebbero indicare le grandi tappe del cammino della discendenza di Abramo. Sempre pellegrini alla ricerca di Dio, i patriarchi procedevano nel loro cammino scavavando pozzi, necessitari alla loro stessa sopravvivenza. Non è difficile scorgere il significato spirituale di questa realtà di immediata esigenza pratica: occorre anzitutto scavare un pozzo nel proprio cuore, occorre scavare interiormente, per progredire nel cammino della ricerca di Dio e per incontrarsi con lui. I pozzi, infatti, diventano luoghi di incontri provvidenziali. È presso i pozzi che, in idillici scenari carichi di pathos umano e spirituale, vengono incontrate le future spose dei patriarchi: Rebecca, Rachele, Lia... Anche questo non è casuale, ma è già presagio della Chiesa, la Sposa vicina alle sorgenti della Vita, le sorgenti delle acque battesimali fecondate dallo Spirito per la generazione dell’uomo nuovo. Nel libro dell’Esodo la presenza dell’acqua diventa addirittura centrale, con un valore simbolico che sarà sempre ripreso e approfondito. Troviamo anzitutto l’acqua del Nilo: a questo grande fiume è affidato, dentro un cestello di vimini, il piccolo Mosè, che dai flutti di morte viene provvidenzialmente tratto in salvo. Egli è già simbolo dell’intero popolo di Israele, che sarà tratto in salvo dalla potente mano di Dio nella prodigiosa traversata del Mar Rosso, simbolo per eccellenza del Battesimo. Mentre il popolo di Israele in fuga dalla schiavitù dell’Egitto trova la salvezza attraverso queste acque, l’esercito del Faraone con tutti i suoi carri e i suoi cavalli - simbolo della potenza malvagia - è da esse sommerso e vi trova la morte. In senso spirituale, attraversare le acque del Mar Rosso significa allora lasciare la terra dell’infedeltà - la mentalità pagana, idolatrica - per entrare nella terra del Signore, disposti ad intraprendere l’arduo cammino della purificazione e della fede. Tutto il popolo di Dio ogni anno, con la festa di Pasqua, rievocherà questo grande evento salvifico. Passato il Mar Rosso, il popolo eletto non si trova subito nella Terra Promessa; per giungervi deve attraversare il deserto, terra arida, senz’acqua, luogo di tentazione per svelare i segreti dei cuori. Molte sono, in effetti, le prove che gli israeliti incontrano lungo il cammino. Ad un certo punto, il popolo, stremato per la mancanza d’acqua, è così scoraggiato da rimpiangere la schiavitù d’Egitto e mormorare contro Mosè perché lo ha condotto a morire di fame e di sete nel deserto, mentre là aveva acqua e cibo in abbondanza. Allora interviene il Signore stesso che, per mano del suo servo fedele, placa le contestazioni degli israeliti con il dono di una sorgente fatta scaturire dalla roccia (cf. Es 17,1-7). Anche quest’acqua è segno profetico di qualche cosa di più grande che deve ancora avvenire; è simbolo dello Spirito Santo, della grazia; e la roccia da cui scaturisce è Cristo stesso. Rileggendo l’Esodo, san Paolo così interpreta questo episodio: «Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, […] tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo» (1 Cor 10,1.4). Per ora, il popolo può bere, può sopravvivere e continuare il viaggio. Prima di entrare nella terra promessa, però, dovrà attraversare un grande fiume: il Giordano. Come l’uscita dalla terra di schiavitù, così anche l’ingresso nella terra promessa esige un ulteriore passaggio purificatore. Alla guida del popolo c’è ora Giosuè: «Le acque che scorrevano da monte si fermarono e si levarono come un solo argine… Le acque che scorrevano verso il mare dell’Araba, il Mar Morto, si staccarono completamente… I sacerdoti che portavano l’arca dell’alleanza del Signore stette- ro fermi all’asciutto in mezzo al Giordano, mentre tutto Israele attraversava all’asciutto, finché tutta la gente non ebbe finito di attraversare il Giordano» (Gs 3,14ss). Procedendo in questo rapido excursus, troviamo largamente il tema dell’acqua anche nei Salmi. Vi sono versetti bellissimi dai quali si comprende quale valore aveva agli occhi degli israeliti il bene dell’acqua. Si potrebbero citare tantissimi salmi, ma, per esempio, nel salmo 36 si legge: «Quanto è prezioso il tuo amore, o Dio! Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali, si saziano dell’abbondanza della tua casa: tu li disseti al torrente delle tue delizie. È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce» (vv 8-10). Dio, Amore fontale, è la sorgente stessa della vita; da lui riceviamo la vita; da lui, dal suo amore, attingiamo continuamente quell’acqua viva che sazia la sete più profonda dell’uomo, la sua sete di eternità, di felicità. Molto significativo in questa linea è, ad esempio, il salmo 87 che canta già la Gerusalemme celeste, figura della Chiesa: «Si dirà di Sion: “L’uno e l’altro in essa sono nati…” E danzando canteranno: “Sono in te tutte le mie sorgenti”» (vv 5.7). Passando in rassegna tutte le generazioni e tutti i popoli, nel vederli il Signore li annota, li scrive sul libro dell’anagrafe. Ogni popolo ha nella Gerusalemme del cielo la sua patria, la sua vera origine. Dio stesso, l’Altissimo, che l’ha fondata, la rende sorgente di vita eterna per tutti; di più, rende tutti partecipi di questa grazia di fecondità spirituale, di maternità. Si ravvivi allora in noi il desiderio di stare alle sorgenti della vita, di vivere il mistero della Chiesa, così da esultare di gioia per la rinascita spirituale di tanti nostri fratelli che vivono in una condizione di deserto spirituale e aspettano, secondo il disegno di Dio, di essere irrorati dall’acqua viva della nostra fede, della nostra preghiera, del nostro amore, affinché anche il loro deserto possa fiorire. Giungiamo così al messaggio lasciato dai Profeti. Quando il Signore vuole promettere al suo popolo un futuro di prosperità e di pace, la promessa è molto spesso legata al dono dell’acqua, in senso naturale, ma soprattutto spirituale: acqua che calma l’arsura, acqua che fa fiorire i deserti (Isaia), acqua sempre fresca e zampillante (Geremia), acqua portatrice di vita e di fecondità (Ezechiele). In breve, è l’acqua dell’abbondanza messianica che purifica, feconda, santifica, che manifesta la bontà di Dio nel riservare al suo popolo le sue benedizioni dopo averlo purificato per renderlo degno di ricevere i suoi doni. Il deserto è chiamato a rallegrarsi per la magnificenza del Signore: «Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa… Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo…» (Is 35,1-2). Il Signore trasforma il deserto in giardino in senso naturale, ma soprattutto in senso spirituale. È infatti il cuore dell’uomo il deserto più arido, come canta il Salmista: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua» (Sal 63,2). Ecco, allora, l’accorato invito del Signore per bocca del suo profeta: «O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite» (Is 55,1). In questo invito ad accorrere al Signore per avere pienezza di vita e di gioia sono preannunziati il dono dell’Eucaristia – pane che sazia la fame del cuore umano – e il dono dello Spirito Santo, sorgente d’acqua viva sgorgata dal costato di Cristo trafitto sulla Croce. Allontanarsi dal Signore significa invece fare esperienza dell’aridità, dell’infelicità, della morte spirituale. Il Profeta è mandato in quella lontananza per richiamare il popolo insipiente e spingerlo a conversione. Nelle parole ammonitrici di Geremia ritorna ancora, con accorati accenti, il simbolo dell’acqua. Perché Israele è ridotto all’infelicità? Ha abbandonato il Signore, «sorgente di acqua viva, e si è scavato cisterne, cisterne piene di crepe, che non trattengono l’acqua» (Ger 2,13), si è abbandonato all’idolatria, cercando sicurezza là dove non poteva trovarla. Questo allontanamento – verificatosi tante volte nella storia di Israele – porta il popolo eletto ad una morte spirituale realisticamente descritta da Ezechiele nella visione delle ossa inaridite. Eppure, su quella pianura di morte passa un soffio di vita, fiorisce una nuova speranza. E si giunge così alla visione conclusiva: la nuova umanità; l’umanità redenta descritta con l’immagine del tempio da cui scaturisce una sorgente che inonda tutta la terra: «Mi condusse poi all’ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente…. Quell’acqua scendeva sotto il lato destro del tempio, dalla parte meridionale dell’altare… Quell’uomo avanzò verso oriente e con una cordicella in mano misurò mille cubiti, poi mi fece attraversare quell’acqua: mi giungeva alla caviglia. Misurò altri mille cubiti, poi mi fece attraversare quell’acqua: mi giungeva al ginocchio. Misurò altri mille cubiti, poi mi fece attraversare l’acqua: mi giungeva ai fianchi. Ne misurò altri mille: era un torrente che non potevo attraversare, perché le acque erano cresciute; erano acque navigabili, un torrente che non si poteva passare a guado. Allora egli mi disse: “Hai visto, figlio dell’uomo?”