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PARIGI VAL BENE
UNA MESSA IN PIEGA
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OSEXIONE
FREAKSEX
MY NAME IS ROBOT,
ROBBY THE ROBOT
CASA ABASTOR
LA CADUTA DEGLI
DEI DI PLASTICA
ROLF HARRIS
IL DISCO DELLA MIA VITA: LIFT
UP YOUR VOICE AND SING
BAMBOLE, SOLDATINI E
REGINE UBRIACHE
MY SWEET
GROOVY LIBRARY
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27 REPERTI
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47 REPERTI
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L’AMARISSIMO
CHE FA BENISSIMO
DEGUSTAZIONI
REDATTORI ANTONIO AMATO, DONNA BLANDIZIA, DRUNK QUEENS, ENRICO SIST, F.C.N., L.C. ≠ DEGUSTATORI ANG, BLACK VINYLE (B.V.), F.C.N. ≠ CORRETTORE BOZZE ANG ≠ SUGGERITRICE DI IDEE BALZANE Marzia Malo Lorusso ≠ GRAFICA F.C.N. ≠ CONTATTI F.C.N., VIA ROMA 53/1, 31021 MOGLIANO
VENETO (TV) ≠ [email protected] ≠ HTTP://ABASTOR.ALTERVISTA.ORG/ ≠ SUPPLEMENTO A STAMPA
ALTERNATIVA - TRIBUNALE DI ROMA N. 276/83 - DIRETTORE RESPONSABILE MARCELLO BARAGHINI
Reperti
IL BENVENUTO
Degustazioni
Cristiano Malgioglio Artigli
(1981) LP
Il
Benvenuto
di Donna Blandizia
Ci sono dischi che trasfigurano il loro ruolo di
semplice supporto fonografico e assurgono a
icone sacre, simboli stessi di un fermento culturale, istantanee di un’epoca, opere d’arte da
esporre in una teca di vetro. Si parla allora di
“pietre miliari” del rock. Ma con questo LP
Cristiano Malgioglio va ancora oltre, raggiungendo lo status di madonnina di Lourdes discografico-abastoriana, apparizione mistica di un
elegante, raffinato, supremo cattivo gusto. La
Santa Vergine della musica pop italiana, accumula in questo LP tutta la sua potenza messianica, messaggera di amore, fede e speranza,
lasciandoci intravedere lo spiraglio di salvezza.
Una copertina ammiccante nero-notte-senzaluna, da cui Malgioglio fa l’occhiolino birbone e
ruffiano, ci avvinghia a sé maga Circe e ci trattiene tra i suoi artigli. Copertina rudemente
maschia e graffiante, lascerebbe tranquillamente cadere in inganno lo sprovveduto acquirente se il
nome e il titolo fossero in inglese, facendo pensare a un disco di heavy metal. Metallo pesante, quello
di Malgioglio, quanto un boa di piume di struzzo: doppio inganno per catturare nella sua ragnatela la farfalla che vuol farsi catturare ma che non osa dire il suo nome. E così Malgioglio si lascia andare alla più
sordida ambiguità, insolita per il Nostro, se si pensa a liriche esplicite in modo quasi scabroso e cariche di imbarazzanti doppi sensi, portabandiera dell’orgoglio gay musicale ben più in là e ben più esplicitamente di taluni altri personaggi dell’epoca travestiti da new-waver electro-pop e ora ridotti a cantantucoli neo-melodici di terz’ordine. Ambigua come non mai è la celeberrima Caro Direttore (più tardi
“coverizzata” dallo stesso Malgioglio in ben due rivisitazioni dedicate a Berlusconi), con un testo che al
primo ascolto potrebbe far pensare a un amore eterosessuale contrastato dagli astri: “Io bilancia, lei
scorpione, un segno che non va con l’amore…”. Ma la presunta “lei” della canzone, a sapere leggere tra
le righe, potrebbe tranquillamente risultare nient’altro che una forma di cortesia rivolta allo stesso
“caro direttore”. A conferma dell’ipotesi una frase buttata apparentemente a caso: “un amico ce l’ho”,
ridefinisce in chiave omo l’intera lettura della canzone, tanto da chiederci chi fosse il “caro direttore”
oggetto di attenzioni amorose da parte dell’autore. Questa melliflua introduzione non basta a imburrare i nostri orifizi acustici tanto da rendere meno dolorosa la penetrazione del rifacimento del classico
The Days of Pearly Spencer, qui nella doppia “cover della cover” della Caselli, Il senso della vita: brano
camp oltre ogni ragione, e se si pensa che è stato cantato anche da Gene Pitney e Marc Almond, il cerchio trova un suo punto di sutura preciso. Sorvoliamo su Amore mio, amica mia e A stretto giro di posta
per concentrarci su Giornalista, dove Cristiano si rivolge in seconda persona a un altro oscuro figuro
redazionale, sulla traccia del già citato Caro direttore, disquisendo a lungo sul suo rapporto con i media
e il suo ruolo di star (“Sono una Diva, una Diva”). Marlon, più tardi utilizzata come sigla per un ciclo di
film dell’attore, sorge languidamente come un caldo wet dream mattutino in cui il Nostro sogna la star
hollywoodiana protagonista di Il selvaggio e Fronte del porto. Canzone degna di essere cantata in un
night, da un Maglioglio in calze a rete e cilindro argentato, seduto al contrario su di una sedia mentre
divarica le gambe e fuma da un lungo bocchino nero: le sue note quasi da kabarett brechtiano rimandano infatti a un clima sordido e decadente da Germania weimeriana. Intrigante e catchy la checchissima All’hotel della fretta che sfoggia l’ennesimo testo allusivo e birichino “All’hotel della fretta / non
conosci l’emozione / solo amanti d’occasione / qualche artista di passaggio / che ti lascia il suo linguaggio”. Curiosa la presenza di Quale appuntamento, composta da Malgioglio per Eleonora Giorgi, che
la canta, accoppiata a un’altra “malgiogliata”, Messaggio personale, in un 45 giri dato alle stampe lo
stesso anno per Dischi Ricordi. Bisogna riconoscere, tuttavia, che Malgioglio esegue il brano certamente meglio della stonatissima Giorgi… forse che Cristiano lo ha fatto come ripicca, una volta sentita
la versione dell’attrice? In Voglio Mama parla di sé in terza persona con l’atteggiamento posato di una
diva consumata: “Si spoglia qui / accanto a te / malignità sulla sua età / e ciò che dicono / le lingue
triforcute”. Chiude il disco la meno interessante Luna Nuova, che non lascia grandi tracce nella nostra
memoria. Non mancano le sviolinate nel retro copertina, dove Malgioglio ringrazia, tra gli altri, l’immancabile stilista Artemio, Ornella Vanoni per averlo aiutato nella stesura del testo di Amore mio,
amica mia, un misterioso Miki e lo stesso Marlon Brando, cui dedica tutto il suo amore. Turbati, ma non
troppo, dalle piroette affettate di Malgioglio, posizioniamo l’icona sacra di questa nuova Beata, religiosa e pia, sul nostro personale altarino e accendiamo due candele dedicandole una prece prima di
addormentarci. Amen. (F.C.N.)
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Gentile Amica,
si sarà chiesta come mai la nostra oddzine
démodé sia mancata per così lungo tempo
alle Sue care lettrici. Avrà temuto l’ira della
divina folgore o della più secolare censura,
intervenuta a porre fine a un sì raffinato ed
elegante periodico, che annualmente Le si
presenta innanzi con pagine e pagine di prelibatezze idilliache. Avrà persino, colta dallo
sconforto, osato temere l’avvento di uno sciame di cavallette bibliche, affamate divoratrici
di carta, macchine da scrivere, tipi e presse
tipografiche! Suvvia, mia Cara! Non sia così
sciagurata! Abastor è qui ancora una volta
per farLe compagnia, confortarLa, coccolarLa ed elargirLe preziosi consigli di moda,
maquillage e gastronomia, così da far contento quello scellerato e inetto del Suo maritino, che rincasando la sera dopo una giornata di dolce far nulla in ufficio, mentre Lei si
prodigava a nettare la vostra squisita dimora,
l’avrà rimproverata ritrovandosi in tavola la
solita minestrina fredda e sciapa!
Amica Cara, Abastor Le sa presentare cose
ben più belle, raffinate ed eleganti, di quel
rozzo ammennicolo del suo coniuge, cose
che ogni vera signora sa apprezzare e
amare, ben oltre le noiose faccenduole
domestiche! Abastor sa infatti proporLe utili
consigli atti a migliorare il suo bon ton, la sua
presenza in società, attraverso una guida
puntuale e precisa a tutto ciò che si può e
non si può fare per far bella figura e non
doversi vergognare di quel villano illetterato
del Suo consorte!
Del resto la nostra attiva presenza in Società,
intervenendo alle eleganti Serate Abastoriane, non è certo mancata, chi più di noi sa
come ci si deve comportare a tali eventi mondani? Stia tranquilla, Amica Cara, Lei si trova
in buone mani! Segua i nostri consigli e vedrà
che si troverà contenta.
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di F.C.N.
Lift Up Your Voice And Sing
Gli americani sono strani, è risaputo. I coloni che abitano i territori selvaggi e inospitali del
Nuovo Mondo hanno usanze barbare, conseguenti all’habitat nel quale si trovano a dimorare.
Si abbigliano in modo bizzarro, con strani cappellacci da mandriano, stravaganti camiciuole dai
colori sgargianti e pantaloni di stoffaccia blu di cotone, su cui portano chiassosi stivali di cuoio
decorati da ghirigori colorati. Girano armati, abitudine assai volgare, di sfarzose pistole riposte in vistosi cinturoni di cuoio. Si nutrono di strane polpette
di carne condite con astruse salse in panini mollicci. E si
esprimono in modo rozzo e plebeo anzi che no. Non c’è da
meravigliarsi, quindi, che vadano in giro per il mondo a sparare a ogni cosa che si muove!
Ai pargoli di quel Paese eccentrico vengon fatte ascoltare,
tramite fonografo, allegre canzoncine inneggianti al Signore,
alla Patria e al Presidente, in un’unica soluzione. Di tale
microsolco propedeutico ne è pervenuta inaspettatamente
una copia in Europa, vecchio mondo antico dai gusti ben più
eleganti ed educati; e noi, gentiluomini dal gusto raffinato e
sensibile, ce ne siamo appropriati per esaminare i misfatti di
questo popolo dagli usi bizzarri. Lift up your voice and sing
(“Alza la voce e canta”) è un LP destinato al pubblico infantile di cui ci siamo perdutamente innamorati. Ritrovatolo all’interno dei soliti scatoloni di 12” a € 1.00, nascosti sotto il bancone dove nessuno guarda, ma dove sappiamo bene di poter
rinvenire sempre qualche preziosa chicca abastoriana: scostato l’LP che lo precedeva (il solito, anonimo, discaccio di funky-soul-rythm’n’blues anni ’80), questo vinile è stato avvolto da un
raggio di luce proveniente dall’alto, manifestandosi così in tutta la sua sacra verità divina.
A tratti farneticante, il microsolco è un viaggio allucinatorio nei gironi infernali del cristianesimo a stelle e strisce. La povertà della strumentazione e dello studio di registrazioni è imbarazzante, ma la Fede non si arresta davanti a nulla, facendo cantare bimbetti biondi su musichette mollicce dagli arrangiamenti scialbi – sul genere di quelle che potremmo ascoltare in
una chiesa evangelica –, canzoni pregne di mistica religioso-patriottica. Gli USA sono la terra
del latte e miele e gli americani il popolo eletto, non dimentichiamolo.
Il disco è un prodotto di quella Chiesa di Gesù Cristo e dei Santi degli Ultimi Giorni (Church of
Jesus Christ of Latter-Day Saints), i soliti mormoni modernizzati che circolano anche da noi in
maniche di camicia e cravatta a coppie di due, dove l’uno è indistinguibile dall’altro, ed entrambi dal resto della comunità, come i Borg; ed è cantato dai Primary Children (bambini delle elementari) e stampato per la Tempe Primary Record:
Tempe: Tempe, Arizona, la sede della Chiesa;
Primary: la scuola della Chiesa frequentata dai bimbi canterini che hanno registrato il disco;
Record: dischi.
Il disco, che non sappiamo datare, privo com’è di ogni riferimento temporale – approssimia-
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Doctor Who – Gli inizi
Doctor Who – I Dalek attaccano la Terra
(DNC Enterteinment, 2008) DVD
Che Abastor sia uno dei pochi, devoti, fan in Italia del Doctor Who, è
un dato di fatto comprovato da molte testimonianze oculari. Del resto
il fascino retro di un Signore del Tempo in abito edoardiano proveniente dal pianeta Gallifrey; della cabina telefonica della polizia inglese
che nasconde una macchina del tempo, il Tardis; di una serie di avventure strampalate in giro per passato e futuro, dove tutti, dagli antichi
aztechi agli alieni Daleks parlano un perfetto inglese; di una sigla, la
più bella mai composta per una serie televisiva; il tutto avvolto da uno
spirito così british come nient’altro in TV, sa affascinarci e catturarci
nelle maglie del tempo. In Italia si è purtroppo visto poco, sono state
importate e doppiate solo sette avventure (divise in 4 o 6 episodi,
come di regola per la televisione britannica), del più popolare dei dottori, il quarto, quello impersonato da Tom Baker. Ma la serie, la prima,
è durata per ben 26 anni, vedendo avvicendarsi (“rigenerarsi”, per
parlare nella lingua del telefilm) ben sette Signori del Tempo. Riparare
al danno fatto è dura: certo non si può immaginare possibile, adesso,
proporre sul mercato 26 anni di Doctor Who (senza contare la nuova
serie, alla quale rinunciamo volentieri), ma la DNC Enterteinment (la
stessa dei cofanetti di Ai confini della realtà, per intenderci) ci prova,
presentando se non altro le avventure migliori. Si parte con il primo
dottore, quello interpretato da quel William Hartnell che ha portato il
personaggio dagli esordi fino al ’66. Il primo cofanetto contiene infatti le prime tre avventure, mentre il secondo una scelta di altre tre
avventure, dal 1963 al 1966. Ci basta, anche perché i due cofanetti
contengono le avventure originali da cui sono tratti i remake cinematografici interpretati da Peter Cushing, e di cui il primo, e più bello, è
inedito in Italia: Doctor Who and the Daleks e Daleks, il futuro tra un
milione di anni (Daleks – Invasion Earth 2150 AD). C’è solo da sperare che Abastor non sia l’unico a recepire il messaggio e che l’iniziativa continui con successo regalandoci altri episodi della lunga saga. Coraggio. Simili proposte vanno
sostenute: comprateli, vi assicuro che ne vale la pena. Succosissimi extra ci guidano a conoscere
meglio genesi e retroscena della serie, le cui atmosfere claustrofobiche in bianco e nero, familiari a
chi ama sceneggiati come A come Andromeda, non potranno che lasciare il palato soddisfatto. (F.C.N.)
Pistola Bolle
(Villa Giocattoli, Linea Giocoplast) Giocattolo
I tempi che stiamo attraversando sono incerti e molesti,
da più parti si alzano voci che reclamano i giusti provvedimenti, misure di sicurezza che nessuno pare disposto
ad assumersi la responsabilità di emanare. Non c’è da
stupirsi se poi qualcuno decide di armarsi… Ne abbiamo
pienamente diritto! È giusto! Perché aspettare? Essì!
Basta con le parole! È ora di agire, di difendersi dal
mondo grigio e noioso che ci circonda! Da un mondo
adulto, pieno di serietà, noia e luoghi comuni, in cui agire
sempre in modo composto e logico, esprimendosi attraverso frasi con un senso compiuto, dimostrando di
avere i piedi per terra senza potersi mai lasciar andare
ai più fantastici voli pindarici… Scendiamo in piazza e
uniamoci al coro collettivo: “Basta con le pastefrolle
vogliamo la Pistola Bolle!” 1. Aprite il blister (lo so, è
dura, vi capisco, ma bisogna farlo, forza, fate un respiro
profondo e… 1… 2… 3… SSSTRAP!). 2. Versate la temibile miscela di acqua e sapone nel tappo della
boccetta. 3. Intingete a fondo la punta della vostra pistola nella pozzanghera umidiccia e vischiosa. 4.
Azionate il grilletto a più non posso e sparate tante bolle in direzione della mediocrità e della convenzionalità che vi circondano! Il mondo sarà più bello. Grazie Malo. (F.C.N.)
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Degustazioni
Il disco della mia vita
Degustazioni
Jean Jacques Perrey The Amazing New Electronic Pop Sound of Jean Jacques Perrey
(Vanguard, 1968) CD
Credo sappiate già molto bene chi sia Jean Jacques Perrey,
padrino dell’elettronica pop a cavallo tra anni ’60 e anni ’70 e
tuttora attivo: è in tournée negli USA con Dana Countryman
assieme al quale ha realizzato The Happy Electronic Music
Machine e sta preparando il nuovo Destination Space. Tuttavia,
per coloro i quali fossero a digiuno di Storia della Musica, ricorderemo che Perrey fa parte della santa trinità del Moog, congiuntamente a Gershon Kingsley (autore di Pop Corn), con cui
collaborò strettamente realizzando un paio di album di successo
(usando, però, l’Ondioline e il tape loop - pezzi di nastro tagliati e
ripetuti: Delia Derbyshire ci suonò la sigla del Doctro Who col
medesimo sistema!), e Walter/Wendy Carlos (vedi Abastor
#28). Dobbiamo a personaggi come Perrey se l’elettronica, un
tempo sofisticato, ma ostico, genere d’avanguardia, è divenuta
musica apprezzabile anche dal popolo (ma forse qualcuno pensa
ancora che l’elettronica pop l’abbiano inventata i Kraftwerk…).
Tra gli album migliori di questo compositore francese vanno ricordati senz’altro lo straordinario Mood
Indigo (contenente la strepitosa Gossipo Perpetuo), e, in duo con Kingsley, In sound from way out!, grazie
al cielo tutti ristampati in CD in anni recenti. Ciononostante, non conoscevo ancora questo The Amazing
New Electronic Pop Sound of Jean Jacques Perrey, ricco di divertenti invenzioni e bizzarre variazioni sul
Moog. Quella che possiamo ascoltare in questo CD è la “musica del futuro”, il retro-futuro, quello cioè che
potevamo immaginare negli anni ’60, ma che è ben lontano dal nostro futuro reale, dove ci troviamo sommersi da una montagna di musica di merda. Tra le migliori composizioni di questo disco: Mary France, è
la musica da camera che potremmo ascoltare a bordo della stazione spaziale di 2001: odissea nello spazio; assai kitsch la stravagante variazione su tema di Frére Jean Jacques, da noi meglio nota come Fra’
Martino Campanaro; addirittura psichedelica la squisita Porcupine Rock; spensierate, spiritose e birichine le botaniche Mexican Cactus e Brazilian Flower; sfrenatamente bizzarra The Little Ship; degna di un
episodio di Futurama la baldanzosa The Minuet of The Robots; fantascientificamente lodevoli la futuribile
The Little Girl from Mars e l’incantevole Island in Space; adatta da far da colonna sonora per il carosello
di un liquore anni ’70 In the Heart of a Rose. Tra i principali analog-synth utilizzati in questo album Ondes
Martenot, Ondioline (il primo amore di Perrey) e Moog. State ancora guardando qualche stupida classifica per decidere che disco comperare? Ma smettetela! Andate subito a richiedere l’intera discografia di
Jean Jacques Perrey! (F.C.N.)
La tarantola dal ventre nero
(Italia/Francia 1971)
I primi cinque minuti del film sembrano fatti apposta per catturare l’attenzione
(maschile...) e tenerla incollata allo schermo fino alla fine: Barbara Bouchet, nella
parte della ninfomane, sfila quasi ininterrottamente senza alcunché addosso
davanti alle nostre pupille, mentre il massaggiatore ne lavora con maestria le
cosce e lei lo ripaga facendogli il piedino (il particolare stimola senz’altro più
l’umorismo che l’orgasmo). E anche quando è “vestita” (un pigiamino assemblato facendo economia di stoffa) è in grado di far perdere la ragione a un santo.
Ma, passata questa metrata di pellicola di gaudium magnum, si scivola lentamente nella noia: l’assassino è palese fin dal principio e la presenza di tanti nomi
(Giancarlo Giannini, Claudine Auger, Rossella Falk, Silvano Tranquilli, Barbara
Bach, Stefania Sandrelli, Giancarlo Prete e una comparsata di Eleonora Giorgi,
vi basta?) non risollevano le sorti di un thrilling dalla suspence zoppicante: tutto
procede un po’ troppo a caso, Giancarlo Giannini è mal impiegato e la splendida
colonna sonora di Ennio Morricone è sprecata. La tarantola dal ventre nero di
Paolo Cavara sembra infatti presagire la vacuità e la mancanza di talento propria degli horror anni ‘80, riuscendo a svilire persino le interpretazioni di grandi attori quali Giannini, uno
che ha sempre dimostrato di saper risollevare la sorte anche dei film più infelici. A dire il vero, il ridoppiaggio della pellicola è probabilmente il maggior responsabile di buona parte della delusione: come successo per altri film (Il rosso segno della follia, per esempio), è probabile che sia andata persa la versione
originale italiana o che il doppiaggio fosse troppo rovinato o incompleto (le forbici della censura ci andavano pesante), per poterlo usare in un’edizione integrale... ma allora perché non richiamare gli attori originali a doppiarsi? Costava troppo? Insomma, una visione sprecata? Certo che no: i begli occhioni di
Claudine Auger sanno ripagarci di tutto. (F.C.N.)
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mo un metà anni Sessanta, per le date di copyright dei testi, che vanno dal ’57 al ’65 –, utilizza una grafica pulita da libretto di preghiere, con disegnetti e testo in violaceo su bianco
(ritorneremo su tali illustrazioni più avanti) e contiene un “sing-a-long booklet”, cioè un libretto
per cantare le canzoni assieme ai Primary Children di Tempe. Tale libretto ci è molto utile
nella comprensione (e decompressione) del testo e ci guida
attraverso la perversa cosmogenesi della Chiesa di J.C e dei
Latter-Day Saints, che pare unire in un’unica invocazione Dio,
la bandiera a stelle e strisce e gli Stati Uniti d’America.
Troviamo infatti canzoni propriamente cristiane, come Christ
is Risen (“Cristo è risorto”):
Hear the joy bells ringing, ringing,
In the far-off towers swinging;
Hear the children’s voices singing:
“Christ is risen, Christ is risen,
Hallelujah, Christ is risen”.
(Ascoltate le campane della gioia che suonano, suonano,
sui lontani campanili dondolano, dondolano,
Ascoltate le voci dei bambini che cantano, cantano:
“Cristo è risorto, Cristo è risorto,
Alleluia, Cristo è risorto.)
L’inno in sapor di razza eletta I’m a Child of God (“Sono un figlio di Dio” – forse un’allusione a
una intensa opera di panspermia intrapresa da Ronnie James Dio?):
I’m a child of God
And He has sent me here,
Has given me an earthly home
With parents kind and dear.
(Sono un bambino di Dio
e Lui mi ha mandato qui,
mi ha dato una casa sulla Terra
con parenti gentili e cari.)
La seconda strofa di My heavenly Father loves me riecheggia
vagamente Gracias a la vida di Violeta Parra, concludendo,
però, neanche a dirlo, con un ringraziamento al “Padre
Celeste”:
He gave me eyes that I might see
The colour of butterfly wings.
He gave me my ears that I might hear
The magical sound of things.
He gave me my life, my mind, my heart
I thank Him reverently
For all His creations, of which I’m a part
Yes, I know Heavenly Father loves me.
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Un’altra melodia è dedicata a Washington and Lincoln, ridicolizzandone lo strano abbigliamento:
When Washington was president
A long, long time ago.
He dressed so very funny;
‘Twould make you laugh, “Ho Ho”.
His hair was white and tied with bows,
And he wore buckles on his toes.
His pants were up around his knees,
His hat, three cornered, if you please.
(Quando Whashington era presidente
tanto, tanto tempo fa.
Si vestiva in modo davvero buffo;
Ti avrebbe fatto ridere, “Ha Ha”.
I suoi capelli erano bianchi e legati con un nastro
e indossava fibbie sulle scarpe.
I pantaloni gli arrivavano alle ginocchia,
il cappello con tre corni, per piacere.)
Vale la pena ricordare anche la pittoresca There’s no Such
Thing as a Witch (“Non c’è niente come una strega”), che
oltre a essere il brano più “dark” di tutta la raccolta, l’unico a
non avere alcuno scopo educativo, religioso o patriottico, giocando un puro ruolo di intrattenimento, sembra anche
nascondere un inquietante risvolto pagano e horrorifico – e,
quindi, implicitamente diabolico –, poiché richiama in modo
palese la notte di Halloween…
Skeletons and goblins are only make believe.
Folks dressed in costumes,
Just try to scary you – ooo.
When you hear the thunder and lightning
And you’re hiding in a ditch.
Don’t cry out, without a doubt
There’s no such thing as a witch.
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Amore pensami (La vida sigue igual)
(Spagna, 1969) Film
Quant’è brutta l’ignoranza… e per la mancata conoscenza di
questo gioiello della cinematografia spagnola non ci sono giustificazioni: bisogna vederlo! Tanto più che il film è recentemente uscito in DVD per la Mondo Home Entertainment. La
storia è quella (vera) di Julio Iglesias, ovviamente romanzata:
portiere del Real Madrid, sta per mutarsi in semidio calcistico,
quando un incidente lo immobilizza su di una sedia a rotelle. Il
periodo di convalescenza si prevede lungo e così Julio decide
di trascorrerlo al mare. L’uomo ferito passa da una rassegnata mestizia – sottolineata dal mare d’inverno, deserto specchio del suo animo affranto – a un fiducioso auspicio: con l’aiuto di una biondina briosa e sbarazzina, centralinista dell’albergo dov’è domiciliato e di cui finirà per innamorarsi, si rimette in
piedi e intraprende la carriera di cantante di successo in odore
di santità. Il film è pervaso di una sua profonda morale che possiamo dedurre da sofisticati elementi simbolici: le espadrilla
fungono da allegoria della terra, delle tradizioni, quindi metafora di tutto ciò a cui è legato Julio Iglesias (il calcio, la vecchia fidanzata fredda e asettica vestita verde
bottiglia, le corse spericolate in roboanti e temerarie Mini Minor rosse) e che deve abbandonare per
rinascere uomo nuovo. Le espadrilla lo tengono infatti ancorato alla sua invalidità, solo rimuovendole e
sostituendole con scarpe più eleganti potrà finalmente rimettersi in piedi e affrontare nuovamente la
vita. Man mano che Iglesias si riprende, infatti, lo possiamo vedere abbigliato in modo via via più elegante, finché le espadrilla spariscono, per lasciare il posto a eleganti scarpe di cuoio marrone. La
vicenda è naturalmente condita dalle melodie canore di Julio, che intona motivi a noi del tutto sconosciuti: negli scintillanti sixties egli era ancora una star locale. In questo lungometraggio possiamo intravedere i prodromi del musicarello Schlager germanico, che verrà poco più tardi sviluppato in un capolavoro come Blau Blüht der Enzian. Eugenio Martin, il regista di siffatta opera, usa uno stile cinematografico personalissimo straordinariamente all’avanguardia e la scelta del linguaggio filmico lo porta a
rifiutare il vecchio e borghese impianto scenico del montaggio per un più dinamico, ininterrotto piano
sequenza senza alcun controcampo. Le lunghe riprese senza soluzione di continuità e i movimenti della
cinepresa sono così affidati alla sorte, a tal punto che le inquadrature risultano spesso imbarazzanti:
fuori campo, sfocature, soggetti tagliati e riprese fatte un po’ a caso non si contano, tanto che lo stile
sembra presagire quello delle telenovela di un decennio più tardi. Quanta arte! (F.C.N.)
Marco Fraquelli Omosessuali di destra
(Rubettino, 2007) Libro
Marco Fraquelli non è “fra quelli”, però scrive un penetrante saggio
sulla questione omosessuale nell’ambito della destra estrema – nazismo soprattutto. Come, “omosessuali di destra”? Certo per l’abastoriano edotto questa espressione non suona necessariamente come
un ossimoro, ma per il volgo ignaro il militante dal cuore nero ha la
fama di maschione omofobo e l’omosessualità è ritenuta, a torto, una
questione esclusivamente “di sinistra”. Così non è e Fraquelli ci dimostra come, partendo dall’idealizzazione settecentesca della mascolinità classica – servito a modello di virilità per il nazionalsocialismo e per
i regimi di destra in generale – passando per la “gaya gioventù hitleriana” e approdando infine ai neo-nazisti del dopoguerra, l’ostentazione di virilità e il maschilismo della destra siano intrisi di omoerotismo,
latenza omosessuale o quanto meno di una misoginia sospetta e
ambigua. Esemplare in tal proposito la citazione di Maksim Gor’kij in
apertura del volume: “Nei paesi fascisti, l’omosessualità, rovinosa per
la gioventù, fiorisce impunemente... Facciamo sparire tutti gli omosessuali e sparirà il fascismo!”. Bel
saggio colto e ben scritto che ci affascina anzichenò e offre argomenti su cui riflettere, giungendo a
incrinare pregiudizi nei confronti dell’omosessualità da parte della destra e nei confronti della destra
da parte degli omosessuali. (F.C.N.)
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Degustazioni
(Egli mi ha dato gli occhi, cosicché io possa vedere
il colore delle ali delle farfalle.
Egli mi ha dato le orecchie, cosicché io possa udire
il magico suono delle cose.
Egli mi ha dato la vita, la mente, il cuore
e Lo ringrazio rispettosamente
per tutte le sue creature, di cui io faccio parte,
sì, lo so che il Padre Celeste mi ama.)
Degustazioni
Barbara il mostro di Londra (Doctor Jekyll & Sister Hyde)
(GB, 1971) Film
Questo horror Hammer è una curiosa commistione tra Dottor Jekyll e Mr.
