il modello costituzionale meridionale prof .ssa maria natale

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il modello costituzionale meridionale prof .ssa maria natale
“IL MODELLO COSTITUZIONALE MERIDIONALE”
PROF.SSA MARIA NATALE
Università telematica Pegaso
Il modello costituzionale meridionale
Indice
1
La condizione politica del Mezzogiorno nel XVI secolo -------------------------------------- 3
2
Napoli ed il rapporto con la Corona spagnola ---------------------------------------------------- 5
3
La riforma del Consiglio Collaterale ----------------------------------------------------------------- 7
4
Una società anomala: il ‘dominio dei togati’ ------------------------------------------------------ 9
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Il modello costituzionale meridionale
1 La condizione politica del Mezzogiorno nel
XVI secolo
Persa l’antica autonomia giuridica e politica, agli inizi del XVI secolo il Regno di Napoli si
presentava come un viceregno, assoggettato al dominio del re straniero, Ferdinando il Cattolico della
casa d’Aragona. L’avvento della monarchia spagnola determinò per il Regno un’importante
trasformazione sul piano istituzionale, che durò circa due secoli, fino al 1707. La dipendenza da un
sovrano lontano, fisicamente e spiritualmente, e quindi il trasferimento in Spagna del centro decisionale
della sua vita politica e giuridica, fu per il Meridione un fatto che ebbe ripercussioni ed effetti decisivi in
tutti i campi.
Dopo la conquista, il potere della capitale del
Mezzogiorno peninsulare, subì un duro
colpo: oltre a rimanere dopo diversi secoli senza un proprio sovrano, veniva privata anche
della corte regia e con essa di quel prestigio e di quei fasti che le erano direttamente connessi. Dalla
Spagna, infatti, era inviato un ministro con carica
temporanea, il viceré, chiamato a svolgere direttamente le veci del sovrano.
Con molta prudenza Ferdinando il Cattolico, intanto, programmava alcuni interventi per una
lenta ma profonda trasformazione dell’ordinamento, cercando di evitare il pericolo di squilibri
repentini e di polarizzare le funzioni statuali in alcuni centri di potere a discapito di tutti altri. I
criteri generali seguiti dalla monarchia spagnola per la gestione del regno di Napoli erano
fondamentalmente due: il primo consisteva nell’adozione del principio del divide et impera, che
puntava a mantenere i contrasti interni tra i diversi status ed a generare la convinzione che
fosse necessario per ciascuno stringere un legame diretto con la Corona.
Quindi, mentre la lotta per il potere si continuava a combattere all’interno del Regno, su un
piano orizzontale, singolarmente si poteva instaurare un contatto con la corte madrilena per
vedere soddisfatte le proprie aspettative e richieste. Il sovrano diventava allora il punto di
equilibrio tra i diversi ordinamenti sociali e giuridici in competizione.
L’altro criterio generale mirava soprattutto a creare consenso nelle popolazioni
assoggettate: si sarebbero recepite, almeno apparentemente, le istanze provenienti dalla società,
facendole confluire in una nuova normazione. Questo sistema tuttavia non implicava affatto che d’un
colpo si fossero abrogate tutte le leggi ereditate dal passato. L’ordinamento giuridico
preesistente, perpetuando situazioni giuridiche consolidate ed antichi privilegi, rappresentava,
per i sudditi, una garanzia di continuità di posizioni e diritti pregressi; per la Spagna una
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sicurezza circa la stabilità della conquista e la possibilità di un pacifico assestamento della nuova
organizzazione istituzionale.
Complessivamente il sistema di governo non subì un netto stravolgimento delle strutture
istituzionali preesistenti. Rimanevano operativi, in larga misura, molti organi costituiti, nel secolo XV,
in base alle disposizioni di Alfonso d’Aragona. Ad essi, tuttavia, si sovrappose una nuova
organizzazione accentrata e verticistica, più rispondente alle linee politiche ed ai progetti della
monarchia, sotto il cui scettro tutto doveva convogliare.
L’intento era quello di creare una serie di catene e di vincoli, per ancorare il regno alla
Spagna. Il legame di dipendenza andava costruito e modellato su più livelli, utilizzando al meglio gli
elementi
antichi
prima di procedere alle innovazioni. Il disegno spagnolo consisteva
fondamentalmente nel mantenere vigente una gestione del regno di Napoli, che rimanesse
autonoma e strutturata sulle risorse locali, sia umane che economiche. Ma tutto questo non
escludeva l’inserimento all’interno delle coordinate dettate dalla Corona e quindi la
totale
soggezione dalla Spagna.
