Un “pesantissimo zain o” pieno di pace

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Un “pesantissimo zain o” pieno di pace
IMP. ITALIA FEBBRAIO_italiano.qxp 16/01/17 14.11 Pagina 22
LE OPERE DI MISERICORDIA SPIRITUALE
Paola Zampieri
Un “pesantissimo zaino”
pieno di pace
Chi perdona è capace di rompere il circolo vizioso della violenza
e della vendetta. Perdonare è riconoscere che la persona che
ha offeso è più del male che ha fatto, e darle un’altra possibilità.
I
n famiglia ce l’hanno insegnato fin
da bambini: «Fai la pace con tuo fratello», e la mamma ferma lì a vigilare
che il gesto avvenga, la mano si tenda a coprire la distanza tra i due figli, le
dita si afferrino... e poi via di corsa, di
nuovo a giocare assieme. Nella vita però
non rimane un gesto così semplice quello
di perdonare, anzi, diventa tanto più difficile quanto più grande e dolorosa, più
gratuita e ingiusta, è l’offesa ricevuta.
«Oggi si tende a spettacolarizzare il
perdono, si vedono scene allucinanti di
giornalisti che chiedono a chi ha perso
un parente per un omicidio se intende
perdonare. E questo quando il fatto è accaduto da poche ore. Il perdono è un
percorso personale e interiore: se è reale, sincero e profondo, non può essere
pubblico. È un percorso lungo, non lineare, difficile, che dura una vita». Sono
parole di Mario Calabresi, oggi direttore
del quotidiano Repubblica, figlio del
commissario Luigi Calabresi ucciso da
un commando di Lotta Continua il 17
maggio 1972. Gemma, rimasta vedova
quel giorno a 25 anni con tre bambini da
crescere, ha dichiarato: «In quel momento avrei massacrato gli assassini di
mio marito con le mie mani, se avessi
potuto. E questo anche se ho fatto la
straordinaria esperienza di ricevere in
dono la certezza della fede». Sua madre
le suggerì di usare per il necrologio di
Luigi le parole di Gesù “Padre, perdona
loro perché non sanno quello che fanno”, dicendole che si deve sempre fare
tutto quello che è possibile per spezzare
la catena dell’odio. Gemma accettò, senza capire, nello stordimento del dolore.
Racconta poi che furono proprio
quelle parole a sviluppare, lentamente,
la riflessione sul perdono, fino a trovare
il senso di quanto Gesù ha detto sulla
croce nella comprensione che il percorso del perdono dura una vita e che la
strada da percorrere è «l’affidarsi a Dio
da una parte e il rispetto per il cammino
dell’uomo dall’altra. In qualche modo
quelle parole derivano dalla consapevolezza che non si perdona né con la testa
né con le parole, ma solo con il cuore. È
con il cuore che si dona il perdono».
Chi perdona è capace di rompere il
circolo vizioso della violenza e della
giustizia dell’“occhio per occhio, dente
per dente”. Perdonare è anche riconoscere che la persona che ha offeso è più
dell’errore e del male che ha fatto, è dare a se stessi la possibilità di uscire dal
rancore e dal risentimento, dalla voglia
di ritorsione, ed è anche mettere l’altro
di fronte alla propria responsabilità del
male fatto, offrirgli la possibilità di
cambiare e di vivere in maniera diversa.
Trasformare la memoria in impegno,
la solitudine e il dolore di chi resta in
una scelta di vita e riconciliazione è
quanto porta avanti dal 1995 Libera,
coordinamento di oltre 1500 associazioni e gruppi della società civile uniti nella lotta alla mafia, per la giustizia sociale e la legalità, diritti e dignità per ogni
persona. I familiari delle vittime di mafia e della criminalità, aderendo a Libera, si prendono l’impegno di portare la
propria esperienza perché sia di esempio ad altri e possa accompagnare chi
patisce le stesse sofferenze.
«Sto camminando da tempo portando
un pesantissimo zaino pieno di pace, di
giustizia, ma anche del carico morale e
mentale dei fatti che la mia famiglia ha
vissuto» racconta Alessandro Antiochia,
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fratello di Roberto, agente di polizia ucciso dalla mafia a Palermo il 6 agosto
1985, a 23 anni, nell’attentato al vicecapo della squadra mobile Ninni Cassarà,
con 208 colpi di kalashnikov. Una sorella morta di overdose aveva fatto scattare
in Roberto la scelta di entrare a 18 anni
in Polizia per combattere per la legalità,
perché non accettava che la mafia si arricchisse sulle spalle dei più deboli. Lo
Stato si rivelava debole in Sicilia, gli
agenti come Roberto andavano avanti
perché credevano in quello che facevano, ma erano senza mezzi. «Dopo la
morte di mio fratello, lo Stato con noi fu
assente – afferma Alessandro che oggi è
membro del Consiglio nazionale di Libera e responsabile del gruppo Familiari
vittime della mafia del Lazio –. Mia madre invece fu forte, non rimase in silenzio, scrisse ai giornali, si unì a Nando
Dalla Chiesa e a don Luigi Ciotti. Alle
tre di notte si alzava e lavava i pavimenti: “Qualcosa bisogna pur fare”, mi diceva. Ma non ce la faceva a perdonare, la
ferita subìta dal cuore era troppo grave».