Hyde, Jack Lo Squartatore e Glen or Glenda. Diretto da Roy Ward Baker, è, tra
le versioni della storia di Stevenson, la più bizzarra e, a tratti, quasi ridicola, ma
molto più efficace di stramberie viste successivamente, prive di quel colore che
soltanto la Hammer degli ultimi anni poteva conferirle. Raph Bates è un Dottor
Jekyll alle prese con scenografie claustrofobiche: si trova infatti a risiedere in
un piccolo condominio in Whitechappel con una giovane vicina innamorata di
lui. Jekyll è il solito medico alle prese con esperimenti per creare nuovi vaccini,
spinto dall’encomiabile obiettivo di sconfiggere tutte le malattie. Troppo tempo,
ahinoi, richiederebbe tale opera e una vita non basta, ecco allora che Jekyll
molla tutto per lavorare a un ben più ambizioso progetto: l’immortalità! E per
farlo, in base a una astrusa teoria che fa forza sul fatto che le donne vivono di più, necessita di ghiandole
femminili atte a secernere secrezioni intime (le ghiandole di Bartolini?)… mah! Prova la formula ottenuta
su di una mosca (maschio) e questa diventa femmina, ma vive di più. Senza ulteriori indugi la testa su di
sé e si trasforma improvvisamente in una… Bond girl: la bellissima ma perversa Barbara Hyde (Martine
Beswick). OK! Per procurarsi le ghiandole non esita a sfruttare dei loschi trafficanti di cadaveri, prima, e
di assassinare prostitute, poi. Ecco così che il dottor Jekyll si confonde con la figura di Jack Lo
Squartatore, che semina il terrore in tutta Whitechappel… Preso dal senso di colpa vorrebbe smettere,
ma Barbara oramai ha preso il controllo del loro corpo androgino. Ovviamente Jekyll/Hyde finirà per perire, ma interessante è l’ambiguità che caratterizza il personaggio, la cui sessualità sfuma, sconfinando talvolta inaspettatamente, l’uno in quella dell’altra e creando curiose allusioni di omoerotismo. Tutta la faccenda è poi costruita sulla teoria del femminino presente in ogni uomo, che in questo caso esplode dando
vita a una bellissima femme fatale. Un film introvabile e presente, in italiano, unicamente in una vecchia
edizione in VHS; non si hanno notizie di passaggi televisivi. (F.C.N.)
E.S.P.
(Italia, 1973) Sceneggiato
E.S.P. (che sta per “Extra Sensorial Perception”) è uno sceneggiato “minore” di Daniele D’Anza, regista di teleromanzi cult per gli abastoriani tutti.
Minore per budget, visto che sembra realizzato in maggiore economia
rispetto ad altri lavori, minore per impatto e coinvolgimento della storia, ma
non certo minore per maestria di regista e attori. D’Anza e il paranormale,
lo sappiamo, vanno a braccetto: così è anche per E.S.P., che mette in scena
l’esperienza paranormale di un medium che aiuta la polizia a svelare intricati casi di scomparse misteriose e di scheletri riscoperti nelle colonne di cemento armato. Nelle storie di D’Anza il mistero si intreccia
con elementi metafisici e con la tragedia del nazismo: Gerard Croiset (Paolo Stoppa) ha alle sue spalle la
prigionia in un campo di concentramento e questo peso grava sulla sua vita e su tutta la storia. Ritroviamo
qui l’eredità del nazismo che ha già fatto da sfondo anche a un precedente romanzo sceneggiato di
D’Anza, Ho incontrato un’ombra, “oscure presenze” tese quasi a manifestare metaforicamente le angosce che percorrevano la politica italiana di quegli anni, ingarbugliata nella rete occulta dello stay behind
americano, compressa tra colpi di stato e politica armata. Minacciose oscure presenze: non è di questo
che D’Anza parla romanticamente in tutte le sue opere televisive? (F.C.N.)
Sfizzy
(Pata) Cibo
“Che cosa sto mangiando?” Questo è l’interrogativo che ci si pone addentando
“Sfizzy”, i “coni di mais gusto nacho” prodotti da Pata nella linea Snack. L’impasto
di farina di mais, aromi e formaggio fuso in polvere (!) a forma di cono (cotto al
forno? fritto? mah…) infilato tra le fauci va dritto al cuore: il sapore di dado (il glutammato monosodico in tali snack è d’obbligo, altrimenti non avrebbero alcun
gusto) e un vago sentore di paprika prevalgono su tutto, mentre un odore oleoso nauseante invade le nostre narici (sarà quel vago ricordo di formaggio riciclato?). Leggere gli ingredienti, scritti usando la sintassi di un linguaggio di programmazione derivato da C++, non ci conforta: «farina di mais (56%), olio vegetale, sale, zuccheri, aroma: (formaggio fuso in polvere: (formaggio, proteine del
latte, siero del latte, sale), esaltatori di sapidità: (monosodio glutammato, disodio guanilato), coloranti:
(estratto di paprica, annato), regolatori di acidità: (bicarbonato di sodio, acido citrico)). Contiene tracce di
glutine». Per digerirli non resta che scrivere una subroutine di sistema in Assembler. (F.C.N.)
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(Gli scheletri e i folletti sono solo credenze.
La gente indossa dei costumi
solo per cercare di spaventarti.
Quando senti tuoni e saette
e ti nascondi in un fosso,
non metterti a piangere, senza dubbio
non c’è niente come una strega.)
E potremmo continuare, ma con ben 34 testi di tale caratura, capite bene che bisogna fare
una scelta… e quale scelta se non la “scelta giusta”? E a tal proposito non manca, infatti, la
canzone Choose the Right (“Scegli il giusto”).
Choose the right,
When a choice is placed before you.
In the right, the Holy Spirit guides.
(Scegli il giusto,
quando una scelta ti si presenta davanti.
Nel giusto, lo Spirito Santo ti guida.)
E ancora canzoni dedicate alla bandiera degli Stati Uniti cantate in prima persona dalla stessa “flag of liberty” (The Flag Without a Stain), alle stagioni (Popcorn Popping on the Apricot
Tree – letteralmente “Popcorn scoppiano sull’albicocco” – Summer Time, Ole Jack Frost),
alla mamma (Mother Dear – titolo e canzoncina degna del
film Mommie Dearest!), al papà (My Dad), al vecchio giardino della nonna (Grandmotehr’s Old Fashioned Garden) o ai
colori primari (!), nelle quali, sempre e comunque, tutto viene
ricondotto al “Padre Celeste”, superiore e più importante di
ogni cosa…
Le illustrazioni sembrano uscire da una Settimana
Enigmistica per ottentotti ottenebrati ottuagenari: delle rappresentazioni simboliche dello spirito della canzone… Vabbe’,
a parte il Gesù raggiante di Tell me the Stories of Jesus, la
stella raggiante di Far, Far Away on Judea’s Plains, il sole
raggiante di Summer Time, i presidenti raggianti di
Washington and Lincoln, l’alba raggiante all’orizzonte di I am
a Child of God (fantasia da vendere, questi mormoni, nevvero?), particolare sensazione ci fa il bambino che porta la
mano al cuore davanti alla solita star-spangled banner, ma
soprattutto ci diverte la simbolica vignetta che correda
Choose the Right: a destra un letto, una sedia, un comodino
con abat-jour, un quadro appeso alla parete, il tutto perfettamente ordinato e allineato; a sinistra (riferimento politico
in clima di Guerra Fredda?)i medesimi oggetti gettati nel caos: il letto è sfatto, sottosopra, il
quadro è storto, l’abat-jour divelto, inoltre calzini e altri indumenti abbandonati un po’ ovunque… io non ho dubbi, scelgo il giusto e il letto perfettamente in ordine!
A song is a wonderful kind of thing
So lift up your voice and sing!
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Tony Borlotti e i suoi Flauers Il mondo è strano/Il mondo è strano (e altri fiori) /A che serve protestare?
(Teen Sound, 2006-2008) LP e CD
di F.C.N.
Null’uomo o demone, angelo mio,
Mai più staccarti potrà da me.
Parigi, o cara noi lasceremo,
La vita uniti trascorreremo:
De’ corsi affanni compenso avrai,
La tua salute rifiorirà.
Sospiro e luce tu mi sarai,
Tutto il futuro ne arriderà.
(Giuseppe Verdi La Traviata, libretto di Francesco Maria Piave)
Mi accingo a scrivere di quel capolavoro cinematografico misconosciuto e patrimonio di ogni autentico abastoriano edotto, che è
Parigi o cara, al mio rientro dalla capitale francese. Non si può parlare del film, infatti, in modo più appropriato se non dopo aver visitato la ville lumière, in particolare quei luoghi che Delia Nesti (Franca
Valeri), la protagonista della pellicola, non è riuscita a vedere se non
su stereoscopio a gettone o di sfuggita dall’auto che la riporta alla
stazione , causa il Destino avverso che la perseguita per tutto il suo
soggiorno francese: partita prostituita snob, con la speranza di far
fortuna nella sua professione, ritornerà maritata ad un pizzaiolo italiano con prole.
Il film non è purtroppo ancora reperibile in DVD. Si mormora di una
edizione in videocassetta degli anni ’80, ovviamente introvabile.
L’unica possibilità è vederne (e registrarne) un passaggio televisivo
su Rete4, che mi risulta essere l’unica attuale detentrice dei diritti di
messa in onda (una scena del film, Delia in piedi alla stazione di
Parigi, si può scorgere nella sigla di Notte D’Essai sulla stessa emittente). Anche se la proiezione avvenuta al Gay Village 2007 di una
copia in pellicola, presente la stessa Franca Valeri, ci fa sperare in
una prossima pubblicazione.
La colonna sonora di proprietà della CAM, invece, è stata stampata
a inizio anni ’90 e credo sia tutt’ora reperibile con una piccola ricerca in Internet: contiene tutti i brani strumentali di Fiorenzo Carpi, ma
purtroppo manca dal CD la bellissima Parigi o cara cantata da
Renata Mauro nei titoli di coda. Assenza quanto mai sentita, poiché
del brano esiste soltanto un raro 45 giri stampato dalla Italdisc (la
La locandina del film
stessa etichetta dei primi dischi di Mina).
Una bella sorpresa ci è stata fatta dal settimanale Film TV, che ha regalato la locandina in allegato ad una sua uscita, mentre, incredibile a dirsi, non esiste sito di cinema che parli in modo
sufficientemente approfondito di questo film. L’unico articolo decente che ne trattasse era
presente sullo scomparso Mondo Culto, ed era, guardacaso, opera di Vanessa Venerdì al
tempo della sua collaborazione con la nostra fanzine e frutto della nostra diretta influenza.
1
6
Basta con questo passatismo démodè! È ora di occuparci di musica
giovane! Non ci si scandalizzi, perciò, se Abastor, oddzine démodé
per signorinette d’altri tempi, dedica dello spazio alla musica moderna, musica giovane per giovani… sì, proprio loro: questi giovani
moderni che rifiutano il mondo ereditato dai genitori, si vestono in
modo stravagante, si lasciano crescere i capelli (e, peggio ancora,
non usano la birllantina!) e scappano di casa. Eh, sì (sospiro di rassegnazione), non esiste più la religione… davvero: il mondo è strano!
Ma Abastor non deve mostrarsi del tutto prevenuto nei confronti di
questo mondo giovanile e della musica rock che questi ragazzi scapigliati dimostrano di amare: bisogna dar loro una chance, provare
ad ascoltare la loro musica e cercare di comprendere… lo so: è difficile, ma non dobbiamo far sempre la figura dei matusa ottusi e
vetusti! Ecco perciò che osiamo, sì, osiamo adagiare questo spettinato album sul giradischi e poggiarne la fragile puntina sui suoi irriverenti microsolchi… ciò che ne scaturisce è, inaspettatamente,
della piacevole musica beat, che col suo ritmo forsennato (dove arriveremo di questo passo, ci chiediamo!), ci travolge e ci ridesta. Tra i
tanti brani contenuti in questi due dischi e nel CD di Il mondo è strano (che contiene in verità alcuni brani supplementari, non presenti
sul vinile), il primo a catturare la nostra attenzione è senz’altro L’inno
dei Flauers, dal quale si può facilmente comprendere che alla fine
quello che questi giovani beat vogliono altro non è se non “amore”.
Ci piace molto poi Perché due non fa tre, che, visto il successo ottenuto da Tony Borlotti, viene cantata anche da una meno conosciuta Rita Pavone… L’album, per la verità,
è farcito di belle canzoni, ma per ricordarne almeno un’altra che ci ha particolarmente colpiti, la nostra
preferenza non può che andare a Bambina sola, storia d’amore scritta dai Profeti tra due cuori solitari.
Questo disco è invero in circolazione già da due anni, infatti Tony Borlotti ha testé dato alle stampe il
nuovo rilucente A che serve protestare?. Il nuovo disco rifulge per nuove squisite canzoni eseguite con il
gusto e l’eleganza che si confà ad un artista del calibro di Tony, a cominciare dall’inno E voi e voi e voi,
(sempre dei Profeti) teso a farci riflettere sul tema del consumismo e dei falsi dei, testo che sottoscriviamo appieno e nel quale crediamo più di ogni altra canzone di Tony. Bellissime anche Un tipo beat o la
intelligente e sagace Giovane prete: quelle di Tony Borlotti potrebbero anche sembrare canzonette leggere alla moda, ma pongono l’accento su problemi seri e hanno contenuti ben più avveduti di tanta musica colta. Prezioso è, a tal proposito, il dialogo che egli intrattiene col pubblico tra una canzone e l’altra
durante i suoi concerti, in cui c’è spazio tanto per lo humor, quanto per l’assennata critica al “sistema”,
come lo appellano questi giovani beat. Critica sottile e adatta al cervello fine, beninteso, mai gratuita né
scontata, dove viene impiegata una buona dose di materia grigia, cosa di cui, ahinoi, si fa poco uso oggidì, presso questa generazione che non ha in testa che il geghegè, la moda op e i quiz televisivi. Perciò, in
conclusione, non possiamo che invitarvi all’acquisto immediato di tali capolavori discografici rivolgendovi
direttamente al gruppo (www.tonyborlottieisuoiflauers.it), sicuri che la musica moderna di questo gruppo beat vi piacerà. Certo, un buon taglio di capelli non guasterebbe… (F.C.N.)
Cioccolato Minor
(Maestrani) Dolciume
Ricercatori del piacere quali siamo noi di Abastor non potevamo
ignorare il suggerimento (che ci arriva stavolta nientemeno che
da Tommaso Labranca) di sperimentare estere prelibatezze dolciarie, seppure farcite di cioccolato al latte (che normalmente
disapproviamo). Piacevole sorpresa pralinata, invece, i perfetti –
ne ammiriamo la precisione – parallelepipedi svizzeri di gianduia
Minor farciti alle nocciole tostate. Deliziosi e conturbanti, non ci lasciano indifferenti e si fanno addentare senza fare resistenza, libidinosi tentatori. Si trovano nei Picadilly, cioè gli autogrill elvetici, e al
Manor di Lugano. Il tipo classico è disponibile in barretta, cioccolatini e confezione regalo con immagini turistiche della Svizzera! Da sperimentare anche la oltraggiosamente attraente versione Minor
Noir al cioccolato fondente e il Minor Noblesse al caffè. Un’esperienza comune che farà di noi una
generazione di Minor-ati. http://www.maestrani.ch/ (F.C.N.)
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Degustazioni
Parigi val bene una messa in piega
Degustazioni
Capitan Pipa
(Industria Liquori Morelli) Liquore
L’apparizione di una bottiglia di Capitan Pipa, “Il liquore del vecchio lupo di mare”,
a un esploratore avanguardista abastoriano (Duillio) incautamente avventuratosi
nel Polesine, avvenuto un paio d’anni fa, ci era parso un segno del destino da
tenere in dovuta considerazione. L’esistenza di un simile intruglio alcolico poteva
infatti venir facilmente annoverato nel leggendario, se non nel mitologico, tanto ci
sembrava mistica la sua esistenza e ai confini del possibile e del tangibile il culto
da parte di una ristretta cerchia di fanatici polesani inurbani. Così, archiviata
l’esperienza scolastica serale, abbiamo ripescato questa scoperta e ci siamo
messi sulle tracce del leggendario Capitan Pipa. La prima conferma della sua esistenza ci è venuta dal solito Internet, poiché l’Industria Liquori Morelli basa tutto
il suo commercio proprio su questo elisir e ci svela la sua genesi avvolta da un’aura di mistero degno del miglior racconto horror: in una notte del 1949 il signor
Mario Marzolla (la Morelli produce il liquido in concessione) se ne esce dal laboratorio con la formula del nuovo liquore, non lo possiamo immaginare altro che
come un mad scientist, con un ghigno sinistro che lancia una risata malefica
alzando al cielo lampeggiante una provetta fumante! Quello che il signor Marzolla
voleva arrivare a sintetizzare era probabilmente del rhum: le ipotesi che si sono
formulate finora, portano inevitabilmente a questa conclusione. Una gita a Rovigo
ci ha fornito infine l’occasione per rintracciare il prezioso liquido bruno: in un
supermercato del centro il “liquore del vecchio lupo di mare” stava chiamando.
Così, recuperate ben tre bottiglie e radunato un manipolo di intrepidi sperimentatori, ci siamo dati agli assaggi e alle misture. Risultato del primo assaggio, l’opinione sul sapore è stata
unanimemente concorde nel decretare che il Capitan Pipa sa di colla. Un preponderante retrogusto di
UHU Extra, infatti, lascia il palato interdetto e predomina sui rimanenti aromi di liquirizia e anice. Il tutto
ricorda molto da vicino l’aroma al rhum per dolci, che non si può bere: ma lo stesso Capitan Pipa puro
è un’esperienza troppo estrema persino per gli abastoriani più temerari. L’elisir polesano va infatti
ammazzato con del gin o della vodka e qualcosa di dolce. Come conseguenza di ciò è stata fatta la scelta di sperimentare alcuni cocktail a base di Capitan Pipa e Abastor ha potuto inventare il Pippone e il
Piposka. Per il primo miscelate ¼ di Capitan Pipa, ¼ di Gordon Gin e ½ di succo mela/banana Conad,
ghiaccio, scorzetta di limone: due cose schifose, sostenute da un elemento neutro, non possono che produrre una bevanda deliziosa! Il risultato, per quanto blasfemo e dal colore inquietante, è infatti bevibile.
Non meno interessante il Piposka: ¼ di Capitan Pipa, ¼ di vodka, ½ di succo pesca/limone (o anche
succo di pesca e un po’ di succo di limone), abbondante ghiaccio. Mistura mefistofelica, ma diabolicamente seducente, che vi farà abbandonare ogni remora e assumere in volto un’espressione demoniaca,
mentre un baratro dal quale escono fumi sulfurei si apre inesorabile alle vostre spalle. www.capitanpipa.it. Cercate anche il gruppo da noi aperto su Facebook. Ah, sappiate che esiste anche la ricetta del
“Risotto Internazionale di Capitan Pipa”! Ci vuol fegato, in tutti i sensi… (F.C.N.)
Sergio Costa Navigare col sestante
(Editrice Incontri Nautici, 1996) Libro
Va bene, noi abbiamo una carica di malizia non comune, riusciamo a leggere riferimenti morbosi anche dove non ci sono, ma qui… con una copertina del genere! L’editrice Incontri Nautici (“incontri nautici”?! a che cosa
vorrebbe alludere?) ci presenta il volume Navigare col sestante (e qui,
con un piccolo sforzo, potremmo leggere un altro sconveniente doppio
senso…) che intende istruirci su come orientarci in mare senza GPS. OK,
un vademecum che svolge degnamente il suo compito, niente di più, non
fosse che a decorarne la copertina è stato scelto un disegno che potrebbe tranquillamente far pensare, invece, a un fumetto gay. Il marinaio
nudo, muscoloso e tatuato, con tanto di orecchino al lobo sinistro (parte
attiva in un rapporto sessuale omo, secondo la simbologia marinara
occulta), con braccialetto d’oro al polso sinistro (altra simbologia segreta?), mancano solo piercing al capezzolo e fusciacca colorata hanky code
style che gli esca dalla tasca posteriore dei pantaloni, a tutto fa pensare
tranne che a un manuale tecnico! (F.C.N.)
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Diretto da Vittorio Caprioli, interpretato da Franca Valeri, Parigi o
cara è uno dei pochi film che la Valeri ha contribuito a scrivere, e per
questo uno dei pochi in cui i suoi personaggi sono pienamente “suoi”:
degli altri tre, due sono diretti sempre dal marito (Leoni al sole e
Scusi, facciamo l’amore?) ed uno da Dino Risi (Il segno di Venere).
Premetto che Parigi o cara non è una commedia “facile”, non si tratta, cioè, di quel tipo di film che regala risate incontrollate. Non è una
pellicola che, anche facendo riflettere, susciti un umorismo spontaneo, immediato. Anzi, Parigi o cara è un film “difficile”, sottile, pregno
di una profonda mestizia, ricco di ammiccamenti camp tutti giocati
su oggetti, ambienti, situazioni atte a dare la dimensione esatta della
satira cui l’intelligentissima Franca Valeri fa ricorso… La prima visione del film potrà, probabilmente, apparirvi amara, forse addirittura
noiosa, è un film per gustare il quale si deve educare il palato, come L’LP
si fa per poter assaporare un buon vino d’annata, rivedendolo più
volte: soltanto dopo la terza o quarta visione si comincerà ad apprezzarlo davvero.
Questo anche perché Parigi o cara è un film ricco: ricco di dettagli
impossibili da scorgere tutti la prima volta, ricco di battute cult, ricco
di rimandi interni… è la messa in scena di un piccolo mondo “antico
moderno” (“rudero tirato ar fino” come la protagonista apostrofa lo
stile architettonico dell’EUR) condito dai tanti piccoli must del parvenu inizio anni ‘60, un mondo che “pare ‘na bomboniera”, pervaso da
un livello di kitsch a tratti imbarazzante, ma del quale la protagonista
va addirittura fiera, ritenendolo, al contrario, segno di distinzione e di
buon gusto. È il gusto per un qual certo barocco, frutto certamente
di una profonda mancanza di istruzione, cosa che la protagonista
palesa a più riprese, ma anche patrimonio proprio di quel mondo Il CD
delle “buone cose di pessimo gusto”, del “ciarpame reietto”, descritto da Gozzano nelle sue poesie (vedi Abastor #35), al contempo ripugnante e irresistibilmente attraente.
È l’eccessivo e pertanto il camp – termine tra i più fraintesi del pianeta – che fa del personaggio di Delia Nesti un’icona di perfetta abastorianità: è il tempo, siamo a cavallo tra gli anni ’50 e ’60; il luogo,
Roma prima e Parigi poi; la moda e gli oggetti dell’epoca; i modi di
dire, le smorfie composte e la “immoralità così per bene” della protagonista. Elementi tali da rendere Parigi o cara un’incantevole favola retro-moderna.
Delia Nesti è la signorina snob inventata da Franca Valeri, qui in versione romanesca sì, ma d’importazione (Delia è di origini abruzzesi),
che il pubblico italiano si era abituato a conoscere grazie alla radio e
alla televisione: la Sora Cesira (“quella maritata Cecioni”) sempre
attaccata al telefono, che deve consultare “mammà” in merito a ogni Il 45 giri
tipo di problema la sua vita di casalinga le presenti davanti. La Valeri
creerà un genere, seppure condivida il mezzo, il telefono, con Bice Valori, la quale, mi sia consentita questa personale preferenza, non ne ha la classe né la sottile ironia. Delia è signora
tutta precisa e delicata, tuttavia “una signora è tale anche se batte il marciapiedi” , e infatti la
professione di Delia è proprio questa: si divide tra passeggiatrice e ragazza squillo, con surreali contrattazioni con i clienti sotto i lampioni e annunci sui giornali dove si propone come
“orientale segreta riservata”.
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Il pianeta fantasma (The Phantom Planet)
(USA, 1961) Film
Non è facile, percorrendo la difficile strada dei film di fantascienza minori, che paludati critici di cinema di fantascienza liquidano con poche righe
nei loro preziosi tomi enciclopedici, imbattersi in piccoli gioielli come questo interessante The Phantom Planet. Molti dei film di “serie z” sanno per
lo più annoiare, inzuppati come sono di dialoghi interminabili tra scienziati che si entusiasmano per ovvietà e si stupiscono per banalità, non così
succede con questo film di William Marshall, che sa invece affascinare e
coinvolgere come poca altra fantascienza baraccona in bianco e nero
(seppure siamo già negli anni ’60) sa fare. Ricorda un po’ le atmosfere
della serie cult tedesca Le avventure dell’astronave Orion, di cinque anni
più tardi, specialmente se si guardano gli effetti speciali, l’originale idea di
base e le atmosfere ovattate. In un retro-futuro assai poco probabile
(siamo negli anni ’80) in cui la Terra si dà alle esplorazioni spaziali, ad
alcune astronavi capita di venire distrutte nell’impatto con un grosso meteorite invisibile ai radar. Viene
mandata a indagare la Pegasus, comandata dal capitano Frank Chapman (Dean Fredericks), ma viene
attratta e catturata dal planetoide Rhethon, abitato da minuscoli esseri umani. La loro ridotta dimensione è dovuta alla struttura degli atomi del pianeta, più compatti (lo spazio tra atomo e atomo è di molto
inferiore rispetto al nostro mondo!), e respirandone l’atmosfera anche i terrestri si ridimensionano.
Chapman viene così fatto prigioniero dai rhethoniani e conteso da due belle ragazze, Liara (Coleen Gray)
e Zetha (Dolores Faith). Il pianeta viene attaccato dagli storici nemici di Rhethon: i solariti, mostruosi
esseri dal volto canino, di cui uno (interpretato da un giovane Richard Kiel, riconoscibile unicamente per
la statura!) è tenuto prigioniero dai rhethoniani. Chapman sconfigge il mostro e profittando della situazione favorevole scappa, ritorna alla sua statura e viene ritrovato dai suoi compagni terrestri, che lo riportano a casa. C’è un po’ di Gulliver e un po’ di Flash Gordon, ma il film risulta ben più originale di quel che
si può pensare e la visione gradevole e stimolante. (F.C.N.)
Science Series – Matter and Energy
(GAF B677, 1969) View-Master reel set
Ormai tutti, o almeno buona parte, degli abastoriani, dovrebbe avere in
casa un visore View-Master, nevvero? Chi non ce l’ha, beh, peggio per lui:
non potrà avere accesso a fonti di sapere e di conoscenza quali la
Science Series, nata come autentico strumento didattico. Nella Science
Series possiamo trovare set sull’esplorazione spaziale, la mineralogia,
l’archeologia, l’ecologia, le farfalle, gli insetti… ma soprattutto il più ambito
e gustoso Matter and Energy (Materia ed energia). Disponibile in inglese
e francese, ma non in italiano, questo set di tre dischetti per View-Master
ci fornisce una panoramica sulle invenzioni umane relative all’energia – meccanica o elettromagnetica –
dagli albori dell’umanità (vabbeh, non c’è l’invenzione della ruota, ma poco ci manca), fino alla fisica più
avanzata dei giorni nostri (o quasi). Il tutto illustrato, come d’abitudine per i laboratori di Portland, attraverso educativi diorami colorati. C’è persino la trasmissione degli elettroni nella corrente elettrica: non
avrei mai superato l’esame di elettronica senza queste diapositive! (F.C.N.)
Il fauno di marmo
(Italia, 1977) Sceneggiato
È manifesto quanto Silverio Blasi con questo sceneggiato voglia fare il
verso a Daniele D’Anza e al suo gotico: le “misteriose presenze” non mancano, e la sceneggiatura, scritta da Massimo Franciosa basandosi sull’omonima storia The Marble Faun di Nathaniel Hawthorne (già fonte di
ispirazione per un film muto nel 1920 a opera di Mario Bonard), è un
gotico elegante e raffinato. Per carità, Orso Maria Guerrini e Marina
Malfatti (attrice legata al numero sette nei thrilling italiani del periodo),
fanno la loro parte, ma non ce n’è: la storia non sa intrigare lo spettatore come un Il segno del comando, col quale, è evidente, vorrebbe condividere il soglio pontificio. Il fauno di marmo invece arranca, incespica, senza decollare mai, risultando un appuntamento mancato con il mistero, eppure il tema intrigante
della predestinazione e del legame, stipulato in una passata incarnazione, dei quattro protagonisti con un
oscuro figuro, potevano essere la premessa per un autentico cult. Ma è già troppo tardi: nel 1977 la
televisione italiana comincia la sua corsa nella competizione con la tv privata verso il basso, e la classe
con cui affrontava temi oscuri come questo era già andata perduta. Purtroppo per sempre. (F.C.N.)
57
Degustazioni
Molto della descrizione del personaggio, delle figure che le stanno intorno, della vita che conduce, della sua professione, dell’omosessualità del fratello, non viene mai reso esplicito da nessuna parola: è tutto accennato, sottinteso. Buona parte della storia, infatti, non viene raccontata ma viene fatta intendere grazie agli elementi di contorno che ci vengono forniti.
Da parte nostra per di più, vorremmo evitare di narrarvi la trama: raccontare un film è sempre un’operazione svilente per l’opera stessa, ma nel caso di Parigi o
cara ciò può risultare persino offensivo. E le visioni ripetute non aiutano
certo: se ad una prima visione,
cogliendone la trama a grandi linee,
può sembrare facile riassumere il
contenuto del film, alle visioni successive ci si rende via via conto di
quanto complessa sia la storia e di
come sia costituita da molteplici link
interni al film stesso.
