Solitudine: pena o grazia?

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Solitudine: pena o grazia?
Solitudine: pena o grazia?
All’inizio del libro di Giobbe, compare questa lucida costatazione pronunciata dal
protagonista dopo che la sventura si è abbattuta su di lui: «Nudo uscii dal grembo di mia
madre e nudo vi ritornerò» (Gb 1,2). Di fronte alla vita e di fronte alla morte l’uomo è nudo,
senza difese, senza sostegno: entra nella vita solo, uscendo da una solitudine protetta per
affrontare l’avventura del vivere ed esce dalla vita affrontando la morte nella solitudine. Si
deve riconoscere che la solitudine è un elemento antropologico costitutivo. Eppure entrando
nella vita, l’uomo impara a conoscere i suoi simili, ad intessere con loro relazioni, ad
incontrarli e a comunicare con essi. Scopre così di essere fatto per la relazione, di non poter
vivere la sua singolarità e unicità chiudendosi nella solitudine; scopre di aver bisogno degli
altri e di donare agli altri per poter vivere in pienezza. È, in fondo, questo il paradosso
dell’uomo: la sua unicità lo porta alla solitudine, a sentirsi come “solo” di fronte alla vita; ma
la stessa unicità e irripetibilità del suo mistero lo porta ad incontrare gli altri. Come diceva
Thomas Merton, “nessun uomo è un’isola”. Credo che la sfida che dobbiamo affrontare
risieda proprio in questo paradosso, in questa apparente contraddizione: saper affrontare la
propria solitudine nell’equilibrio di una relazione con glia altri.
Devo ammettere che in un certo senso questa sfida è un po’ inscritta nella mia esperienza,
anzi diventa la struttura quotidiana della mia vita. Sono un monaco cenobita un monaco che
vive con altri fratelli nella vita comune. “Monaco” significa colui che vive nella solitudine per
giungere alla piena unificazione (“solo” e “uno” sono i due significati della parola monaco).
Ma questa solitudine si confronta con altri che desiderano compiere lo stesso cammino; anzi
questa ricerca di unificazione è mediata dalla comunione con dei fratelli. In fondo sta qui la
sfida della vita monastica nella sua forma cenobitica. Certo la vita monastica vive anche una
solitudine più strutturale che la porta ad una certa marginalità rispetto al mondo, alla società:
questo bisogno di solitudine e di silenzio porta i monaci a cercare luoghi appartati, lontano dal
frastuono della città. Ma in fondo tutto si gioca poi su questo equilibrio che è proprio di ogni
uomo: essere soli ed esse in relazione.
Le mie riflessioni saranno dunque quelle di un monaco che cerca ogni giorno di abitare n
questo paradosso.
1. I volti della solitudine
Tre testi possono orientare la nostra riflessione. Ognuno di essi presenta un aspetto della
solitudine, ma anche ne rivela la fatica e a volte l’ambiguità.
Il primo testo è tratto dal vangelo dei Matteo:
«quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle
piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già
ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta
e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà»
(Mt 6,5-6).
Gesù pone il discepolo di fronte a due possibili modi di agire, a due scelte che orientano in
profondità la stessa vita. Si può vivere continuamente in “piazza” o, se si vuole, “in vetrina”,
illusi di gestire le proprie relazioni con gli altri senza veramente affrontare la verità della
propria vita, schiavi del giudizio degli altri. Oppure si ha il coraggio di guardare in faccia il
proprio volto interiore e lasciarlo illuminare da chi veramente può rivelarcelo nella sua verità
per entrare in una relazione feconda non solo con Dio ma anche con gli altri. Questa scelta
suppone una solitudine, un entrare nella camera e chiudere la porta, rimanendo “nudo” di
fronte a Dio e lasciando che sia lui a guardarci nella verità. Altrimenti la paura di questa
1 solitudine ci porta a cercare una falsa relazione con gli altri e, quindi, a diventare come gli
altri ci vogliono.
Il secondo testo è di Blaise Pascal. Il filosofo così annota nei suoi Pensieri:
«Niente è insopportabile all’uomo quanto di essere in un completo
riposo, senza passioni, senza faccende, senza divertimento, senza
un’occupazione. Avverte allora il proprio nulla, il proprio
abbandono, la propria insufficienza, la propria indipendenza, il
proprio vuoto. Subito saliranno dal profondo dell’animo suo la noia,
l’umor nero, la tristezza, il cruccio, il dispetto, la disperazione.
...Ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola
causa, dal non saper starsene in pace, in una camera»1.
Siamo in continuità con il testo evangelico, ma mentre Gesù mette la solitudine in relazione
con Dio, qui Pascal pone l’accento sulla relazione con se stessi. La frenesia dell’agire,
l’immersione disordinata nelle relazioni, lo stordimento in tante forme di evasione, alla fine
possono nascondere una paura della solitudine intesa soprattutto come paura di stare soli con
se stessi. Perché si ha paura di stare con se stessi? Forse la paura di stare soli con sé stessi è la
paura di intraprendere un pellegrinaggio dentro di se di cui non sempre si possono conoscere
gli itinerari o gli imprevisti, né prevederne nei dettagli i movimenti o i passi. In questo
simbolico cammino nella solitudine, si possono scoprire dentro di noi presenze o volti che
non vorremmo vedere, che non vorremmo che esistessero. «Vedere in faccia se stessi è spesso
fonte di disillusioni, è atto che spezza le idealizzazioni di sé, le immagini di noi che ci siamo
forgiati. Tutto questo può implicare l’entrare in crisi e il subire ferite. Il lavoro di discesa nel
proprio cuore, di ricerca della propria verità non lo intraprende chi ha paura delle ferite, della
sofferenza che a lui ne può derivare. Quando la verità vuole rivelarsi all’uomo fa uso di un
grande dolore: vi è sempre il prezzo di un’acuta sofferenza da pagare al disvelarsi della verità.
La paura può paralizzare e impedire il cammino interiore, ma allora si resterà spettatori della
vita ed essa ci passerà accanto come un’estranea»2. “Starsene in pace, in una camera”, come
dice Pascal, non è facile perché la tentazione di fuggire da questa solitudine si fa presto
sentire. Ma è la via per scoprire la verità su di sé, per scoprire la vita ed è il punto di partenza
per iniziare una autentica relazione con gli altri.
E infine il terzo testo, un detto dei padri del deserto. È la risposta che un anziano dà ad un
giovane monaco che fatica a gestire le relazioni con gli altri.
«Un fratello chiese ad abba Matoes: ‘Che devo fare? La mia lingua mi è causa di
afflizione: quando giungo in mezzo agli altri non riesco a trattenerla, ma in ogni loro
buona azione trovo da giudicarli e accusarli. Che devo dunque fare?’ L’anziano gli
rispose: ‘Fuggi nella solitudine. È debolezza infatti. Chi vive con dei fratelli, non deve
essere un cubo, ma una sfera, per poter rotolare verso tutti’. E disse: ‘Non per virtù
vivo in solitudine, ma per debolezza; sono forti infatti quelli che vanno in mezzo agli
uomini»3.
Ammiriamo l’onestà e l’umiltà dell’anziano, ma dobbiamo anche riconoscere che scegliere la
solitudine perché non si sa vivere con gli altri può essere una soluzione realistica, ma non è
l’ideale. Però è indicativo di una situazione: spesso la scelta della solitudine è una fuga dalle
relazioni, una paura di confrontarsi con la diversità, una paura di mettere in discussione le
proprie sicurezze, una pretesa di autonomia che non sa riconoscere il bisogno dell’altro.
Quando si vive questo tipo di solitudine bisogna anzitutto avere il coraggio di riconoscere la
1
BLAISE PASCAL, Pensieri, tr. A. Bausola (=Testi a fronte 5) Milano 1993, p.l21 (Pensieri 201. 205).
2 L.MANICARDI, La vita interiore oggi, (= Testi di meditazione 89) Bose/Magnano (Qiqajon) 1999, p.17.
3
Matoes 13: Vita e detti dei Padri del deserto, II, cur. L. Mortari, Città Nuova, Roma 1975, p. 43.
2 propria debolezza, cioè riconoscere le fatiche nelle relazioni e non “scaricarle” sugli altri.
