Gomorra - Liceo Canossa

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Gomorra - Liceo Canossa
Gomorra
Catalogazione
F 243
Collocazione
FILMS
Categoria tematica
Mafia e criminalità organizzata / Antimafia; Disagio giovanile; Esclusione sociale
Origine
Italia
Anno
2008
Regia
Matteo Garrone
Principali interpreti
Salvatore Abruzzese (Totò), Simone Sacchettino (Simone), Salvatore Ruocco (Boxer),
Vincenzo Fabricino (Pitbull), Gaetano Altamura (Gaetano), Italo Renda (Italo),
Gianfelice Imparato (Don Ciro), Maria Nazionale (Maria), Salvatore Striano
(scissionista), Carlo del Sorbo (Don Carlo), Vincenzo Bombolo (Bombolone), Toni
Servillo (Franco), Carmine Paternoster (Roberto), Alfonso Santagata (Dante Serini),
Massimo Emilio Gobbi (Imprenditore), Salvatore Cantalupo (Pasquale), Gigio Morra
(Iavarone), Zhang Ronghua (Xian), Manuela Lo Sicco (moglie di Pasquale), Marco
Macor (Marco), Ciro Petrone (Ciro), Giovanni Venosa (Giovanni), Bernardino
Terracciano (Zi Bernardino)
Supporto
DVD
Numero dischi
01
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Maurizio Bracci, Ugo Chiti, Gianni Di Gregorio, Matteo Garrone, Massimo Gaudioso,
Roberto Saviano
Musiche
il brano "Herculaneum" è dei Massive Attack (Robert Del Naja e Neil Davidge)
Produzione
Domenico Procacci per Fandango in collaborazione con Rai Cinema e Sky
Distribuzione
01 Distribution
Durata – dati tecnici
130 minuti, colore
Lingua audio
Italiano
Lingua sottotitoli
Italiano, inglese, italiano per non udenti
Contenuti extra
Ciro e Marco - Estratto dal backstage – “Gomorra: 5 storie brevi” - Trailer
Trama
Totò ha tredici anni, aiuta la madre a portare la spesa a domicilio nelle case del vicinato e
sogna di affiancare i grandi, quelli che girano in macchina invece che in motorino, che
indossano i giubbotti antiproiettile, che contano i soldi e i loro morti. Ma diventare
grandi, a Scampia, significa farli i morti, scambiare l'adolescenza con una pistola. O
magari, come accade a Marco e Ciro, trovare un arsenale, sparare cannonate che ti fanno
sentire invincibile. Puoi mettere paura, ma c’è sempre chi ne ha meno di te. Impossibile
fuggire, si sta da una parte o dall'altra…
Critica 1
Duemilaotto, Odissea nell'iperspazio. Niente astronavi, grazie, non servono. Per fare
fantascienza in Campania, Italia, basta un solarium con le sue luci verdi abbacinanti, poi
un tramestìo soffocato, il sangue scarlatto sotto i corpi abbronzati, i gesti svelti e precisi
con cui gli assassini entrano, sparano, lasciano le armi nel sacchetto tenuto dalla
complice, si dileguano.
Gomorra comincia così, con una scena esatta e mortalmente priva di pathos, come un
referto medico, che ci trasporta subito in un'altra dimensione. Ma non è fantascienza, è la
realtà quotidiana di un mondo vicinissimo e insieme invisibile, che Matteo Garrone
ricrea con allucinato rigore rielaborando pagine dal docu-romanzo di Roberto Saviano.
Non c'è una storia, ci sono tante piccole storie che si completano a vicenda. Non ci sono
protagonisti, tanto meno psicologie. Non c'è nulla di romanzesco, insomma, nulla che
leghi cause ed effetti in un intreccio, solo una serie di personaggi che transitano in questo
incubo come morti in libera uscita. Cadaveri in attesa del loro turno, ma decisi a
ritagliarsi un posto al sole nel frattempo. «Tu sei più morto che vivo», sibila il camorrista
al povero "sottomarino" (uno spaesato, sublime Gianfelice Imparato), il travet
beneducato che porta i soldi alle famiglie dei detenuti, venuto a offrire i suoi servigi al
clan vincente. Ma è una battuta che vale per molti in Gomorra (…).