. Poi mi fece ritornare sulla sponda del torrente; voltandomi, vidi che sulla sponda del torrente vi era una grandissima quantità di alberi da una parte e dall’altra» (Ez 47,1-7). Il testo prosegue poi con la splendida profezia: «Lungo il torrente, su una riva e sull’altra, crescerà ogni sorta di alberi da frutto, le cui foglie non appassiranno: i loro frutti non cesseranno e ogni mese matureranno, perché le loro acque sgorgano dal santuario. I loro frutti serviranno come cibo e le foglie come medicina» (vv. 12-13). È dunque un’acqua feconda e purificatrice, anticipo e segno dell’acqua battesimale, che cura le ferite del peccato e fa rinascere quali figli della luce, figli di Dio. «La cristianità degli inizi capì: in Cristo questa visione si è realizzata. Egli è il vero, il vivente Tempio di Dio. E Lui è la sorgente di acqua viva. Da Lui sgorga il grande fiume che nel Battesimo purifica e rinnova il mondo; il grande fiume di acqua viva, il suo Vangelo che rende feconda la terra» (Benedetto XVI). Passando così al Nuovo Testamento, in particolare al Vangelo secondo Giovanni, vediamo il compimento di tutti questi simboli e profezie. Siamo nel tempio di Gerusalemme, nell’ultimo giorno – il giorno solenne – della festa delle Ca- panne. Gesù, ritto in piedi, grida: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva» (Gv 7,37-38). In Gesù, dunque, può trovare vero esaudimento l’invito rivolto dal profeta Isaia: «O voi tutti assetati, venite all’acqua» (Is 55,1). Anzi, accade qualcosa di più; c’è un esaudimento che supera il desiderio stesso dell’assetato. Gesù, Sorgente d’acqua viva, non solo disseta la sete dell’uomo, ma se uno crede, «dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva». Non più soltanto andiamo alla sorgente della vita per dissetare la nostra sete, ma anche noi diventiamo sorgente d’acqua, possiamo anche noi diventare per tutti luogo di ristoro, di conforto. Diceva ancora Benedetto XVI nell’omelia di Pasqua di quest’anno: «Noi tutti conosciamo persone simili che ci lasciano in qualche modo rinfrescati e rinnovati; persone che sono come una fonte di fresca acqua sorgiva. Non dobbiamo necessariamente pensare ai grandi come Agostino, Francesco d’Assisi, Teresa d’Avila, Madre Teresa di Calcutta e così via, persone attraverso le quali veramente fiumi di acqua viva sono entrati nella storia. Grazie a Dio, le troviamo continuamente anche nel nostro quotidiano: persone che sono una sorgente. Certo, conosciamo anche il contrario: persone dalle quali promana un’atmosfera come da uno stagno con acqua stantia o addirittura avvelenata. Chiediamo al Signore, che ci ha donato la grazia del Battesimo, di poter essere sempre sorgenti di acqua pura, fresca, zampillante dalla fonte della sua verità e del suo amore!». Ecco, allora, l’incontro tra Gesù e la donna samaritana – simbolo dell’umanità alla ricerca di Dio – nel capitolo 4 del Vangelo secondo Giovanni. Gesù è in viaggio: con tutti gli uomini egli condivide la fatica e l’insicurezza dell’esistenza terrena. Pellegrino tra pellegrini, un giorno egli stesso stanco e assetato siede presso un pozzo… Ma subito quella “pausa di ristoro” si rivela quale occasione di un incontro da lui preparato. Infatti, mentre egli siede, una donna samaritana viene, come tutti i giorni, ad attingere acqua. Questa volta, però, le accade qualcosa di sorprendente, perché Gesù la sta attendendo. L’iniziativa dell’incontro parte da lui che, rivolgendosi ad essa, le chiede da bere. A tale richiesta la samaritana – appartenente a una popolazione dai giudei considerata eretica – rimane sconcertata, e, invece di compiere quell’umanissimo gesto di porgere l’acqua all’assetato, comincia a discutere, rivelando così che la vera povera, bisognosa di acqua vitale, è proprio lei. Gesù, entrando nel dialogo serrato che ella va intessendo, la conduce gradualmente ad aprirsi alla grazia e persino ad attirare altri a credere in lui, il Messia. È molto significativo che tale incontro avvenga all’ora Sesta: è l’ora della croce, della suprema offerta che Cristo fa di se stesso al Padre per noi: è l’ora della sua sete, l’ora in cui dal suo cuore trafitto sgorgano quei fiumi d’acqua viva – compiendo la profezia di Ezechiele – cui possono dissetarsi tutti coloro che vogliono essere salvati, per diventare a loro volta un fiume che scorre e va a dissetare i deserti riarsi dell’umanità. Il cammino che Gesù ha fatto compiere alla samaritana segna un passaggio dall’ignoranza alla conoscenza del dono di Dio, dall’incredulità alla fede, dall’egoismo all’amore, alla comunione e al servizio. È un cammino che ricomincia ogni giorno davanti a ogni nuova situazione. Abbiamo sempre bisogno di ricominciare, perché il dono della fede – ricevuto mediante il Battesimo, alimentato dalla vita sacramentale e dall’ascolto della Parola – deve essere custodito e vissuto; è un dono che fa aumentare in noi la sete, il desiderio di Dio, finché non lo possederemo pienamente nella vita eterna. Siamo tutti pellegrini sempre assetati, che anelano ad unirsi al coro degli eletti, al coro che risuona come voci di molte acque, a coloro che – dissetandosi alle sorgenti eterne della vita – cantano l’alleluia pasquale e ringraziano il Padre che ha reso candide le loro vesti nel sangue dell’Agnello. In questo incontro presso il pozzo di Sicar, Gesù fa appunto riferimento al dono di un’altra acqua, all’acqua sorgiva della vita soprannaturale. L’acqua naturale è bella, è indispensabile, ma noi abbiamo bisogno di vivere anche nella nostra dimensione spirituale. L’uomo è fatto per l’eternità e dell’eternità ha una profonda nostalgia. Per questo non possiamo rassegnarci alla morte fisica come se fosse l’annientamento di noi stessi; noi non potremo mai accettare la morte. Al di fuori di una visione di fede, non può esserci altro orizzonte che la disperazione non guaribile con vani surrogati di felicità. Gesù stesso davanti alla morte fisica sudò sangue, perché la morte è contro la nostra natura umana, che è fisica e spirituale. Noi siamo fatti per l’eternità. Come scriveva sant’Ignazio di Antiochia: «Un’acqua viva mormora dentro di me e mi dice: “Vieni al Padre”» (Lettera ai romani). Morendo per noi sulla Croce, Gesù ci ha uniti a sé come membra del suo stesso Corpo. La sua vita divina è quindi in noi. Proprio per questo abbiamo una tensione incontenibile a vivere per sempre, a vivere nell’Amore che è Dio stesso. Gesù porta a compimento questo nostro anelito: è lui la sorgente della vita, cui possiamo dissetarci per vivere eternamente. Sempre nel Vangelo secondo Giovanni, troviamo il simbolo dell’acqua in altri fondamentali incontri. Innanzitutto quello con Nicodemo (Gv 3) che, spinto dalla sete di verità, attraversa le tenebre della notte per recarsi da Gesù e da lui si sente dire che per entrare nel regno di Dio bisogna “rinascere dall’alto”, ossia da acqua e Spirito. È, come interpretarono i Padri della Chiesa, un’allusione al Battesimo e pure un riferimento alla profezia di Ezechiele: «Verserò su di voi un’acqua pura… metterò in voi uno Spirito nuovo» (cfr. Ez 36,25-27). L’incontro con Cristo, sorgente d’acqua viva, è un evento di grazia che fa compiere un “salto”, un radicale cambiamento di natura, un passaggio dall’uomo vecchio all’uomo nuovo, dalle tenebre alla luce, come si vede in tutti i miracoli compiuti da Gesù, molti dei quali avvengono proprio presso il lago di Genezaret. Non si possono inoltre dimenticare le acque miracolose della piscina di Siloe, dove ritrovano la salute i ciechi, i lebbrosi, i paralitici che vi si immergono con fede. Gesù chiede sempre la fede; essa è indispensabile perché egli possa operare il miracolo. Il Vangelo ci parla anche dell’acqua, che nel suo nome noi possiamo offrire