Non ho scelto il termine link a caso:
il film è infatti strutturato come un
ipertesto: un elemento che appare
in una scena, riporta a un altro eleC’è un buio che manco ar Testaccio...
mento presente in un’altra scena in
un altro momento del film, del quale non ci si può quasi mai accorgere la prima volta: credo di
essere giunto a una trentina di visioni almeno, e continuo ancora a scoprire elementi e collegamenti che mi erano sfuggiti. Rintracciarli tutti sarebbe perciò utopico e toglierebbe molto
del piacere di rivedere la pellicola a caccia di questi “collegamenti nascosti”. Tuttavia per fornire una descrizione dell’opera di cui stiamo parlando, cercheremo di raggrupparne alcuni,
sfruttando, per i titoli, memorabili battute del film. Ovviamente se ci tenete a gustare il lungometraggio e scoprire da soli, un po’ per volta, tutte le sfumature, non dovete assolutamente
leggere il seguito di questo articolo!
Non è da Parigi che parte la pellicola, bensì da Roma. Parigi è la meta, Roma il luogo di partenza del pellegrinaggio. Il film è infatti suddiviso in due parti che rappresentano due mondi,
come vedremo distanti tra loro e inconciliabili.
Tutto il primo tempo del film, ambientato a Roma, serve a inquadrare il personaggio di Delia e
a portarlo passo passo (Delia non è persona da decisioni impulsive non ponderate con la dovuta oculatezza) a intraprendere il suo viaggio verso la capitale francese. Prende vita con il primo
link che lega Delia a Parigi, una lettera del fratello Claudio, e si conclude con un’altra lettera,
di addio alla sua vicina di casa e ai suoi pochi amici: già da questo possiamo capire come il film
sia costituito da continui collegamenti e rimandi.
Il secondo tempo è speculare al primo: ambientato interamente a Parigi, è un crescendo di
fallimenti e una serie di altri link, che chiamano Delia all’Italia e la ricondurranno infine in patria,
maritata e sconfitta. Questa parte del film prende il via con l’arrivo di Delia in stazione e il fatidico incontro con il fratello, favolosa scena cult che rappresenta il senso di tutto il film.
Il primo tempo è una continua tensione al moderno, all’essere costantemente alla moda: quasi
a sottolineare un’italianità da boom economico, proiettata alla modernità, al futuribile, ma
ancora legata a una mentalità “per bene” quasi ottocentesca, pregna di una allure di ordine e
“buon cattivo gusto”. Nel secondo tempo veniamo sbalzati, assieme alla protagonista, in un
quartiere povero e degradato di Parigi, dove tutto si rivela improvvisamente squallido: le strade, i muri sbucciati, la famiglia che ospita Delia (composta da un cinese, una signora obesa e
il loro figlio). Sembra quasi di essere tornati indietro nel tempo, forse alla stessa infanzia di
Degustazioni
Faust’O Le più belle canzoni di Faust’o
(Warner, 2006) CD
È difficile parlare di Faust’o senza ricordare la tristezza di
questo paese. Voi sbarbi che leggete questa fanza e che,
per motivi anagrafici, sul finire dei ’70, guardavate di
pomeriggio Maria Giovanna Elmi vestita da fatina (mentre
nei pomeriggi televisivi odierni una gnocca così sarebbe
semplicemente vestita il meno possibile), vi siete risparmiati le tristi assemblee studentesche di quegli anni,
quando la rivoluzione che voleva cambiare il mondo aveva
ampiamente esaurito la sua carica innovativa e si era trasformata in dogma che non ammetteva niente di diverso
e di non riconducibile al canone “marxistoide”. Quel movimento ormai statico voleva come sua soundtrack i cantautori impegnati e la musica folk o, meglio, popolare
(oggi “etnica”) e non riusciva a capire quello che di realmente nuovo e sconvolgente accadeva nella
musica e nella società altrove, in particolare nel Regno Unito. Ai più, di quello straordinario fenomeno,
arrivò soltanto, e col debito ritardo, il folklore delle spille da balia, delle svastiche, e delle Kandeggina
Gang di quella Jo Squillo già però pronta a smettere gli abiti punk, reggiseno compreso, per farsi fotografare in topless sull’Espresso, a dimostrare che oltre le gambe c’è di più (le tette, appunto), e lanciarsi
in una precaria carriera da vip modaiola di terza categoria. Ma qualcuno che aveva le antenne meglio
puntate, o i giusti canali, ascoltava la nuova musica o, addirittura, la faceva. Uno dei nomi più importanti
del nuovo corso è stato Fausto Rossi, in arte Faust’o fino a che, con l’album del ’92, Cambiano le cose,
si è presentato col suo vero nome. Influenzato da punk, new-wave e glam rock, avvicinato a Bowie (sua
maggiore fonte di ispirazione) e Lou Reed, è spesso (si fa per dire) ricordato insieme al più garbato
Garbo. Voce tra Enrico Ruggeri e un Renato Zero meno effeminato, faccia da spostato che si fa dare
una sistematina dal truccatore del Duca Bianco, personaggio non facile, Faust’o viene ricordato anche
per una provocatoria performance al Festivalbar, quando, contrariato dall’obbligo del playback, si esibì
masticando una mela. Ma il provincialismo e la tendenza di questo paese a scandalizzarsi facilmente
per delle sciocchezze, come una canzone sanremese su viaggi non meglio precisati, hanno fatto passare, come campione di rock alternativo, un altro Rossi, autore invero tamarro e banale, e divenuto,
grazie anche a qualche giornalista musicale di bocca buona, idolo di quanti credono di essere trasgressivi e invece sono solo trasgressori. Per un pugno di monete è oggi disponibile Le più belle canzoni di Faust’o, antologia dei primi tre album. Rimane fuori, quindi, anche l’album del 1983 che porta il
suo nome, ritenuto da molti il suo capolavoro. I suoni sono quelli che si ascoltavano, altrove, proprio in
quegli anni. Cosa già di per sé eccezionale se si pensa che i musicisti italici seguono i generi in voga
all’estero sempre con qualche anno di ritardo. Eppure, anche se si sente l’affinità con Bowie e Roxy
Music, con Cure e Ultravox, con Stranglers e Gary Numan, ditemi se qualche passaggio dei primi lavori non ricordi il pop italiano dei ’70, quello derivato dalla degenerazione dolciastra del progressive, se in
C’è un posto caldo non sembra di sentire la PFM che lascia De André per abbracciare Malgioglio. Dal
primo album, Suicidio, qui è presente l’allegra title-track con piroette vocali e Benvenuti tra i rifiuti che,
se fosse solo per il testo e il canto un po’ artificiosamente forzato, sarebbe la classica cosa degli esordi di cui vergognarsi. Piccolo Lord sfiora anche Queen, Sparks e Kate Bush. Infine la citata C’è un posto
caldo, sui primi perversi turbamenti erotici e col suo falsetto quasi parodistico, costituisce la punta
kitsch di questa raccolta. Il secondo album, Poco Zucchero, è del ’79 e, nell’anno in cui i Bauhaus si ispirano a Bela Lugosi, Faust’o risponde con Vincent Price, in cui sembra cantare quanto possa essere rassicurante conoscere aneddoti sui mostri, finchè : “quando alla mattina tu ti scopri allo specchio la faccia che hai… dubbi ormai non ne hai più / quegli occhi e quel mostro sei tu… Vincent Price non è / il
trucco non c’è / puoi farti paura da te”. Oh! Oh! Oh! è uno dei suoi pezzi più famosi, con ritmo in levare
e testo al limite del non-sense. In tua assenza e Il lungo addio mostrano maggiori influenze art-rock
decadenti. Infine Funerale a Praga inizia con un piano romantico e poi, col sottofondo di una funerea
batteria, un sax accompagna il feretro dai Roxy Music fino ai Tuxedomoon. Nel 1980 esce J’accuse…
amore mio, da cui sono tratti Buon Anno, Non vendere i nostri sogni (molto Talking Heads), Forse anche
noi (molto Bowie), e Piccole anime, con la quale il ritmo si accelera e il testo di nuovo balla tra non-sense
e surrealismo: se oggi i Franz Ferdinand scrivessero un pezzo così, ne trarrebbero un singolo di successo. Dalla decadance al decadandysmo: Hotel Plaza è il suo pezzo più famoso e tocca la vetta della
sua poetica: “amo i tuoi fiori come nevrastenie”. Chiude J’accuse… amore mio, parlata su sottofondo
metallico. Quest’antologia è uscita nell’autunno 2006 per la Warner. That’s All, Punks! (B.V.)
56
Delia, vissuta in un vecchio palazzo barocco romano, forse allo squallore della miseria (non
tanto economica o culturale, quanto proprio di “stile” di vita) dalla quale la protagonista ritiene di essersi affrancata. Quasi a volerci far riflettere sul fatto che in realtà la sua emancipazione sia solo superficiale, esteriore: una parvenu, appunto, con i soldi, ma senza la cultura e
l’educazione necessaria a fare di lei una “vera signora”.
Scusi Parigi in che senso?
Non è la Francia in generale ad attirare Delia, ma è la sola capitale, estraniata dal suo contesto nazionale e assurta a speciale Paese delle Meraviglie dove ogni sogno si realizza, dove
una signorinetta snob può appagare il suo desiderio di successo professionale (leggi trovare
clienti di prestigio): la Parigi di Delia non è una città reale, ma una città immaginaria racchiusa in una boccia di vetro con la neve, una bomboniera, appunto, immaginata tale e quale alla
sua casa romana. La Parigi reale in cui Delia si troverà a vivere non sarà invece altro che una
sequenza di sfortunate delusioni e nulla avrà dello charme e della grandeur che ella si sarebbe aspettata, rivelando una “popolanità” da sempre sfuggita dalla sua precisione e rincorsa
al fastoso. Quella in cui Delia si imbatte è infatti una Parigi periferica (“anvedi… un po’ fori…”),
sporca, degradata, fatta di case vecchie, di muri scrostati, di soffitte polverose, di abbaini
murati4… Una Parigi tutt’altro che chic e charmante.
Anvedi Parigi!
L’elemento motore di tutta la storia, che finirà col portare la protagonista a intraprendere il
suo viaggio verso Parigi, è contenuto fin dalla prima scena del film: Delia sta battendo il marciapiedi, e per ripararsi dalla pioggia si rifugia nel portierato dell’amico portinaio (Gigi Reder il Filini di Fantozzi). Qui egli, infilate maleducatamente le mani nella borsetta di Delia e trovata
una lettera scrittale del fratello, compone di nascosto il numero di telefono scritto sulla busta,
permettendo così a Delia di parlare con il fratello che la invita ad andare a fargli visita.
Altro elemento minore, ma decisivo,
lo scoviamo alla Benedizione degli
Animali5, dove Delia incontra una
signora che ha dato nome alla propria cagnolina “Parigi”: la bestiola
indossa una camicetta a pois con
un orrendo fioccone al collo, poco
dopo Delia troverà – e acquisterà! –
la medesima camicetta in versione
“umana”.
Come dicevamo, tutto sembra venire “predetto” durante il film dai collegamenti presenti nella storia: persino la conclusione finale sembra
pronosticata da un’incontro che
Delia fa con una principessa di origi- Saranno almeno centomila candele io dico...
ni tedesche che, a Parigi, ha trovato
il marito italiano: costei le instilla l’idea che a Parigi una signorina possa realizzare i propri
desideri (“Ogni donna ha la sua chance in Parigi!”), ma l’interpretazione data da Delia non è
evidentemente quel che intendeva la principessa!
Altri elementi che proiettano Delia in una visione “francese” sono sparsi qua e là: il probabile
pappone di alcune sue amiche, telefona “parlando” francese: le uniche parole che pronuncia
però sono “oui” e “aurevoir”, ma da questo Delia ricava che il francese sia estremamente facile da apprendere – cosa che si rivela tutt’altro che vera – poiché lei si ritiene tanto intelligente
9
Bongiur’...
E chi te li dà cento a te? Che te
credi Soraya?
Delia Nesti è sì una signorinetta
snob, tirchia e precisina, ma è
anche una prostituta. Elemento di
per sé destabilizzante e quanto mai
almodovariano questo. L’iconografia classica ci ha abituato a prostitute discinte, trascurate, raffazzonate: in questo contesto la signorinetta snob della Valeri potrebbe
essere una zitella, al massimo una
signora maritata, mai una donna di
malaffare. E invece proprio questo
paradossale contrasto rende più
interessante questo capolavoro
cinematografico.
Ciò, naturalmente, viene sempre alluso, fatto intendere, mai dichiarato (ah, quanta eleganza!):
classe che un “la mia professione” riassume perfettamente. È una costruzione di elementi
ambigui che ci conducono pian piano alla verità, come tanti puntini numerati da unire in un
tracciato enigmistico per scoprire il disegno finale: all’inizio del film Delia si trova a passeggiare per strada di notte, sotto la pioggia, trova rifugio in un portierato, ma appena spiove torna
per strada; quando esce di casa lascia il telefono – con il lucchetto, beninteso! – alla vicina perché riceva le sue telefonate e prenda appunti; chiacchierando con un’amica che viaggia sul
Settebello, scopriamo che costei investe 10 per il biglietto e ne guadagna 100 perché conosce generosi signori distinti; Delia si fa scattare delle fotografie sexy che distribuisce in giro,
“A’ fotografia è un veicolo d’orgasmo: chi la vede te vo’ conosce’”. E così via, fino ad arrivare
alla contrattazione surreale sotto al lampione (“Saranno almeno 100.000 candele, io dico…”),
che toglie definitivamente ogni dubbio portandoci all’inevitabile conclusione riguardo il mestiere che svolge.
Giunta a Parigi, Delia cercherà di crearsi un suo giro, ma l’unico commercio carnale lo avrà
con il figlio dei coniugi che la ospitano, per altro senza guadagnare il becco d’un quattrino. Ogni
occasione viene infatti mancata: l’appuntamento alla “ConcordE” con una amica che “fa la vita”
e che la introdurrebbe all’ambiente di alta classe della “Marchesa”, così come i numeri di telefono di “Marc, Philippe, Elisabette” perduti assieme alla confezione di fiammiferi su cui erano
scritti, che l’avrebbero introdotta nell’ambiente giusto. Sequela di fallimenti che la condurranno alla decisione di lasciar perdere, risoluzione che prende improvvisamente corpo nella
distruzione delle foto “da lasciare in giro”.
Quando nun me piacciono ste cose… me sa che quella se fa chiama’ pure per sé.
Delia è costantemente al telefono per tutto il primo tempo del film. Il telefono è il centro della
sua vita, del suo mondo ed è feticcio insostituibile del personaggio con cui Franca Valeri si
esprime: derivazione radiofonica e televisiva, “maschera” che permette alla Valeri di rappresentare il personaggio: basta la sola cornetta, e nient’altro, per far trasformare la Valeri nella
Sora Cesira.
10
L’invasione della api regine (Invasion of the Bee Girl)
(USA, 1973) Film
HAHA! Che magnifica cavolata questo filmetto! L’idea di base, sceneggiata da Nicholas Meyer (suoi i migliori episodi della saga cinematografica di Star Trek), è di per sé demenziale, ma nelle mani di Denis
Sanders diviene addirittura scema. In una cittadina americana alcuni
uomini vengono trovati morti per un collasso cardiaco al culmine di
un’intensa attività sessuale, l’agente Neil Agar (William Smith), affiancato dalla bella Julie Zorn (Victoria Vetri, celebre playmate degli anni
’60, nonché interprete di Florence Of Arabia, una delle tante villain del
telefilm Batman), indaga arrivando a scoprire che le vittime sono state
assassinate da un gruppo di belle donne mutanti, frutto degli esperimenti della dottoressa Susan Harris (la succosa Anitra Ford, già attrice
cinematografica e poi valletta di “The Price is Right”, l’”OK! Il prezzo è
giusto” americano, che apparirà in svariate serie cult degli anni ’70, per
diventare, infine, poetessa e fotografa). Le donne, punte da api radioattive, diventano delle assatanate
seduttrici che, sorta di api regine umane, uccidono il maschio dopo averci fatto l’amore. Un film totalmente sgangherato, anche a causa della poco felice mano registica, che ne sa dileguare in un vapore
di impressionante approssimazione ogni possibile suspense, anche grazie a un disgraziato montaggio
fatto con la scure. Per gli abastoriani visione d’obbligo, se non altro proprio per la sua balordaggine e
per la profusione di tette! (F.C.N.)
Squallor, Palle
(CGD 1974) LP
Palle è l’album in cui troviamo espressa al meglio l’arte sopraffina degli Squallor, uno dei dischi più sperimentali, innovativi,
geniali, eleganti e completi. La titletrack è opera di Pippo
Caruso: sì, proprio il direttore d’orchestra degli spettacoli
nazional-popolari con Pippo Baudo, ed è un autentico madrigale a canone di stampo cinque-seicentesco nel quale il coro
intona “paaalle” ripetutamente in ogni variante possibile.
Sperimentazione pura ritroviamo poi nel pezzo Marcia Longa
che apre il lato B: due voci si sovrappongono raccontando una
sorta di “telecronaca” non-sense (sarà quella della “cronaca in
diretta” una delle soluzioni spesso adottate dagli Squallor),
non si potrebbe capire nulla se non avendo l’accortezza di
ascoltare prima la voce sul canale destro e poi quella sul canale sinistro! Sono una donna, non sono
una santa è una spietata cover-parodia del celebre brano cantato da Rosanna Fratello nel 1971,
embeh? Nulla di particolare, non fosse che qui a cantarla è… un uomo! Scelta provocatoria per i tempi
in cui è stata registrata. Ritroviamo la stessa provocazione e lo stesso prendere e prendersi in giro,
giocando con il tema dell’omosessualità, in modo scorretto ma geniale, nel brano che chiude il disco,
Veramon, dove due uomini duettano scambiandosi frasi d’amore in uno pseudo-francese. Certo gli
Squallor giocano spesso e volentieri col politicamente scorretto (“ed eccoli qui i froci”), con le parolacce (clamorosa e certamente destabilizzante è la stentorea dichiarazione che a gran voce esplode a
metà di Marcia Longa: “Mettetevi un dito in culo e la vita vi sorriderà!”), ma ne fanno un uso volutamente destabilizzante: siamo in un momento storico ancora incontaminato e pre-commedia scollacciata in cui il turpiloquio era bandito da ogni mezzo di informazione mainstream – più tardi alla scurrilità degli Squallor ci faremo il callo, arrivando persino ad infastidirci, ma qui ancora siamo in un momento di gloria. Paradossale ancora Blablabla: sembra quasi una canzone di Mina in cui le uniche parole
del testo ripetono instancabilmente “bla bla bla…”, per esplodere in un ritornello francofono “e moi vraiment je t’aime”. Parodia? Delirio demente? Grido di disperazione di parolieri stanchi di scrivere sempre le stesse minchiate d’amore? Sicuramente, per i loro autori, gli Squallor dovevano rappresentare
una valvola di sfogo in cui riversare l’arte, lo humor e le oscenità che censura e industria discografica
gli vietavano. Altra riuscita parodia nei confronti del buonismo infantile ingenuo e gongolante di Fausto
Leali è Angeli Negri, dove la satira prende il volo e sconfina anch’essa con la massima non chalance
nel più riuscito ed elegante non sense senza mai sconfinare in alcun razzismo destrofilo. Forse negli
anni ’70 gli Squallor saranno stati pure accusati di questo, di essere di destra, perché disimpegnati,
perché scanzonati, perché facevano satira e prendevano in giro un po’ tutti. Chissà e chissenefrega, a
guardare indietro però, c’era molto più genio nelle opere degli Squallor che in qualsiasi odierna comicità corretta e pulitina. (F.C.N.)
55
Degustazioni
te da poter imparare facilmente pure il cinese!
Infine, durante la prima parte del film, Delia indossa un’apparentemente bizzarra combinazione di colori: blu e rosso. Anche questo elemento non è casuale, poiché il blu e il rosso sono i
colori della città di Parigi6.
Degustazioni
Paris Hilton, Merle Ginsberg, Jeff Vespa Confessioni di
un’ereditiera
(TEA, 2005) Libro
Sparlare di Paris Hilton è come sparare sulla Croce
Rossa. Massì, dai, è troppo facile, troppo scontato.
L’abastoriano deve sapere andare oltre, l’abastoriano studia e si documenta, cerca di conoscere il male per combatterlo, si inebria fino al midollo dell’estremo nulla e ancora più giù, sprofonda nel palese vuoto del lustrino griffato,
della scarpa tacchettata, del capello mesciato, lisciato,
fonato. Paris Hilton è la quintessenza della mondanità contemporanea, del presenzialismo mediatico, del “fai tutto,
non importa se non lo sai fare”. Una santa martire della
ceretta, una devota anima pia votata allo shopping che
vive nel reverenziale timor di Dior. Una figura mistica che
racchiude in sé tanto la capacità di riprodursi sulle copertine di riviste pop-apocalittiche, quanto quella di sopravvivere indenne a un attacco nucleare. È un esemplare da
studiare, insomma. Di lei i più hanno, ahinoi, una limitata e
superficiale conoscenza che si ferma alla considerazione
trattarsi di una persona vuota, insipida, un po’ grulla senza altro per la testa che vestiti, scarpe, trucchi e
parrucchiere. Una ragazzina viziata e piena di soldi. Finalmente questo libro sfrontato e coraggioso ci
dimostra che così non è, che Paris Hilton è una pasionaria umanista con un proprio mondo interiore, una
donna contro che vive il suo dramma esistenziale sopportandolo a testa alta. Sì, perché questo libro ci
rivela che Paris Hilton non è quella ricca spensierata ereditiera che tutti credevamo, in realtà, per la prima
volta e senza falsi pudori, rivela al mondo di dover convivere con una grave limitazione fisica che il crudele destino le ha inflitto: nel capitolo “I miei capelli: il mio orgoglio” (che titoli! Che titoli!) veniamo a conoscenza del fatto che i suoi capelli non sono lisci, come tutti pensavamo, ma sono.. ricci! Ora malattie debilitanti e gravi handicap sono nulla in confronto al dramma che Paris Hilton deve affrontare, e se siete
costretti a terapie traumatiche o a portare protesi ortopediche, pensate che Paris, per poter condurre
una vita normale, è costretta a farsi lisciare tutti i giorni i suoi boccoli biondi non con la piastra, che li rovinerebbe, ma con il phon. Ah, quanto coraggio a rivelare un simile dramma esistenziale! Nel suo scabroso
memoriale possiamo inoltre scoprire altri risvolti inediti, pieghe della sua anima che celano ideali e sentimenti e ne fanno una persona tormentata e aliena ad un mondo nel quale è capitata per un amaro scherzo del destino. Un ingranaggio difettoso destinato inevitabilmente a inceppare i meccanismi del sistema,
una ribelle nella pelle che sa dire “no” a testa alta e combattere l’ipocrisia e la falsità: Paris Hilton, infatti,
disprezza caviale e champagne e coraggiosamente ci confessa di adorare il junk food, di cibarsi di hamburger, patate fritte e Coca-Cola e sfidare così caparbiamente dogmi e convenzioni sociali alle quali la sua
coscienza le impedisce di aderire. Un’eroica combattente sovversiva, insomma. Una rivoluzionaria sfrontatamente e oltraggiosamente anticonformista. Il suo libro, scritto come se si trattasse di un intenso diario emozionale, ripercorre i suoi primi cinque lustri di vita, rivelandoci quali sono le sue vere passioni, i suoi
interessi: per sfatare definitivamente il mito che Paris Hilton sia una superficiale, frivola oca giuliva ci dimostra di saper leggere – oltre che scrivere – e di avere quindi degli interessi letterari e musicali, ben 2 (due)
pagine del presente tomo sono infarcite di quanto ha a che fare con il suo lato spirituale – i libri che ha
letto, la musica che ascolta –, lasciando alla parte materiale, al vestirsi-apparire-dunque-essere, soltanto
quella manciata di 190 pagine che rimangono. Un’intellettuale, insomma… vabbeh, adesso non mi state a
fare i pignoli venendomi a dire che delle 2 (due) pagine soltanto 1 (una) colonna di una manciata di parole parla di ascolti e letture, e che il resto del capitolo “Lo spazio personale” è su bagnoschiuma e saponette, via! Paris è anche una tenace animalista (capirai…), votata anima e corpo alla causa, rappresentata dalla sua cagnetta di razza chihuahua Tinkerbell: i primi due precetti di una vera ereditiera, infatti, sono
proprio quelli di non “essere crudele con gli animali” e di non “avere la ricrescita dei capelli”. Urca che filosofia! Ma punto focale del volume sono proprio i consigli che Paris Hilton ci elargisce a piene mani da
donna vissuta quale ella è, per istruirci su come diventare delle provette ereditiere. Uno per tutti: “Nasci
nella famiglia giusta”. E ci voleva lei per dirmelo. Il resto, miriadi di fotografie e pensierini di Paris con
mamma, papà, sorella e fratelli, e un’infinità di vip, amiche, amici e fidanzati, ci spinge a costruire un azzardato parallelo tra questo libro e quello, altrettanto coraggioso (è proprio il caso di dirlo) e profondo, di
Solange, Rompi Solange e trovi Paolo, di cui abbiamo compiutamente parlato in passato. Ma Paris Hilton,
in confronto a Solange, sa essere in qualche modo più intangibile, lasciandoci un senso di vacuo evanescente al termine della lettura, come aver bevuto assetati da un calice vuoto, facendoci intendere che contenesse squisito liquore della miglior marca. Non cercherò di discolparmi giustificandone l’acquisto con lo
stato di ebbrezza alcolica nel quale mi trovavo, anche se molto ha favorito. (F.C.N.)
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Così, anche in Parigi o cara, ritroviamo il telefono quale fulcro attorno a cui ruota tutto il personaggio di Delia: nella sola breve scena iniziale la vediamo usare il telefono per ben due volte
consecutive. Il telefono è una sorta di amuleto protettivo per Delia, tanto da farci capire quanto la dea Fortuna le sia avversa a Parigi, dove infatti non la vediamo mai telefonare, e l’unica
occasione che ha di alzare la cornetta, viene vanificata proprio dalla perdita dei numeri di telefono “giusti”.
Non è diffidenza, è usanza.
Altra componente “forte” che caratterizza il personaggio di Delia è il suo attaccamento al
denaro, la sua costante, impertinente, tirchieria. È un altro elemento atto a creare contrasto
e una delle maggiori fonti di comicità.
Così Delia chiude a chiave la porta del bagno perché ha “un capitale in medicine”; non usa
l’ascensore per non spendere le monetine; fa parte di una “società” che presta danaro a
strozzo; si fa pagare da amiche e conoscenti per oggetti dati in prestito; a Parigi, infine, arriva persino a nascondere rotoli di banconote nel reggiseno, pur di non pagare il ristorante al
fratello e ai suoi amici. Insomma un’autentica spilorcia!
Ma che fossi…? Ah, n’o sapevo…
Claudio Nesti (Fiorenzo Fiorentini – ne avevamo accennato parlando de Il segno del comando: sua la splendida Cento Campane sigla dello sceneggiato), il fratello di Delia che vive a
Parigi, è gay. Ma, forse per la prima volta in un film italiano, non viene espresso alcun giudizio
morale sul suo status di diverso, così come, sostanzialmente, nessun giudizio morale viene
mai espresso a proposito della professione di Delia: così è, e tanto vi basti, sembrano volerci
dire Caprioli e la Valeri.
Se proprio si vuole andare in cerca di un giudizio sul suo personaggio, Claudio ne esce meglio
degli altri: è una “zia” amico di tutti, altruista e disponibile, seppure sia forse l’unico, in coro
con la signora che ospita Delia, a esprimere un giudizio morale negativo nei confronti della
professione della sorella (“n’est pas
sérieux!”).
Per la verità nella smorfia apparentemente neutrale espressa da Delia
nell’apprendere dei gusti sessuali
del fratello, durante la scena più
bella del film, è impossibile non scorgere un velato, elegante, disilluso
piccolo “shock”. Delia e Claudio si
incontrano alla stazione, lei, emergendo dalla nebbia del vapore: “Ma
che sei Claudio?”; lui le risponde con
uno stringato: “Sì”, poi, riferendosi
alla valigia della sorella: “Pesa?”, e
lei: “Mbeh…”. Claudio afferra il bagaglio e i due si dirigono verso la scala Ma che sei tinto...?
del Metro, mentre Delia, tra l’imbarazzato e lo stralunato continua a fargli domande a proposito dell’audace meche platinata
che egli esibisce con tanta nonchalance: “Ma che sei tinto?”. Lui le risponde ancora con sufficienza annoiata: “Sì”. Ancora qualche passo e Delia con esitazione si decide a porgli la fatidica domanda: “Ma che fossi…?”. Lui risponde, con un vezzoso ma deciso: “Sì!”, al che Delia
chiude il discorso con un imbarazzato: “Ah, n’o sapevo…”, carico di allusioni e sottintesi.
Vien da pensare che Caprioli e la Valeri siano stati i primi ad affrontare in modo così sofisti-
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No guardi, io i libri come li ho letti li butto: il libro è un veicolo de polvere, secca ‘a pelle…
Delia ci fa più volte capire come la sua istruzione sia ricolma di… lacune. La sua scarsa istruzione ci viene lasciata intendere da molti elementi secondari del film, e il massimo della sua
prosa la usa per scrivere annunci di giornale.
Tra i tanti elemento che ci fa capire questa debolezza nelle lettere è quando lei cerca di telefonare al fratello a Parigi e non riesce a fare lo spelling di “Diderot” con i nomi delle città, rinunciando definitivamente all’impresa e ripiegando sulla lettera scritta, che comunque non sarà
composta da lei, ma dal bambino dei vicini che fa le elementari e tenta invano di imparare a
memoria La spigolatrice di Sapri. Ma la zoppicante istruzione di Delia viene resa del tutto esplicita dalla lettera che Delia lascia alla vicina e che viene letta dall’amico veneto Antonio: da
come egli la legge la possiamo immaginare completamente priva di punteggiatura e infarcita
di errori di sintassi, insomma scritta come gli annunci che Delia pubblica sul giornale per trovare clienti.
