cutest zombie story ever

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cutest zombie story ever
Federica Riccardi
CUTEST ZOMBIE STORY EVER
Lo zombie è al piano di sotto. Ho lasciato Bill da solo contro di lui.
Guardo l’orologio; i miei sono usciti da un paio d’ore, non ci vorrà molto perché tornino dal
supermercato.
Il trambusto della lotta e le urla di Bill si sentono fin qui. Un rumore di vetri rotti mi fa
trasalire e, stupidamente, penso che con un po’ di fortuna può trattarsi dell’orribile collezione
di animaletti di cristallo.
Nel corridoio in penombra, l’armadio a muro mi sembra un buon nascondiglio. Se le cose di
sotto si mettono male, non voglio fare una brutta fine.
Faccio scorrere l’anta di lato, mi infilo tra i cappotti arricciando il naso per l’odore
dell’antitarme. Arretro con le spalle tra le pellicce, per un attimo immagino che continuando
ad arretrare cadrò nella neve di Narnia. La mia schiena si ferma contro il fondo di legno.
Ho il cervello zuppo di adrenalina e faccio pensieri ridicoli.
Inciampo in una vecchia borsa abbandonata sul fondo, mi mordo il labbro per non imprecare.
Mi chino per districare la tracolla dai miei piedi. Con la mano destra impegnata a reggere il
coltellaccio, anche liberarsi da un ostacolo del genere risulta più difficile di quanto possa
sembrare.
Un tonfo mi fa sussultare. Mi volto di scatto con la lama alzata.
È solo Boba Fett che si è nascosto nella sua cuccia, in camera mia, in fondo al corridoio. Espiro
lentamente, chiudo l’anta lasciando uno spiraglio da cui osservare le scale. La porta a specchi
del bagno mi offre una visuale parziale sul soggiorno, deserto. Dove si è svolta la lotta corpo a
corpo, i divani color panna sono macchiati di terra, sangue e muffa. L’indice e l’anulare che Bill
è riuscito a staccare quando si è liberato sono ancora sulla moquette, accanto al portariviste.
Ingoio un conato di vomito e mi strofino la manica della camicia sulla fronte. Gli zombie
perdono i pezzi manco fossero fatti di lego.
Soppeso il coltello fra le mie dita, ne stringo il manico di plastica. Sembra tanto fico da avere in
mano quando ci gioco invece di apparecchiare, ma adesso mi rendo conto che come arma non
è il massimo. Non ho un’idea precisa di dove colpire in maniera efficace, e poi la lama è tanto
corta che dovrei avvicinarmi molto prima di poter attaccare seriamente, troppo. Avrei dovuto
pensare anche a questo.
Insomma, non è che ci sia stato tutto questo tempo per fare riflessioni.
Mi cola il naso, lo strofino distrattamente sul dorso del braccio. Devo trovare un’arma
migliore. Frugo nella tasca dei pantaloni, recupero il cellulare. Ancora non c’è segnale, il
ripetitore è proprio rotto.
D’un tratto ho un’illuminazione. L’A400 Xplor che abbiamo comprato per mio padre
dev’essere ancora nascosto in soffitta. Con il casino degli ultimi giorni, il funerale e tutto, non
penso che Zoe l’abbia tirato fuori per impacchettarlo.
Inspiro, espiro.
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La botola per salire in soffitta, in mezzo al corridoio, è troppo scoperta per essere davvero
presa in considerazione. Dalla finestra del bagno degli ospiti si arriva facilmente al tetto e da lì
rompere uno dei lunotti della mansarda è uno scherzo. Deglutisco.
Di sotto, Bill continua ad urlare. Ogni tanto si distinguono i suoi insulti da marine in licenza; se
pensa basti il testosterone a fermare uno zombie, è già morto.
I rumori della lotta mi garantiscono via libera, apro l’anta e sguscio fuori dal mio nascondiglio.
Le assi del parquet scricchiolano tremendamente sotto i miei passi. Corro nel bagno, mi
chiudo la porta alle spalle e faccio girare la chiave.
Con una manata libero il davanzale della finestra; i barattolini di sonniferi e calmanti di mia
sorella cadono tintinnando per terra, un paio in frantumi. Pensavo che Zoe l’avrebbe presa
meglio; Derek non la amava e, in fondo, gli incidenti d’auto sono piuttosto comuni. Come
diceva lui stesso, la gente deve prepararsi all’idea di morire, prima o poi.