al povero, al più piccolo dei fratelli; ogni gesto di carità farà sì che nel giudizio finale possiamo essere chiamati ad entrare nel Regno della vita eterna quali “benedetti del Padre”. Quest’acqua offerta all’assetato ci ricorda l’acqua che Gesù stesso chiese prima di spirare sulla croce. Disse infatti: «Sitio» (Gv 19,28), ho sete: quella sete era - ed è sempre - sete della nostra salvezza. Lo stesso desiderio dovrebbe bruciare il nostro cuore per amore di Cristo e dei fratelli. È un desiderio, una sete che attraverserà tutta la storia, fino al suo pieno compimento. È questa, infatti, la parola conclusiva della Sacra Scrittura. Già nel capitolo settimo dell’Apocalisse si ode un canto di salvezza, intonato dalla moltitudine di «quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello». Essi, «non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 7,15-17). Ecco l’esito finale della vita che ora è cammino di croce. Mentre siamo ancora per via e siamo continuamente partecipi della passione di Cristo per essere purificati, in prospettiva escatologica, in speranza, già apparteniamo a quella moltitudine di tribolati che sono consolati da Dio. Lo stato di privazione e di povertà, che ora ci fa soffrire, avrà termine; le situazioni di tentazione e di prova, che rendono arduo il cammino della nostra vita, cesseranno, e Dio asciugherà ogni lacrima dai nostri occhi (cf. 7,17). Allora tutte le promesse saranno compiute: «Ecco, sono compiute! Io sono l’Alfa e l’Omèga, il Principio e la Fine. A colui che ha sete io darò gratuitamente da bere alla fonte dell’acqua della vita. Chi sarà vincitore erediterà questi beni; io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio» (Ap 21,5-7) L’acqua viva diventa veramente l’elemento vitale della vita eterna, in cui tutti saremo pienamente purificati e dissetati. Le ultime parole dell’Apocalisse sono colme di speranza: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. E chi ascolta, ripeta: “Vieni!”. Chi ha sete, venga; chi vuole, prenda gratuitamente l’acqua della vita. Colui che attesta queste cose dice: “Sì, vengo presto!”. Amen. Vieni, Signore Gesù. La grazia del Signore Gesù sia con tutti» (Ap 22,17-22, passim). Così la vicenda dell’umana storia, passando attraverso l’acqua della tribolazione, sfocia nell’oceano infinito della consolazione. Laghi, sorgenti, fiumi e mari: tutto è bellissimo, ma tutto è soltanto un segno della vera realtà; tutto rimanda ad una più grande realtà che non passa. Contemplando la bellezza dell’acqua che si trova sulla terra, dobbiamo sempre pensare alla Città celeste, la città che raccoglie tutti i figli di Dio, dove tutto quello di cui ora ci è dato di godere avrà il suo compimento in una bellezza non immaginabile, indescrivibile. In un mondo dove gli uomini hanno tanta difficoltà a condividere i beni della natura e dove si inizia a preoccuparsi seriamente per la scarsità dell’acqua, questo bene così prezioso per la sopravvivenza ci rimanda al tempo stesso ad un bene ancora più grande e ci mette nella prospettiva della vita eterna. Dio affidò all’uomo la creazione perché la custodisse e ne usasse con discernimento e non perché ne diventasse padrone. Usare dei beni della natura a proprio arbitrio e per fini egoistici è innanzitutto un furto a Dio, poiché tutto appartiene a lui. La nostra stessa vita è sua. Un antico detto interpreta bene questa realtà della fede: «Vita mancipium nulli datur, omnibus usu» (Lucrezio). A nessuno la vita è data in proprietà, a tutti in uso. Possiamo anche dire: nulla è nostro, ma tutto Dio ci affida come un seme, come un talento da trafficare. Quale responsabilità! Ne consegue anche il dovere del rispetto per la natura, la quale non è da sfruttare per arricchirsi, e tanto meno non è da manipolare violando le leggi del suo equilibrio. L’uomo del nostro tempo ha molto di cui rimproverarsi a questo riguardo. Quanto cammino c’è da fare in questo senso! Significative alcune frasi di un tema sull’acqua svolto da un bambino delle scuole elementari di Arzano, paese vicino a Napoli; esso comincia così: «L’acqua è un dono di Dio: io lo so che è fresca, quando scende dalla fonte…», e si