Pare brutto che non accetto Parigi
chiama…
L’elemento “invisibile” del film è infine
il Destino. È il Destino a portare Delia
a Parigi con, come ultimo scopo,
quello di farle trovare il marito.
Destino che le mette sul cammino
tutti quegli elementi che la spingono
a Parigi, Destino che, una volta nella
ville lumiere, le impedisce di realizzarsi (impedendole di incontrarsi con
l’amica con i contatti giusti alla ConcordE, facendole perdere i numeri di
telefono della gente “in” che ha conosciuto per caso), Destino che la spinge al fine tra le braccia del pizzaiolo
So’ ignoranti quelle...
Avallone (Vittorio Caprioli).
Suo destino è così la redenzione dalla vita di prostituta a quella di moglie, ma in questa riabilitazione non c’è nessuna salvezza, come potrebbe capitare in un qualsiasi altro filmetto morale degli stessi anni8. Per Delia il riscatto sociale rappresenta, invece, una sconfitta: la sconfitta della donna indipendente che si ritrova alla fine a dover rinunciare alla sua libertà per contrarre un matrimonio di comodo e dipendere dal marito.
12
Inseminoid
(Gran Bretagna, 1981) Film
Ci troviamo su di un bel pianeta alieno azzurro fatto solo di caverne,
all’interno di una base esplorativa terrestre, abitata da uomini e donne.
Questi stanno indagando le grotte locali quando non ti scoprono dei cristalli? Brrr… la tensione già sale! Ecco che uno degli esploratori viene
ucciso e un altro ferito a una mano… cominciano una serie di strani
omicidi e suicidi… uh, che paura! Aspetta… e poi… poi scopriamo che
Sandy (Judy Geeson, la Fulvia di Star Maidens e la Regina Kesslann dell’episodio Another Time, Another Place di Spazio 1999) è rimasta
incinta… di un alieno! Non resistete a una simile tensione, vero? State
già tremando tutti e non sapete se arriverete alla fine del film? Eh, già,
ma questo è niente: Sandy, preda della creatura aliena che cova in
grembo, perde la ragione e comincia ad ammazzare tutti e a divorarne
gli intestini. Terrore puro. Tenteranno di fermarla, ma periranno tutti
nel tentativo e lei darà alla luce due creature aliene cannibali, che sembrano due muppets, e verrà infine uccisa anche lei. Insomma, un ibrido
tra Alien, La Cosa e Cannibal Holocaust, con gli effetti speciali ridotti all’osso e un tocco di erotismo britannico insipido ed eccitante come una secchiata d’acqua gelata sugli zebedei. Il tutto girato con un budget e degli effetti speciali anch’essi ridotti all’osso, così, persino il più banale omicidio diventa ridicolmente finto e le secchiate di sangue vengono elargite con il contagocce (il sangue finto costa, meglio usare
la salsa di pomodoro). Le scene sembrano tra loro affiancate del tutto casualmente e l’alienata Judy
Geeson che urla, digrigna i denti e spalanca gli occhi sono l’unico segnale – ripetuto fino alla nausea –
del suo stato, interessante, di dominazione aliena. Che cosa manca? Dialoghi demenziali? Ci sono!
Esplosioni e allucinazioni? Ci sono! Un alieno con un lungo pisellone verde che si intrufola in Sandy attraverso un tubo di plexiglass? C’è! Un capolavoro nel suo genere, girato probabilmente con 3.000 lire (italiane, non sterline). (F.C.N.)
Nouvelle Vague Nouvelle Vague (Peacefrog, 2004) LP
Nouvelle Vague A bande a part (Peacefrog, 2007) LP
Alcuni anni fa il gruppo francese The Moog Cookbook ebbe la fantastica idea di riarrangiare in chiave lounge alcuni successi indie-rock
degli anni ’90 e rock classici degli anni ’70, utilizzando unicamente sintetizzatori analogici – Moog principalmente. Pensate che sanno fare
soltanto i francesi. Allora questa geniale trovata mi suggerì il proposito di formare un progetto, Bela Loungeosi (pronuncia “laungiosi”), con
il quale rifare in chiave lounge, con voce alla Mike Flower Pops, alcuni
classici della dark-wave anni ‘80. Il progetto, per svariate ragioni logistiche mai partì, ma già avevo chiaro alcuni tra i brani da realizzare: A
Forest dei Cure, Marian dei Sisters Of Mercy (questa tradotta addirittura in italiano!) e, ovviamente, Bela Lugosi’s Dead dei Bauhaus.
Scopro soltanto oggi che un progetto francese chiamato Nouvelle
Vague ha realizzato, con molta più eleganza e raffinatezza, la medesima idea, facendo la somma tra Nouvelle Vague, New Wave – traduzione inglese del termine francese - e Bossa Nova – “voce nuova” in
portoghese, con ovvii rimandi a ciò che questi termini rappresentano.
Ecco così che tra i brani scelti ci sono gli stessi che avrebbe dovuto
suonare Bela Loungeosi, preparati però in sapore lounge-tropicalia e
l’effetto è, vi garantisco, emozionante. Lasciarsi cullare dalla samba di
A Forest o dalla incantevole The Killing Moon, originalmente suonata
da Echo & The Bunnymen, è esperienza che rinfranca dalla trivialità in
cui è ormai sprofondata la scena goth. Inoltre ad eseguire i brani sono
incantevoli creature femminili della scena neo-lounge francese,
messe assieme da Marc Collin e Olivier Libaux, artefici del progetto. Tra gli altri brani troviamo persino
cose come Human Fly dei Cramps o Heart of Glass di Blondie! Deliziosa la grafica dei dischi, incantevole
l’edizione in vinile – ma è disponibile anche in CD e per i pervertiti anche su iTunes. L’abastoriano che ha
alle spalle un background dark, ma che ha da tempo aperto i suoi orizzonti all’easy listening e all’incredible strange music, non potrà che adorare questi due album. Un evento che doveva manifestarsi presto
o tardi nell’universo. www.nouvellesvagues.com (F.C.N.)
53
Degustazioni
cato, elegante e “neutrale” il tema dell’omosessualità7, probabilmente anche perché provenienti da un ambiente, quello degli “artisti”, da sempre considerato status a parte in cui tutto
è concesso, in cui quei comportamenti considerati anticonformisti godono di una particolare
sospensione di giudizio. E certo vanno prese in considerazione anche le loro frequentazioni
parigine, messe a frutto durante la lavorazione del film: gli “amici” parigini di Delia e Claudio
erano, nel mondo reale, amici francesi di Franca Valeri e Vittorio Caprioli che, negli anni precedenti, avevano fatto fortuna esportando proprio a Parigi il loro “Teatro dei Gobbi”.
Ma la Valeri ha assunto in qualche modo, fin quasi dagli esordi del suo personaggio della signorinetta snob, il ruolo di santa protettrice dei gay italiani, valga per tutto uno sketch di fine anni
’60, incluso in un disco – da recuperare! –, in cui, sempre attaccata al telefono, si ostina disperatamente nel tenere in piedi il palco di illusioni per non voler riconoscere l’omosessualità del
figlio. Insomma, c’è ancora da stupirsi se Franca Valeri è associata spesso e indissolubilmente al concetto di camp?
Degustazioni
Kathleen Del Casino Dance Down
(Derby 1977) 45 giri
Chi mai sarà la bella Kathleen Del Casino, che nel video di Dance
Down saltella come una cavalletta in mezzo a tanti maschioni africani che suonano il bongo, indossando lo stesso vestitino scollacciato che porta sulla copertina di questo singolo...? Mah!
Certamente gli occhietti furbi, il bel visino malizioso e il generoso
decolletè attirano la nostra attenzione almeno quanto la prodigiosa
canzoncina che nel ritornello catchy ripete ossessivamente “dance
dance dance”. Il ritmo fresco e vivace di una hit da discotechina,
certo una cosetta senza grandi pretese, in cui percussioni caraibiche si mescolano ai saltelli discodanzerecci moderni (per allora),
reclama a gran voce il suo posto su Abastor fin dalla sua prima
manifestazione in cui Kathleen ci è apparsa come una conturbante odalisca invitante e suadente. No, non
dite che siamo i soliti maniaci, è Kathleen che farebbe perdere la ragione anche ad un santo! Questa confezione dall’aria esotica racchiude tuttavia un animo tutto italiano: il pezzo è scritto da E. Lenton – A.
Verrecchia – R. Conrado e prodotta da Prima Linea su dischi Derby. Se i nomi non vi dicono granché, sappiate che Verrecchia e Conrado sono autori che hanno lavorato spesso con Renato Zero (Il cielo, La favola mia) e agli abastoriani più attenti non sarà sfuggito che sono anche tra gli autori di Viens… di Virginie
et Barbara; Albert Verrecchia ha inoltre composto le colonne sonore per poliziotteschi come Il tempo
degli assassini o Roma drogata: la polizia non può intervenire, e potrei continuare così fino a riempire la
pagina. Ma la nostra bella potrebbe (e perché no?) essere tranquillamente di ascendenti francesi: l’anno
dopo inciderà infatti un LP, La France c’est l’amour, avente lo stesso titolo di una sua seconda hit a quanto pare più conosciuta del disco da noi trattato. Da acquolina in bocca. (F.C.N.)
Ron Javers, Marshall Kilduff Guyana la setta del suicidio
(Club Degli Editori, 1979) Libro
Sul suicidio/omicidio di massa di Jonestown nella giungla della Guyana (911
persone suicidate col cianuro mescolato al Kool-Aid, o costrette a farlo dalle
guardie armate della setta, più altre uccise a colpi d’arma da fuoco, tra cui il
senatore Leo Ryan) se n’è detto e scritto in abbondanza, sono state formulate persino teorie di complotto che coinvolgono CIA e FBI - tra i primi autori, un terzetto di russi che ne hanno scritto in clima di Guerra Fredda, cosa
che ne fa vacillare la già fragile credibilità –, ne sono state fatte analisi e
approfondimenti, e la storia è sempre al centro di ogni ricerca su sette e controllo mentale. Di recente uscita, inoltre, un documentario, Jonestown – The
Life and Death of Peoples Temple, contenente filmati inediti, riporta alla pubblica attenzione l’argomento. The Suicide Cult è stato il primo libro in assoluto, ed è probabilmente anche il più celebre, ad aver parlato dell’accaduto: un
autentico istant book uscito già nel 1978 (la strage risale al 18 novembre
dello stesso anno) e subito pubblicato anche in Italia dalla Sperling & Kupfer con il titolo Guyana la setta
del suicidio. Quella che stringiamo orgogliosamente tra le mani è però l’edizione, di un anno più tardi, data
alle stampe dal Club Degli Editori, che differisce con l’originale per alcuni inquietanti particolari: la sovraccoperta presenta una foto delle vittime di Jonestown, ad avvolgere una copertina rigida telata di colore
rosso. Libro fondamentale, che si può reperire più facilmente nella sua edizione originale nel giro dell’usato, che affronta un tema, il Peoples Temple (tra le tante varianti delle traduzioni italiane preferisco
quella qui riportata, anche se non è la più esatta: Tempio del Popolo) di Jim Jones, che esercita un discreto fascino sugli apocalittici ricercatori di verità nascoste e gli esploratori di cospirazioni e lavaggio del cervello, almeno quanto la vicenda altrettanto drammatica della Family mansoniana. Il libro ripercorre ordinatamente la storia di Jim Jones e del Peoples Temple usufruendo di svariate testimonianze di fuoriusciti e di persone coinvolte nella strage finale: lo stesso Ron Javers faceva parte della spedizione in Guyana
del senatore Leo Ryan in qualità di giornalista. Ferito dai colpi sparati dalle guardie di Jim Jones, sopravvisse riparandosi nella giungla. Il libro ci racconta così la vita di Jim Jones, la costituzione della setta, la
decisione di trasferirsi in Guyana e il tragico epilogo della faccenda. Vengono descritti i mezzi di coercizione adoperati da Jim Jones da parte di ex adepti fuoriusciti dal Tempio del Popolo, i reali scopi della
setta, i collegamenti con politici corrotti e il favore (o quanto meno la mancanza di un’informazione puntuale sulle attività della setta) da parte di parte della stampa. Un libro ben scritto, ricco di illustrazioni, che
non si lascia andare troppo al sensazionalismo, ma che si lascia anzi leggere con coinvolgimento e che
fornisce una prima e indispensabile conoscenza sul Tempio del Popolo e sulla sua guida. (F.C.N.)
52
Per concludere questa riflessione su Parigi o cara con la speranza di avervi incuriosito e spinto a vedere il film, vogliamo ricordare la maestosità dei dialoghi, che ormai, come ricorda la
stessa Valeri in un’intervista, i suoi fan imparano puntualmente a memoria. Ciò è infatti inevitabile, poiché le battute del film costituiscono un patrimonio di gag e di citazioni che ogni
“signora” (indipendentemente dal suo sesso anagrafico) degna di questo nome dovrebbe
saper sfoggiare in società! Battute
buone per qualsiasi occasione, che
possono venirvi utili per uscire dalle
situazioni difficili che la vita vi presenta. Eccovene qualche esempio.
Al supermercato la commessa sbaglia a darvi il resto? Ecco pronta
Delia a rimbrottare “Pure qui ‘e commesse se sbajano: è proprio er ggenere…”! State per prendere una decisione (magari proprio riguardo il
colore di capelli) che rivoluzionerà la
vostra vita, ma abbisognate di un
consiglio da un’amica? Ecco Delia
esitante a interrogare: “Che dici,
famo er gran salto, me faccio cene- Je t’embrasse ma chére Paris...
re?”! Ancora, vi viene chiesto consiglio su un vestito? “Modello bene, seta scadente. Elvira s’intende” oppure “Quanto nun me
piace ‘sto colore… è proprio ‘na cosa che nun se regge!”. Nella vostra dimora regna il disordine e la confusione? “Che confusione, stamattina ‘sta casa me pare un ministero!”. Avete di
che lamentarvi a proposito del cattivo comportamento di qualche amica? “Sei de’ na maleducazione che a ‘na donna nun j’ha mai portato bbene!”. Avete digerito male dopo un frugale
spuntino o un pasto sostanzioso? “Mamma mia, latte e noci, n’ne magno più pe’ tre mesi!”.
Una vostra conoscente si è dimenticata di svolgere una commissione che le avevate richiesto? “Eh, ma te devi fa’ na cura p’a memoria!”. Oppure anche solo se sta piovendo potete
lamentarvi con la semplice, ma efficace osservazione sulle vostre calze inumidite: “Quanto
nun me piace er nylon bagnato!”. Ma, soprattutto, in ogni occasione vi verrà buona l’espressione di solenne disappunto, che Delia riserva alle situazioni disperate: “Ah, ‘nnamo bbene!”.
Insomma, il film non potrà non contagiarvi!
—Note
1 C’è da sottolineare che il percorso fatto dalla vettura nel finale del film è impossibile, considerando anche la provenienza dal Sud-Ovest della città, e pretestuoso al fine di mostrare quanti più monumenti possibile.
2 Descrizione azzeccatissima che rubo alla penna di Vanessa Venerdì e al suo citato articolo apparso su Mondo
Culto.
3 Cito a memoria un passaggio dove Franca Valeri fa riferimento, in modo implicito, proprio al personaggio di Delia
Nesti.
4 Luoghi tutti reali ed esistenti all’epoca così come ci vengono mostrati, mai ricostruiti in studio.
5 Popolare manifestazione che si tiene realmente ogni anno nella Chiesa di Sant’Eusebio a piazza Vittorio, a Roma,
ma che un tempo si teneva alla Chiesa di Sant’Antonio, dove gli animali venivano presentati agghindati con fiocchi e fatti benedire dietro compenso.
6 Da cui derivano i colori della bandiera francese: l’aggiunta del bianco, colore della bandiera borbonica, rappresentava l’alleanza tra la città e la monarchia all’epoca della Rivoluzione Francese.
7 Vedi anche quell’altro grande film diretto da Caprioli ed ambientato esclusivamente nel mondo dei gay romani,
Splendori e miserie di Madame Royale, che ne dà una visione “oltre cortina”.
8 E qui sta il genio surreale della Valeri che potremmo ritrovare soltanto in un Almodovar dei tempi d’oro, con il
ribaltamento delle convenzioni sociali centro di gravità e motore stesso della storia.
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Maicol e Mirco, Il suicidio spiegato a mio figlio
(Zoo Print & Press - Super Amici – Donna Bavosa –
Modo Info Shop – Recreo 2007) Libro
di Drunk Queens, introduzione di F.C.N.
L’abastoriano raffinato e sensibile è persona di gusti difficili, si
sa. Egli non si accontenta di spettacoli facili, di risate immediate,
di umorismo di bassa lega, ma necessita di fonti di svago di una
certa classe, di un livello un tantino più elegante. Non è facile,
così, fornire all’abastoriano un intrattenimento che sappia titillare le sue zone erogene, eccitare le sue papille gustative e stimolare il suo punto G. Ma il duo teatrale delle Drunk Queens
(garbato gioco di parole tra drag queen - attore o cantante en
travesti - e drunk - ubriaco -), la suprema Lagina Pectoris e il
superbo Gianluca Meis, sa andare oltre la noia e la banalità riuscendo nell’arduo compito di intrattenere il provetto abastoriano.
La loro rappresentazione teatrale Bambole di porcellana e soldatini di stagno - due orette di spettacolo godibilissime in stile
café-chantant, che scivolano via come velluto cosparso di cipria
rosa - gioca con poeti crepuscolari come Guido Gozzano (lettura
delle poesie L’amica di nonna Speranza e Le golose, tra le preferite di Abastor) o Aldo Palazzeschi (ci piace ricordare l’irriverente I fiori e la squisita Visita alla contessa Eva Pizzardini Ba,
personaggio incarnato mirabilmente dalla divina Lagina
Pectoris, che indossa uno strepitoso costume coronato da parruccona e copricapo a forma di... gondola!), mettendo in scena,
in modo sempre fine ed elegante, un delizioso spettacolino stuzzicante ricco di canzoni garbatamente allusive.
E così cantando e recitando, ci portano per mano a spasso per
Belle Epoque, Grande Guerra e Primo Dopo Guerra, presentandoci poeti crepuscolari e futuristi
interventisti, alpini e fascisti, nobildonne e sciantose, gran dame e puttane, il tutto sempre sul filo del
doppio senso sottile e raffinato, con l’utilizzo di una gran dose di buon gusto. Insomma, uno spettacolo teatrale dietro al quale indubbiamente c’è un grosso lavoro di ricerca, un’interpretazione che
possiamo propriamente definire abastoriana e della quale ci ripromettiamo di godere di altre rappresentazioni.
Gianluca Meis: Buonasera Lagina
Lagina Pectoris: Buonasera carissimo Meis
G.M.: È stanca mia cara?
L.P.: Capirà, su questi tacchi!
G.M.: Non saranno troppi diciotto centrimetri?
L.P.: Mio caro, a diciotto centrimetri alla volta ho già fatto il giro del mondo!
G.M.: Lasciamo stare.
L.P.: Cosà avrò detto di male poi.
G.M.: Pensa mai che son già passati cinque anni da quando ci siamo conosciuti?
L.P.: Eccome se ci penso: quante ne abbiamo passate ricorda?
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Che sia per causa d’onore o per l’adesione incondizionata
a un culto distruttivo, il suicidio è sempre un bel gesto. E
come tutti i buoni valori di una volta, va trasmesso alle
generazioni future che rischiano altrimenti di perderne il
significato (“ah, i giovani d’oggi: non si baciano per strada,
non si drogano, non si suicidano più… che tempi signora
mia, che tempi!”). Quando i vostri figli vi chiederanno che
cosa sia e come si compia il suicidio, ciò va loro spiegato
con chiarezza, pazienza e precisione, mai con superficialità
o imbarazzo: non sia mai che nel tentativo di compiere l’insano gesto commettano qualche errore! All’uopo, come i
buoni libri di educazione sessuale di un tempo (li fanno
ancora o nel frattempo è intervenuta qualche associazione di genitori nevrastenici a bloccarne la pericolosa minaccia?), ecco il provvidenziale libro di Maicol e Mirco Il suicidio spiegato a mio figlio. Il volume
che si pone lo scopo di spiegare (e divulgare) la raffinata arte del suicidio ai più piccoli, in modo gaio e
sdrammatizzando quello che, giustamente, deve essere visto come un gioco, è così diviso in due parti:
una propedeutica Le maniere che si propone di insegnare le tecniche di suicidio in modo semplice e comprensibile, senza difficili paroloni e lunghe e dettagliate descrizioni; l’altra La grammatica del suicida si
incarica di illustrare i più comuni errori che si compiono nella stesura della lettera d’addio: è importante
essere chiari, coincisi, ma anche e soprattutto non fraintendibili ed evitare brutti errori di grammatica
che farebbero di un gesto drammatico una farsa. Eh no, non va bene. Nella prima parte troviamo alcuni
simpatici esempi di suicidio dai titoli esplicativi: Annegamento, Benzina, Corda, Digiuno, Elettricità ecc.;
come portarli a compimento nel modo più semplice ed efficace; il grado di difficoltà espresso con le stellette; disegni chiarificatori ad illustrare ogni variante. Nella seconda, gli errori più comuni riscontrabili in
una lettera di addio ci vengono prontamente segnalati per non incorrere a nostra volta in simili imprecisioni. La lettera di addio si ritiene indispensabile nel compimento dell’insano gesto: se non si ha alcuna
motivazione da fornire, sarà opportuno scaricare la colpa su qualcun altro, quanto meno sulla società.
Un volume indispensabile, di cui si sentiva la necessità e che può risultare certamente utile nello scongiurare disastrosi “fai da te” che, dagli impianti idraulici al sesso estremo, va sempre evitato. Bella la rilegatura, che lo fa assomigliare ai libri davvero destinati ai pargoli: copertina cartonata rigida a doppio
spessore, pagine interne patinate (lavabili?), caratteri grandi e testi elementari di poche parole con enormi illustrazioni: i libri che preferisco. Dietro a questo piccolo gioiello editoriale troviamo la mano dei nostri
affezionati Recreo (www.recreo.it) il cui raffinato humor e la cui capacità nell’arte grafica lasciano sempre il segno. Un suggerimento per il prossimo volume: Il lavaggio del cervello spiegato a mio figlio. Ah, una
nota in copertina avvisa “Libro distruttivo destinato ad un pubblico adulto”… perché? (F.C.N.)
La torre del male (Tower of Evil)
(GB/USA, 1972) Film
Quanto può terrorizzarci un vecchio faro inglese? Brrr… al solo pensarci
vengono i brividi… che dire, poi, quando due coppiette di giovani americani lo scelgono per isolarsi dal mondo e praticare un po’ di sesso e nudismo? Le premesse per terrorizzarci ci sono tutte. E infatti la loro gitarella finisce nel peggiore dei modi: tre di loro vengono massacrati da una
misteriosa mano assassina, mentre l’unica superstite, nuda, coperta di
sangue e sotto shock, è in stato catatonico e non può fornire alcun aiuto.
L’unico indizio, una lancia fenicia piantata nel petto di uno dei ragazzi,
spinge un gruppo di archeologi e altri personaggi strambi a soggiornare
nell’isola a caccia della preziosa statua d’oro del dio Baal. Non resta che
scoprire l’assassino… Insomma, un horror anni Settanta a cui è stata
data una buona pennellata di sesso: il nudo serve a catturare lo spettatore nei fotogrammi iniziali, e alcuni dialoghi al limite del demenziale vorrebbero tener alto il tono erotizzante del lungometraggio, risultando, invece, involontariamente comici.
L’horror è a livelli dei migliori Hammer dell’epoca, anche se certo un tocco sleazy in più non manca. Colori,
nebbia e scenografie – il tutto girato rigorosamente in studio – sono interamente di cartone. Il film fu
distribuito in Italia anche con il nome Perché il dio fenicio continua ad uccidere?. (F.C.N.)
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Degustazioni
Bambole, Soldatini e Regine Ubriache
Degustazioni
Catastrophe 03
(Venerea Edizioni, Inverno 2007) Rivista
Catastrophe mi piace mi piace mi piace mi pia’. Non è soltanto
una questione di contenuto: Catastrophe esalta i sensi a livello
visivo, tattile, olfattivo, gustativo. Catastrophe è un’esperienza a
360° in un baule di sapori contente ciò che veramente bisogna
sapere. Tutto il resto, cronaca e sensazionale di cui sono zeppi
i rotocalchi che (è la sola cosa che purtroppo) il popolino legge,
è completamente superfluo, inutile, una perdita di tempo… Dai,
diciamolo a gran voce, finalmente: ma chi se ne frega del delitto di Cogne?! Quello che veramente ci interessa è tutto qui,
tutto dentro questa rivista ben oliata, calibrata e lustrata, che
si chiama Catastrophe. Premessa oziosa, ma sincera, per
introdurre il nuovo numero, 03 (mi piace quest’uso dello zero
prima del numero… fa pensare a un amore per l’ordine, cosicché il comando Visualizza\Disponi icone\Per nome sistemi
correttamente i file presenti nella medesima cartella), pieno
zeppo di succulenti articoli che faranno la felicità dell’abastoriano di buon gusto. Apre un dossier sul made in Italy e l’intervista a Douglas Mortimer, autore di
Possibilmente freddi per Derive e Approdi, saggio ragionato sull’Italia dell’epoca d’oro delle produzioni
cinematografiche. Ma ecco arrivare il primo documento che, fin dall’ironico titolo, potrebbe stuzzicare il
palato raffinato degli abastoriani più attenti: Il più grande mistero italiano: I Pooh. La psicostoria del più
popolare psicogruppo italiano. Non si pensi, però, a un’esaltazione dei Pooh più sdolcinati e melensi, si rievocano qui anzi le origini, di tutt’altro carattere e fascinazione: band di natura psichedelica, rock, quasi sovversiva, quella di Valerio Negrini, originale batterista e fondatore, di fatto poi estromesso perché troppo
fuori dagli schemi… Ah, a proposito, sempre parlando di musica, un altro bell’articolo riguarda un’opera
fuori dal tempo e fuori dalla ragione: McCartney II, il secondo album solista, post-Wings, del baronetto di
Liverpool Paul McCartney, composizione strana e straniante in piena esplosione new-romantic e electropop, che questa lettura mi spingerà a cercare: con una hit dal titolo Temporary Secretary come si fa a
non esserne incuriositi? Altro buon tema da sempre sulla punta della penna di Abastor, ma mai ancora
messo nero su bianco, lo affronta l’articolo Paninaro is not dead, un po’ nostalgico e di parte ma comunque saporito e scintillante – all’epoca stavo dall’altra parte della “barricata” e i paninari erano “i nemici”,
ma proprio per questo motivo sono affascinato da una realtà di quel periodo che racchiudeva in sé molto
dello spirito degli anni ’80, forse del più becero, ma comunque caratteristico di un’epoca. Altro tema da
tempo nelle mie orecchie – anche grazie ai suggerimenti del Papa che sta a Roma, sì, proprio quello di
Mondo Bizzarro – che Catastrophe studia e analizza, è la rivista Fotografare e i deliri cospirazionisti del
suo fondatore Cesco Ciapanna. Ancora popolano questa zeppa uscita di Catastrophe religione, Heavy
Metal, fumetti, illustrazioni, racconti a sfondo sessuale (parlare di “erotico” potrebbe risultare fuorviante),
ecc. Insomma, un altro bel malloppone di roba tosta che all’abastoriano gli gusta! (F.C.N.)
Eau de Mélisse des Carmes Boyer
Bevanda
Come ho fatto ad andare avanti fino a ora? Questo e solo questo può pensare l’abastoriano DOC dopo essersi procurata la sua prima boccetta di Eau
de Mélisse. L’insostituibile tonico, come recita il foglietto illustrativo “è un
aiuto prezioso ed efficace in molte occasioni. Dopo una forte emozione. Dopo
uno sforzo prolungato. Dopo un pasto abbondante. Durante i lunghi viaggi.
Durante le stagioni fredde. Corroborante per le persone anziane. Tonico in
situazioni difficili”. E se siamo ormai sicuri di non poterne più fare a meno, non
siamo meno deliziati dalla confezione. Una comoda scatoletta di cartoncino
in verde e bianco che contiene, oltre alla preziosa bottiglietta e al bugiardino,
anche due zollette di zucchero. Basteranno infatti poche gocce, atte a inumidire la zolletta, e ci sentiremo in gran forma, corroborati e vitali, pronti ad
affrontare i compiti più difficili e a mandare giù quel Cynar di troppo che
abbiamo bevuto durante un aperitivo abastoriano. Se volete saperne di più,
segnalo il documentatissimo sito web: www.eaudemelisse.com. (Ang)
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G.M.: I primi tempi… a montare parrucche con la colla vinilica!
L.P.: O a cucire abiti mentre lei si inventava battute… e battutacce in verità.
G.M.: Io alle spalle avevo esperienze di teatro classico, mentre lei mia cara, alle spalle ha sempre avuto una gran folla!
L.P.: Cosa fa? È geloso?
G.M.: Chi? Io? Ma no… Ci abbiam messo un anno per trovare uno stile.
L.P.: Uno stile? Io mio caro ho sempre avuto una gran classe!
G.M.: Forse l’unica che ha frequentato: la quinta elementare!
L.P.: Ma è venuto per offendere o cosa?
G.M.: No no, non potrei mai: io le sono affezionato! Si figuri: ci si affeziona al proprio postino
come potrei non provare qualcosa per lei?
L.P.: Io in effetti ora provo una gran voglia di prenderla a schiaffi sa se non la finisce!
G.M.: Lei amava il varietà, io il cabaret.
L.P.: Ci abbiam pure messo di mezzo l’avanspettacolo non dimentichi.
G.M.: Certamente. E l’amore per il travestimento, il trasformismo.
L.P.: Poi arrivarono i poeti: ricordo quando mi fece leggere Gozzano o Palazzeschi.
