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Il film in primo piano
GOMORRA
DI MATTEO GARRONE
Claudio Gotti e Matteo Marino
Sulla scia del grande successo del libro da cui è
tratto, Gomorra si presenta al pubblico in qualche modo ipotecato, prevedibile nel senso etimologico del termine, ossia si sa già prima cosa
si andrà a vedere. È la sorte dei film di denuncia
o su commissione. Questo è entrambe le cose. In
più il filone, dalla nostrana Piovra ai mitologizzati padrini d’oltreoceano, dal dialetto napoletano di Certi bambini alle indagini psicoanalitiche
dei Soprano, è ormai conosciuto e le trame risapute. Già in una delle ultime edizioni del celebre sceneggiato televisivo italiano comparivano
convogli di scorie radioattive destinati al Sud. Il
punto è dunque un altro e consiste proprio nel
fatto che le cose ormai si sanno, nonostante le
intimidazioni le condanne sono arrivate (è recente la conferma dell’ergastolo ai boss del clan
dei Casalesi, il cui controllo economico e criminale del territorio era stato ampiamente descritto nel best seller di Saviano), ma «O’Sistema»,
come viene chiamata la camorra dai suoi stessi
affiliati, regna imperterrito, anzi fuoriesce dai
confini delle province di Napoli e Caserta. Stiamo parlando di un giro d’affari di 150 miliardi
di euro l’anno (la Fiat ne conta 58). Il Sistema
ricava 500.000 euro al giorno grazie allo spaccio
di droga e reinveste il denaro in attività legali,
compresa la ricostruzione delle Torri Gemelle.
Se si mettesero insieme su una base di tre ettari
i rifiuti tossici provenienti da industrie del Nord
essi raggiungerebbero un’altezza di 14.600 metri, il doppio dell’Everest! Il fenomeno è così radicalmente insanabile da invocare la paradossale
soluzione di biblica memoria. Ma Gomorra non
è una città: le sue ramificazioni, quel modo di
essere e di vivere che la camorra è sembrano refrattari a semplicistiche distruzioni una tantum.
Quello che serve è un cambiamento antropologico. Così Matteo Garrone, a cui lo scaltro
produttore Domenico Procacci affida l’adattamento del reportage narrativo confidando nella
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sua autorialità e indipendenza, lascia la denuncia
alla parola scritta, al libro e ai titoli di coda (da
questi ultimi abbiamo tratto le cifre di cui sopra)
e si concentra su tutt’altro. Sull’uomo. Con la
macchina a mano e uno stile essenziale e sporco
va a girare sui luoghi veri della criminalità organizzata, dalle Vele di Scampia al porto di Napoli,
all’Agro Aversano, aperto alle sorprese dell’interpretazione non professionale e alla verità dei
volti della strada, come già fece Pasolini – fisicità e reazioni rischiose ma vive a cui affianca la
sapienza dei vari Servillo, Imparato, Cantalupo.
Garrone non mima né documenta la realtà. Al
contrario, non spiega niente, getta lo spettatore
in medias res, senza preavviso e senza commenti,
senza preoccuparsi che sia tutto chiaro perché,
come abbiamo detto, la sequenza degli accadimenti già si conosce (iniziazione, perdita dell’innocenza, affari, tradimento, vendetta, carriera o
morte). La storia sembra prendere forma da sé,
nel momento stesso in cui viene narrata. Le cose
recano impresso il loro destino, gli eventi sono
intrisi di un’ineluttabilità e implacabilità che
provocano nello spettatore angoscia, irrequietezza, impotenza, sfinimento. La macchina da
presa non si concede vie di fuga, anche i campi
lunghi sono opprimenti, postpaesaggi dai cieli
bianchi o grigi di un’apocalisse in cui Dio non
si è manifestato. La desolazione e l’incuria sembrano volute, bruttezza come mantenimento
dello statu quo, come strategia affinché il mondo
distolga lo sguardo e si possa agire indisturbati.