Vale per i ragazzetti aspiranti duri che a forza di giocare a Scarface pestano qualche
piede di troppo. Per la moglie autoreclusa nella fortezza delle Vele (Maria Nazionale)
che vede il figlio passare alla cosca rivale («mamma me ne vado, divento scissionista»).
Per quel sarto di talento che dopo anni di duro e anonimo lavoro nei laboratori che
confezionano alta moda in nero, compie per soddisfazione personale più che per
guadagno uno sgarro imperdonabile: si "vende" ai cinesi, ovvero accetta di insegnare i
suoi segreti alla concorrenza asiatica.
Poche scene che valgono un romanzo, perché di Pasquale (Salvatore Cantalupo, altro
grande talento del teatro napoletano, come moltissimi attori di Gomorra) non sappiamo
nulla ma indoviniamo tutto. L'arte e l'onestà, la povertà e lo stupore, la curiosità e la
meraviglia con cui va alla scoperta di un'altra vita nascosto nel baule dell'auto dei suoi
nuovi padroni. Fino all'epilogo crudele che lo vede, sopravvissuto a un feroce attentato,
scoprire in tv addosso a Scarlett Johansson, al festival di Venezia, l'abito confezionato
con le sue stesse mani: il massimo della bellezza e della luminosità mediatica esaltato da
un destino oscuro e servile.
Dietro questo taglio secco e quasi antinarrativo c'è una scelta precisa, forse una morale.
Garrone non dimostra, non illustra tesi, non fa storia né sociologia. Più semplicemente
mostra, dando a questi frammenti di vite camorriste la forza e l'evidenza del grande
cinema. Ed ecco ragazzini dal viso d'angelo diventare uomini facendosi sparare addosso
col giubbotto antiproiettile (dando l'addio ai loro amici d'infanzia perché «ora siamo
nemici, magari ci dobbiamo pure ammazzare»). Ecco legami annosi e a volte perfino
affettuosi, come quelli che uniscono la madre reclusa e il ragazzino che le fa la spesa,
sciogliersi in un attimo sotto la minaccia delle armi. Mentre, fra tanti ceffi e corpi
bestiali, stupisce quasi trovare Toni Servillo, affabile, soave, elegante, gran parlatore: un
camorrista dei quartieri alti che tratta con le aziende del Nord lo smaltimento criminale di
rifiuti tossici e poi via in motoscafo fra le bellezze di Venezia col suo nuovo assistente
(scena impagabile per l'atroce ironia), un giovane in cerca di lavoro che avrà il coraggio
di dire no rifiutando forse l'unica "occasione" di carriera che si offra a un neolaureato
senza conoscenze (Gomorra non parla di Scampia, ma di tutta l'Italia).
Chissà cosa privilegerà la platea di Cannes in questa babele di gerghi, di accenti, di vite e
di codici criminali. Una cosa è certa: proprio perché costringe a stabilire nessi e a
collegare sfondi, indizi, episodi, lo sguardo "fenomenologico" di Garrone non lascia
indifferenti. Per scoprire l'Italia di oggi e il suo cinema, si passa per forza da qui.
Autore critica: Fabio Ferzetti
Fonte critica: Il Messaggero
Data critica:13/5/2008
Critica 2
Ci sono spesso delle zone nere che «cancellano» una parte dell' inquadratura in
Gomorra. Gallerie cieche, stanze in penombra, cantine e seminterrati male illuminati,
muri e pareti che bloccano la vista, ambienti senza luce: buchi che risucchiano i
personaggi e la macchina da presa. Oppure rettangoli che impediscono la visione, come i
timbri della censura. Non si può vedere tutto di quel mondo, ci suggeriscono quelle
immagini, perché ogni persona è un mondo a sé, risponde a una regola personale. Che è
quella del profitto, ma non solo. È anche quella del proprio codice d' onore, o del proprio
tornaconto, o del proprio bisogno, o delle proprie illusioni. Persino dei propri sogni,
come quelli di poter impersonare quello che il cinema ha raccontato con più forza e
bellezza... Non si può vedere tutto, ma quello che si vede non si dimentica e conferma
Matteo Garrone come uno dei veri, grandi registi di oggi. Adattando il romanzo
omonimo di Roberto Saviano insieme a cinque sceneggiatori (lo stesso autore, più
Maurizio Braucci, Ugo Chiti, Gianni Di Gregorio e Massimo Gaudioso), Garrone ha
estratto cinque storie dalla materia magmatica del libro, privilegiando cinque percorsi