G.M.: E non dimentichi L’Argia Sbolenfi!
L.P.: Che tuffo al cuore quando iniziammo a riguardarci vecchi spettacoli di Paolo Poli!
G.M.: Eh si…siamo debitori a molti.
L.P.: Io di debiti non ne voglio! Capirà ho l’anima di una ragioniera infondo.
G.M.: Intendevo altro tipo di debiti, ma non importa, non si innervosisca.
L.P.: Mio caro… se chiudo gli occhi rivedo ancora il nostro primo debutto: “Dalla mamma alle dive”
G.M.: Oh si… poi vennero “Nessuno è perfetto”, “Il codice Drunk Queens” e tutti quegli spettacoli portati nei locali, su e giù per varie regioni.
L.P.: Oddio, già, a combattere poi col sonno in macchina. Ha visto mio caro? Quanti ricordi abbiamo già insieme?
G.M.: È vero… ma preferisco pensare ai nostri progetti!
L.P.: I suoi libri magari… le tante canzoni che abbiamo raccolto. Le mie future mise o toilette progettate con i nostri costumisti: cari ragazzi veneziani. Ragazzi è una parola forte… ma “veneziani”
dice tutto!
G.M.: Cosa pensa mia cara?
L.P.: Non penso.
G.M.: E ti pareva!
L.P.: Cosa insinua?
G.M.: Nulla nulla… Buonanotte Lagina.
L.P.: Buonanotte carissimo Meis.
Spettacoli
Strasse
S…concerto di primavera
Nessuno è perfetto
Il Codice Drunk Queens
Evento spot
Due rotonde sul mare
Drunk Queens’ Show
Di corsa a Sanremo!
Dalla mamma alle dive
Bambole di porcellana e soldatini di stagno
Webbografia
www.drunkqueens.it
www.myspace.com/drunkqueens
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Osexione
di L.C.
FreakSex
Curiosità e Leggende sui Fenomeni da Baraccone
La sessualità dei mostri ha sempre suscitato una grande curiosità nei ricercatori dell’insolito, così
come ci sono sempre stati freak pronti a posare nudi davanti ai fotografi. All’inizio del ‘900 queste foto erano illegali, oggi hanno invece un grande valore informativo.
Tra le star del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo che si sono svestite di fronte a un fotografo si
possono annoverare: Myrtle Corbin, la donna con 4 gambe; John Merrick, l’uomo elefante;
Serpentina, la donna serpente; i fratelli Tocci, gemelli siamesi… e innumerevoli obesi!
Spesso e volentieri, uomini famosi e brillanti sono stati attratti dai cosiddetti “mostri”. Allo zar Pietro III, ad esempio, pare piacessero enormemente le donne gobbe, mentre Baudelaire, il celeberrimo autore de Les
fleurs du mal, pare preferisse le nere, le nane e le gigantesse, così
come René Descartes amasse invece le donne strabiche e Lydstone
poteva far l’amore solo con donne alle quali rimaneva una sola gamba.
Nani
Nella mitologia popolare, è risaputo che i nani siano i gli amanti migliori, esercitando una forte attrazione sessuale e interesse verso le loro
doti sessuali “accentuate”.
Nell’antica Roma, alla bella Giulia, nipote d’Augusto, piacevano tanto i
nani che ne possedeva uno, chiamato Conopas, che , come lei sosteneva, le faceva “cose deliziose”. Ninfomane e aperta ad ogni nuova esperienza, ordinava ai suoi schiavi di trovarle truppe intere di gargouilles
umani, dei piccoli eserciti di veri e propri “mostri” che la donna usava
per soddisfare i propri piaceri intimi.
Secondo numerosi scrittori della Roma antiica, già sotto Domiziano
molte dame romane avevano tali gusti particolarmente raffinati.
Costoro visitavano le scuole di gladiatori dove i guerrieri nani si allenavano, tutti nudi, prima di entrare nell’arena. Le matrone romane ne
potevano così valutare gli attributi virili (un po’ come si fa al mercato
con i cetrioli e le zucchine, insomma!), scegliendo il nano più adatto a
soddisfare i loro bisogni sessuali. Il prescelto o i prescelti rimanevano
qualche notte in compagnia della loro signora per venire poi rispediti
nell’arena.
Hervé Villechaize, il celebre nano del film
A parte i lilliput, che sono dei veri e propri “uomini in miniatura”, i nani
Agente 007, l'uomo dalla pistola d'oro.
hanno la reputazione di possedere membri virili più grandi della media,
pare pertanto che siano amanti “fuorinorma”.
Al giorno d’oggi stelle dello spettacolo come Jenny Lind, Fanny Essler e Cora Pearl non sono da
meno delle antiche matrone romane, trascorrendo notti di passione con il nano dei freakshow
Tom Pouce. Altri nani quali il crooner sud americano Nelson Ned, attori come Hervé Villechaize e
Michael Dunn hanno sempre vantato numerose conquiste femminili.
L’attore francese Piéral e l’italiano Drago, dongiovanni del cinema italiano, erano dei veri rubacuori: quest’ultimo dichiarò che raramente una donna poteva resistere al suo fascino.
Ma anche le donne mignon non sono state da meno: una nana parigina, nel 1978, confessa a un
famoso quotidiano: “Sono nana e questo affascina molto gli uomini, che mi abbordano spesso per
strada. Per molti somiglio a una bambolina e mi considerano come una donna oggetto. La mia piccolezza è spesso una qualità supplementare.”
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Pax sapete cosa voglio dire). Ma io, anche se non sono un superesperto, non mi lascio certo intimidire: ad esempio, quando ho richiesto un’antologia degli Hoodoo Gurus e i due si sono dichiarati grandi estimatori del gruppo in questione, senza scompormi ho rilanciato, replicando che pensavo che, per tale richiesta, avrei dovuto fare lo spelling. Ma quello che qui ci interessa è che alla
fine costoro mi hanno procurato l’antologia The Definitive Rolf Harris. La sua musica è fondamentalmente folk, ma senza sovrastrutture o forzate interpretazioni politicamente impegnate, né
velleità di ricerca e divulgazione etno-musicologica. È musica per divertirsi.
L’antologia si apre con Two Little Boys, nostalgica canzone sui ricordi dell’infanzia (“Two little boys
had two little toys…”) che fu numero 1 in patria a cavallo tra la fine dei ‘60 e l’inizio dei ‘70 e costituì un allontanamento dal repertorio di traditional. Segue il suo brano più famoso, quello da cui è
partita questa storia, scritto nel ’57 ispirandosi al calypso di Harry Belafonte, e registrato nel ’60.
Ed ecco vari brani tradizionali (Wild Colonial Boys; Botany Bay; The Wild Rover) o che, comunque,
tradiscono l’origine dei bianchi aussie dal meglio della feccia d’Europa, Irlanda in particolare
(Sonny; Click Go The Shears; le sentimentali Two Little Teardrops e Letter To Narelle). Carra Barra
Winna Canna, scritta da un amico della madre, è la prima canzone di tipo gentile - egli racconta che abbia avuto il coraggio di cantare (Anno Domini 1963). In Sun Arise, ispirata dai canti aborigeni e incisa anch’essa nel 1963, quando il giovane talento ancora non sapeva suonare il didjeridoo, il suono di tale strumento è simulato dagli archi. In Big Dog Harris canta come un cane che
ansa. Jake The Peg è la storia di un uomo con tre gambe, scritta da tal Frank Roosen, di cui il
nostro si diverte a imitare il “contagioso” accento olandese. Six White Boomers, invece, è la risposta all’americano John D. Brown, che trova pazzesco cantare tipici canti natalizi, a base di neve e
ghiaccio, al caldo dell’emisfero meridionale: così Harris crea la “Australian Christmas Legend” di
sei canguri bianchi. Tie Me Huntin’ Dog Down, Jed è una versione country and western della sua
hit più famosa. Nick Teen And Al K. Hall è un brano latin e Silvie è un blues di Leadbelly. Non poteva mancare Waltzing Matilda, il vice inno nazionale, che il nostro eseguì durante la cerimonia inaugurale dei Giochi del Commonwealth del 1982. Altre divertenti canzoni sono Iko Iko, If I Were A
Rich Man, War Canoe e Court Of King Caractacus, una filastrocca a versi cumulativi sul genere
di Alla Fiera dell’Est. La chicca finale è Stairway To Heaven. Il programma televisivo The Money Or
The Gun prevedeva come soundtrack solo versioni del classico dei Led Zeppelin, e a Harris fu chiesta la sua “definitiva” versione. Egli, dopo qualche tentennamento, la eseguì nello stile di Tie Me
Kangaroo Down, Sport, con fisarmonica, wobble board e didjeridoo, e senza aver mai ascoltato
l’originale. Incisa come singolo nel 1993, questa versione, ben
lontana dall’enfasi hardockettara, a quanto pare non fece gridare
al sacrilegio, ma si piazzò nelle Top 10 UK Singles e aprì, per il suo
interprete, una nuova fase della carriera: quella dei grandi concerti rock. Infatti fu invitato al Festival di Glastonbury dello stesso
anno, che affrontò non senza un’iniziale timore. Questa definitiva
antologia è stata realizzata l’anno dopo, evidentemente sulla scia
di tale inatteso exploit. Al più famoso festival inglese Harris è ritornato anche in altre edizioni.
In chiusura una considerazione: perché, per trovare canzoni divertenti in Italia, si deve andare indietro nel tempo fino a Buscaglione,
Carosone e loro derivati, o agli attori che si dedicavano part-time
al canto, o rivolgere al demenziale, al parodistico, al greve doppio
senso? Divertire sembra un grosso limite artistico. Prendete
Samuele Bersani, ad esempio. Più di un decennio fa ha avuto un
certo successo con Freaks, che prendeva in giro gli “alternativi”,
faceva ciao alle “belle tettine” ed esprimeva insofferenza per l’insostenibile mito dei Doors. Ma in seguito ha preso le distanze da
quel brano per non essere considerato “svagato”. Niccolò Fabi, autore di musica di rara pallosità
(potrebbe incidere il disco che Brian Eno non ha mai concepito: Music For Anaesthesia), a causa
di alcuni pezzi degli esordi, come Capelli, teme di passare per “scanzonato”. Strano che un “poeta”
come lui, che dovrebbe prestare molta attenzione alle parole e al loro significato, non si renda
conto che rischia di essere oggetto di possibili, facili barzellette: qual è il colmo per un cantante?
Essere scanzonato.
O forse più semplicemente la questione, la differenza “etnica”, è un’altra. Mentre in Italia “amore”
fa ancora rima con “(spacca) cuore”, in Australia “kangaroo” fa rima con “didjeridoo”. Ed è tutta
un’altra visione del mondo.
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Rolf Harris
di Antonio Amato
Questa storia comincia qualche tempo fa con un supporto non propriamente abastoriano. Se ci
fosse un’ortodossia abastoriana, essa contemplerebbe la fruizione di vecchi vinili possibilmente
graffiati, al limite dell’inascoltabilità (soprattutto perché comprati ai mercatini, a prezzi stracciati al
pari delle copertine, e non a cifre da collezionismo), e video e musicassette che, svolta la loro funzione una o due volte, si “arravogliano” o si sfasciano, come l’auto dei Blues Brothers alla fine della
loro avventura. Ma, dato che qui vige il pensiero libero (per il fantozziano rutto non mi pronuncio,
non avendo esperienza di A-parties, ma l’audace accoppiata di cibi bizzarri e alcolici da “Carosello”
può provocare effetti che rischiano di mal conciliarsi con le buone
maniere insegnate da Donna Letizia ai suoi lettori vintage), siamo ben
lontani da ortodossie, e quindi partiamo tranquillamente da una compilation su CD.
C’è, nel centro storico di Caserta, un negozietto belle époque di cancelleria e belle arti, dove si possono trovare colori e colle, carte e vecchi quaderni, pennelli o addirittura pennini. L’impeccabile dama borghese può trovarvi tutto l’occorrente per dedicarsi allo sciccoso hobby
del découpage, e divagarsi per un po’ dalle sue occupazioni domestiche
e dai suoi progetti, come, ad esempio, quello di sterminare tutta la
famiglia. Inutile, invece, cercarvi floppy o CD-ROM, ma anche la semplice richiesta di una fotocopia può mettere in difficoltà le proprietarie, se
accompagnata da sibilline formule iniziatiche quali “formato A3” o “formato A4”.
Eppure, una serie di compilation su CD ha violato questa fortezza luddista, grazie ad un cavallo di Troia costituto da un biglietto d’auguri. Si
tratta della serie A Time To Remember, composta da buste per corrispondenza quadrate contenenti biglietti tipo auguri e, incastonati in
essi, dischi dedicati ai vari anni del secolo scorso, con una selezione di
brani, per lo più anglofoni, in voga nelle singole rivoluzioni terrestri.
Comprato il CD celebrante l’anno della mia nascita, il 1960, mi ha particolarmente colpito il brano
Tie Me Kangaroo Down, Sport del per me sconosciuto Rolf Harris. Il quale, invece, altrove deve
essere ben noto, se è l’unico artista della selezione di cui sul biglietto viene riprodotta una foto. La
faccia sembra quella di un pazzo e il brano mio coevo è una trotterellante canzoncina in levare, che
mi ricorda le cose più divertenti di Jonathan Richman. Solo che il Peter Pan del rock americano
sarebbe arrivato tre lustri dopo.
Incuriosito, ho fatto una ricerca sul web e ho scoperto che il nostro è una personalità a suo modo
leonardesca. Nato nel 1930 a Bassendean, sobborgo di Perth, si trasferisce da giovane nel Regno
Unito per studiare arte; rientrato in patria al termine della scuola, inizia a fare la spola tra i due
paesi; inoltre soggiorna in Canada durante gli anni ’60. La sua multiforme vicenda artistica lo vede
premiato conduttore di programmi tv su arte, cartoons e animali; scrittore e illustratore di libri
sugli stessi argomenti; attore regista e compositore di musiche per cinema e soprattutto tv; pittore molto quotato specializzato in ritratti (tra i quali quello per la regina Elisabetta); fumettista-vignettista e cantante. Sul suo sito www.rolfharris.com si possono vedere i suoi autoritratti nello stile di
famosi pittori, foto spesso divertenti, si può avere un assaggio dei suoi innocui disegni e si possono inviare i propri; inoltre si possono avere varie altre notizie. Nel 1977 viene nominato Sir. Agli inizi
dei ’90 il Daily Telegraph lo definisce “A True Renaissance Man”. Nel 1992 viene votato quale artista più conosciuto in Gran Bretagna, davanti a Constable, e nel 2004 Radio Times lo inserisce nella
classifica dei 40 più eccentrici presentatori. Ma eccentrico lo è anche come musicista: oltre a suonare l’accordion (che addirittura prese fuoco durante un’esibizione per essersi avvicinato troppo
alle fonti di luce) e il didjeridoo (Kate Bush lo ingaggia per la realizzazione di Dreaming e Aerial), utilizza bizzarri strumenti come lo stylophone, marchingegno elettronico in miniatura, e la wobble
board, un’asse oscillante in masonite, la cui superficie si presta a essere da lui dipinta. A questo
punto la mia curiosità è divenuta ormai tale da spingermi a cercare qualche suo disco.
C’è, nel centro storico di Caserta, un negozietto di dischi che riesce a procurare anche qualche
prodotto di importazione. Il proprietario e il commesso sono due tipi supponenti, anche se non militano in qualche gruppo rock alternativo (se conoscete Suono metallico standard degli Offlaga Disco
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Obesi
Anche gli obesi pare esercitino un grande fascino e su Internet i siti dedicati ai fat lovers (uomini
che si innamorano esclusivamente di donne grassissime) sono numerosi.
Seni e sederi spropositati suscitano un morboso fascino erotico, un’attrazione che rimane spesso
nell’ambito della perversione.
Spesso gli uomini amano chiudersi in una stanza per fare sesso con
un’obesa, ma mai si farebbero vedere in giro con lei o la porterebbero al
ristorante…
Unica eccezione: i sumo giapponesi. Veri e propri dèi viventi ammirati da
tutte le donne, chysognano di sposare questi eroi adiposi. I sumo più leggeri pesano tra i 120 e i 150 chili, il loro girovita medio è di 1,8 m.
Gli obesi furono una delle principali attrazioni dei freakshow americani
della prima metà del ’900: Celesta Geyer, detta Dolly Dimples, con un giro
petto di 2 metri e 10, fu la star degli spettacoli nei quali si esibiva. Nel
1950, pesava 281 kg e guadagnava in media 300 dollari al giorno! Ebbe
moltissimi spasimanti e finì per sposare il suo vicino di casa, nell’Ohio, che
diventò il suo manager. Tuttavia per problemi legati alla sua salute, invecchiando, Celesta dovette dimagrire e, non essendo più una “donna cannone”, dovette riconvertirsi come cartomante: nel 1967 leggeva i tarocchi al luna park facendosi chiamare Madama Celesta.
Donne barbute
Le donne barbute sono un altro fenomeno da baraccone con una forte
carica erotica. Tutte le donne con la barba che si esibivano nei freakshow
si sono felicemente sposate. E quelle che sono rimaste vedove hanno
subito trovato un nuovo marito. Pare che, tradizionalmente, le donne baffute o barbute siano dotate di un’eccezionale libido.
Numerose testimonianze di donne barbute parlano del loro straordinario
successo con gli uomini : numerosi pretendenti, richieste di matrimonio,
invii di fiori, regali costosi, viaggi, gioielli…
È un italiano il primo a testimoniare di un’unione con una donna barbuta:
Felice de Amici, all’inizio del XVI secolo, sposa Magdalena Ventura,
Abruzzese, la cui barba passerà alla posterità grazie a una tela di Joseph
Ribeira che la mostra, all’età di 52 anni, con il marito e il figlio.
Baby Thema
Donne con più gambe
Nei freakshow, le donne con più di 2 gambe hanno sempre attratto il pubblico maschile, soprattutto perché, dovendo mostrare le loro deformità, si esibivano spesso seminude.
Blanche Dumas, mulatta della Martinica nata nel 1860, era molto famosa in Francia e in Europa:
aveva una terza gamba che le usciva dal bacino e al punto della giuntura tra la gamba e il busto
due piccoli seni con tanto di capezzoli. Inoltre, aveva un doppio sistema digestivo, due vesciche, due
sistemi riproduttivi e, quindi, una doppia vagina. Pare che Blanche Dumas fosse anche una ninfomane: sposò infatti Baptiste Dos Santos, un uomo con tre gambe che si esibiva nei freakshow francesi. Anch’egli dotato di due organi sessuali perfettamente funzionanti che permettevano a
Blanche di praticare dei “doppi coiti”.
Donne amputate
Ancora oggi ci sono svariati uomini che sono attratti dalle deformità: donne nane, obese, senza
braccia, senza gambe: nel 2002, un annuncio venne pubblicato da un giornale scambista francese: “Véronique, 35 anni, una gamba amputata, sexy, viziosa, esibizionista, golosa, è disposta a fare
foto soft o hard. Fa esibizioni per voyeur.” Il termine acrotomofilo, da acro (estremità), tomo (taglio)
e philia (attrazione), definisce gli individui eccitati all’idea di fare sesso con una persona amputata.
Questa perversione è oggigiorno diffusa su internet dove esistono moltissimi siti sul tema.
Bibliografia e fonti
Martin Monestier Les Monstres, Ed. Le Cherche Midi, 2007
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Reperti
My Sweet Groovy Library
di Enrico Sist
PUNTI MALIZIOSI INTORNO AL MONDO
(Armenia, 1988)
“Punti maliziosi intorno al mondo”? Forse una guida
internazionale per il turismo sessuale? No, è semplicemente una raccolta di vignette per adulti del 1988 che
si ottengono unendo i puntini da uno a diverse centinaia come nei giochi degli albetti per bambini. Volumi simili, pieni di scenette erotiche con punti da unire ne ho
avvistati diversi negli inferi dei scatoloni delle librerie
“reminders” nazionali: ne ricordo uno dal “fattore volgarità” piuttosto elevato con un’introduzione che invitava
ad usare “la matita di carne” e con le figure da comporre costruite attorno a particolari scansionati da
foto in riviste porno come mani, volti ansimanti e capezzoli sfumati.
Questo “Punti maliziosi intorno al mondo” è l’edizione
italiana (pubblicata dalla casa editore Armenia, famosa
soprattutto per opere su esoterismo, astrologia e paranormale) del libro Naughty Dots Around
The World e spicca rispetto ad altri esempi al testosterone almeno per un pizzico di strampalata ironia.
Una curiosità dell’edizione consiste nella la traduzione delle didascalie ad opera di Vittorio
Curtoni, nostrano autore di romanzi e racconti di fantascienza e curatore di riviste di letteratura sci-fi a partire da Galassia e Robot negli anni ‘70 del secolo scorso. Il tema di Punti maliziosi... è chiaramente il giro del mondo in 30 punti, 30 esempi di eterogenee acrobazie sessuali
a zonzo per il globo.
L’atmosfera erotica delle vignette si intuisce dall’ammassarsi dei puntini da unire in determinate zone, da disegni di bocche e lingue gaudenti, natiche a volontà e qualche capezzolo. Il contesto geografico/culturale di ogni scena diventa chiaro grazie a qualche dettaglio come, ad
esempio, un pezzo di gondola, una coppia di elefanti alle prese con pratiche riproduttive, un
elmo da vichingo, una statua della libertà imbarazzata, una ciotola di riso ed altri indizi.
La parte migliore del volumetto è di sicuro individuabile nelle didascalie di ogni vignetta da
ricomporre, esempi di fulmineo, maliziosissimo umorismo da caserma. Un paio di esempi,
siamo in Grecia: “monta, Olimpo!”; in Australia: “Arturo sei più duro del canguro”; in Cina: “lo
sfondamento della muraglia”; sul lago di Lochness: “caro, sei più grosso di Nessie…”; e in
Germania la domanda di rito è: “perché ansimi, Hans?”.
Un tocco estremamente raffinato è rappresentato dal tondino contrassegnante la scenetta
29 dei “punti australiani”: numero e scritta sono capovolti essendo l’Australia nell’emisferosud del pianeta. Impagabile è infine il disclaimer nell’ultima pagina: “l’editore non si ritiene
responsabile per fratture o crampi che potrebbero derivare da attività stimolate da questo
libro!”
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BIBLIOGRAFIA
Cynthia Boris Lilijeblad TV Toys and the Shows That Inspired Them (Krause Publications, 1996)
Wallace M. Chrouch Mego Toys – An Illustrated Value Guide (Collectors Books)
John Bonavita Mego Action Figures Toys – Revised & Expanded 3rd Edition With Price Guide
(Schiffer Publishing, 2001)
WEBBOGRAFIA
Una webbografia anche minimamente esaustiva è irragionevole da stilare in un articolo come il presente: tantissimi i portali di collezionisti e “customizzatori”, diamo solo qualche indirizzo utile che
abbiamo utilizzato quale fonte di notizie.
Mego Museum, il più completo e ricco sito dedicato ai Mego in rete (www.megomuseum.com)
Mego Madhouse (www.megomadhouse.com)
Mego Collector (www.megocollector.com)
The Micronauts Homepage (www.micro-outpost.com)
The Gallery Of Monster Toy, museo dell’orrore nei giocattoli (thegalleryofmonstertoys.com)
Megolike, le imitazioni dei Mego (www.megolike.com)
Plaid Stallions, giocattoli degli anni ‘70 (www.plaidstallions.com)
--Note
1 Per
la serie Big Jim la Mattel produrrà verso fine anni ’70 un Big Jim Tarzan, un Big Jim Sandokan – forse il più
celebre e ricercato della serie – e un Big Jim Capitan Futuro. Questi casi di personaggi ispirati a serie televisive
rappresentano tuttavia delle eccezioni, nella montagna di action figure, soprattutto Big Jim e Barbie, prodotti dalla
Mattel. Bisognerà attendere gli anni ’90 per vedere uscire le Barbie ispirate a serie televisive (Star Trek, La
Famiglia Addams e I Munsters, soprattutto) e film d’animazione Walt Disney (la più popolare è la serie delle Disney
Princess tutt’ora in produzione, non priva di un suo accentuato carattere camp) o live action (ricordo una Barbie
“Norma Desmond”, una “Colazione da Tiffany” e svariate Marilyn Monroe).
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GINO BRAMIERI LA CUCINA DI GINO BRAMIERI
(De Vecchi Editore, 1977)
Un tempo, in tutto il belpaese, la parola barzelletta veniva di scatto associata non a Totti ma alla fragorosa simpatia di Gino Bramieri e i libri con le sue barzellette, fino
ad una ventina di anni fa, erano quasi onnipresenti: li trovavi dal barbiere accanto ai Tex e ai Gialli Mondadori, sui
comodini di tanti degenti negli ospedali, passati di nascosto sotto i banchi di scuola, dappertutto insomma, quasi
dappertutto!
Svariate raccolte con le storielle del comico milanese
sono uscite tra gli anni ’60 e gli ’80, per la maggior parte
pubblicate dall’editore De Vecchi: ecco quindi Un litro di
barzellette, Io Bramieri vi racconto 400 barzellette, Io
Bramieri ve le racconto in un orecchio … barzellette per
adulti, Barzellette su lei lui e …, Il grande libro delle barzellette e così via barzellettando.
Un titolo, 50 chili fa del 1973, in parte autobiografiareportage fotografico, in parte raccolta di barzellette,
sottolineava un evento portante nella vita e nella carriera di Gino all’inizio di quel decennio, la sua
massiccia perdita di peso, appunto di circa cinquanta chili, metamorfosi che non aveva scalfito di
un millimetro l’allegria e l’efficacia del suo personaggio e su cui lui spesso giocava in TV e nei libri
con genuina auto-ironia.
La cucina di Gino Bramieri del 1977 si scosta dalla formula della raccolta di barzellette e propone un ricettario a cura del comico con menù ispirati alle varie cucine regionali italiane e altri piatti all’insegna della cucina insieme sana e gustosa.
Gino apre il volume, ancora prima della prefazione, con una serie di considerazioni sui problemi
legati alla cronaca dell’epoca, per esempio, disquisendo brevemente sull’annosa questione sulla
carne: «Ogni paio di mesi viene alla ribalta la questione… gli italiani mangiano troppa carne di vitello, la bistecca è la causa del deficit della bilancia dei pagamenti, chi mangia il filetto è nemico della
patria. Roba da farti restare sullo stomaco anche una fettina da un etto. E allora si torna a parlare di razionamento, di macellerie chiuse a giorni alternati, di divieti e di proibizioni. Cose che fanno
pensare al proibizionismo americano degli anni venti. Finirà che al ristorante si dovrà entrare di
nascosto, come nei locali clandestini di Chicago. Si busserà a una porta discreta, si aprirà uno
spioncino: parola d’ordine? filetto, controparola? controfiletto, e la porta si aprirà…»
Come in altri ricettari attribuiti a personaggi famosi (a parte quelli di Ugo Tognazzi), anche in La
cucina di Gino Bramieri non si riesce a capire chiaramente se le ricette siano proprio dell’autore
o meno. Il retro-copertina assicura che le ricette siano «alcune inventate da lui, altre “rubate” ad
altri Gourmets». La prefazione è però per certo creatura bramieriana. In sei paginette, racconta
con l’inconfondibile schietta verve e ironia il suo passato da sregolato mangiatore di quando «la
bocca era gonfia, le mascelle mi dolevano come se invece di aver fatto un pasto avessi sostenuto
un incontro di puglialto con Cassius Clay». Snocciola poi divertito le sue disavventure alla ricerca
della dieta perfetta prima dell’incredibile dimagrimento, passa in rassegna le abitudini alimentari
degli italiani e raccomanda una cucina sana. Dedica il volume a «tutti i grassi d’Italia perché possano finalmente indossare un paio di jeans senza essere spernacchiati per strada, mettersi in
costume da bagno senza diventare rossi anche stando all’ombra, pensare a un amplesso amoroso anche senza la provvidenziale Gibaud a trattenere il surplus di trippe e mammelle».
Non mancano comunque le barzellette, in primis quelle a carattere culinario, che punteggiano
tutto il tomo, accompagnate inoltre da una serie di fotografie che ritraggono il buon Gino in un
ristorante mentre scherza vestito da cuoco.
Anche qui per concludere, dopo l’amaro, ecco una storiella tratta dal libro: «Commissario, stavo
cucinando lo spezzatino, mio marito è uscito per comperare una scatola di piselli e non è più tornato! Cosa devo fare?», «Lo faccia con le patate».
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My Sweet Groovy Library
ma Gobbi, Fantasmi, Zombie e… l’uomo-mosca del film The Fly (in italiano L’esperimento del dr. K);
una serie di pirati-scheletro, realizzati certamente sull’onda del successo della saga Pirati dei
Caraibi; un Capitan Kidd in versione “incarnata” e “fantasma” (fosforescente!). Ma la serie più bella
e ben curata nei dettagli, sembra essere The Phantom (L’Uomo Mascherato), attualmente in vendita sul loro sito.
Non mancano le action figure religiose, come la clamorosa serie Heroes of the Kingdom, prodotta
dalla Wee Win Toys negli anni ’80, che ritraeva personaggi della Bibbia, per sovrappiù venduti in blister con musicassetta allegata! Altrettanto ha
fatto la Rainfall Toys con la sua Bible Greats,
comprendente oltre ai singoli personaggi, anche
dei set come Giona e la balena e Davide e Golia.
Questi giocattoli, risposta bacchettona americana alle popolari action figure di supereroi,
sembrano pensati da Nell Flanders in persona!
Da ricordare infine la Flatt Worlds Figure, creata da due collezionisti e “customizzatori” di
Mego, ma con all’attivo la sola ma bellissima
action figure di Bela Lugosi nelle fattezze di
Dracula, ricca di accessori e confezionata in una
La serie di action figure 8” dei Munsters (Classic TV Toys)
scatola a forma di bara!