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2 Napoli ed il rapporto con la Corona spagnola
La Corona spagnola, che era rimasta fedele alle idealità ed alle formule medievali, nel secolo
XVI, specialmente con Carlo V e poi con Filippo II, le utilizzò diffusamente per costituire e
legittimare, nel regno di Napoli, il modello politico accentrato. Due erano i fronti contro cui
bisognava combattere per affermare la sovranità regia: innanzitutto quello esterno che, con le nuove
conquiste territoriali e l’allargandosi dei domini, necessitava di una valida e duratura giustificazione.
Poi vi era il fronte interno, in cui pullulavano varie spinte centrifughe, che si concentravano
essenzialmente nel potere vetero-feudale ed in quello ecclesiastico, e che dovevano essere compresse
in via prioritaria.
L’immagine medievale del sovrano, tutore della giustizia, arricchita di valori
umanistici, diventava ‘eroica’, valorosa, ed offriva la soluzione per affermarsi su entrambi i
versanti e contro tutti i tipi di nemici. Il monarca spagnolo si presentava quindi come difensore della
cristianità e dei suoi confini, mentre sul piano interno assumeva le vesti di dispensatore di una
giustizia ‘uguale’, deliberata sempre super partes,
realizzando un ordinamento giuridico imparziale
che tutelava i deboli e gli umili.
Al di là dell’immagine diffusa per incidere sul consenso sociale, in realtà il sovrano non era
affatto presente nei suoi vari domini. Alla sua assenza, sopperiva una struttura organizzativa
ad articolazione pluricentrica, <<polisinodale>>. Un sistema complesso, che si materializzava e si
muoveva attraverso i Consigli, organismi istituzionali costituiti in sostanza da giuristi, che ricevevano
dal vertice la iurisdictio e svolgevano, nei vari possedimenti, le veci del sovrano. Il potere dei legum
doctores si prestava ad una rapida ascesa.
Con riguardo al regno di Napoli, si può affermare che, nella lotta contro il
particolarismo imperante e contro le forze centrifughe interne ( il potere vetero-feudale e quello
ecclesiastico), i valori e gli strumenti giuridici giocarono un ruolo fondamentale. D’altronde era
smisurata la fiducia riposta dalla società, meridionale ed anche europea, nella ‘missione’ espletata
dai giuristi La loro attività appariva assolutamente indispensabile e vantaggiosa, poiché solo gli
esperti del diritto erano in grado di frenare giuridicamente il potere monarchico, evitando che
diventasse dispotico e meramente arbitrario. Il pericolo che si scivolasse nella tirannia poteva
essere scongiurato solo da coloro che, attraverso l’uso di strumenti tecnici, potevano annientare gli
orientamenti più estremisti, in nome della tutela degli interessi generali e di quei principi razionali ed
altissimi indicati dalla loro scientia.
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L’attività
di
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mediazione
svolta
dai
giuristi
rimaneva
quindi
un
elemento
fondamentale nel governo del regno.
Il caso napoletano, nel panorama dei domini spagnoli in Italia, per varie ragioni, fu il più
singolare, essenzialmente perché la monarchia
non adottò una linea univoca, ma due diverse
strategie di governo, nella capitale e nelle province. Solo a Napoli si verificò la svolta, il grande
cambiamento, lì venne accentrata la macchina amministrativa e giudiziaria. La città divenne il
centro e la sede del potere togato.
La svolta che ebbe luogo a Napoli portò la Curia Regis, di origine normanna, costituita
dai Sette Grandi Uffici, verso il declino. Quest’organo, che per secoli aveva affiancato il
sovrano, curando tutta l’amministrazione economica, politica e militare del Regno con l’attribuzione
dei vari incarichi agli esponenti più autorevoli della nobiltà feudale (Gran contestabile, Gran
ammiraglio, Gran giustiziere, Gran
cancelliere, Gran camerario, Gran protonotario, Gran
siniscalco) era un’organizzazione a carattere meramente pattizio, che risentiva della tradizione
contrattualistica medievale ed era fondata su un accordo di fedeltà reciproca.
Dal secolo XVI, a Napoli, stanziatosi il viceré, i meccanismi di gestione del potere erano
mutati radicalmente. Il vicerè, un ministro spagnolo, assumeva la direzione del Regno in via
temporanea, in genere per un periodo che non andava molto oltre i tre anni.