conclude con una mesta considerazione: «L’acqua è un dono di Dio, ma in Calabria non ce l’hanno» (Io speriamo che me la cavo, Mondadori, Milano 1984, p. 87). In quante altre regioni della terra mancano i pozzi e le sorgenti! Un adeguato soccorso non è possibile, se non si apre il cuore a ricevere quell’acqua viva che è lo Spirito Santo, Spirito di sapienza e di amore che ci fa vivere da veri figli di Dio, non egoisticamente, solo per noi stessi, ma anche per gli altri, riconoscendoli fratelli. Maria, la Donna ferita sotto la croce «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’eterno consiglio, tu sei colei che l’umana natura nobilitasti sì, che il suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura… Donna, sei tanto grande e tanto vali che qual vuol grazia e a te non ricorre sua disianza vuol volar senz’ali (Dante, Paradiso XXXIII,1-15 passim). Vi stupirete, forse, che la mia voce si inserisca con questi sereni poetici accenti nella dolente sinfonia di voci che hanno presentato la squallida e triste situazione della donna, oggi largamente fatta oggetto di violenza; una violenza tanto più ignobile in quanto consumata entro le stesse mura domestiche in cui la donna dovrebbe poter risplendere come il sole con il sorriso del suo amore. Alle figure femminili che sono esposte al vostro sguardo con i segni delle loro ferite, vengo dunque a sovrapporre questa splendida icona della Donna per eccellenza, Maria, la Vergine Madre di Cristo, Figlio di Dio. Il Poeta mette questa invocazione sulla bocca di san Bernardo, quando, nella visione della “rosa mistica” del Paradiso, appare Colei che, acconsentendo al disegno di Dio, ha introdotto nel mondo il Verbo della vita, il Restauratore dell’immagine di Dio nell’uomo. In Maria ogni donna riacquista la sua piena dignità, la sua vera bellezza interiore che nessuna violenza può distruggere, la sua inviolabile sacralità quale fonte della vita. Per questo ogni offesa alla sua dignità è una specie di profanazione, un affronto a Dio stesso che nella sua infinita bontà e condiscendenza ha voluto nascere da donna (cf. Gal 4,4) e rendersi nostro “fratello consanguineo” (cf. Eb, 2,11-14). Alla stirpe di Maria, pur nella fragilità della sua natura, e nonostante le violenze subíte, appartiene ogni donna che vive secondo il carisma iscritto nella sua stessa femminilità: quella di essere tutta dedita, con impeto di generosità inesauribile, al servizio della vita. E questo sia nella famiglia, sia nella società, sia nel chiostro, dove, lontano da ogni frastuono, la donna consacrata nella verginità realizza, nel solco della grazia, una maternità universale che riscatta le mancate risposte di altre donne a questo sacro compito. Esse non sono per questo preservate dalla violenza che imperversa nel mondo, perché sono offerte per il mondo e ne portano misteriosamente le ferite, così come Maria… Chi più ferita di Maria rimasta là, sola, sotto la croce del Figlio esposto al ludibrio delle genti? Eppure quella violenza subíta in silenzio ha contribuito a cambiare il corso dell’umana storia: «Vergine, cattedrale del silenzio/anello d’oro del tempo e dell’eterno…», così ha cantato David M. Turoldo, riconoscendo che proprio per averle ucciso il Figlio l’abbiamo ricevuta come nostra Madre, Madre della nostra umanità rigenerata dall’Amore crocifisso. Perciò nessuna forma di violenza può ormai distruggere la vita senza lasciare speranza di risurrezione. Donna, forma estrema del Sogno, anima del mondo, tu sei il grido della creazione! (Turoldo, Canti ultimi). Grazie a Maria, dal cuore ferito di ogni donna, continua a levarsi il grido della nuova creazione, dell’umanità redenta. Ed è un grido di tristezza cambiata in gioia. M. Anna Maria Cànopi osb Abbazia Benedettina «Mater Ecclesiæ» Isola San Giulio - Orta (Novara) Interventi di Madre Anna Maria Canopi o.s.b., Abbadessa del Monastero Mater Ecclesiae in occasione delle Giornate sull’acqua 18-19 settembre 2009 promosse dal Soroptimist Alto Novarese e del 6 novembre 2009 in occasione della giornata “Voci nel silenzio. La violenza nega l’esistenza” promossa dalla Regione Piemonte contro la violenza sulle donne.