Ma, così come Dracula, il mondo dei piccoli folletti Mego scompare ora al sorgere del sole, pronto
a ricomparire in qualsiasi momento la nostra fantasia desideri dare forma e colore ai nostri sogni.
My Sweet Groovy Library
GLAUCO RIEM, OTTAVIO ERMINI SSST! … PORDENONE
(Luigi Rho Editore, 1978)
Pordenone, la mia città, è un posto strano, come e forse più di tante
città della provincia italiana. Un piccolo capoluogo infilato tra un
alternarsi di fabbriche e campi, un antico porto fluviale sul fiume
Noncello ad un passo dal Veneto e a pochi chilometri dall’America
trapiantata di Aviano. Cittadina brulicante di teste di legno, personalità eccentriche, lavoratori indefessi, creativi all’avanguardia, fondatori di sette, ufologi, industriali, intellettuali, bestemmiatori, rockers, matti, fantasmi e molte molte altre tipologie umane. Terra di
mezzo un po’ chiusa, tra antico e moderno, tra normalità e anormalità. Nell’album Sick Soundtrack del 1980 i bolognesi Gaznevada
omaggiavano con il brano Pordenone Ufo Attack contemporaneamente Pordenone come culla dei fermenti del primo punk italiano
degli Hitlerss e dei Tampax, i gruppi del movimento musicale Great
Complotto e la generale enigmatica eccentricità del luogo. Ssst! …
Pordenone è un libro del 1978 scritto da Glauco Riem e da Ottavio Ermini per l’editore pordenonese Luigi Rho, come può suggerire il titolo è un piccolo scrigno di segreti racchiusi in una serie di
racconti scritti a due mani che raccontano la vita e le contraddizioni della cittadina friulana. Il libro
è un ritratto, ricco e a volte un po’ criptico, di diversi aspetti di una Pordenone appena uscita dal
dramma del terremoto, con alle porte l’incubo dell’eroina tra i giovani, con le mille incertezze politiche e sociali e con le voci e i suoni delle radio libere che accompagnavano la vita in provincia. Di racconto in racconto si passa da storie di operai alienati nei grossi complessi industriali della città e
disperati per i debiti a cronache di disagi giovanili e fughe da casa, dalle vicende dell’eccentrico pittore Marta (qui chiamato Arta, è ormai scomparso da molti anni) sempre alla ricerca di vino che
lo aiutava a dipingere alla storia di un barista che tutti credevano gay. Uno degli argomenti portanti in Ssst! … Pordenone sono le storie legate al mondo delle radio libere che in quegli anni tra dediche e confessioni telefoniche in diretta svolgevano una parte importante nella vita dei cittadini. Le
parti dedicate alla radio sono senza dubbio opera del carnico Ottavio Ermini, disc-jockey e fondatore di radio private locali che si sofferma anche a raccontare le peripezie per piazzare le antenne e
i vari ponti radio. La radio libera, secondo il libro, «ha unito i vecchi ai quarantenni che poi vanno in
fabbrica a produrre e a casa curano il campo, danno i soldi ai figli e ai nipoti, per comprare il disco
dei Commodores, degli America, dei Pink Flojd.. (sic.)» Nel racconto sui festeggiamenti del
Carnevale, tra la stanca goliardia di uomini travestiti da donne o da carota con due grosse mele
appese, fa capolino un timido riferimento alla rivoluzione punk in città pochi mesi prima che i
Tampax e gli Hitlerss producessero uno dei primissimi dischi punk italiani: «Lungo il corso, giovinastri, vestiti da punk-roc (sic), schizzano schiuma da barba sulle pellice (sic.) di quelle travestite da
signore: è l’unica nota di satira anche se non è il prodotto di una cultura, di un movimento locale: è
roba d’importazione vista ad Odeon». Il libro è interamente illustrato dal disegnatore pordenonese
Ugo Furlan che negli ultimi trent’anni ha eseguito un numero enorme di disegni e grafiche per attività commerciali della zona e iniziative del comune e di associazioni locali. Furlan interpreta e commenta le varie storie di Ssst! … Pordenone con immagini in bianco e nero spesso surreali e allucinanti. Ecco dunque, per citare un paio di illustrazioni, un’allegoria sull’informazione locale con omino
dal cervello in fuga che esulta («Siamo una TV libera, libera dall’intelligenza!!») sopra un televisore/W.C. alimentato da una flebo con scritto “debiti” e che rigurgita pentole di fagioli e bambole gonfiabili, un operaio con un bullone al posto della testa e attrezzi al posto degli arti sovrastato da un’incombente cappio/catena, un palazzo a forma di pene, una distesa di enormi mammelle con sopra
orgiastici omini accompagnati da bottiglie di vino e vibratori, una radio trasmettente solo dediche
immersa in un grosso vaso di “merdassa sciroppo”, eccetera. Alla fine, come in tanti film con storie di esistenze dal passato, prima dei titoli di coda appaiono un paio di informazioni su quello che
è successo in seguito ai protagonisti: Glauco Riem si è laureato in legge, ora è avvocato e docente
specializzato in diritto informatico ed ha aperto uno studio a Pordenone; Ottavio Ermini negli anni
’80 era diventato un grosso nome nel campo delle emittenti radiotelevisive friulane dirigendo la
radio RTCV e il canale televisivo Canale 55, ma nella metà degli anni ‘90 fu costretto a lasciare
l’Italia dopo il fallimento delle sue reti e un suo coinvolgimento in scandali all’epoca della tangentopoli friulana; morì, pare suicida, nel 2002 nelle Isole Comore dove si era trasferito dopo esperienze in Madagascar dove era stato dichiarato “persona non gradita” in seguito a fallimentari imprese professionali e presunti episodi di molestia su minori.
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derati. Immancabile poi la serie Legends of the West che riproduceva celebrità della storia del
West.
Anche la Fun World nel 1976, in occasione del bicentenario dell’indipendenza degli Stati Uniti, produsse i bambolotti di George Washington, Abraham Lincoln e lo Zio Sam. Qualcosa di simile fu poi
fatto dalla RT Toys con la serie Hero of the American Revolution, comprendente numerosi protagonisti di quel periodo storico.
Di fine anni ’70 un’autentica galleria di mostri viene prodotta dalla Lincoln, sono figure abbastanza
ben fatte, non sono imitazioni né dei “Mad Monsters” Mego né dei classici ghoul Universal, ma si
tratta di una serie originale comprendente i soliti Dracula, la Mummia, il Fantasma dell’Opera, il
gobbo di Notredam, Frankenstein, più una discutibile imitazione di Mr. Spock, qui ribatezzato Mr.
Rock, e una generica “vittima” femminile.
Ad arrivare in Italia sarà certamente la Matchbox con le sue serie di pirati, western e una iniziata,
ma chiusa repentinamente, serie di mostri che doveva comprendere (ancora!) Frankenstein e
Dracula, ma che partiva da un inedito Freddy Krueger.
Sempre in Italia la Ceppi Ratti ha prodotto alcune action figure di 8”, o forse si è limitata a distribuire sotto altro nome le figure della Bogi, quest’ultima casa di produzione forse italiana, forse tedesca o olandese. Tra di esse una spudorata imitazione di Action Jackson: Il Mondo Avventuroso di:
Jimmy Brown, Black Jack, Tommy Bright, due figure maschili bianche e una nera con un nome al
limite dell’idiozia: Black Jack. Altre serie prodotte parallelamente dalle due case sono la terribile
Dondy il Clown (Ceppi Ratti)/Pipo The Clown (Bogi) e la Barbie-like Beba Alta Moda (Ceppi
Ratti)/Demo Girl (Bogi).
Venendo a tempi a noi più vicini, la Hasbro nel 1998 produce alcune action figure di 9” sullo stile
Mego di supereroi DC Comics: la Silver Age Collection, comprendente Aquaman, Green Arrow,
Green Lantern, un paio di Superman, svariati Batman, tra i quali un bellissimo Batman anni ‘40; e
la Target Exclusive che include un Clark Kent/Superman (con il vestito aperto a rivelare il costume dell’uomo d’acciaio), altri Batman e
due classici villains come Joker e Penguin.
La Toy Biz è invece responsabile di una delle imitazioni di Mego qualitativamente migliori, pari, se non superiore, agli stessi Mego. Una
serie di action figure, la Marvel Famous Cover Series, che comprende i più celebri supereroi Marvel, inclusi quelli mai realizzati dalla
Mego, rimasti nel limbo dei prototipi o anche solamente dei sogni dei
creativi, con un aspetto più “moderno”. Belle e ben fatte, le action figure Marvel Famous Cover sono realizzate con ottimi materiali che ne
giustificano il costo elevato. Ben confezionate, in scatola di cartone
con finestra e copertina apribile chiusa con velcro, troviamo in questa serie figure come Spiderman, che qui indossa realmente un cappuccio dello stesso materiale della tuta (che cosa mai si nasconderà
dietro la maschera?), molti X-Man, i Fantastici 4, Hulk, Thor, e più versioni degli stessi con differenti costumi e doppie confezioni contenenti due figure collegate, e c’è persino la zia May!
Creata da una compagnia chiamata Figures Toy Company, sorta nel
1998, la Classic TV Toys (www.classictvtoys.com) supplisce a un’altra nostalgica assenza sul mercato: le action figure delle serie televisive. Tra esse riproduzioni di celebri Mego, con l’aggiunta di perso- Frankenstein (Riproduzione Classic TV Toys)
naggi non presenti nelle originali: la serie Mad Munster viene raddoppiata, con 4 nuovi mostri, mentre a Happy Days e Spazio 1999 vengono aggiunti svariati personaggi non realizzati nell’originale serie Mego. Accanto a queste vengono create le action figure
per serie mai realizzate dalla Mego, bella soprattutto quella dei Munsters, ispirata al telefilm originale degli anni ’60 e già fuori catalogo.
La Cast-A-Way (www.castawaytoys.com) è un’altra ditta di giocattoli contemporanea che realizza
figure da 8” sullo stile Mego. Tra le sue produzioni: i mostri di Famous Monsters of Legend, di cui
se non va premiata la qualità, va sicuramente segnalata l’originalità: niente Dracula o Frankenstein,
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IMITAZIONI E RIPRODUZIONI
Un prodotto di successo gode sempre di numerosi tentativi di imitazione, è un
attestato di popolarità: a nessuno interesserebbe imitare prodotti invendibili!
E davvero molte sono le imitazioni di Mego presenti sul mercato fin già dai
primi anni ’70. Cercheremo di ricordare di seguito alcuni tra i numerosi produttori di imitazioni e riproduzioni, i nomi più importanti e gli autori delle action
Klingon (figura da 3,5”)
figure più interessanti e curate dal punto di vista della qualità e dell’originalità.
La più antica – probabilmente la prima – concorrente della Mego durante gli anni ’70 fu la Azrak
Hamway International, che rivaleggiò a volte anche scorrettamente con la Mego: la casa newyorkese, in società con la 20th Century Fox, arrivò a far causa alla AHI per la produzione dei personaggi
della serie Action Apeman, a causa della loro sospetta somiglianza con i personaggi di Planet of the
Apes (imitata anche dalla fantomatica serie Astro Apes e da altre). La AHI produsse poi un
Adventure Man, visibilmente ispirato a Action Jackson, e la propria serie di quattro mostri, la creatura di Frankenstein, L’Uomo Lupo, Dracula e la Mummia, ritratti a immagine e somiglianza dei classici mostri Universal. Testimonianza di questa rivalità tra le due case di giocattoli è data dal nome
del personaggio dei Micronauti Baron Karza: si tratta del cognome del proprietario della AHI letto
al contrario!
Mostri ufficiali con licenza Universal, sono invece quelli prodotti dalla Remco, bella serie comprendente tra gli altri un Fantasma dell’Opera con le fattezze di Lon Chaney, un gill-man dal film Creature
from the Black Lagoon, e lo strabiliante “Monsterizer” (“mostruosatore”): una macchina in cui inserire il vostro mostro e “dargli vita” attraverso lampi e tuoni! I mostri Remco sono stati prodotti in
versione 9”, con vestiti rimovibili, e 3,5”, più la versione burattino (!) contenuto in una confezione personalizzata, “Monster at Home”.
Un’altra grossa casa di giocattoli americana degli anni ’70 fu la Ideal, i cui giocattoli erano praticamente sconosciuti qui da noi. Anche la Ideal produsse svariate action figure sullo stile dei Mego. Tra
queste le serie Alvin and the Chipmunks; Evel Knievel, con le fattezze dell’omonimo celebre stuntman scomparso un anno fa, e la sua controparte femminile Derry Daring; J.J. Armes, ritraente
l’omonimo detective privo degli avambracci, sostituiti con protesi meccaniche, apparso anche in un
episodio di Hawaii Five-O; Star Team, serie fantascientifica, vagamente ispirata a Star Wars.
Affascinanti le produzioni della americana Excel Toys, che negli anni ’70 lanciò sul mercato una
action figure ispirata alla serie televisiva Kojak, con la fisionomia di Telly Savalas. So che qualche abastoriano, saputa la cosa, si starà già mettendo a caccia dell’oggetto! Un’altra serie della Excel Toys
era la Military Legend, che ritraeva importanti capi militari della storia degli Stati Uniti come
Eisenhower, George Washington, il generale Lee dell’esercito sudista o il generale Grant dei confe-
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GIORGIO PAVESIO LE AVVENTURE DI TAPTAPA
(Rizzoli, 1968)
Questo Le avventure di Taptapa è uno strano libro per
bambini (pubblicato nel 1968 dalla Rizzoli nella collana “I
Gemelli”, curata dallo scrittore torinese Giovanni Arpino),
scritto e illustrato da Giorgio Pavesio. L’ho rinvenuto in una
bancarella al mare e purtroppo nel cervellone elettronico
di Internet non riesco a trovare nessuna informazione precisa sul libro o sull’autore.
Gli unici indizi scovati in rete gli attribuiscono le illustrazioni su due libri della celebre collana per l’infanzia “La Scala
d’Oro” della UTET e, per la precisione, l’edizione del 1963
de Il libro dei treni e l’edizione del 1971 di Giochiamo insieme. Giorgio Pavesio, chi era costui? Vorrei scoprirlo, per
afferrare meglio il senso di questa visionaria fiaba pacifista
e critica al conformismo consumista con un “sapore” continuo di psichedelia naive, raccontata e disegnata con uno
stile minimale e bizzarro in un bianco e nero con qualche inserto in rosso. Comunque…
Taptapa, un omino moscio e ingobbito con addosso un camice a scacchi, che vive in pace passeggiando e suonando il suo zufolo («PIRU PIRU PIRU») in compagnia di una tal placida Nonna
Federica e alcuni animali parlanti in una sorta di intricato giardino dell’eden rigoglioso di fiori
e piante geometriche. Personalmente Taptapa mi ricorda molto il Kilroy, l’omino stilizzato con
il nasone che spuntava da un muro nei graffiti diffusi in America durante la seconda guerra
mondiale, e le statuette americane degli anni ’50 e ’60 chiamate “psycho ceramics” che intendevano rappresentare i vari stati d’animo con una serie di mostriciattoli dalla forma fallica;
per la sua testa oblunga e il grembiule a scacchi potrebbe anche assomigliare ad un pinhead,
uno dei microcefali esibiti nei vecchi spettacoli di bar e immortalati anche nel film Freaks di
Tod Browning.
Taptapa, incrocio tra il Candido voltairiano e il topo di campagna della favola di Esopo, abbandona per caso il suo tranquillo paradiso naturale imbattendosi nella città, un mostro enorme
formato da un ammasso di case e palazzi. Il buon essere ingobbito offre al mostro/città un
fiore ma «la città era cattiva» e scaccia il poveretto che fuggendo si scontra su un principe
senza volto che gli vomita addosso un groviglio di formule algebriche rosse e spara alla luna
facendola cadere dal cielo. Nonna Federica gli suggerisce di progredire e di integrarsi nel
mondo di cittadini che parlano per calcoli algebrici e indossano caschi e si comportano come
robot. Taptapa ci prova, viaggia verso la città con una clava ma non riesce a inserirsi tra la
massa dei cittadini robots; commette sempre l’errore di offrire fiori a tutti e viene cacciato di
continuo. Il candido ammasso di scacchi con nasone viaggia tra l’incubo geometrico della labirintica città e tra gli ingranaggi delle macchine che succhiano le idee dalla testa della gente
per poi archiviarle, anche se come imparo qui «le idee conservate perdono le vitamine». Suoi
compagni di viaggio sono Bobonat, un cittadino non del tutto integrato che faceva il maestro
in un paese lontano, il robot ribelle pittore Alfa e Margheritona, un mostro che il protagonista
crea per sbaglio lanciando un fiore nella macchina di raccolta delle idee, un confuso ammasso di petali e idee che spande di continuo pensieri disordinati e frasi fatte, talmente intelligente da essere inservibile. Taptapa e compagni vengono condannati e catturati dai cittadinirobot. Vengono confinati nel paradiso di campagna da dove l’omino era venuto. Qui il robot pittore Alfa «come ogni vero artista» si trasforma in un fiore («finalmente fa l’impegnato!»).
Margheritona, come la sirenetta alla fine della favola di Andersen che si trasforma in schiuma marina e diventa un essere dell’aria, non poteva resistere come forma nell’aria pura e si
dissolse in un lontano luccichio disperdendo idee e petali. Il protagonista di questa fiaba hippie e Bobonat vivono felici e in pace con i fiori, gli animali e la nonna.
Taptapa nell’ultima pagina aiuta nonna Federica in un lavoro di cucito reggendole la matassa
del filo e dichiara: «È bella la natura Federica». La nonna risponde: «Sono contenta Taptapa
che sei tornato. L’inverno si avvicina e con il tuo aiuto potrò finire le scarpine per i miei gatti».
Mah!
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My Sweet Groovy Library
Più d’uno si dedica a completare e perfezionare la serie di Star Trek, aggiungendo quei personaggi
mai realizzati, come ad esempio Sarek e Amanda (i genitori di Spock) e gli alieni Talosiani; oppure
perfezionando i dettagli e gli accessori delle action figure ufficiali; o ancora rifacendo in modo filologicamente corretto il capitano Gorn, la cui versione originale Mego è ritenuta dai più quasi blasfema!
C’è poi chi si specializza nei supereroi Marvel, in particolare negli X-Men, pensati ma mai prodotti dalla Mego, colmando quella vasta lacuna della casa
newyorkese. O chi si dedica a particolari serie della rivale DC Comics, come la
Kingdom to come in cui vediamo i classici supereroi come Superman invecchiati. Affascinante ancora chi si dedica alla realizzazione dell’intera schiera
dei “dottori” della serie inglese Doctor Who e ad altri personaggi visti durante l’intera saga in episodi particolarmente interessanti.
Ci fermiamo qui, per non rischiare di diventare troppo enciclopedici, basti
ricordare, in chiusura, che esistono anche artisti in grado di creare action
figure Mego style personalizzate, con le fattezze di chiunque, anche dei propri
colleghi di lavoro o di chi voglia farsi fare il Mego della propria persona (qui in
molti ci stiamo seriamente pensando!).
My name is Robot, Robby The Robot
di F.C.N.
È da un bel po’ che su Abastor non parliamo di Fantascienza con la “F” maiuscola, tuttavia l’amore
per il genere rimane uno dei preferiti della nostra oddzine démodè, specialmente quando si tratta
di Sci-Fi dal sapore spiccatamente retro. E uno dei protagonisti più caratteristici della fantascienza
statunitense pre-Star Wars, icona stessa del genere, prototipo dell’idea di “robot” per molti decenni, è Robby (più raramente “Robbie”) The Robot.
A robot on the forbidden planet
Robby fa la sua comparsa per la prima volta nella space opera Il
pianeta proibito (The Forbidden Planet, 1956), capolavoro e pietra miliare della fantascienza cinematografica statunitense degli
anni ’50 nobilitata alla “serie A”1. A crearlo, da un’idea di Buddy
Gillespie, fu Robert Kinoshita, designer e responsabile degli effetti speciali di molti film e telefilm di fantascienza: suo è anche il
celebre robot di Lost in Space (1965-1968) . La costruzione di
Robby costò ben 125.000 dollari alla MGM, un autentico investimento, che lo volle presentare come un “vero” automa, animato non da un burattinaio, ma da circuiti elettronici. A manovrare Robby dal suo interno si avvicendarono in realtà diversi
“animatori”, ma la maggior parte del lavoro fu svolta da Frankie
Darro, mentre la voce gli era data da Marvin Miller, che lo doppierà ancora in Il robot e lo Sputnik (The Invisible Boy, 1957) e in
Gremlins (1984). A doppiarlo nell’edizione italiana del film di Fred
McLeod Wilcox era invece Alberto Lupo.
Versione fantascientifica de La tempesta di Shakespeare, Il pianeta proibito, presenta il dottor Edward Morbius (Walter
Pidgeon) come trasposizione di Prospero e Altaira (Anne
Francis) quale trasfigurazione di Miranda. Ariel, spirito bonario e
asservito ai voleri di Prospero, diviene così il robot Robby, che
incorpora al contempo le leggi asimoviane della robotica2.
Vediamo infatti Morbius fornire una dimostrazione e comandare
Robby di sparare al comandante John J. Adams (Leslie Nielsen)
La locandina del film Il pianeta proibito
con un laser, mandando inevitabilmente in conflitto i circuiti dell’automa.
Creato dal dottor Morbius dopo che costui ha ampliato le proprie facoltà intellettuali grazie ad un
apparecchio Krel (la scomparsa specie dominante di Altair-4), Robby è un perfetto maggiordomo:
svolge ogni mansione in casa Morbius, prepara il cibo, confeziona gli abiti di Altaira, e ha la capacità di riprodurre qualsiasi sostanza (alla faccia del copyright!), infatti procurerà ben 300 litri di ottimo whisky al cuoco dell’astronave terrestre.
L’aspetto di Robby è immediatamente riconoscibile: il corpo nero tipo “omino Michelin”, il testone a
uovo trasparente, le mani a “chiave inglese”, le antenne, una verticale l’altra orizzontale, che ricordano quelle del Theremin. Riferimento probabilmente voluto, poiché in quell’epoca lo strumento ideato da Lev Termen stava riscuotendo un enorme successo soprattutto nelle colonne sonore di film
sci-fi e horror, e strumenti elettronici similari furono ampiamente utilizzati nella musica, aliena e
inquietante, de Il pianeta proibito3: opera di Louis e Bebe Barron, è la prima colonna sonora intera-
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oltre alle popolari scimmie umanizzate, i due umani provenienti dal passato, Alan Verdon e Peter
Burke, protagonisti del telefilm, più un generico astronauta che sarebbe dovuto essere il personaggio interpretato da Charlton Heston, che però negò i diritti per la riproduzione della sua immagine.
Happy Days fu una delle serie più popolari durante gli anni ’70, la Mego ne produsse più di un personaggio, ma solo Fonzie venne venduto in moltissimi pezzi. I restanti probabilmente finirono riciclati per altre action figure.
La serie di bambolotti del Doctor Who fu realizzata grazie al successo ottenuto dall’omonima serie
televisiva britannica, con protagonista il quarto dottore, impersonato da Tom Baker. La serie comprendeva il Doctor Who, probabilmente la più bella action figure concepita dalla Mego, completo di
sciarpa, cappello e cacciavite sonico; Leela, compagna di viaggio del dottore in alcune avventure tra
il 1977 e il 1978; il cane robot K9; un Dalek; un Cyberman e un Giant Robot. Oltre ai personaggi fu
messa sul mercato anche la macchina del tempo a forma di cabina del telefono della polizia britannica, il Tardis. Oggi tutti i personaggi di questa serie hanno quotazioni piuttosto alte che raggiungono tranquillamente i trecento euro!
Personaggi Celebri
La Mego non si accontentava di produrre bambolotti di personaggi di serie televisive o opere cinematografiche, ma volle creare action figure che omaggiasero celebri personaggi pubblici. Il primo
di questi fu Mohamed Alì, cui seguirono altri sportivi come il campione di calcio Franz Beckenbauer
e quello di football americano Joe Namath. Nel campo della musica vanno certamente ricordate le
bambole di Sonny & Cher, che uscirono quando i due vivevano già separati, o dei Kiss, o ancora la
rara action doll di Sylvie Vartan, a esclusivo consumo del mercato francese. Tra le attrici Farah
Fawcette, Suzanne Somers e Kristy McNichol.
Micronauti
Dei Micronauti ce ne siamo già occupati, grazie all’abile opera di Erik
Ursich, su Abastor #30. Ricordiamo qui soltanto che i Micronauti furono acquisiti dalla Mego da una compagnia giapponese, la Takara, che
negli anni ‘80 avrebbe prodotto i (bruttissimi) Transformer. Martin
Abrams li scoprì per caso e ne fece uno dei prodotti di punta della Mego.
La prima serie immessa sul mercato fu quella originale giapponese confezionata con un nuovo packaging. Dalla successiva serie la Mego cominciò a disegnare dei propri personaggi, nacquerò così le celebri action
figure magnetiche da 8” Baron Karza, Force Commander, Emperor,
Green Baron, Red Falcon eccetera.
MEGO CUSTOMIZZATI
Una delle caratteristiche precipue delle action figure Mego è proprio la
possibilità di produrre dei Mego “customizzati”. Tale usanza trae infatti la
propria origine dall’abitudine, propria di ogni bimbo con un minimo di fantasia, di cambiare gli abiti alle proprie action figure, inventando nuovi personaggi. Quei bimbi, divenuti collezionisti adulti, si divertono a realizzare i Para Tedesco ( Lion Rock - WWII Heroes)
propri bambolotti personalizzati, quelli mai prodotti o varianti possibili
degli stessi.
Impossibile stilare un elenco completo dei “customizzatori”, non tutti sono rintracciabili e non tutti
hanno un loro sito internet, tuttavia basta digitare le chiavi “custum mego” in un qualsiasi motore
di ricerca, per rendersi conto dell’entità del fenomeno. Molti si sono specializzati in un preciso genere: a spingere a customizzare i Mego è l’interesse verso un determinato fenomeno la cui produzione Mego è assente o incompleta, e l’arte di questi artisti lascia davvero sbalorditi per l’accuratezza dei dettagli e la bellezza dei costumi.
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Dinah-Mite
Sull’onda dei numerosissimi cloni di Barbie che nei primi anni ’70 inondarono il mercato di bamboline glam e hippy, la Mego sfornò nel 1972 la spumeggiante biondina in tutina viola zampa-pantalonata Dinah-Mite (he he… che spiritosoni)!
Dinah-Mite è una action doll ben più avventurosa e scattante della sua compatriota di casa Mattel:
Dinah-Mite è votata all’azione e ricorda più una Emma Peel funky, che non una mannequin allampanata tutta sfilate e completini glamour.
Come tutti i suoi cugini Mego, Dinah-Mite è notevolmente snodabile e capace di stare diritta in piedi, al contrario di Barbie!
Dinah-Mite infatti riscosse un successo ben maggiore di Action
Jackson, rimanendo in catalogo fino al 1975.
Dinah non ha però molti amici: solamente la Dinah Black e l’amichetto Don. Molti sono invece gli abiti, fascinosamente 70’s, e
gli accessori, compresi playset e veicoli (dalla bicicletta al camper Volkswagen).
World Greatest Superheroes
La serie più popolare prodotta dalla Mego fu certamente quella dei Supereroi DC Comics e Marvel. Il successo dei primi quattro superfusti, Batman, Superman, Robin e Aquaman, convinse
la Mego a proseguire su questa strada aggiungendo sempre
nuovi personaggi di anno in anno e mantenendo in catalogo,
cosa che non avvenne per altre serie, anche tutti i più vecchi.
Per la DC Comics saranno così creati i nemici di Batman: Joker,
Penguin e Riddler; altri supereroi come Shazam, Green Arrow,
i Teen Titans, più tutte le supereroine: Supergirl, Catwoman,
Wonder Woman, Batgirl e Isis. Per la Marvel verranno prodotCaptain Kirk e Mr. Spock (Star Trek)
ti: Spiderman – probabilmente l’action figure Mego più venduta
in assoluto - e i suoi nemici Green Goblin e Lizard, Hulk, i Fantastici 4, Capitan America, Thor. Altre
sotto serie saranno le identità segrete: Clark Kent, Bruce Wayne, Dick Grayson e Peter Parker, o la
versione “combattente” di Batman, Robin, Spiderman, Capitan America e rispettivi rivali, che premendo un pulsante sulla loro schiena potevano tirare temibili cazzotti!
Furono anche realizzati numerosi affascinanti playset, soprattutto per Batman, quali la Bat-cave o la
Wayne Foundation, e i vari veicoli (Bat-mobile, le Bat-cycle per Batman e Robin e per Batgirl). Altri
veicoli furono prodotti per Spiderman, Green Arrow, mentre per Joker e Batman furono realizzati
anche i camper Volkswagen.
I supereroi infine vennero prodotti anche in versione 12” e bend’n’flex, quegli orribili piccoli personaggi di gomma con fil di ferro interno, di gran moda verso fine anni Settanta.
Film e Telefilm
Tra i personaggi ispirati a telefilm e film, senza dubbio la serie più affascinante è quella di Star Trek
(serie classica), per cui venne realizzato non solo l’equipaggio dell’Enterprise, ma anche svariati alieni e oggetti a “dimensione reale”, atti a essere usati direttamente dai bambini, come per esempio il
“tricorder” che nascondeva al suo interno un registratore a cassette! Furono poi prodotte action
figure di 12” e 3” per il film Star Trek – The Motion Picture, ma la serie ottenne uno scarso successo: in parte per l’assenza dei bambolotti da 8”, in parte perché il film non era destinato a un pubblico infantile.
