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26 novembre 2015 delle ore 19:09
La Sicilia, nel mezzo del mezzo
La vastissima mostra ospitata dal Museo Riso di Palermo è oggi più attuale che mai, nel suo
interrogarsi tra cronaca e assetto geo–politico. Etica e storie di residenti e di migranti
A Capo Passero ci sono giornate particolarmente
limpide che permettono di vedere bene la costa
della Tunisia, sembra quasi di poterci entrare
con lo sguardo. Basterebbe questa visione per
percepire la centralità geografica della Sicilia
nel mare del mito e della storia. Da Ferdinand
Braudel all’antropologo Marco Aime la
mediazione dell’Italia è stata studiata nella sua
geografia umana o letta tra nostalgia di un
virtuoso dialogo tra nord e sud e il timore che
la turbolenza del presente degeneri in futuro.
Certo, i fatti di Parigi sembrerebbero avvalorare
la seconda lettura, sicché ogni visione deve fare
i conti con l’aberrazione dell’eccidio francese.
La mostra "Nel mezzo del mezzo”(a cura di
Christine Macel, Marco Bazzini e Bartomeu
Mari, fino al 30 novembre), diffusa in varie sedi
a Palermo s’interroga sull’equilibrio tra
cronaca e storia del bacino del Mediterraneo,
guardando sia all’assetto geo–politico, sia alle
micro storie di residenti e migranti,
confrontando comportamenti e culture, etica e
etnica. Nel 2001 fu Eva di Stefano a gettare le
basi per un museo per accogliere ed esporre le
arti del bacino del Mediterraneo che potesse
essere il punto d’incontro delle espressioni più
avanzate europee e internazionali. Il MMAC
(Museo Mediterraneo di Arte Contemporanea)
a quindici anni di distanza ancora non esiste e
questa manifestazione sembra attuare quell’ipotesi,
preparando l’ingresso della città alla candidatura
per la dodicesima edizione di Manifesta. Parlare
di una mostra sull’arte contemporanea dei
popoli del Mediterraneo oggi inevitabilmente
coincide con una riflessione sul tema dello
scambio e della mobilità in un clima in cui regna
la paura e la chiusura, ossia l’esatto contrario
della considerazione della medianità positiva
del mare. I personaggi di spalle ripresi nel video
di Sophie Calle, Voir la mer (See the sea), del
2011, vedevano il mare dalla costa turca par la
prima volta aprirsi innanzi apparendo sgomenti
e perplessi. A rispondere a queste perplessità
potrebbe essere Carlos Aires con il grande
parquet intitolato Mar Negro, fatto nel 2013 con
il legno delle imbarcazioni dei migranti oppure
le foto più esplicite di Loredana Longo del ciclo
The Block, del 2011, in cui si vedono i corpi
confusi dai panni colorati con le rocce scure. Le
storie del mare raccontate nella sua più
angosciante risoluzione della realtà non
possono che non passare dalla testimonianza
dei fari sulla costa della Cabilia di Zineb Sedira
(Lighthouse in the Sea of Time, 2011).
Sentinelle del ciclo percussivo delle onde, i fari
sono in grado di raccontare il viaggio
diventando automaticamente la metafora
dell’ausilio all’approdo nettamente in contrasto
con la repulsione innescata dalla paura spesso
nata dalla genericità delle valutazioni, figlia
dell’ignoranza.
Ecco perché i racconti della terra di Sicilia presa
come fulcro simbolico, oltreché sede della
mostra, si mostrano nelle loro svariate
sfaccettature. Dalle Foto di Fosco Maraini ai
documentari di Vittorio de Seta (Pasqua in
Sicilia, 1956) l’estremo sud d’Europa è
mostrato nelle sue peculiarità folkloriche
oppure ricordando un passato migratorio
descrivendo languidamente una modernità
marginale talmente vicina alle foto scelte da
Akram Zaatari nell’archivio libanese di
Hashemel Madani. Questa specularità tra le
sponde del Mediterraneo sono evidenti
guardando le foto di Ferdinando Scianna o di
Nicola Scafidi, ma anche attraverso il simbolico
rovesciamento dell’immagine riflessa per un
minuto nel video dei Masbedo (Stomboli,
2014). La documentazione, la classificazione,
il paragone dell’occhio dell’antropologo
culturale rischia però di trasformarsi in quel
"nuovo orientalismo” paventato dall’islamista
Paola Gandolfi nel suo libro Rivolte in atto
(Mimesis, Milano – Udine 2013) "[…]
divagante sia tra i media internazionali che
locali. Quasi una sorta di ennesima opposizione
loro – noi (loro arabi – musulmani, noi europei –
occidentali) in cui l’altro arabo fosse ancora una
volta reso romantico ed esotico dal suo essere
mitico, questa volta in qualità di protagonista
di un risveglio arabo”. Sebbene sfiorita dai fatti
di Parigi e del Mali, la primavera araba ha retto
per un certo periodo l’illusione di un
accorciamento delle distanze e il riconoscimento
dell’arte come cornice del contesto emotivo
delle rivolte anche nella registrazione puntuale
delle variazioni culturali che hanno caratterizzato
periodi di oscurantismo registrati da Oussama
Tabti (Stand-by, 2011). Reenactment, opera del
2014 di Kader Attia mette in chiaro che questo
contesto emotivo passa per una riparazione
della memoria coloniale rappresentata da un
ūd algerino risarcito da una cassa
acustica fatta con un casco coloniale francese.