Scontata la pena, gli assassini di Roberto sono usciti dal carcere; ora sono
protetti perché collaboratori di giustizia,
anche se hanno 48 omicidi alle spalle.
«Per noi familiari è una coltellata, il dolore ti spezza – prosegue Alessandro –
Mia madre andava nelle scuole a parlare
ai ragazzi per portare avanti quello che il
figlio aveva iniziato. Quando è mancata,
ho capito che dovevo continuare io a trasformare una parte del dolore in impegno, perché queste cose non possano più
accadere, perché nessuno debba più soffrire come noi. Noi familiari delle vittime, a nostra volta vittime, continuiamo a
camminare, non ci possiamo fermare. La
cultura è una cosa che la mafia odia, perché non riesce a conquistarsi spazio fra
le persone colte. Questo diciamo ai ragazzi: che il denaro è pericolo di morte
se è in mano ai mafiosi; che la famiglia e
la scuola sono importanti e devono insegnare la differenza tra bene e male».
Ma si può perdonare? «Io – afferma
Alessandro – anche se non riesco ancora
a farlo, il problema me lo pongo; è difficile, ma non impossibile. Al processo ho
guardato in faccia gli assassini di mio
fratello: i loro occhi vitrei, senza lampi
di vita, sono come proiettili che ti staccano dalle cose; dopo fatti del genere non
si è più come prima. Noi di Libera siamo
tutti esseri umani e ci stringiamo assieme, con l’impegno ad andare avanti. La
cosa più importante è la vita, quella dei
nostri figli, delle persone che amiamo. Io
credo in un mondo migliore».
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PRETI IN PRIMA LINEA
La strage di Capaci, il 23 maggio
1992, in cui morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e tutti gli
agenti della scorta, ha segnato
«l’avvio di una riscossa morale, l’apertura di un nuovo orizzonte di impegno grazie a ciò che si è mosso nel
Paese a partire da Palermo e dalla
Sicilia, grazie alla risposta di uomini
delle istituzioni, al protagonismo di
associazioni, di giovani, di appassionati educatori e testimoni, (...) a chi
ha compreso il valore della cultura
della legalità che vive anzitutto nell’agire quotidiano». A dirlo è stato il
Presidente della Repubblica Sergio
Mattarella che ha sperimentato in
prima persona la morte violenta di
un familiare, il fratello Piersanti,
presidente della Regione Sicilia assassinato nel 1980 da un sicario rimasto sconosciuto nonostante inchieste e processi.
Nell’impegno quotidiano richiamato dal Presidente si muovono anche i tanti preti che operano nei territori ad alta densità mafiosa e in
balìa della criminalità organizzata.
Tra questi è don Aniello Manganiello, per 16 anni parroco a Scampia
(Napoli) e fondatore di Ultimi - Associazione per la legalità. Prete dell’Opera di don Luigi Guanella, ha
applicato alla vita quotidiana il motto del fondatore “date pane e Signore”. «Il disagio sociale non si abbatte con le chiacchiere e le fiaccolate –
ha affermato in un’intervista – Di
fronte al male, alle prepotenze, alle
ingiustizie il cristiano non si chiude
in canonica, ma va per le strade, dove l’uomo vive, per denunciare, pro-
teggere e sostenere. La Chiesa può
fare molto se si sporca le mani nel
fango dell’umanità che si è persa
nelle strade dell’illegalità e del malaffare. E anche se denuncia i ritardi
di uno Stato che non fa il suo dovere». Don Aniello ha incontrato più di
500mila studenti, convinto che l’educazione alla legalità sia lo strumento
più efficace per non imboccare strade sbagliate, insieme al lavoro che
dà onestamente quel pane di cui
l’uomo ha bisogno per vivere.
Un altro prete in prima linea è
don Giorgio Pisano (nella foto:
mentre guida una manifestazione
per la legalità), parroco a Portici
(Napoli). Per lui pastorale sociale e
impegno civile anticamorra vanno
di pari passo perché «è sbagliato
pensare che sociale sia in contrapposizione a spirituale». Nel Centro
di ascolto antiusura don Pino Puglisi, associato a Libera, don Giorgio
accompagna le vittime di usura a
denunciare gli aguzzini, ad accedere
al fondo nazionale di solidarietà e a
percorsi di educazione all’utilizzo
responsabile del denaro. Il tutto secondo lo “stile delle tre P” di padre
Puglisi: piccoli passi possibili.
Infine ricordiamo il Progetto Policoro della Conferenza episcopale
italiana, nato per stimolare l’imprenditorialità dei giovani del Sud e
creare occupazione e futuro, anche
come antidoto alla mafia. In vent’anni di attività sono state coinvolte 38
diocesi e sono nate 700 aziende con
un totale di 4mila dipendenti e un giro d’affari stimato tra 80 e 100 min
lioni di euro annui.
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