Sempre rimanendo nel campo della fantascienza, altro clamoroso insuccesso fu quello di The Black
Hole, per cui la Mego realizzò una serie di personaggi da 3,5”, acquistandone i diritti per per la sola
ragione che si trattava di un film Walt Disney, garanzia di successo… ma, mentre oggi The Black
Hole è divenuto un classico della fantascienza, allora fu semplicemente un misero flop.
Una serie di gran successo fu invece Planet of the Apes, ispirata tanto alla saga cinematografica
che al successivo telefilm. Partita nel 1974 dopo la chiusura della saga con l’ultimo film, presenta,
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mente realizzata con strumentazione elettronica.
Robby fu costruito in plastica Royalite, materiale che veniva impiegato nella fabbricazione di valigie,
termoformata in stampi di legno. Il robot era diviso in tre pezzi, gambe, busto e testa, all’interno
delle quali si calava il “burattinaio” che lo faceva muovere. “Muovere” per modo di dire, poiché, dato
il peso e la scarsa snodabilità di Robby, gli era permesso di camminare soltanto in piano trascinando, quasi, i piedi sul pavimento. Il funzionamento della testa, le luci, il movimento delle antenne,
l’illuminazione della “bocca” di Robby, inoltre, richiedevano il collegamento alla rete elettrica tramite cavi, e, per le inquadrature a figura intera, l’utilizzo di potenti e pesanti batterie che venivano legate addosso al “burattinaio”. Tutto questo comportava un’enorme
fatica e un discreto pericolo per l’attore che animava il robot, se
poi si considera la poca aria che arrivava all’interno dell’armatura
attraverso l’unica apertura rappresentata dalla “bocca” (da dove
l’attore vedeva e per tanto gli doveva venire annerito il volto per
non essere visto), “Robby” poteva girare soltanto per brevi intervalli di tempo. Pare anzi che Eddie Fisher, il primo a provare Robby,
ad un certo punto si fosse rifiutato di continuare ad animare il
robot, dopo aver rischiato di cadere da una pedana, trascinato dal
pesante involucro del robot.
Are you ready for your close-up, Mr. Robby?
Lo straordinario successo della pellicola decreta anche il personale successo di Robby: il costo della produzione, la realizzazione a
colori (evento raro per la fantascienza di quegli anni), la raffinatezza intellettuale e artistica dell’originale opera, compresi gli effetti
speciali, in grado di stupire a tutt’oggi, e non per ultimo il fascino
personale di Robby, decretarono il successo de Il pianeta proibito.
Un film del quale non viene buttato via niente: costumi, modellini, e
lo stesso Robot, verranno riutilizzati più e più volte per altre pellicole e in televisione: Ai confini della realtà farà man bassa degli
equipaggiamenti de Il pianeta proibito riutilizzando fino alla nausea Robby e Anne Francis
le divise e l’astronave create per questo lungometraggio.
Così anche Robby verrà immediatamente riutilizzato e l’anno seguente gli verrà confezionato un
sequel su misura: Il robot e lo Sputnik (The Invisible Boy). Questo pretestuoso seguito de Il pianeta
proibito, vede Robby rubato da uno scienziato terrestre del XX secolo, che, con una macchina del
tempo, viaggia fino alla Chicago del 2242, dov’è appena atterrato l’equipaggio dell’astronave fuggita da Altair-4. Il robot viene dominato da un potente computer birbante che ha il losco proposito di
dominare il mondo (tema caro alla fantascienza che avrà gran sviluppo tra gli anni ’70 e i primi anni
’80, quello dei calcolatori intelligenti e malvagi).
Il filmetto in bianco e nero non è minimamente paragonabile a Il pianeta proibito, ma da ciò prende
vita la duratura carriera cinematografica e televisiva di Robby, che lo vede protagonista, per oltre
vent’anni, di film, serie televisive e show. Arriva persino in Italia, partecipando ad una puntata di
Lascia o Raddoppia?, presentato al pubblico televisivo dal solito Mike Bongiorno!
In ogni caso il suo successo subisce curiosamente una battuta d’arresto proprio all’uscita della
saga di George Lucas che vede protagonisti i droidi R2-D2 e C-3PO. Robby vive infatti quella stagione straordinaria della Fantascienza unica veramente degna di questo nome: gli anni ’80 saranno testimoni delle sue ultime apparizioni cinematografiche, mentre gli ultimi successi televisivi sono
degli anni ’70, apparendo in TV, il decennio successivo, soltanto una volta. Dopo Il robot e lo Sputnik,
rivedremo Robby più raramente al cinema di quanto non accada in televisione: le sue saranno per
lo più comparsate, come accade nei film L’astronave fantasma (Uchu Kaisoku-sen, 1961),
Gremlins (1984), Le ragazze della Terra sono facili (Earth Girls are Easy, 1988).
Scomparso dagli schermi, Robby ricompare miracolosamente nel 1999 tra la chincaglieria del
negozio di Watto in Star Wars Episode I – The Phantom Menace. La sorte riservata a Robby in
questo mediocre film di fantascienza sostenuto soltanto dalla enorme massa di effettoni speciali
digitali, relegandolo alla stregua di “spazzatura” (chissà a chi è venuta questa brillante idea), la dice
lunga sulla considerazione che la Hollywood odierna ha del suo glorioso passato: l’arroganza e la
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presunzione tipica del parvenu senza storia, passato e cultura, che non sa distinguere un capolavoro del passato, degno di stare in un museo, dal ciarpame da rigattiere.
Fortunatamente “cinema” non significa soltanto Guerre Stellari e così, ultimo di un lungo carrozzone di personaggi sdoganati o rivalutati e ingiustamente troppo a lungo tempo dimenticati, anche
Robby ritorna alla gloria, sintomo dell’amore per quel gusto retro proprio dei primi decenni del dopoguerra. Negli anni 2000 giungono così ad omaggiarlo nuovi film e nuove serie, curiosamente quasi
tutti cartoons (che, paradossalmente, sono ormai i soli lungometraggi che possano trattenerci
davanti allo schermo). Sarà così l’allegra banda dei cartoni Warner Bros. a far apparire Robby nel
film Loney Toones: Back in Action del 2003.
We’re off to see the Robot, the wonderful Robby The Robot!
Per ben due decenni Robby diviene un frequentatore abituale di show televisivi e telefilm. Appare
spesso nei maggiori culti della televisione americana di quegli anni, molti dei quali sono giunti anche
sugli schermi italiani.
La prima serie televisiva certamente arrivata in Italia in cui Robby appare, in ben due episodi della
quinta stagione, è la bellissima Ai confini della realtà (The Twilight Zone, 1959-1964), da tempo
disponibile completa in cinque irrinunciabili cofanetti di DVD della DNC (alla stessa dobbiamo l’edizione italiana dei primissimi episodi del Doctor Who e di altri cult della fantascienza televisiva quali
Le avventure dell’astronave Orion). Come dicevamo la serie ideata da Rod Serling adoperò spesso
costumi, modellini e persino delle scene tratte da Il pianeta proibito, inevitabile che anche Robby
prima o poi finisse per apparire all’interno dei suoi episodi.
Il primo è Uncle Simon dove Robby interpreta la parte di un robot
(ehm…) costruito da sir Cedric Hardwicke, che impersona il
dispotico “zio Simon” del titolo, mentre Constance Ford è
Barbara, l’avida nipote che lo accudisce e ne subisce la cattiveria solo per avidità. Come in tutti gli altri episodi scritti da Rod
Serling il “peccatore” della storia viene sempre castigato dal
destino, così anche Barbara dovrà accudire, al decesso dello zio,
anche il robot che assume col passare del tempo i tratti negativi del suo creatore.
In questo episodio a Robby viene apportata una visibile modifica
alla testa: gli abituali congegni che riempiono la campana trasparente a forma di uovo, vennero sostituiti con una (brutta)
testa cilindrica.
Robby ricompare poi nel finale dell’episodio The Brain Central at
Whipple’s, per sostituire l’inefficiente dirigente della fabbrica,
che aveva rimpiazzato tutto il personale con un potente calcolatore centrale. Qui Robby appare nella sua forma originale, senza
le modifiche apportate per l’episodio Uncle Simon.
Delle altre innumerevoli apparizioni di Robby in TV ricordiamo poi
Il piccolo aiutante di Lurch (Lurch’s Little Helper), ventisettesimo
episodio della seconda stagione del telefilm La famiglia Addams
(The Addams Family, 1964-1966). Robby, che qui appare con il
nome di Smiley, viene costruito da Gomez per fornire un valido
Il Robot e lo Sputnik
aiutante a Lurch, oberato dalle richieste della Famiglia.
Inizialmente Lurch subappalta al robot tutte le sue mansioni, ma
poi, sentendosi escluso, ne diviene geloso, finendo per distruggerlo. Ennesima parabola sul pericolo
rappresentato dal sostituire gli uomini con le macchine fino a far diventare l’uomo obsoleto?
Altra clamorosa apparizione è quella in L’omicidio del professore (Mind over Mayhem), terza stagione della serie Il tenente Colombo (Columbo), dove Robby compare in una inconsueta versione: al
posto delle gambe gli è stato fabbricato un curioso trabiccolo su ruote che permette al robot di spostarsi agevolmente telecomandato dal solito genio in erba. Nell’episodio, infatti, il robot è stato
assemblato da un giovane prodigio che lavora nei laboratori di ricerca dove il tenente Colombo sta
svolgendo le sue indagini per risolvere l’ennesimo delitto. Poiché dal 1970 il vero Robby si trova nel
museo Movie World ed è stato dipinto di argento, risulta piuttosto improbabile che questo sia l’ori-
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I MATERIALI
La grande idea che permise alla Mego Corporation di produrre facilmente molte differenti action
figure, fu quella di riutilizzarne il corpo, in plastica rigida, sostituendone la testa, nel più morbido vinile, e gli abiti, solitamente in jersey o stoffa, così che un fallimento commerciale potesse venire facilmente riassorbito rimettendo subito sul mercato nuovi personaggi senza grossi sprechi di materiali e lavorazione. E non solo il corpo veniva riutilizzato, talvolta anche interi costumi o parte di essi
venivano reimpiegati nell’assemblaggio di nuovi personaggi!
La cosa non fu pensata da subito, ma avvenne quasi per caso: i primi quattro World Greatest
Superheroes furono infatti prodotti riciclando il corpo di Action Jackson invenduti: ne vennero sostituite le teste e gli abiti e Action Jackson divenne così Batman, Superman, Robin e Aquaman. Questo
perché Action Jackson nasceva “nudo”, in modo da poterlo vestire e rivestire come una Barbie.
Sostituire la sua tutina blu con il costume di un supereroe, e la testa, si rivelò una scelta vincente.
Durante la lunga vita delle action figure Mego furono sviluppati due “corpi” standard 8”: il primo tipo
presentava snodi più grossolani e corpi più “tozzi”, con articolazioni fissate da rivetti metallici; il
secondo tipo, che rimpiazza il primo nel 1976, in plastica Marlux, più raffinato e curato, aveva snodi
in plastica e corpi più affusolati. Furono prodotti anche un corpo più grande di 9” (utilizzato per le
serie di Flash Gordon e Doctor Who), un corpo alto 7” (usato per la serie Teen Titans) e un corpo
più piccolo di 6” (utilizzato dalla Lion Rock per la serie World War II Heroes).
Alcune figure uscivano con cinture e stivali stampati sul costumino di jersey, e successivamente
venivano reimmesse nel mercato con gli accessori in plastica. Uno di questi casi riguarda Batgirl,
presente due differenti versioni.
Inizialmente la Mego distribuiva i suoi personaggi in scatole di cartoncino colorate con i personaggi disegnati su di essa. Le catene di distribuzione incominciarono però a lamentarsi del fatto che
genitori e bambini potevano aprire con facilità la confezione per guardare com’era fatto il giocattolo. La Mego cominciò ad applicare così una “finestrella” trasparente sulla confezione di cartone,
per poi creare il packaging per action figure e giocattoli oggi tra i più diffusi, detto Kresge (perché
destinato dapprima alle catene Kresge, oggi Kmart) o Mego Bubble Card:
una “bolla” di plastica contenente il giocattolo e incollata su un cartoncino.
Con questo tipo di confezione il giocattolo poteva essere finalmente visto
senza che fosse possibile aprirne la confezione.
LE SERIE PIÙ POPOLARI
Vogliamo qui dare una scorsa alle più intriganti serie prodotte, ai personaggi più celebri e più curiosi ai quali sia stata dedicata una action figure,
senza avere la pretesa di essere esaustivi: per un esauriente elenco dei
personaggi prodotti dalla Mego vi invitiamo a visitare il sito Mego
Museum o a procurarvi uno dei libri elencati nella bibliografia.
Action Jackson
Come detto, Action Jackson fu la prima action figure prodotta dalla Mego.
Ispirata al più “anziano” G.I. Joe Hasbro e al personaggio reale del celebre
giocatore di baseball Phil Jackson, conosciuto con lo pseudonimo di
“Action Jackson”. Tuttavia, essendo Phil Jackson una star statunitense
sconosciuta all’estero, in Gran Bretagna il giocattolo verrà distribuito con
il nome Johnny Action e in Italia come Amico Jackson.
Shazam
Il costume standard di Action Jackson era una tutina blu (altri personaggi della serie vestivano di verde o di rosso) con cintura e stivali bianchi. Qualcosa che ricordava
vagamente le marionette di Gerry e Sylvia Anderson, quali i Thunderbirds. Ma fu venduto con una
serie di abitini e accessori diversi, non per ultimo la tenuta di giocatore di baseball, che richiamava
il personaggio che ne ispirò la creazione.
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(serie classica) vengono ingaggiati William Shatner (Captain Kirk) e Leonard Nimoy (Mr. Spock) che,
assieme al vicepresidente della compagnia, Neil Kublan, girano gli Stati Uniti per presentare i bambolotti in catene e negozi di giocattoli, con un cachet di 500 dollari ad apparizione. Per il lancio della
serie de Il mago di Oz, Martin Abrams vuole strafare e affitta la sala da ballo del Waldorf Astoria di
New York, dove vengono ospitati gli attori del film (quelli sopravvissuti) e un migliaio di grossisti: l’operazione costa alla compagnia oltre 50.000 dollari! Martin Abrams porterà in pochi anni la Mego, una delle industrie di giocattoli più “povere” e sconosciute, a diventare la sesta compagnia di giocattoli americana.
E la casa di giocattoli newyorkese non riscuote successi solamente negli
Stati Uniti: in Europa è popolare soprattutto in Inghilterra, Francia e in
Italia, dove distribuisce serie di bambolotti sconosciute negli USA. Per il
Regno Unito sarà prodotta infatti la serie del Doctor Who, per l’Italia quella dedicata a Tex Willer e per la Francia la bambola di Sylvie Vartan. Nel
nostro paese, in particolare, la Mego non distribuisce direttamente i propri giocattoli: li troveremo infatti sotto il marchio Baravelli, prima, e
Harbert (celebre per il suo “Dolce Forno”), poi. Forse è anche per questo
che il termine Mego in Italia suona ai più alieno, ricordando i bambolotti
come prodotti delle due case distributrici.
Lizard
Il declino
La leggenda vuole che nel 1977 la Mego compia un passo falso che le
risulterà fatale: la 20th Century Fox le propone di acquistare i diritti per
produrre una serie di action figure per un nuovo film di fantascienza, ma
la Mego non vuole più saperne di fantascienza e, convinta che non possa
esserci futuro per le action figure legate a questo genere, rifiuta l’offerta.
Il film è Guerre Stellari e il suo successo ridefinirà non solo i termini legati al cinema di fantascienza, ma anche alla produzione di merchandising. I giocattoli ispirati al film,
prodotti dalla rivale Kenner, intaccheranno sensibilmente il dominio della Mego sul mercato.
In realtà non sarà questa decisione a portarla al fallimento, né il fatto che acquisti i diritti per produrre i personaggi di altri film di fantascienza, che dev’essere inteso come una caccia al blockbuster
decisivo a riportare la ditta sulla cresta dell’onda. Serie che saranno realizzate grazie agli stretti rapporti esistenti tra i dirigenti della Mego e i proprietari dei diritti, che li cedevano per poco. La creazione di ogni nuovo personaggio, infatti, poteva venire ammortizzata con facilità e i costi riassorbiti
con la vendita di un numero di copie del giocattolo relativamente esiguo.
Se nel 1982 la Mego deve dichiarare bancarotta e viene messa in liquidazione, e per quanto le
action figure di Guerre Stellari della Kenner avessero sconfitto sul mercato i Micronauti, la vera
causa del fallimento si deve ai gusti del pubblico, che andavano cambiando. Le action figure non interessavano più ai bambini: era l’epoca dell’inesorabile ascesa dei videogiochi, che avrebbe portato i
bambini a disinteressarsi a macchinine o bambolotti. Nello stesso periodo, infatti, altre ditte di giocattoli, quali Knickerbocker, Ideal, HG, dovranno chiudere i battenti e lo stesso View-Master (vedi
Abastor #35) attraversò un forte periodo di crisi, passando rapidamente da un proprietario all’altro nel corso di pochi anni.
Sono due mondi, opposti e lontani, che si avvicendano: il primo, quello del gioco tradizionale, implica
l’impiego di fantasia, di creatività, un’ampia capacità di sognare universi paralleli; il secondo, quello
dei giochi digitali, una mera e passiva abilità nell’utilizzo del joystick, seguendo percorsi obbligati in
universi elettronici prefigurati… inutile dire da che parte stia Abastor, che non trova i videogame
molto stimolanti, al contrario delle action figure retro, oggetti affascinanti e deliziosamente collezionabili.
Con la sua fine la Mego lascia un vuoto nel cuore dei bambini di allora, che, crescendo, si trasformano in collezionisti. Negli Stati Uniti infatti il collezionismo dei Mego è talmente popolare da aver
dato vita ad associazioni e siti internet e a un convegno annuale, il Megomeet, nel quale si ritrovano
gli appassionati di Mego di tutto il mondo!
40
ginale, è più probabile si tratti della ricostruzione di Fred Barton.
Robby si può vedere poi in episodi di Mork & Mindy, Wonder Woman e persino in Love Boat, dove
gli fanno indossare un farfallino e lo utilizzano come cameriere!
L’opera di restauro di Fred Barton
Dal 1970 il Robby originale venne inserito nel museo Movie World della
MGM, accanto al veicolo da esso guidato nel film Il pianeta proibito.
Svuotato di tutti i meccanismi interni, i cavi e quant’altro e, con scarso
rispetto per l’icona che si stava maneggiando, l’involucro venne riempito
di cemento. Il resto lo fece l’accanimento dei fan pronti a sgraffignare
qualsiasi reliquia da collezionare, che ne causarono così il rapido deterioramento.
Fred Barton nel 1973 decise allora di crearne una perfetta e accurata
replica, utilizzando l’originale come modello: copriva settimanalmente
oltre 200 chilometri per poter scattare foto, effettuare misure ravvicinate, il tutto aggirando abilmente la scarsa sorveglianza del museo! Il suo
lavoro fu presentato per la prima volta alla convention di Star Trek del
1974, dove fu accolto con entusiasmo dagli ammiratori di tutte le età.
Fred Barton è un fan scatenato di Robby e de Il pianeta proibito e ha dedicato la propria vita al robot più famoso del cinema.
Vista la sua abilità nel ricostruire Robby, infatti, il Movie World gli commissionò il lavoro di restauro dell’originale, che per sovrappiù era pure
stato colorato di argento: successivamente alla chiusura del museo, questi finì in mano a un collezionista privato che lo conserva a tutt’oggi.
Il Robby creato da Barton nel 1974, invece, è quello che possiamo vedere nel film Le ragazze della Terra sono facili e in alcune serie degli anni
’70 e ’80, come The Tonight Show with Jay Leno (in onda dal 1992),
Clueless (1996-1999) e The Ripper Savage Show. Negli anni ’90 Fred
Barton, su licenza Warner Bros., che nel frattempo aveva acquisito i diritti de Il pianeta proibito, iniziò a produrre repliche di Robby in serie: ma le
sue copie attuali non sono semplici rifacimenti del Robby originale, essendo dotate di circuiti e motori che permettono al robot di muoversi e di funzionare non più grazie ad un “burattinaio” al suo interno, ma attraverso
un telecomando.
Oltre a Robby, Fred Barton costruisce, vende e noleggia anche molte
altre riproduzioni, quali il robot di Lost in Space, il Gort di Ultimatum alla
Terra (When the Earth stood still, 1951), l’androide femminile di
Metropolis (1927), la macchina del tempo del meraviglioso L’uomo che
visse nel futuro (The Time Machine, 1960), e molti altri ancora.
Robby e Rod Serling
Robby e Peter Falk
Nel 2004 Robby è stato incluso nella Robot Hall of Fame accanto a nomi del calibro di R2-D2 e C3PO di Guerre Stellari e di Gort.
Robby The Toy
Robby divenne da subito un ottimo prodotto di mercato destinato ai più piccoli: dal giocattolo di plasticaccia fino ai dettagliati modellini per raffinati collezionisti, Robby ha visto più incarnazioni di qualsiasi altro robot, definendo il prototipo stesso per quel tipo di giocattolo.
Così dagli anni ’50 ad oggi si sono viste apparire le più improbabili versioni e imitazioni di Robby,
dalle più fedeli, alle più improponibili figure vagamente ispirate all’originale.
Esistono Robby statitici e Robby semoventi, Robby telecomandati (con il cavo) e persino Robby salvadanaio con orologio incorporato.
Filmografia (film)
Il pianeta proibito (The Forbidden Planet, 1956)
Il robot e lo Sputnik (The Invisible Boy, 1957)
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L’astronave fantasma (Uchu Kaisoku-sen, 1961)
La spia che non fece ritorno (One Our Spies is Missing, 1966)
Hollywood Boulevard (1976)
I gremlins (Gremlins, 1984)
The Phantom Empire (1986)
Le ragazze della Terra sono facili (Earth Girls are Easy, 1988)
Star Wars Episode I – The Phantom Menace (1999)
Lonely Tunes: Back in Action (2003)
Filmografia (serie TV)
The Thin Man (1958)
The Gale Storm Show (1958)
The Many Loves of Dobie Gillis (1959)
Hazel (1962)
Ai confini della realtà (The Twilight Zone, 1963-1964)
The Man from U.N.C.L.E. (1966)
La famiglia Addams (The Addams Family, 1966)
Gilligan’s Island (1966)
Lost in Space (1966-1967)
The Banana Splits Adventure Hour (1968-1970)
Tenente Colombo (1974)
Ark II (1976)
Space Academy (1977)
Project U.F.O. (1978)
Mork & Mindy (1979)
Wonder Woman (1979)
Likely Stories, vol. 3 (1983)
The Simpsons: Treehouse of Horror XIV (2003)
Una pupa in libreria (Stacked, 2005)
Bibliografia
Claudia e Giovanni Mongini Storia del cinema di Fantascienza
vol. 2 - 1956 – 1960, Fanucci 1999
Luigi Cozzi Il cinema dei mostri, Fanucci 1987
Webbografia
http://www.the-robotman.com/
http://en.wikipedia.org/wiki/Robby_the_Robot
http://www.robothalloffame.org/04inductees/robby.html
http://www.imdb.com/name/nm1119475/
http://www.delos.fantascienza.com/delos55/robot-cinema.html
--NOTE
1 Ciononostante, c’è ancora chi, in base ad una classificazione quanto meno approssimativa e, sostanzialmente,
ignorante, continua a considerare tutta la fantascienza pre-Guerre Stellari come fantascienza di “serie B”: ciò vi
serva da metro per identificare la reale preparazione di chi parla di cinema di fantascienza.
2 I due figli di Robert Kinoshita si scontreranno in due episodi della serie: War of the Robots e Condemned of
Space.
3 1-Un robot non può recare danno a un essere umano, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno. 2-Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali
ordini non contrastino con la Prima Legge. 3-Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima e la Seconda Legge. (http://it.wikipedia.org/wiki/Tre_leggi_della_robotica)
4 La strumentazione utilizzata nella colonna sonora de Il pianeta proibito fu interamente autocostruita dai coniugi
Barron, ottenendo in taluni casi sonorità simili a quelle del Theremin.
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Il termine “Mego”, così come i nomi “Big Jim” o “Barbie”, è oggi spesso usato a sproposito per definire tutte le action figure comprese tra i 6” e i 9” di altezza (lo standard Mego era di 8”, ma non
mancano figure di altri formati) e con vestiti di stoffa: è il destino inevitabile dei prodotti di successo come l’aspirina o lo scotch, una volta marchi che definivano un determinato prodotto realizzato
da una sola ditta, che oggi sono passati a definire quel tipo di prodotto, realizzato anche da altre
ditte.
STORIA
I primi anni
La storica casa di giocattoli newyorkese venne fondata da David Abrams nei primi anni ’50. La leggenda vuole che il nome Mego (una volta per tutte, si pronuncia “miigo”, non “mègo”!) derivi dal
lamento infantile che il figlio più giovane di David Abrams, Howard, era uso emettere quando il
padre partiva per affari, e volendolo seguire ripeteva “me go too” (“vado anch’io”), da cui, appunto
“Mego”.
La Mego è un’azienda a conduzione famigliare: a capo della ditta negli anni d’oro c’è il figlio di David
Abrams, Martin, un capace uomo d’affari e perfetto venditore, in grado di ascoltare i desideri dei
bambini, seppure non un creativo: le idee erano frutto di un valido team di collaboratori, ai quali il
dirigente della Mego lasciava ampio spazio di manovra e libertà di inventiva.
Nei primi anni la Mego distribuisce esclusivamente giocattoli economici e anonimi, che importa
dall’Estremo Oriente e che vende a meno di un dollaro nella catena dei Dime Stores (da dime, la
moneta da 10 centesimi di dollaro). Giocattoli di tutti i tipi, soprattutto macchinine, e attrezzature
giocattolo educative spesso imitazione di ninnoli più celebri e costosi. Privi di alcun marchio distintivo o di data di produzione, riportano soltanto la generica dicitura “Made in Hong Kong”.
Il periodo d’oro
Con l’avvicendamento nel 1971 del direttore della compagnia, la Mego
cambia radicalmente e coraggiosamente linea, decidendo di puntare
tutto su action figure originali e di buona fattura. La prima creatura snodabile della Mego è un nuovo giocattolo ispirato al popolare (in USA) G.I.
Joe Hasbro e al suo clone Big Jim Mattel: un bambolotto destinato ai
maschietti, a cui far vivere straordinarie avventure. Nasce così Action
Jackson.
In quel periodo le action figure riscuotono un certo successo e tutte le
ditte di giocattoli ne producono di ogni genere e tipo, Action Jackson è un
vero e proprio ibrido tra quelle a cui si ispira, e ne riassume le caratteristiche militaresche e avventurose con un corredo di abitini da far invidia
a entrambe. Il suo successo commerciale incoraggia la Mego a intraprendere una strada che né Hasbro né Mattel avevano pensato di percorrere se non in rari casi , ossia quella dei personaggi ispirati a serie televisive, film e, soprattutto, ai supereroi dei fumetti. Lo stesso Action
Jackson è ispirato al giocatore di baseball Phil Jackson, di cui David
Abrams era un fan entusiasta, seppure non ne sia la action figure ufficiale.
La prima serie di Action Jackson vende qualcosa come 2 milioni e mezzo
Batman
di pezzi, tuttavia la seconda tiratura non riceve sufficienti ordinazioni e
questo viene considerato come un fallimento. La compagnia, convinta dai suoi dirigenti che ai bambini sarebbe piaciuto di più giocare con i personaggi dei fumetti, decide di acquistare i diritti
(50.000 dollari per ogni personaggio) per poter produrre i World Greates Superheroes, i popolari
supereroi della DC Comics. Così, riciclando i corpi degli Action Jackson invenduti, nascono i primi
Batman, Superman, Robin e Aquaman.
I supereroi aprono la strada a un successo sensazionale per la Mego, che inizia a produrre le action
figure più impensabili e a promuoverle con colossali party: per lanciare i personaggi di Star Trek
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Reperti
La caduta degli dei di plastica:
di F.C.N.
Declino e scomparsa dell’impero Mego
Spiderman
Un popolo ha bisogno di miti, di semi divinità in cui riconoscersi, verso cui lanciare preci e invocazioni. Gli americani, intesi come cittadini degli Stati Uniti
d’America, si sa, hanno una storia troppo breve alle spalle, e privi di un periodo classico e di un medio evo, mancano di tale forma di mitologia, di eroi armati di spada, scudo ed elmo, che si innalzano a combattere il Male. E non bastano certo i “padri fondatori” caricati del culto degli antenati, è necessario qualcosa avvolto da un’aura mistica: guerrieri virili, muscolosi, invincibili e immortali.
Ecco così che, a ridosso della seconda guerra mondiale, nascono figure paragonabili a un Ercole, un Ulisse, un Orlando Furioso, miti da raccontare ai ragazzi e le cui avventure nascondano una morale e un insegnamento, ma siano
anche una fonte di ispirazione per quei giovani da sacrificare al fronte di lì a
poco: i supereroi dei fumetti.
Queste figure, più i personaggi di film e serie televisive, rappresentano per il
popolo statunitense (e occidentale in genere) quello che si può definire un vero
e proprio culto pagano, e se gli antichi si portavano appresso versioni mignon
delle divinità, dei numi tutelari o dei loro parenti, così gli americani, abbisognando dello stesso genere di feticcio, negli anni settanta si rivolgono per questo scopo alla “più grande compagnia di action figure del mondo”: la Mego
Corporation.
Il fascino che le action figure prodotte dalla Mego sanno trasmettere è suggestivo e squisitamente abastoriano, contrariamente alle più moderne figure
snodabili iperrealiste e ipermuscolose: queste ultime trascendono il valore di puro giocattolo,
nascendo già come oggetti da collezione che non potranno accogliere mai lo spirito vitale che solo
la fantasia di un bambino sa loro infondere come in piccoli Golem.