Di converso il video–montaggio sulle
cheerleaders della squadra di basket di Capo
d’Orlando di Mohamed Bourouissa (Cheerleaders,
2015) racconta il lato più trash della
colonizzazione culturale americana in Sicilia.
Nel ripensare a un linguaggio che possa parlare,
prima ancora che degli scenari politici, dei
luoghi e le persone, l’arte parte dalle
suggestioni offerte da peculiarità quali le
perverse devozioni superstiziose del sud Italia
raccontate con occhio surrealista da Tacita Dean
(The Martydom of St. Agatha (in several parts),
1994) dove una sessualità perturbante emerge
dall’inconscio, oscuro lato comune delle due
civiltà dirimpettaie. Questo tema emerge in
forma simbolica dall’ordito dei tessuti di
Huguette Caland (The Purple One, 2010), ma
anche nella bella installazione della bravissima
artista marocchina Latifa Echakhch, (Erratum,
2004-2009), un lavoro sugli stereotipi come
quello di Jasper Just, This love is silent del 2003.
La questione geografica è raccontata dalla sala
delle mappe con opere di Boetti, Isgrò, Mona
Hatoum e Michele Ciacciofera, dove per
Atlantropa, 2015 s’intende il Mediterraneo «
dell’olio e del miele che hanno sempre
caratterizzato l’agricoltura e la cultura», come
scrive Marco Bazzini in catalogo. E al centro
sta la medianità dell’Isola siciliana, più che il
linguaggio della differenza elaborato negli anni
delle rivolte arabe, rappresentato da Hassan
Khan in Jewel nel 2010, linguaggio al limite tra
il contemporaneo e l’arcaico, tra il nuovo e il
tipico che risuona nei cortili di Marsiglia
fotografati da Marie Bovo, Cours intérieures
che testimoniano l’integrazione sotto un unico
cielo, così come nei silenzi delle visioni
orizzontali di Valérie Jouve (Sans Titre, Les
Paysages, 2011-2012) o negli assemblaggi
istallativi di Luca Vitone che imbrigliano i dati
etnografici in piccoli altarini, dati che Nevin
Aladağ fa risuonare nel poetico video
Sehir Sesi/City Language I, del 2009 come una
voce caratteristica. La visione urbana, restituita
graficamente da Gabriella Ciancimino e dalle
opere sonore di Canecapovolto e di Marianna
Christofides e nel panorama ironico di
Alessandro Imbriaco – Tommaso Bonaventura
- Fabio Severo, (Vista dal balcone della casa di
Gaetano Badalamenti, Cinisi, Palermo, 2012)
ma anche i grovigli di Antonio Sanfilippo
dell’opera Dopo secoli, del 1963 sembrano
essere planimetrie urbanistiche almeno quanto
le griglie di Corrado Cagli (Trame e orditi,
1951) per non parlare delle Città Frontali di
Piero Consagra.