Io, nell’abbandonare il coltello nel lavandino e issarmi sul davanzale, sono perfettamente
conscio e preparato all’idea che le cose possano andare male. Solo, non intendo rassegnarmi e
mi tengo allo stipite scrostato stringendo tanto forte che le nocche mi si sbiancano.
Il muro della casa fa angolo proprio accanto alla finestra del bagno degli ospiti. La lampada da
esterno attaccata al muro offre una superficie troppo piccola per salirci con entrambe i piedi.
Se la uso per farmi forza con le gambe, però dovrei riuscire a aggrapparmi alla grondaia per
poi issarmi su, sopra il tetto.
Sul prato sotto di me, il barbecue sembra quanto di più doloroso su cui atterrare. Stringo i
denti e stacco una mano, tendendola verso la grondaia. Afferro il metallo, la mano mi scivola,
sudata. Mi sfugge un gemito.
Tremo. Mi asciugo la mano sui pantaloni e mi allungo di nuovo verso la parete. Avvinghiato al
canalino di scolo, punto un piede sulla lampada da esterno e mi tiro su.
Rimango qualche attimo in ginocchio sulle tegole, intontito. Qualche puntino nero mi compare
ai lati del campo visivo e senza pensarci cerco di scacciarli con la mano, come fossero
moscerini. Chiudo gli occhi, scrollo la testa. Forse sono pazzo.
Inspiro forte, deglutisco, sbatto le palpebre e mi risollevo piano. Carponi raggiungo il lunotto
della soffitta, qualche tegola si sposta sotto i miei movimenti. Ne raccolgo una, la sbatto contro
il vetro ed esso si ragna senza spaccarsi del tutto. Impreco. Sollevo di nuovo la tegola, inizio a
picchiare contro la superficie crepata, riuscendo solo a scheggiare la tegola stessa.
Il gancio interno del lunotto cede ed esso si spalanca di colpo. Mollo la tegola, allungo una
gamba dentro la soffitta, mi appoggio su uno scatolone, tiro dentro anche l’altra gamba. Soffio
l’aria fuori dai polmoni.
Focalizzati sull’azione, diceva Derek, su quello che devi fare, e tutto andrà a posto. In questi
giorni Zoe non ha fatto che ripeterlo. Stupida sorellina.
Da un taglio sulla gamba mi cola del sangue, mi tolgo la maglietta e ce la annodo sopra. Non
sento dolore, non mi ero nemmeno accorto di essermi fatto male. Chissà se Derek ha sentito
dolore, nell’incidente. Zoe ha detto che il volante gli ha spappolato la cassa toracica e una
costola sbucava dalla pelle e dalla maglietta. Un atto necessario, solo un dolore momentaneo.
Focalizzati sull’azione.
Mi guardo attorno, cerco la scatola dell’A400 Xplor. Sollevo una pila di vecchie lenzuola e
trovo la confezione di cartucce. Dietro un sacchetto con i tubi della doccia da sostituire, il
fucile semiautomatico occhieggia da uno scatolone. Lo estraggo, lo soppeso un momento, poi
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sgancio il caricatore e lo riempio. Spingo la prima cartuccia in fondo. Un colpo forte dal piano
di sotto mi fa sobbalzare.
Le grida di Zoe riempiono l’aria. Bill deve essere stato eliminato. Mi costringo a respirare
normalmente, non posso permettermi di essere preso dall’emozione.
Credevo che Zoe fosse fuori. Non ho pensato che potesse rientrare prima.
Avrei dovuto pensare a tutto. Mi tremano le mani mentre torno a riempire il caricatore. Una
cartuccia mi cade e rotola lontano, ne prendo un’altra, la spingo in fondo.
Le pianificazioni sono una cosa da Derek, non mia; io sono il tipo emotivo, quello che agisce
d’istinto. Quello che ha preso il coltellaccio e se l’è data a gambe su per le scale. Non sono di
sotto a fare il mio dovere e, spingendo il caricatore fino a incastrarlo nel suo posto, spero solo
di riuscire a farmi perdonare prima della fine.
Afferro il carrello otturatore e lo tiro indietro, lo rilascio, tolgo la sicura. I quattro colpi
dovranno bastarmi, non ci sarà tempo di ricaricare. Ad ogni buon conto, mi ficco qualche
cartuccia nelle tasche dei jeans.