I Mego, con i loro corpi completamente snodabili, i loro abitini in stoffa, le loro teste morbide dal
design fascinosamente retro, invitano a inventare miriadi di avventure: nascono con tale scopo ed è
unicamente questo fascino a farne ora degli oggetti da collezione, per la stessa ragione per cui il
vero collezionista ricerca e colleziona autentiche banconote fuori corso, utilizzate come reale valuta, non quelle finte del Monopoli o della Lega.
È opportuno precisare che cosa sia esattamente una “action figure”: con tale termine si definiscono tutti quei giocattoli aventi fattezze antropomorfe - umane, animalesche o androidi - - con terminazioni snodabili: action, perché in grado di muoversi, figure, personaggio (dei fumetti, della tv, del
cinema eccetera). È stata la Hasbro negli anni ‘60, per distinguere il pubblico a cui era destinato il
suo G.I. Joe, a coniare il termine: i maschietti si sarebbero rifiutati di acquistare delle action dolls
(bamboline snodabili come la Barbie)! La differenza tra i due termini è infatti puramente di genere:
le action dolls sono destinate alle femminucce, mentre le action figure sono destinate ai maschietti, ma le due definizioni sono pressoché sinonimiche.
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Casa Abastor
I buoni oggetti di pessimo gusto
di F.C.N.
Ci sono vari gradi di ignoranza. La Conoscenza Universale non è propria dell’uomo: l’essere
umano è comunque ignorante. Non esiste persona sulla Terra che possa vantare di “sapere
tutto”, chiunque è ignorante in qualche materia. Consci di ciò possiamo allegramente pervenire a un’altra considerazione, cioè che esistono due forme di ignoranza: l’ignoranza inconsapevole (“io so”) e l’ignoranza consapevole (“non so”, “so che cosa non so”).
La prima è l’ignoranza propria dell’arrogante, di colui che non sa, ma crede di sapere, è propria di chi può vantare una maggiore voragine di conoscenza, ma non sempre: altrettanto
spesso è propria anche di chi, pur sapendo molto, si aggrappa a questa cultura facendone un
principio assoluto e non accettando possibili cambiamenti, evoluzioni. Costui ritrovandosi
davanti a una cosa nuova, per lui sconosciuta, la giudica partendo da presupposti assoluti: giudica “sbagliato” il “diverso”, perché usa come pietra di paragone il proprio stato, il proprio
ambiente, ritenendolo l’unico modo d’essere accettabile.
L’ignoranza inconsapevole è il limite proprio della mediocrità, dell’individuo barricato entro i
confini della “normalità”, laddove “normalità” non è mai sinonimo di “perfezione”, di “giustizia”,
ma semplicemente di “conformismo”. I limiti del conformismo sono quelli, appunto, di non
osare andare oltre ciò che comunemente è ritenuta la cosa giusta da fare, anche quando non
la si senta giusta nel proprio animo. Ci si veste in giacca e cravatta, per conformismo, ma
anche ci si fa una canna, per conformismo: dipende dal contesto nel quale si vive. Il conformismo, in sostanza, è pigrizia mentale.
L’ignoranza consapevole, è quella di chi è cosciente di questo suo proprio limite, di chi si mette
sempre in discussione, di chi vive perennemente nel dubbio. Costui non si astiene dal giudicare (è solo l’ipocrita colui che sostiene di non giudicare: “io non giudico ma…”), ma giudica partendo da presupposti relativi: sa che il suo non è l’unico modo possibile, “giusto”, di essere e
che gli altri mondi possono essere altrettanto corretti nel loro contesto, meritando pari dignità e pari rispetto.
L’ignorante consapevole guarda sempre al mondo con occhi nuovi, con la meraviglia propria
di un bambino, con incanto e fascinazione, conscio che nessuna delle realtà – la propria e quella estranea – sono perfette, ma che entrambe hanno una loro propria bellezza intrinseca,
entrambe sono interessanti, degne e affascinanti.
Questo è l’intento di Abastor e di Casa Abastor in particolare: la ricerca, la conoscenza, la scoperta compiute con il piacere quasi infantile di apprendere cose nuove, non lasciandoci schiacciare e limitare da ciò che conosciamo già, presentandoci al mondo come bambini dagli occhi
curiosi e desiderosi di esplorare.
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Spetrus (aperitivo)¤
Vino bianco secco
acqua frizzante
Petrus
un’oliva
Petroni◊°
3 parti di Martini
Rosso Vermouth
3 parti di Petrus
2 parti di Gin
ghiaccio
Grolla a Petrus¤*
Caricare una moka con Petrus al posto Bloody Petry◊°
dell’acqua, mettere il caffè, far bollire e 1/10 succo di limone
degustare caldo 3/10 Petrus
6/10 succo di pomoGreen Wiwi¤ doro
2/3 Blue Curaçao sale e pepe
1/3 Petrus una goccia di tabasco
aggiungere ghiaccio a piacere due gocce di
Worcestershire Sauce
Petropical◊
1/3 di Petrus Bonekamp Petrov◊°
2/3 di succo di frutta tropicale 1/2 Petrus
ghiaccio 1/2 Vov
Tetrus◊°
1/3 di Petrus Bonekamp
2/3 di tè verde al limone freddo
1 fettina di limone
ghiaccio
Marzia all’Abastor-Petrus-Party
Petrovka◊°
1/3 Petrus
1/3 Vov
1/3 Vodka
Petrila◊°
1/2 Petrus
1/2 Tequila
ghiaccio tritato
scorza di
5 Maggio◊° lime
Rolando all’Abastor-Petrus-Party
1/2 di Petrus Bonekamp
1/2 di Brandy Napoleon Petris◊°
ghiaccio 1 parte di Petrus
1 oliva 1 parte di Ricard
acqua fredda a piacere
Latte più◊°
1/4 di Petrus Menta PetrusDollaro◊°
3/4 di latte freddo 1 parte di Petrus
1 parte di Brandy
Petrotto◊ un uovo crudo intero
1/3 di Petrus qualche goccia di ango2/3 di chinotto stura bitter
Gastrus◊°
1/3 di Petrus Bonekamp
2/3 di gazzosa
ghiaccio
Petrulio◊
1 parte di Petrus
1 parte di Cynar
1 parte di Ferro China Bisleri
1 parte di Amaro Averna
1 parte di Rum
ghiaccio
¤
ideato da Petrus Clan
ideato da Abastor
° Attenzione! Mistura
mai testata su un
essere umano!
* Abastor non risponde di eventuali danni
alla vostra cucina!
◊
37
Maura all’Abastor-Petrus-Party
L’amarissimo che fa benissimo
di F.C.N.
DELFINI CHE SI INCHIAPPETTANO
Ricette
Perus¤
Petrus
succo di pera
zucchero di canna grezzo
Triple Sec
Curaçao Bianco
Perus II¤
Petrus
succo di pera
zucchero di canna grezzo
Triple Sec
Contreau
Berserk Petrus¤
Petrus
Sambuca Nera
Jack Daniel’s
Koskenkorva liscia
Latte di Suocera
aggiungere in superfice un cucchiaino di
alcol puro e incendiare (si beve come il
B52)
Bomba a Petrus (bombardino
potenziato)¤
Wow
Whisky
panna
Petrus
(da bere caldo)
Il Toccasana (ha effetti benefici)¤
latte
Petrus
zucchero
cacao in polvere
(da bere caldo)
La Mista¤
Per un litro:
3/4 di vino rosso
1/4 di spuma
Petrus
(dose consigliata 3 bicchieri da bar)
Eclissi Lunare¤
granatina (ghiaccio tritato)
Petrus Libre¤ 4/5 di Batida de Coco
Petrus 1/5 di Petrus
ghiaccio
Coca-Cola S.Iron Petrus¤
Petrus
Caffè Shackerato Petrus¤ Kalhua
caffè doppio Triple Sec
ghiaccio shakerare il tutto, aggiungere alcol 90°,
Petrus fiammeggiare
zucchero di canna grezzo
shakerare il tutto Cardio Petrus (cardiotonico potenziato)¤
birra
Crema di Petrus¤ Vodka
Petrus Campari
Crema al Whisky Petrus
ghiaccio
Elisir di Lunga Vita¤
Long Drink¤ Petrus
1/3 di Petrus alla Menta fettina di limone
2/3 di acqua o seltz cacao in polvere
3 cubetti di ghiaccio bere l’uno, subito dopo mangiare l’altro
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Dovrebbe essere a tutti ormai noto che gli animali, tanto quanto gli
uomini, hanno abitudini sessuali che si discostano dall’obiettivo della
procreazione: checché ne dicano gli etologi, sostenere che gli animali
non provano piacere quando fanno sesso appare particolarmente
illogico – e ridicolo – dal momento che anche nel mondo animale è
diffusissima tanto la masturbazione quanto l’omosessualità (e diverse altre raffinatezze apparentemente proprie degli esseri umani). A
quanto pare ciò era noto anche all’anonimo artigiano responsabile
della fabbricazione di questo ameno accessorio: una scatolina di porcellana con due delfini che spuntano dal coperchio. Fascino proprio
di tale ammennicolo, i due animali sono appiccicati l’uno all’altra (o
all’altro?!) in un evidente rapporto more ovino. Non ci è dato sapere
se trattasi di un maschio e una femmina o di due maschi, tuttavia,
essendo oggetto di fine antiquariato, è più probabile la seconda ipotesi… e a buon intenditor poche parole.
STATUA DI ODALISCA
In nome del supremo verbo dell’horror vacui (paura del vuoto che porta a riempire ogni spazio con qualcosa, non importa cosa, a cui si sottomettono da sempre stili come il barocco),
tutte le case dovrebbero abbondare di suppellettili che non hanno altra funzione che decorare a tutti i costi riempiendo uno spazio altrimenti vuoto. In conformità a tale direttiva ogni
abitazione, nel suo soggiorno o nel suo ingresso, dovrebbe perciò esibire almeno una statua
di “odalisca”, cioè di ragazza mediorientale svestita, meglio ancora se a seno nudo, che sorregge un’anfora. Tra una pianta ornamentale, un mobile antico (autentico o in stile), un
grammofono con un 78 giri che suona ininterrottamente la Madame Butterfly, ogni signora degna di questo nome (non importa a quale sesso biologico appartenga), coperta di una
sola vestaglia orientale, accoglierà così nella sua magione, magari versandogli pure un San
Marzano Borsci nell’apposito bicchierino, il proprio ospite, un fustacchione palestrato abbigliato da cow-boy venuto ad alleviare la sua tensione. La “odalisca” assiste impassibile alla
scena di seduzione, favorendo con la sua esotica influenza la realizzazione dell’amplesso.
Opportunamente modificata può fungere anche da portaombrelli o da bambola gonfiabile.
VASO CON PINGUINO
C’è giustificazione che possa legittimare la presenza in casa di un
simile manufatto? Un pinguino in porcellana che sostiene un vaso,
utilizzabile come porta fiori (per fiori piccoli però), come porta penne
o minuteria casalinga, con rifiniture dorate, non può essere stato
scelto a caso. Una simile opzione dev’essere stata a lungo ponderata, infatti, per un siffatto cattivo gusto ci vuole premeditazione e una
non indifferente dose di crudeltà nei confronti del prossimo. A tentare di scusare un simile comportamento, potrebbero intervenire tare
ereditarie, incapacità patologica di intendere e volere, o comunque
un discreto disordine mentale e forse anche alimentare. Se avete a
casa vostra un soprammobile che concentri in sé una tale immortale devozione nei confronti del dio del kitsch,
non avete che una soluzione: procurarvi una palla da tennis, posizionarlo al centro di un tavolino, prendere la
mira e… mancato! Ritentate finché non riuscite a colpirlo. Se lo centrate al primo tentativo vincete un pagliaccio in vetro di Murano… vedete un po’ voi se guadagnate nel cambio.
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QUADRETTO DI PADRE PIO
“Paaadreee Piooo, luuuceee del Gargaaanooo…” cantava Luciano
Rondinella nella sua La canzone di Padre Pio – autentica pietra
miliare dell’apostolic-folk anni ’70, che sul lato B riportava una registrazione dell’ultima messa del Santo di Pietrelcina. Mai strofa fu
più profetica nel prevedere l’avvento di questo oggetto di squisita
fattura: un quadretto di Padre Pio “raggiante”, retroilluminato da
una luce color blu. L’apporto, rigorosamente made in China (garanzia di buon gusto, oltre che di qualità), è stato magnanimamente
esposto in pubblica ostensione a una serata abastoriana bolognese, grazie alla cortesia del buon Emiliano Mattioli, e subito ha catturato l’attenzione degli abastoriani presenti. Accendete il quadretto, mettete sul piatto La canzone di Padre Pio, inginocchiatevi con
le mani congiunte e spegnete la luce. Quando vi ridesterete da cotanta esperienza psichedelica, potrete testimoniare “sì, anche io credo!”
CORNO DI BUE A FORMA DI PESCE
Candidato a diventare l’oggetto più brutto
mai visto a un mercatino dell’usato, questo corno di bue modellato a forma di
pesce è stato fotografato al mercatino
delle pulci di Piazzola sul Brenta in provincia di Padova. Spiccava per il suo orrore in
mezzo a tanto altro ciarpame reietto, brillando per un cattivo gusto portato alle
estreme conseguenze. Quale mente malata può aver mai concepito e realizzato una simile schifezza? Costui è stato messo alla gogna e ha subito una
giusta punizione o circola impunemente a piede libero magari continuando a commettere altri nefandi atti
criminali? Quale funzione doveva avere in origine questa suppellettile? Quella di trofeo di pesca? Di soprammobile atto ad “abbellire” un tavolino o una credenza, campeggiando al centro di un laborioso centrino all’uncinetto, nel salotto buono in odore di muffa di una famiglia piccolo borghese fine novecento? Quello di fermacarte su di una vecchia scrivania polverosa all’interno di un vetusto ufficio di un ministero? O ancora era
destinato al ruolo di porta oggetti di forma oblunga, quali potevano essere penne, tagliacarte, sigari, calzascarpe, bacchette cinesi, banderillas da torero?! Un mistero che dovrà restare insoluto: ad avvicinarsi e chiedere informazioni eravamo inibiti dall’idea che il proprietario ci potesse offrire del denaro purché ce lo portassimo via.
Ma pensa, io ero convinto fosse una citazione del Clan di Celentano…
a proposito: c’è una “ragazza del Clan”?
No, una “ragazza del Clan” non c’è mai stata, ma attorno al forum del
Clan girano diverse signorine.
Quali iniziative collettive organizzate? Quali sono le attività del Petrus
Clan?
Purtroppo non organizziamo niente da molto tempo, lavoro e problemi
ci hanno separati, non ci incontriamo da molto tempo.
Parlaci di come nascono i cocktail a base di Petrus: ci sono delle regole spagiriche alla base della loro formulazione? Precisi rapporti alchemici tra i componenti? Determinate fasi lunari e quadrature astrali
da rispettare per la loro preparazione?
Il Petrus per la gente comune è un amaro estremo, per un socio del clan
diventa normale, quando ci incontriamo nessuno fa più quelle simpatiche smorfie che ci hanno fatto ridere e sorridere cosi ci inventiamo sempre qualcosa di nuovo.
Non solo Petrus: quali altri oggetti, oltre alla bottiglia del Petrus classico fanno parte della tua/vostra collezione e di quanti altri sei a
conoscenza?
Purtroppo non è facile reperire oggetti del Petrus, ma vi racconterò di
una iniziativa Petrus Bonekamp che pochi conoscono, dalla quale probabilmente i partecipanti non sono mai più tornati… si tratta della
Petrus Marathon organizzata nel 1993! Ho visto di persona il volantino
circa 2 anni fa, trovato per caso in una vecchia confezione di BK. Una
sorta di Ironman: corsa, ciclo cross, rafting, ecc. Purtroppo non esiste
nessuna documentazione, sappiamo solo che si è svolta in Canada.
Incredibile… ma era organizzata dal Petrus Bonekamp?
È tutto vero, però non so se fosse stata organizzata dalla ditta italiana
che lo distribuisce, la Guinnessudi, o da chi detiene i diritti del Petrus
Boonekamp.
Progetti futuri? Che cosa ci riserva il Petrus Clan per l’avvenire?
Attualmente non ci sono progetti per il futuro, se non quello di ristrutturare il sito, realizzandolo in php.
Lasciamoci con l’amaro in bocca…
Che sia Petrus Boonekamp!
ABAT-JOUR A FORMA DI CORSETTO
Degno soltanto della camera da letto di una meretrice in un vecchio bordello
anni ’30, questo paralume a forma di corsetto raggiunge vertici di inaudita crudeltà estetica merlettata. Riguardo la sua destinazione, del resto, non potrebbe essere altrimenti, avendo la stessa funzione di un’insegna commerciale. Del
resto come la mente umana possa arrivare a spingere l’acceleratore del
barocco fino a produrre paralumi dalle forme tanto sgradevoli, lo può spiegare solamente il fine mercantile. Esisteranno mai anche una lampada a forma
di cervello da posizionare nella sala d’attesa di un neurologo o un posacenere
a forma di scarpa per il negozio di un calzolaio?
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WEBBOGRAFIA
Il sito del Petrus Clan
http://berwel.altervista.org/
Il forum del Petrus Clan
http://petrusclan.forumfree.net/
Le foto dell’Abastor-Petrus-Party
http://www.flickr.com/photos/78937609@N00/tags/petrus/
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Petrus adverts
(proprietà Archivio Abastor)
L’amarissimo che fa benissimo
di F.C.N.
OROLOGIO DA TAVOLO CON CAVALLI
Intervista a Petrus Clan
Oggetti di tale raffinatezza e buon gusto, emblemi di classe ed eleganza, preziosi come gemme di inestimabile valore, dovrebbero
stare in un museo, non in una casa, dico io! Insomma, signori miei,
c’è da inchinarsi di fronte a cotanta eccelsa Arte. “È ora di darsi
all’ippica!”, sembra volerci dire questo oggetto prezioso e raffinato.
Infatti, un simile gioiello di precisione svizzera meriterebbe di comparire in un maneggio per ricchi strambi, e assistere impassibile
come un maggiordomo a racconti che esaltano le imprese nell’arte del galoppo e del trotto di vecchi nobili in guisa di cavallerizzi
démodè, con pantalone a sbuffo e frustino, davanti al fuoco di un caminetto, sulla cui cappa questo elegante
marchingegno dovrebbe degnamente troneggiare facendo la sua suprema figura. Due cavalli imbizzarriti,
appoggiati su di un intreccio di decori barocchi, fanno da contorno al quadrante con la maestosità di un araldo nobiliare. Sono estasiato.
POSACENERE IN OTTONE A FORMA DI APE
Poteva Abastor perdere l’occasione di contattare un coacervo di adoratori pagani del dio
unico Petrus una volta scopertane l’esistenza? Certo che no! Abbiamo così preso contatto
con il capomastro del Petrus Clan per avere le giuste direttive in merito all’oggetto preso in
esame ponendogli alcune domande mirate, utili a sollazzare i nostri avidi lettori innamorati
di questo stupefacente amaro.
Posacenere Petrus
(proprietà Fondazione Piero Cavina)
Presentati agli abastoriani: chi sei, quanti anni hai, che cosa
fai, perché siamo a questo mondo, ecc.?
Mi chiamo Roberto V. meglio conosciuto come “Berserker
Welding” nel web e “Il Ribelle” nella vita reale, ho 29 anni e
abito a Molteno in Lombardia nella provincia di Lecco. Come la
maggior parte delle persone della mia età lavoro... eh, già.. il
Petrus Clan non paga. Vi risparmierò i dettagli del mio impiego, si può riassumere tranquillamente in due parole, “tristezza
infinita”. La mia più grande passione è l’informatica, amo creare siti web scrivendo PHP e HTML a mano con il Blocco Note,
validare il tutto al W3C dà una soddisfazione non indifferente.
Schierato completamente dalla parte dell’open source, ultimamente mi diverto creando temi grafici per KDE.
Raccontaci la tua prima esperienza con il Petrus: insomma, chi te l’ha fatto fare?!
Amari ricordi di un bambino, avevo 12 anni, forse meno. La classica mensola dei liquori presente in ogni casa, protetta dalle parole del capofamiglia “non toccare”. Tra le tante bottiglie c’erano dei mignon di Petrus Bonekamp, forse per il tappo rosso o forse per la minibottiglia, sarà, ma mi ha sempre attirato. Un bel giorno l’assaggiai. Terribile, una schifezza
cosi non l’avevo mai provata! Ma... ero troppo piccolo per apprezzare.
Ah, i Mignon! Io da bimbo andavo pazzo per il Lacrima Cristi… Come e perché è nato il
Petrus Clan, che cosa ti ha spinto a metterlo in piedi?
Il Clan è nato spontaneamente nel ’95 anche se il termine Petrus Clan è stato coniato nel
2003. Mi è venuto in mente pensando alla pubblicità del whisky Clan Campbel. Tutti i dettagli nella storia del clan.
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Il posacenere è l’oggetto per antonomasia destinato a sfogare gli
istinti più abbietti, ogni più sordida depravazione. Già l’atto di spegnerci sopra il tizzone ardente della sigaretta è in sé un atto carico
di una forte dose di sadismo, degno di una approfondita analisi psicanalitica. Ma un sadismo ancora più acceso è sicuramente alla
base della creazione dalle fogge più astruse e improbabili con cui
modellare i posacenere. Nella più recente fase della storia umana
questo genere di oggetti è stato prodotto in una quantità di forme e stili così vasta che questo tipo di pervertimento sociale meriterebbe una ricerca in un apposito trattato scientifico. Nel ridotto spazio di Casa
Abastor non possiamo fare altro che prendere atto della degenerazione in cui l’umanità sta versando e constatarne la “ferocia” stilistica. Classico dei classici, irrinunciabile presenza in ogni casa piccolo borghese che
si rispetti, è il posacenere a forma di ape (o è una mosca?) in ottone necessariamente ossidato. L’addome
apribile ne può modificare la destinazione anche a porta oggetti: spesso e volentieri nasconde chiavi che aprono secretaire e sgabuzzini, dove si nascondono le lettere degli amanti della signora bene, o le letture licenziose e libertine del gentiluomo benestante e ipocrita, che pubblicamente bacchetta il malcostume di pervertiti e
suffragette, mentre nel privato si dedica alla lascivia degli scritti della Olympia Press.
LAMPADARIO ROSA IN VETRO DI MURANO
Sì, sì… ditemi quello che volete, che si tratta di un lavoro artistico a opera
di provetti artigiani dell’isola lagunare rinomata al mondo per la propria
produzione vetraia; che un simile manufatto può avere un alto valore
monetario; che in altri tempi solo nobili e persone di alta classe potevano permettersi simili orpelli nelle proprie ricche dimore, ma quest’opera di un mastro vetraio, che di cognome non può fare altro che
Tagliapietra o Vianello, la potrei tollerare soltanto a casa della contessa
Pinina Garavaglia! Via: un lampadario di un rosa impossibile, concepito
negli incubi notturni della fatina buona di Cenerentola, è una mostruosità aberrante, di un inverecondo, estremo, cattivo gusto e frutto del sottostimato estremismo terroristico barocco più violento. Aiuto! Chiamate
la buon costume!
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L’amarissimo che fa benissimo
di F.C.N.
1777: una data fondamentale per l’umanità. Esattamente 230 anni fa, infatti, il signor
Bonekamp Petrus, un olandese, miscelava erbe provenienti da tutto il mondo per dare vita a
un elisir dalle benefiche proprietà che porterà il suo nome.
È un evento storico carico di simboli e di forza, celebrato da ogni retro-alcolista che si rispetti, da ogni adoratore del feticcio pagano, che viene festeggiato oggi in un tripudio di iniziative e
di celebrazioni in tutto il mondo, dove persone di tutte le età si riuniscono in nome dell’amaro
alle erbe più incredibile che possa esistere. Abastor ha dato l’esempio, organizzando un
Abastor-Petrus-Party associandolo ad un’altra ricorrenza: quella dei 50 anni di Carosello.
Tocca a voi, ora, organizzare il vostro Petrus-Party (alla fine di questo speciale troverete le
ricette) e, cabala alla mano, cominciare a fare le somme e trarre le dovute conclusioni: già due
numeri sacri e magici sono apparsi sul nostro cammino: 777 e 23.
Mettiamo da subito le cose in chiaro però: quello del Petrus non è un sapore “facile”. È amarissimo (“che fa benissimo”) oltre ogni limite consentito dalla legge, il suo aroma di erbe è talmente intenso da permanere per ore nella vostra memoria olfattiva… al primo sorso, se non
siete moralmente preparati, vi potrebbe anche fare schifo, ma è un rito iniziatico attraverso il
quale è indispensabile passare per poter conoscere un insegnamento esoterico avanzato. Il
primo sorso di questo amaro calice potrà lasciarvi interdetti, se non turbati. Solamente la perseveranza abastoriana vi porterà alla bocca nuovamente il bicchiere contenete la diabolica
mistura del signor Bonekamp. Al secondo sorso le cose non miglioreranno di certo. Al terzo
comincerete a contemplare idee di morte. Un quarto, quinto sorso ancora ed ecco… si spalancherà un mondo e nuove sensazioni paradisiache ridesteranno i vostri sensi assopiti.
Qualcuno si arrenderà prima, abbandonerà l’impresa dopo il primo sorso: lo sappiamo bene,
i culti misterici non sono per tutti, non per niente chi vi accede prende il nome di iniziato. Ma
chi resiste, chi ha la forza di sopravvivere ai primi sorsi, chi ha il coraggio di andare oltre, di
resistere all’istinto di mollare, di sopprimere la tentazione di arrendersi, scoprirà nuove frontiere della mente impossibili da descrivere a parole e che pertanto dovrete sperimentare di
persona… atenaip arret ellevoun sysopromtem ereitnorf alled etnem.
Ma che cosa contiene il Petrus da indurre simili sensazioni estatiche? Sappiamo dalle indicazioni dell’etichetta, che alla base dell’amaro c’è la Galanga o Alpina Officinarum, un’erba perenne della Cina e dell’India dall’inconfondibile sapore amaro-piccante, molto usata in farmacia
per le sue benefiche proprietà eupeptiche (= digestive) aromatiche e carminative (= aiuta a
eliminare i gas intestinali, cioè fa scureggia’).
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Nel più raro Petrus alla Menta, si aggiungono l’Aloe Socrotina, l’Angelica
Arcangelica e il Coriandrum Sativum. Questo prodotto, curiosa versione moderna ottenuta aggiungendo alla ricetta classica la menta e le erbe già citate, non è
più in commercio da almeno un decennio e ha perciò raggiunto il valore di rarità
e di ricerca di un Penny Black da parte dei cultori di Petrus più fanatici, tanto da
spendere decine di euro quando una rara bottiglia di questo nettare viene messa
all’asta sul solito eBay. Abastor non ha ancora avuto il privilegio di assaggiare
questa rara pozione, ma può vantare invece la detenzione del vero Santo Graal
del culto petrusiano: il bicchiere del Petrus Menta!
Leggendaria è poi la versione “Gold”, della quale esistono probabilmente soltanto
pochissimi esemplari in mano ai soliti miliardari fortunati, acquistati a un asta da
Sotheby’s. Tale variante non contiene la Galanga e, perciò, ha un sapore più delicato, adatto ai palati più fini.
Per tutti gli altri, il Petrus Classico è reperibile in commercio, in centri commerciali e supermercati, riconoscibile da subito per il classico bottiglione nero dall’enorme tappo-dosatore rosso, che serve a calibrare la giusta quantità di Petrus
da versare nel vostro bicchiere… come per il detersivo.
In Italia il Petrus gode di una fama immutata nel tempo, tanto da aver creato vere
e proprie associazioni di cultori. Tra queste il Petrus Clan pare essere la più attiva e consolidata: i membri di tale associazione promuovono il consumo del loro
nettare preferito, si riuniscono periodicamente, confrontando esperimenti e proposte di cocktail, che pubblicano sul sito dedicato al fenomeno, ricercano e collezionano le bottiglie più rare, vivono in armonia questa loro depravazione senza
sensi di colpa, senza dimostrare né pentimento né desiderio di redenzione.
Abastor, che coltiva a sua volta un parallelo culto per altri liquori storici, soprattutto il Cynar (“contro il logorio della vita moderna”), ha voluto sperimentare
anche l’ebbrezza del Petrus e per farlo ha prima contattato il Petrus Clan offrendosi come cavie umane volontarie per sperimentare improbabili misture a base
del mitologico liquido nero.
In una serata di maggio abbiamo quindi organizzato un cocktail party preparando e offrendo le proposte del Petrus Clan quali lo Spetrus e il Petrus Libre, inventando e sperimentando a nostra volta alcune tra le presenti soluzioni: Petropical,
Tetrus, Gastrus, 5 Maggio (data della morte di Napoleone, omaggio alla serata e
titolo dovuto al contenuto della mistura: come ammazzare del buon brandy
Napoleon) e Latte Più. I partecipanti hanno affrontato con coraggio la prova alla
quale sono stati sottoposti, in particolare va reso omaggio a Rolando, che ha sorbito Spetrus e Petrus Libre fino a raggiungere uno stato di estasi alcolica mistica tale che il giorno seguente vagava ancora per i boschi emiliani in cerca della
pianta della Galanga, e Antonio, che ha voluto (o non potuto fare altrimenti) sorseggiare centellinando il suo Petropical fino alla fine, nonostante la repulsione
verso la sostanza di cui la sua mente rifiutava tenacemente l’esistenza. Gli altri
intervenuti hanno di buon grado sorseggiato, seppur con scarsa convinzione,
varie pozioni a base di Petrus, mentre le ausiliarie abastoriane Marzia e Maura
hanno coraggiosamente affrontato la prova dello Spetrus, che il sottoscritto ha
invece vigliaccamente rifiutato, preferendovi il più prudente Petrus Libre.
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Bicchiere Petrus Menta
(Archivio Abastor)
Petrus Classico