Come ha fatto quell’anziano che ha il coraggio di dire: sono forti, infatti quelli che vanno in
mezzo agli uomini. Di fronte a questa solitudine, a questa fuga dalle relazioni, forse
converrebbe farsi sempre la domanda suggerita dalla immagine usata dal monaco del deserto:
sono sferico o sono spigoloso? Una sfera, ci ricorda l’anziano, rotola verso tutti: appena la si
appoggia a terra si muove subito ed è aperta ad in direzione. Un oggetto spigoloso avanza con
fatica e se urta produce danni, fa male. Per la sua forma, la sfera non tiene nascosto nessun
lato: tutto è omogeneo e visibile. Un cubo mostra solo una faccia della sua forma, tenendo
nascoste le altre. Una sfera la si può tenere comodamente in mano; un oggetto con tanti
spigoli bisogna prenderlo con molta precauzione per evitare di farsi male. Sono sferico o
spigoloso? Uno può essere sferico o spigoloso per struttura umana o per carattere, ma un
oggetto spigoloso può perdere la sua spigolosità, può ridurla se si lascia urtare e smussare
dagli altri. Sta anche qui la fatica delle relazioni. Lo esprime con un linguaggio molto
realistico Giovanni Climaco quando scrive: «Come una pietra appuntita e dura, se urta e
sbatte contro altre pietre, smussa tutte le sue punte e tutta la sua durezza e diventa rotonda,
così anche un’anima spigolosa e rigida, se si mescola ad una folla di uomini duri ed
irascibili, e vive insieme ad essi, dovrà scegliere tra una delle due cose: o curerà al propria
ferita per mezzo della pazienza, o, se si ritira, dovrà assolutamente riconoscere la propria
debolezza, perché quella sua vile fuga, come uno specchio, gliela manifesterà in modo
evidente»4.
2. Fuggire la solitudine, subire la solitudine, cercare la solitudine
I tre testi che abbiamo proposto ci pongono di fronte a tre tipi di solitudine: c’è una solitudine
fuggita perché si ha paura di collocarsi di fronte a sé stessi; c’è una solitudine subita perché si
ha paura di confrontarsi con gli altri; c’è una solitudine cercata perché si desidera entrare
veramente in relazione con Dio, con se stessi, con gli altri.
Questi tre tipi di solitudine ci suggeriscono alcune considerazioni.
2.a. Il peso e la fatica della solitudine
Nella nostra esperienza la solitudine può rivestirsi di ambiguità e trasformare la stessa vita in
un peso. Questo avviene quando essa crea paura o quando diventa un luogo di fuga.
• La fuga dalla solitudine. Pascal notava come niente è insopportabile all’uomo quanto
di essere in un completo riposo, senza passioni, senza faccende, senza divertimento,
senza un’occupazione. Niente è insopportabile all’uomo, si potrebbe aggiungere,
quanto la solitudine della inattività, della impossibilità di agire. In questa situazione ci
si accorge che non ci sono più vie di fuga e che in questo simbolico deserto in cui si è
costretti a rimanere ci si scontra con la realtà di sé stessi, con la propria verità e
soprattutto con la propria fragilità. Si ha la sensazione di essere lasciati soli di fronte
alla vita, di essere inadeguati e incapaci di affrontarla. Allora emerge la paura, il senso
di vuoto, l’angoscia e si preferisce scappare da questo luogo di verità. E tante sono le
forme di fuga che illudono: dall’immergersi nella folla, dall’isolarsi in una solitudine
bombardata da rumori o immagini (vedi l’uso del cellulare o di internet), dall’aver
sempre bisogno di parlare, fino allo stordirsi di impegni o di evasioni. Ma
paradossalmente in queste situazioni illusorie, uno si sente ancora più solo e ancora
più angosciato di fronte alla sua solitudine. A questo proposito è interessante il fatto
che molti di coloro che vengono in un monastero hanno, come primo impatto di fronte
4
Giovanni Climaco, Scala del Paradiso VIII, 12: Id., La Scala, cur. L. D’Ayala Valva, Qiqajon, Bose/Magnano
2005, p.212.
3 al silenzio o alla solitudine, un senso di angoscia e un bisogno di fuga. Reazione
normale, ma indicativa di uno stato di disagio più profondo che deve essere affrontato.
E il primo passo è proprio entrare e rimanere nella solitudine.
• La solitudine come fuga. Ma paradossalmente la solitudine può diventare un luogo
ambiguo quando viene ricercata proprio come fuga dalle responsabilità della vita e
soprattutto dalle responsabilità delle relazioni. Ci si isola, si preferisce stare da soli,
impostare la propria vita senza riferimento ad altri, in una illusoria autonomia. Questo
isolamento si trasforma in una chiusura agli altri, in un rigetto del desiderio degli altri,
in una paura dell’alterità. A volte vari fallimenti nelle relazioni creano una sfiducia
nell’altro che alla fine porta a scegliere la solitudine oppure relazioni senza impegno
che però rimandano ancora ad una solitudine.