Mi avvicino alla botola della soffitta, esito. Mi rendo conto che le grida di Zoe sono cessate da
qualche attimo. Fuori, la macchina di mio padre fa scricchiolare la ghiaia del vialetto; mi
mordo un labbro. Sgancio la botola e mi affaccio dal quadrato nel soffitto.
Sul pavimento del corridoio, mia sorella giace a faccia in giù. Un pezzo di cuoio capelluto si è
strappato, abbandonato poco lontano dal capo, la ciocca di capelli biondi ancora intrecciata al
resto della chioma. Una chiazza di sangue si allarga lenta sotto il corpo di Zoe; il braccio
sinistro è piegato sotto il torace, quello destro completamente divelto. Tra i lembi della spalla
strappata, la punta dell’omero spunta biancastra.
La scaletta della soffitta cade giù di colpo, mi sfugge un singhiozzo quando i piedi si piantano
proprio nelle reni della povera Zoe. Ci sono un sacco di cose, nella vita, che uno non crede di
poter affrontare, e poi, bam! Ti ritrovi a farci i conti, e non ci sono cazzi.
Quando poso un piede sul primo piolo e vi appoggio il mio peso, il cadavere di sotto emette un
rumore molle, di carne schiacciata. Un urto di vomito mi piega in avanti, stringo gli occhi, ma
sono un bersaglio facile e devo scendere da questa scala al più presto. Devo focalizzarmi
sull’azione.
Imbraccio il fucile e mi addosso al bordo della scala con il fianco, cercando di controllare allo
stesso tempo l’entrata di camera mia e le scale che portano al piano di sotto. A momenti sparo
a Boba Fett, quando esce dal suo nascondiglio per venirmi incontro. Inspiro piano cercando di
controllarmi. Non è il momento di farsi prendere dal panico.
Sceso dalla scala, finalmente stabile sui miei piedi, in corridoio, per un attimo ho l’istinto di
tornare a nascondermi nell’armadio a muro. Deglutisco, alzo il mento con aria di sfida; ci sono
ancora i miei genitori, devo ancora fare il mio dovere.
Avanzo lento verso il piano di sotto, un passo dietro l’altro, le spalle al corrimano della rampa
di gradini. Sento le chiavi che girano nella toppa. Sono ancora troppo in alto sulla scala per
poter vedere la porta d’ingresso.
Mio padre ha appena il tempo di emettere un verso sorpreso, poi c’è il rumore di un corpo
scaraventato contro la credenza e quello schiocco sordo che fanno le ossa quando si rompono.
Mia madre inizia ad urlare.
È il momento della resa dei conti.
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Scendo di qualche altro gradino, sparo d’istinto verso una scarpa col tacco che vola fuori dalla
cucina, e la manco. Ingoio, stacco l’indice sudato dal grilletto ed il cane si riarma con uno
schiocco secco.
Dalla cucina, grida indistinte, un rumore sordo e ripetuto, farfuglii maschili. Faccio gli ultimi
gradini di corsa, sbatto contro il muro di fronte, mi parte un altro colpo, riarmo il fucile e
caracollo nella stanza. Lo zombie è caduto, scivolando sul sangue, mia madre da dietro ne ha
preso la testa tra le mani e ora la sbatte violenta contro la gamba del tavolo. Non ci penso due
volte e faccio fuoco.
Silenzio.
Il sangue si allarga sulla camicetta di mia madre dal foro circolare in mezzo alle scapole; la
donna cade all’indietro, Derek si rialza tenendosi il capo e sputacchia qualche dente.
- Credevo non saresti più arrivato. – mi sorride dolce lo zombie, poi rincastra i denti al loro
posto. – Allora, abbiamo finito?
Ha pezzi di vetro nel petto, gli mancano le due dita che gli ha staccato mio fratello Bill e un
alone di muffa ha iniziato a crescergli sulla guancia sinistra, ma a questo provvederemo più
tardi.
Mi avvicino a Derek e gli do un bacio veloce. Intanto, tra i rottami della credenza, mio padre ha
iniziato a rantolare piano. Gli pianto la mia ultima pallottola dritta nel cervello.
- Abbiamo finito. – sorrido anch’io. - Fammi prendere le valige e andiamo, la macchina è nel
vialetto.
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