personali e lasciando da parte le componenti più cronachistiche e generaliste. Così la
guerra di Secondigliano passa attraverso l' apprendistato del piccolo Totò (Salvatore
Abruzzese) o le paure del ragionier Ciro (Gianfelice Imparato); l' economia sommersa
del casertano viene raccontata attraverso le storie del sarto Pasquale (Salvatore
Cantalupo) e di Franco, un industriale che ricicla rifiuti ambientali (Toni Servillo); la
cultura della morte e delle armi da fuoco è quella del sogno di gloria di Marco e Ciro
(Marco Macor e Ciro Petrone). Cinque storie per raccontare un mondo e una società,
dove i palazzi di Scampia e gli stanzoni con i cinesi curvi sulle macchina da cucire sono
importanti come i volti delle persone e le loro azioni. Dell' impianto narrativo e dell'
impostazione di fondo di Saviano e del suo libro, Garrone ha conservato soprattutto l'
importanza dell' osservazione sul campo, quella capace di non farsi condizionare dai
pregiudizi e di entrare in qualche modo in sintonia con una maniera di vivere e di
ragionare che altrove può sembrare aberrante. Per questo il momento dei sopralluoghi,
della scelta degli attori e delle comparse, delle prove e poi delle riprese sono stati
importanti almeno quanto la stesura della sceneggiatura. Per scoprire e insieme capire e
poi per trasformare quelle cinque «storie» in cinque percorsi di avvicinamento al cuore
delle cose. Specifico del film (da venerdì nelle sale e in gara a Cannes), è invece il filo
rosso che lega quelle storie e dà loro il senso di un' operazione capace di diventare
«autonoma» rispetto al libro, e di tenere a bada sia il compiacimento che l'invadenza
voyeuristica. Quel senso è la decisione di privilegiare la coscienza della contiguità tra
legale e illegale, del loro intrecciarsi intimamente e subdolamente, colti nel momento in
cui i singoli si trovano di fronte a una scelta definitiva quasi senza accorgersene: «All'
inizio certe cose mi lasciavano di stucco – ha detto Garrone in un' intervista (…). Poi
pian piano mi sono accorto che mi abituavo, non mi sorprendevo più di niente, come
accade alla gente che vive lì. Ci si abitua a tutto, credo. E ti accorgi di come sia facile
cadere in certe dinamiche criminali, perché esiste un meccanismo intorno a te, degli
ingranaggi che ti stritolano senza che tu te ne renda conto». Ecco come si diventa
camorristi: perché non hai alternativa. Così, il piccolo Totò forse pensa che entrare nella
camorra voglia dire fare i turni di guardia per proteggere gli spacciatori ma si troverà
invece a dover scegliere tra la vita e la morte della madre di un amico. O come don Ciro,
che ogni mese mantiene per conto dei boss i parenti di chi sta in galera: lui pensa di
essere solo un «puro» esecutore di ordini, estraneo alle logiche di potere dei clan. E
invece... C' è anche chi decide di tirarsi indietro, come Roberto (Carmine Paternoster)
che non vuole accettare la logica per cui la vita di un operaio del Nord dev' essere pagata
con la morte (per inquinamento) di una famiglia del Sud. Ma non è su di lui che si chiude
il film, bensì su due corpi morti ammazzati e portati via da una ruspa, a ricordare che la
logica vincente non è certo quella della vita. Tutto questo Garrone lo filma con un occhio
che si attacca alle cose, attento a non tradire la realtà, ma neanche a volerla a tutti i costi
inseguire. È vero che i riciclatori usano ragazzini rom per spostare i camion con i rifiuti
tossici? È vero che l'iniziazione al coraggio avviene facendosi sparare da pochi metri,
con indosso un giubbotto antiproiettile? È vero che i cinesi nascondono un sarto nel
portabagagli per portarlo a dar loro lezioni di cucito? A volte la verità è più sconvolgente
ancora, a volte il film diventa il mezzo con cui una realtà «irraccontabile» prende forma.
Una forma che il regista usa con un rigore e una moralità dello sguardo davvero
encomiabile. Come i veri grandi sanno fare.
Autore critica: Paolo Mereghetti
Fonte critica: Il Corriere della Sera
Data critica:13/5/2008
Libro da cui è stato
tratto il film
Tratto dal romanzo omonimo di Roberto Saviano.