Si può tuttavia notare che queste due reazioni di fronte alla solitudine sono profondamente
legate: la incapacità a stare da soli rende poi difficile un’autentica relazione con gli altri.
«Solo chi non teme di scendere nella propria interiorità sa anche affrontare l’incontro con
l‘alterità. Ed è significativo che molti dei disagi e delle malattie “moderne”, che riguardano la
soggettività, arrivino anche ad inficiare la qualità della vita relazionale: per esempio,
l’incapacità di interiorizzazione, di abitare la propria vita interiore, diviene anche incapacità di
creare e vivere relazioni solide, profonde e durature con gli altri»5.
Le vicende della vita possono portare un uomo o una donna ad affrontare periodi di solitudine
o, addirittura, a trasformare la solitudine in uno “stato di vita” (si pensi alla perdita di una
persona con cui si era condiviso un cammino, oppure alla frustrazione del desiderio di una
vita a due, oppure a certe scelte che non possono essere vissute che in solitudine). Uno si
trova a vivere una solitudine non scelta. Ed è inevitabile che in questa situazione emergano
tutte le fatiche della solitudine: il bisogno di relazioni, l’infecondità, il sentirsi solo di fronte
alla vita. Che fare? Subire questa solitudine oppure abitarla per scoprire in essa una parola di
vita? E quale può essere la parola di vita custodita nella solitudine?
2.b. Abitare e ascoltare la solitudine
C’è una espressione che spesso ritorna sulle labbra dei monaci del deserto, rivolta soprattutto
a chi è tentato di fuggire dal luogo scelto per dimorarvi: «Rimani nella tua cella e la tua cella
ti insegnerà ogni cosa». La cella è il luogo in cui il monaco trascorre la sua vita; ma è anche il
luogo della solitudine, in cui il monaco si ritira per entrare in una profonda relazione con il
Signore. Ma questo luogo attraverso il quale si entra nell’incontro con se e con Dio, deve
essere frequentato con assiduità: in esso si deve rimanere senza fuggire, anche quando le mura
della cella diventano troppo strette e la solitudine troppo pesante. Solo rimanendo allora si
può accogliere il magistero dio questo luogo e della solitudine che in esso si incontra. La cella
è una metafora del luogo simbolico in cui uno sceglie di vivere: ha sia una valenza
esistenziale indicando così lo spazio in cui matura la propria scelta di vita, sia una valenza
concreta indicando l’esperienza del rimanere soli. Bisogna avere il coraggio di rimanere in
solitudine; anzi è necessario educarsi alla solitudine affinché la solitudine ci educhi, ci riveli i
valori che custodisce, ci apra i tesori profondi che racchiude. Questa necessità di educarsi alla
solitudine vale sia per chi vive concretamente da solo, sia per chi condivide il cammino con
altri. In questo senso la solitudine abitata e ascoltata è un valore essenziale per la maturazione
di una persona. Ecco perché la solitudine non deve essere fuggita: anche se spaventa, anche se
è faticoso abitarvi, alla fine deve essere scelta, almeno in certi momenti, perché divenga un
terreno fecondo per la vita. Bisogna imparare a chiudere la porta della propria camera e
mettersi in ascolto di quel silenzio che ci parla di Dio, di noi stessi, degli altri e del mondo.
5
E. Bianchi, Le parole della spiritualità, Milano/Rizzoli, 1999, p.181.
4 Come ci si educa alla solitudine e a che cosa educa la solitudine? Vorrei sottolineare alcuni
aspetti che possono aiutarci ad apprezzare e ad accogliere positivamente questa esperienza.
• Anzitutto nella solitudine non siamo educati ad abitare con noi stessi. Habitare secum
è una espressione che spesso ritorna nel monachesimo antico. E questo è più che mai
urgente oggi in quanto siamo continuamente provocati ad esser “fuori di se stessi”, a
rifugiarci nella folla, in un anonimato che crea solitudini spersonalizzanti e facciamo
fatica ad incontrarci e ad amarci nella verità. «Chi assume la solitudine è colui che
mostra il coraggio di guardare in faccia sé stesso, di riconoscere, di accettare come
proprio compito quello di “divenire sé stesso”; è l’uomo umile che vede nella propria
unicità il compito che lui e solo lui può realizzare… La solitudine guida l’uomo alla
conoscenza di se e gli richiede coraggio»6.