Il massimo ufficiale di governo, una volta insediatosi in città, in quanto straniero
necessitava di un proprio Consiglio, di relazionarsi con ministri locali che lo coadiuvassero nelle scelte
e che, nel caso, gli suggerissero delle linee
politiche adeguate alle problematiche emergenti
ed alle esigenze di sviluppo del territorio. Il Consiglio Collaterale così si avviò a prendere forma
assorbendo le competenze originariamente assunte dal Gran Cancelliere. La sua composizione,
almeno inizialmente, fu mista, ossia ne
facevano parte reggenti nobili e reggenti togati. Tuttavia,
poiché la prepotenza degli aristocratici, manifestata in questa sede, si traduceva alla fine in una scarsa
incidenza della pubblica autorità,
dalla Spagna fu inviato un viceré dal polso duro, don Pedro de
Toledo, che rimase a Napoli per oltre un ventennio, dal 1532 al 1553. Con lui l’assetto costituzionale
del paese giunse ad una piena definizione.
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3 La riforma del Consiglio Collaterale
Il Consiglio Collaterale fu oggetto di una fondamentale riforma che si articolò in tre fasi: nel
1524 l’imperatore Carlo V stabilì che le cause di giustizia sarebbero state discusse in presenza dei
soli reggenti togati. Nel 1536, appena dopo l’arrivo del viceré Toledo, si stabilì che la presenza dei
cavalieri in Collaterale doveva essere decisa a discrezione del viceré. Nel 1542 Carlo V dispose,
sempre più riduttivamente, che la nobiltà potesse intervenire in Collaterale solo quando si trassero
affari di Stato e guerra. Era chiaro che si stava definendo una svolta epocale.
L’espulsione della nobiltà dal Collaterale comportò la sua relegazione in un Consiglio minore,
detto Consiglio di Stato. Le competenze furono assai limitate, in sostanza relative agli affari esteri e
militari. Questioni che, nelle linee generali, venivano già decise presso la corte madrilena. Il peso
politico della nobiltà, al centro, ne usciva notevolmente ridotto.
I reggenti togati del Collaterale invece andarono a costituire la Cancelleria.
Essi svolsero una funzione omnicomprensiva, con competenze non solo consultive,
ma
anche esecutive e di governo, legislative e giudiziarie. Insomma rappresentarono il vertice del
potere.
Lo scontro tra letrados, ossia togati, e milites, ossia laici e cavalieri, inizialmente, di fronte al
rinnovamento ed alla moderna organizzazione dello Stato, riguardò solo le funzioni.
In effetti
venne sminuito il prestigio
delle attività militari e marziali, impersonate dai reggenti di
spada, a favore di quelle tecnico-giuridiche, più consone alle strutture burocratiche espletate dai
reggenti di toga. Fu durante il governo di don Pedro de Toledo, quando la nobiltà fu
gradualmente emarginata dai vertici dell’amministrazione, che la dialettica assunse significato cetuale
con un chiaro irrigidimento delle posizioni contrapposte: la nobiltà, rifiutava i valori e le idealità dei
togati e quindi di intraprendere la carriera forense e legale, precludendosi così l’ingresso nella
complessa macchina statale. La conseguenza fu una graduale compressione dei suoi poteri da
parte della monarchia, che invece mirava ad attuare un modello unitario, accentrato ed
efficiente, e che aveva bisogno di uomini esperti e fedeli.
La svolta operata a favore del ceto togato e di una ‘politica del diritto’ scatenò una serie di
avvenimenti che ebbero ripercussioni immediate e di lunga durata. Dopo l’iniziale chiusura e
isolamento, i cavalieri passarono all’attacco. Contro le direttive politiche poste in essere
dall’imperatore Carlo V e dal viceré don Pedro de Toledo, di seguito proseguite da Filippo II, la
reazione nobiliare, specialmente “distruttiva” e indipendentistica, fu decisa e si spinse fino ad
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immaginare
gesta estreme.
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Il primo episodio si registrò nel 1547 quando, contro il tentativo di
introdurre a Napoli l’Inquisizione spagnola, scoppiò una sanguinosa rivolta. Fu animata e fomentata
dall’aristocrazia partenopea che aveva trovato in questa circostanza una buona occasione per
vendicarsi dell’iniziativa presa dall’energico ed ostile viceré Toledo. Nel 1552 il principe di Salerno,
Ferrante Sanseverino, organizzando un’alleanza franco-turca, tentò di scacciare gli spagnoli dal
Regno.
Ancora nel
1557, perseguendo gli stessi intenti e con analoghi esiti negativi,
l’ecclesiastico napoletano Gian Pietro Carafa, divenuto papa col nome di Paolo IV, ripristinò quella
pericolosa alleanza. Lo stesso manifestò un profondo odio contro il governo spagnolo. Così. quando era
ancora cardinale, nel 1542, istigò papa Paolo III ad istituire l’Inquisizione romana, nota anche come
il Sant’Uffizio di rito romano, affinché operasse a difesa della cristianità.