La regia rinuncia a qualsivoglia compiacimento
stilistico, salvo qualche impennata surreale: il
Padre Pio calato dall’alto durante un trasloco;
i bambini alla guida dei camion; le stoffe verde fluorescente maneggiate dai cinesi, lampo di
colore improvviso all’interno di una fotografia
programmaticamente slavata; la vecchia che sbadigliando ripete il gesto della tigre in terracotta
sullo sfondo. In maniera analoga Garrone rara-
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mente concede soddisfazioni o vie di scampo ai
suoi personaggi.
Il risultato è quello di una perfetta coincidenza fra contenuto e forma, tanto questa si
priva di vezzi tecnici e inquadrature estetizzanti
quanto i personaggi non hanno mai un primo
piano glorioso. Li vediamo cupi, incapaci di
godersi la vita e i soldi, impegnati come sono a
contarli – è questo il leit motiv del film –, a fare
guerra, a rintanarsi al buio nelle proprie case, a
dimostrare sempre qualcosa a qualcun altro, a
far vedette e ronde e insieme guardarsi alle spalle, privi del presente, con lo sguardo continuamente proiettato altrove. Non sorridono mai – e
questa è un’impressione, sottile e pervasiva, che
solo il cinema può dare.
Quando etica ed estetica coincidono è capolavoro, e il film è stato osannato dalla critica, ha
avuto successo di pubblico, premi, ecc. C’è da
dire però controcorrente che nonostante i pregi
e l’assenza di didascalismo, il film è limitato dal
suo unico livello di lettura, inequivocabile per
qualsiasi spettatore, in qualsiasi nazione. Dice
una sola cosa e la dice al meglio, ma il pubblico
rimane passivo rispetto a quello che vede, non
deve prendere posizione. La perfezione di Gomorra, nonché la sua ripetitività chiara già dopo
la prima mezz’ora, decretano la rinuncia a qualsiasi apertura metaforica, a qualsiasi feconda ambiguità, qualità forse necessaria ai capolavori.
Il regista Garrone non mima né documenta
la realtà
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Cinque sono le storie narrate, cinque soggettive corrispondenti ad altrettanti punti di vista,
originati da diversi livelli di consapevolezza.
Il più basso è quello di Marco e Ciro, due
adolescenti-bambini che vivono talmente fuori
dalla realtà da confonderla con la finzione (sognano di essere in Scarface) senza rendersi conto
che non hanno né la prestanza di attori hollywoodiani (l’uno muscoloso con la voce afona e
acuta, l’altro magrissimo e sgraziato), né il buon
senso di fare la gavetta sotto un boss. Le loro bravate – furtarelli non contemplati dai clan, sgarri
alle «autorità» – produrranno avvertimenti che
rimarranno inascoltati fino alla trappola finale.
Pagheranno con la vita la loro insubordinazione
e immaturità. Dei protagonisti delle cinque storie sono gli unici a morire.
Sia detto per inciso, il sogno del cinema è
parte integrante dell’immaginario camorristico: «I camorristi sono stati forse lusingati che
si girasse un film su di loro e nella loro zona»,
risponde Garrone alla domanda se abbia subito minacce durante le riprese. «Saviano non è
stato minacciato di morte per il libro», precisa,
«ma per aver fatto nomi e cognomi durante la
sua presentazione a Casal di Principe». Invece la
camorra ha riservato al set un’ala delle Vele di
Scampia in via di sgombero, ha fornito alla troupe i pass per accedere al suo territorio superando gli sbarramenti delle sentinelle e consulenti
come un ex capopiazza hanno suggerito qualche
dritta per rendere più realistiche alcune scene,
come quella dello spaccio. Una scena è stata
girata nella villa del boss Schiavone, costruita
sul modello di quella di Scarface. Insomma, romanzi, film, telefilm e inchieste nell’ottica dei
«cattivi» servono a glorificarli e ad amplificarne
il terrore. Gomorra però si distingue grazie all’attenzione della stampa internazionale e al Gran
Prix Speciale della Giuria di Cannes. Ha dichiarato Saviano: «Se il libro fosse rimasto confinato
al paese, a Napoli, alla mia realtà locale, allora
gli andava anche bene, anzi, i camorristi se lo
regalavano tra loro, contenti che si raccontassero le loro gesta. Avevano perfino cominciato a
farne delle copie taroccate da vendere per strada
e un boss aveva messo le mani in un capitolo
riscrivendosi alcune parti che lo riguardavano».