• Di conseguenza la solitudine educa a scendere nella interiorità per scoprire quali sono
i veri valori della vita, per ascoltare il pulsare della vita, per scoprire che anzitutto la
vita non è una conquista ma un dono. Come scriveva Etty Hillsum: «Oggi voglio
ritirarmi a riposare nel mio silenzio: nello spazio del mio silenzio interiore a cui
chiedo ospitalità per un giorno intero. Forse riuscirò a riposarmi così’… Passerò tutto
il giorno in un angolino di quella gran sala silenziosa che ho dentro di me»7. Questa
sala silenziosa che abbiamo dentro di noi è il vero luogo in cui può rivelarsi in tutta la
sua bellezza il segreto della vita. E dobbiamo desiderare di scendervi.
• Nella solitudine si è educati scoprire il grande valore del silenzio. Non del mutismo,
ma di un silenzio abitato, un silenzio che è ascolto, un silenzio che apre alla vera
parola. Se uno sa abituarsi a stare in silenzio, chiudendo la porta della propria camera
(non solo quella materiale, ma anche quella del cuore) allora saprà riconoscere le vere
parole: quelle mute della natura, quelle autentiche che comunicano bontà e bellezza, e
in fine la Parola stessa di Dio. Oggi abbiamo bisogno di parole vere, parole che sanno
comunicare vita e pace. Ma «la giusta parola nasce dal silenzio e il giusto silenzio
nasce dalla parola» (D. Bonhoeffer)8. Parola e silenzio sono l’uno la porta aperta
dell’altro.
I valori a cui educa la solitudine non sono valori chiusi in se stessi; con un gioco di parole, si
potrebbe dire che la solitudine non isola ma apre alla relazione. Anzi diventa la qualità
profonda di ogni autentica relazione. Anzi essa è essenziale alla relazione, «consente la verità
della relazione e si comprende proprio all’interno della relazione. Capacità di solitudine e
capacità di amore sono proporzionali. Forse la solitudine è uno dei grandi segni
dell’autenticità dell’amore. Scrive Simone Weil: “Preserva la tua solitudine. Se mai verrà il
giorno in cui ti sarà dato un vero affetto, non ci sarà contrasto fra la solitudine inferiore e
l’amicizia; anzi, proprio da questo segno ineffabile la riconoscerai”»9.
• Gesù invita a entrare nella camera per incontrare il Padre celeste nella verità del
proprio essere. È dunque nella solitudine che si affina la nostra relazione con Dio; non
è nel rumore della folla, nel frastuono che ci fa evadere dalla nostra interiorità, che
impariamo a riconoscere l’approssimarsi di Dio e lo incontriamo. Come ci ricorda il
profeta Osea: «La condurrò nel deserto e là parlerò al suo cuore». Certamente Dio ci
parla ovunque, anche in mezzo alla folla. Ma ci abituiamo a riconoscere la sua
presenza discreta solo se sappiamo ascoltarlo nel silenzio: qui ci apprestiamo al
discernimento della sua presenza in noi che è come «il sussurro di una brezza leggera»
(1Re 19), qui risuona la sua parola nel nostro cuore. Solo così potremmo riconoscere
6
Ibid., p. 182.
Il Silenzio. Pagine mistiche di santi e maestri spirituali, cur. R. Russo, Gribaudi/Milano, pp. 32-33.
8
Ibid., p.26.
9
E. Bianchi, p. 182.
7
5 la sua voce anche in mezzo al rumore della città. Perché il deserto? Semplicemente
perché nel deserto siamo soli, senza appigli o distrazioni, senza fughe. Certo il deserto
è un luogo temibile perché ci evoca la solitudine della morte, perché in esso siamo
tentati, perché ci appaiono i nostri idoli. Ma è lì che impariamo ad affidarci
completamente a Dio e, affidandoci a lui, riconoscerlo come nostro Signore e come
Colui che ci ama e vuole entrare in comunione con noi. «Quando ci si ama – scrive
Madeleine Delbrel – si vuole stare insieme e quando si sta insieme ci si desidera
parlare. Quando ci si ama, è penoso avere sempre gente intorno. Quando ci si ama, si
vuole ascoltare l’altro, solo, senza che voci estranee ci vengano a turbare. Per questo
coloro che amano Dio hanno sempre sognato il deserto, per questo a coloro che
l’amano, Dio non può rifiutarlo»10. Questa è la qualità della relazione con Dio.