Negli stessi anni, ma in direzione “costruttiva”, il cavaliere napoletano Giulio Cesare
Caracciolo elaborava un progetto di governo per il Regno (1554), al fine di restaurare, dopo i tanti
scossoni, il potere nobiliare centrale. Le sue proposte furono molteplici, riguardavano l’attività
politica, ma anche lo sviluppo dell’economia e della marina. Oltre ad ipotizzare il rientro della
componente di spada nel Collaterale di giustizia, quindi nella Cancelleria, ai fini di una diretta
partecipazione alla definizione dei principali affari del Regno, il Caracciolo sperava di invogliare i
cavalieri a cambiare look
e atteggiamento. Egli intendeva potenziarne l’imprenditorialità nel
settore della marina, incitandoli a partecipare attivamente alla costruzione di navigli. Un Regno
bagnato ampiamente dal mare costituiva il terreno idoneo per specializzarsi
in
un
settore
abbandonato e perciò impoverito. Acquisendo una specifica professionalità, sarebbe stato più
agevole escludere, o ridurre parzialmente, la concorrenza ormai stabile degli armatori genovesi
e toscani. Tutto ciò avrebbe infine migliorato i traffici commerciali e la produttività. Ma il
discorso di Caracciolo non riuscì a fare pienamente presa sicché la situazione politicoistituzionale restò immutata.
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Se la posizione geografica del Regno aveva imposto alla Corona spagnola una duplice
linea di governo, lasciando la gestione della periferia alla feudalità e la gestione del centro ai ‘legali’,
può ben dirsi che la direzione politica del Regno fu affidata a pieno titolo agli uomini di toga.
L’ideologia
e
la
tecnica
giurisprudenziale
servirono
a
ridurre
il
peso
politico
dell’aristocrazia e dell’antica Curia Regis, e nello stesso tempo a rafforzare l’assolutismo
regalistico.
La funzione svolta dai giuristi a Napoli fu spiccatamente politica, nel senso che fu
utilizzato il ricco strumentario giuridico per seguire percorsi di gestione completamente
autonomi dalle direttive regie.
A Napoli per la lontananza del re e della corte, i doctores e le grandi corti di giustizia
procedevano senza controlli, autonomamente, e le garanzie giuridiche si avviavano a diventare
inesistenti o meramente formali. Come era avvenuto già in Francia nel 1614, così a Napoli dopo il
1642 gli organi della rappresentanza cetuale, Stati generali e Parlamento, non furono più convocati. Il
‘popolo’, inteso in senso molto lato e in tutte le sue articolazioni, non venne proprio più sentito.
Per gli alti magistrati napoletani, l’esercizio della funzione giurisdizionali divenne sinonimo
di gestione del potere. Autorevoli giuristi quali, Matteo d’Afflitto e poi Vincenzo de Franchis,
entrambi membri del Sacro Regio Consiglio,
radicali: sostennero con vigore
già nel secolo XVI, assunsero posizioni decise e
il valore legislativo delle decisioni del supremo tribunale
napoletano. Le delibere di quell’organo dovevano
prevalere anche sulle prammatiche regie se si
fosse riscontrato al riguardo un contrasto o un dubbio. Tale assunto trovava
fondamento teorico in un’attività di permanente interpretazione autentica, in quanto i magistrati erano
rappresentanti del sovrano.
L’atteggiamento riottoso dell’aristocrazia napoletana di fronte allo strapotere dei togati, le
continue rivendicazioni cetuali
e , fondamentalmente,
il rifiuto delle istituzioni preburocratiche
sorte con lo Stato moderno, furono situazioni che vennero sopite in via definitiva soltanto dopo la
rivoluzione costituzionale del 1647-1648, più nota come la rivoluzione napoletana di Masaniello.
Fu a seguito di quest’avvenimento che si confermò definitivamente il primato politico del ministero
togato. Prima di tale evento, in verità, la situazione era cambiata. Molti esponenti del ceto
aristocratico cercarono di recuperare posizioni di potere, rinunciando ad una restaurazione
cavalleresca ed inserendosi completamente nelle strutture della res publica dei togati.
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Innanzitutto si dedicarono allo studio del diritto e divennero dottori. Fu l’estremo tentativo per
l’aristocrazia napoletana di inserirsi nella gestione del potere.
L’operazione riuscì ma il possesso della competenza legale, requisito indispensabile per
accedere ai vertici del potere, finiva per snaturare il ruolo stesso dell’aristocrazia e per, in ultima
analisi, confermare, la crisi ormai matura del potere nobiliare all’interno del Regno.
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