Analogamente dovrebbe essere normale anche la
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vendita di centinaia di DVD pirata dello stesso
Gomorra, come già hanno assicurato al regista
pensando certo di compiacerlo.
Se in definitiva è inquietante pensare che il
potere stia in mano a personaggi con fantasie adolescenziali di grandezza, è anche vero quanto già
dicevamo a proposito di Civico 0 (in «Filmcronache», 1, 2008, p. 57) e che vale qui per il fatto
che un tema travalica il giornalismo, l’inchiesta
e si fa cinema, pièce teatrale (scritta questa da
Saviano con Mario Gelardi): «Paradossalmente
il documentario ha ora bisogno della fiction per
non risultare anestetizzato e perdersi tra cronaca e reportage. Se oggi è normale che drammi e
miserie personali vengano dati come spettacolo
(infotainment), forse è giunto il momento di recuperare coscientemente lo spettacolo per tornare a provare emozioni intelligenti e a ragionare»,
per tornare alla realtà e alla conoscenza.
Un secondo appena superiore livello di consapevolezza è quello del tredicenne Totò che,
nato e cresciuto in quell’ambiente, non vede
l’ora di diventare grande e di partecipare a quello che vede accadere tutti i giorni sotto i suoi
occhi. Non conosce altre realtà, ne è plagiato
senza accorgersene e anzi deve trovare il modo
di inserirvisi. Non gli viene neanche in mente
che ci possa essere un’alternativa, è pienamente
consapevole della realtà in cui vive ma quella per
lui è tutta la realtà. Il suo è un destino segnato
in partenza. Consegna la spesa a domicilio e incrocia gli spacciatori; va a scuola e il suo amico
Simone gli dice che la prossima volta che si incontreranno potrebbero anche doversi uccidere
perché da quel giorno appartengono a bande
rivali. Di Totò vediamo in soggettiva il rito di
iniziazione: uno sparo ravvicinato in pieno petto
con indosso un giubbotto antiproiettile. Uscirà
illeso da questa prova, di cui rimarrà soltanto un
livido da esaminare allo specchio, ma uscirà definitivamente compromesso dal tradimento a cui
lo costringeranno gli eventi. Sarà grazie a lui che
il clan potrà uccidere una delatrice, sua amica.
Al terzo posto c’è Don Ciro, «sottomarino»
incaricato di distribuire gli stipendi alle famiglie
degli affiliati in carcere. Vigliacco, impaurito,
insicuro, dimesso, è convinto di aver trovato
un modo per sbarcare il lunario all’interno del
sistema, e insieme un compromesso con la sua
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coscienza. Egli si illude che il suo sia un servizio
neutrale e in fin dei conti umanitario. In realtà
il suo essere una pedina minore non lo esimerà
dall’aprire la strada a pezzi più forti della scacchiera. Lo capisce alla fine quando ragioni di sopravvivenza lo indurranno a passare dalla parte
del più forte, non senza sporcarsi le mani.