La presenza degli artisti di Forma 1 è stata forse
funzionale al confronto ad esempio tra Carla
Accardi e Etel Adnan o Saloua Raouda
Choucair (Rhythmical Composition in Yellow
Gouache, 1951-1953) meno comprensibile
appare invece il confronto tra Fausto Melotti e
Anna Eva Bergmann, come i lavori di Rosario
Arizza e la scelta delle opere degli anni Settanta
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Exibart.com
di Farid Belkahia, nonché l’esplicita etnicità
delle grandi tele appese da Rachid Koraïchi
(The InvisibleMasters, 2008) o le suggestive
luci di Younès Rahmoun (77, 2014) che fanno
della differenza culturale la condizione di
essere guardate come Altro, direbbe Bourriaud,
una differenza che s’appiana nell’allestimento
di Medhat Shafik (La bottega dell’armeno,
2015) che restituisce la suggestione dei colori
che hanno rapito Paul Klee nel suo viaggio in
Tunisia del 1914. Anche quando la Sicilia e, in
particolare Palermo, viene considerata dal suo
lato più inquietante da Jeanloup Sieff (Les
catacombes de Capucins, Palerme, Sicile,
1982) e da Aldo Palazzolo (Le trame
dell’alchimia, 2015) il ricordo del Grand Tour
si infrange sul paradosso dell’emarginazione e
della miseria, rendendo ancor più vero il detto
di Goethe che l’Italia sarebbe "un paradiso
abitato da diavoli” L’insediamento urbano
diventa memoria del mondo contemporaneo nel
sudario nella Gibellina di Burri filmato da
Raphaël Zarka (Gibellina Vecchia, 2010), nello
ieratico deambulare di Joseph Beyus
fotografato da Mimmo Jodice o della più
codificata pratica del cammino concettuale di
Richard Long. Persino Giovanni Anselmo con
l‘immagine vulcanica de La mia ombra verso
l’infinito dalla cima dello Stromboli durante
l’alba del 16 agosto 1965 (Study A) è testimone
di un viaggio dell’anima nel presente. Il viaggio
dell’anima di Kounellis (Viaggio nel Golfo di
Napoli, 1969) o il viaggio delle anime deve
comunque far i conti con la metafora nautica
affrontata sia nel dramma della migrazione da
Hassan Darsi (Projet en dérive, 2009) nella sua
trasfigurazione, sia nel crudo realismo del
confronto tra disperazione e diporto mostrato
dal video di Marcella Vanzo (Summertime,
2007) dove s’accostano i bagnanti in vacanza
agli sbarchi dei clandestini, in egual misura ma
da un punto di vista diverso Mounira Al-Solh,
nel video del 2008, Paris without the sea, narra
l’assenza del mare che per alcuni immigrati
significa cambio di abitudini, mentre, di
converso, Mireille Kassar (The Children Of
Uzaï, Anti Narcissus, 2014) evoca la
spensieratezza della gioventù libanese con un
video onirico e commovente.
Senza cedere dalla retorica del monumento
funebre di Michele Cossyro (Situazione 1976 –
La barca, 1976) l’asciutto lavoro concettuale di
Lawrence Weiner (The Middle of , The Middle
of, 2012) è uno delle più efficaci affermazioni
di una distanza e di un confine. Tema trattato
esplicitamente da artisti come Yaël Bartana (A
declaration, 2006), Emily Jacir (Memorial to
418 Palestian Villages which were Destroyed,
Depopulated and Occupied by Israel in 1948,
2001), Taysir Batniji (Transit, 2004), Tania
Tanbak (In Transit, 2015) un confine, quello
arabo – israeliano, da cui proviene la pressione
sulla "tenaglia del Mediterraneo” che ha fulcro
nel bosforo e i denti a Gibilterra, confini che
sono beffeggiati come arbitrari quanto micidiali
linee immaginarie nel gioco ripreso da Sigalit
Landau (Azkelon, 2011). Linee immaginarie
per le piante fotografate da Jean-Luc Moulène
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26 novembre 2015
o rielaborate da Michel François, divisioni
sconfessate dalla mobilità della coltivazione
ironicamente presentata su scala installativa da
Luca Francesconi (pane pane pane vino canale
di scolo, 2014,) Il Mediterraneo risulta però un
ambito in cui si ricompone una storia, sia essa
una vicenda raccontata da Fayçal Baghriche
(Philippe, 2008) o dalle piccole scatole di
fiammiferi di Mohamed Larbi Rahhali (Omrsi
(Ma vie), 1984-2009) sia una lenta
trasformazioni come la risacca registrata da
Ange Leccia (La mer, 2014), un suono che ci
riporta all’arcaico e al mito. Arcaico è il gesto
della tessitura dei famosi lavori di Maria Lai, la
teoria di donne in blu che salgono con l’otre in
testa per le strade di Gibellina ridisegnate
dall’arte di Burri e fotografate da Marzia
Migliora (Aquamicans, 2013), la ricetta della
nonna di Anri Sala (Byrek, 2000) quasi a cercare
una origine comune fino al mito che le opere
archeologiche di Hidetoshi Nagasawa, Christodoulos
Panayiotou, Steve Sabella, Jean-Daniel Pollet,
Simone Fattal, Giuseppe Sciola, Benoît Maire,
Etienne Chambaud, ma è forse l’opera di Fabien
Giraud & Raphael Siboni (Bassae Bassae,
2014) a rivelarsi più attuale e aderente alla
figura dell'archeologo Khaled Al-Asaad,
massacrato dall’IS.
Marcello Carriero