Pasquale, sarto eccellente, è l’unico che tenta
di prendersi una soddisfazione personale: accettare di dare lezioni di alta sartoria ai cinesi per
mille euro a lezione, anche se dovrà farlo di notte
e recarsi alla fabbrica nascosto in un bagagliaio
perché la cosa non venga a conoscenza del clan
per cui lavora producendo in nero i vestiti che
l’alta moda stessa richiede a bassissimo costo alla
manovalanza campana. Le umiliazioni vengono
però riscattate dall’applauso degli allievi orientali che lo chiamano giustamente Maestro. In
netto contrasto con quello fosco degli autoctoni, il mondo dei cinesi è fatto di sorrisi, colore
e ospitalità. Ma tale lo percepiscono gli occhi di
Pasquale proprio perché la sua è la più soggettiva
delle storie (in quell’est di meraviglie si illude di
trovare ristoro) e la più sofferta. La soddisfazione
infatti viene subito punita con un attentato proprio a lui, professionista talmente bravo che uno
dei suoi abiti su misura era destinato a Scarlett
Johansson per il red carpet di Venezia. Lo scopre
per caso, riconosce il suo capo sulla tv di un autogrill durante una sosta del suo nuovo lavoro, e
si sente schiacciato da una felicità rabbiosa: «Eppure la soddisfazione è un diritto, se esiste un
merito questo deve essere riconosciuto. Sentiva
di aver fatto un ottimo lavoro e voleva poterlo
dire. Sapeva di meritarsi qualcos’altro. Ma non
avrebbe potuto dirlo a nessuno. Non poteva dire:
“Questo abito l’ho fatto io”» (R. Saviano, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno
di dominio della camorra, Mondadori, Milano
2006, p. 44). Così quella di Pasquale è un’impotente, doppia consapevolezza: egli è consapevole
delle sue doti, per cui è ricercato e dall’alta moda
e dalla camorra, ed è consapevole di non poter
uscire da quel circolo vizioso di lavoro sottopagato e anonimo. Così decide di rinunciare ai
suoi sogni e di abbandonare il mestiere, ma nella
realtà che conosce, con moglie e figli a carico,
non può certo permettersi di fare la testa calda,
rinnegare tutto ed emigrare. Non gli resta che ri-
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ciclarsi come camionista (della camorra, precisa
il libro), un lavoro che fa diventare le mani rosse
e le nocche spaccate a reggere per ore i volanti
con le mani che si gelano e la circolazione che
si ingolfa, lui, il miglior sarto sulla terra, quasi
un dispetto al suo destino, un contrappasso per
una strana colpa, un’autopunizione. Una storia
struggente, supportata fra l’altro dalla più intensa prova d’attore. Il massimo di consapevolezza e
nessuna possibilità di riscatto.
Da ultimo il neolaureato Roberto. Nonostante sia il personaggio che vede meno sangue e
violenza rispetto agli altri poiché a contatto con
una camorra più azienda e meno ammazzamenti, più di alto livello, più subdola, più internazionale e meno locale, nascosta dietro la faccia
perbene di Toni Servillo che quando parla con
gli industriali del Nord abbandona totalmente
il dialetto e sfodera una perfetta dizione d’attore
e rassicuranti abilità retoriche, lontanissimo dal
Marlon Brando con l’ovatta in bocca, nonostante tutto ciò, Roberto – guarda caso – è l’unico
a guardare la realtà con distacco, come dal di
fuori, e a comprendere di cosa si stia rendendo
complice, e se ne chiama coraggiosamente fuori
rinunciando al miraggio di un lavoro sicuro e di
grandi prospettive di guadagno. Lo può fare perché è giovane, ha studiato e vede altre possibilità
nel suo futuro, forse proprio quella di denunciare quello che ha visto.
Gomorra
Interpreti: Toni Servillo (Franco), Gianfelice
Imparato (Don Ciro), Maria Nazionale (Maria),
Salvatore Cantalupo (Pasquale), Gigio Morra
(Iavarone), Salvatore Abruzzese (Totò), Marco
Macor (Marco), Ciro Petrone (Ciro), Carmine
Paternoster (Roberto) – Genere: drammatico – Regia: Matteo Garrone – Soggetto:
tratto dal romanzo Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra di Roberto Saviano (Mondadori, Milano
2006) – Sceneggiatura: Maurizio Braucci,
Ugo Chiti, Gianni Di Gregorio, Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Roberto Saviano – Fotografia (scope/a colori): Marco Onorato –
Montaggio: Marco Spoletini – Scenografia:
Paolo Bonfini – Costumi: Alessandra Cardini
– Suono in presa diretta: Maricetta Lombardo – Origine: Italia, 2008 – Durata: 135’
– Produzione: Domenico Procacci per Fandango, Rai Cinema – Distribuzione: 01 Distribution, 2008
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