• Ma nella solitudine noi impariamo a scoprire l’autentica relazione con l’altro. La
dialettica tra stare da soli e stare con gli altri dà veramente qualità alle relazioni. In
Vita comune così scrive D. Bonnhoefer: «Chi non sa stare da solo, si guardi dal
cercare la comunione…Ma viceversa è vero anche che chi non si trova in comunione,
si guardi dallo star da solo…Sappiamo che esclusivamente nella comunione
riusciamo ad essere soli ed esclusivamente chi è solo è in grado di vivere la
comunione. Sono due cose interdipendenti. Esclusivamente nella comunione
impariamo ad essere soli nel modo giusto, ed esclusivamente nella solitudine
impariamo ad essere nella comunione in modo giusto. Non si ha la precedenza di una
condizione sulle altre, ma esse si determinano contemporaneamente con la chiamata
di Gesù Cristo. Ognuna delle due isolatamente presa presenta pericoli di cadute
vertiginose. Chi vuole la comunione senza la solitudine è risucchiato nel vuoto delle
parole e dei sentimenti, chi cerca la solitudine senza la comunione, sprofonda nella
vanità, nella autoinfatuazione, nella disperazione…»11. Perché è necessario stare da
soli per imparare a stare veramente con gli altri? Nella solitudine noi accogliamo la
nostra unicità in quanto scopriamo chi siamo realmente: essere irrepetibili ma anche
fragili e bisognosi dell’altro per giungere a pienezza. Scopriamo di essere allo stesso
tempo soli e bisognosi di comunione. L’altro allora, anche lui nella sua solitudine e
irrepetibilità, uguale a me e anche completamente diverso, diventa necessario per la
mia vita e nella relazione con lui, nel dono della mia unicità, diventa cammino di
comunione e di pienezza. L’altro non mi crea più paura (questo è il risultato di una
solitudine non vera, quella dell’individualismo, quella del peccato), ma diventa il
punto di arrivo del mio dono, della ricchezza che ho in me. E viceversa. E questo ci fa
capire che anche nella solitudine, non si è mai soli: nel nostro cuore portiamo sempre
l’altro e gli altri. Come dice in modo stupendo G. Bernanos nel suo Diario di un
curato di campagna: «Il silenzio interiore non mi ha mai isolato dagli esseri. Mi pare
che essi vi entrino, e allora li ricevo come sulla porta della mia casa. Ci vengono,
senza dubbio, a loro insaputa. Ahimè, non posso fare altro che offrire a loro un riparo
posticcio! Ma immagino i silenzi di certe anime come degli immensi luoghi di asilo. I
poveri peccatori, allo stremo delle forze, v’entrano a tentoni, vi si addormentano e se
ne vanno afflitti senza conservare alcun ricordo del grande tempio invisibile dove, per
un momento, hanno deposto il loro fardello»12.
Essere educati alla solitudine non è privilegio di pochi. Certo, alcuni possono sceglierlo come
stato di vita, altri come momento necessario per ritrovare la verità della propria esistenza, di
se stessi, delle proprie scelte, della propria relazione con Dio e con gli altri. Ma la solitudine
10
Il silenzio, pp. 53-54.
D. Bonhoeffer, Vita comune. Il libro della preghiera della Bibbia, Queriniana, Brescia 1991, pp. 59-60.
12
Il silenzio, p.44.
11
6 vera è necessaria per tutti. Bisogna però abitarla, e non subirla o fuggirla. Anche quando le
vicende della vita possono portare a vivere quella solitudine che può diventare un peso, prima
o poi si pone la scelta: o vivere sotto questo peso o imparare a portarlo, nella speranza che
esso mi insegni qualcosa di me e degli alteri. Allora forse si scoprire che la vera solitudine,
quella che deve essere temuta, non è lo stare da soli in silenzio in una camera, ma il non
sapere stare con se stessi e il non entrare in vera comunione con gli altri, pur essendo immersi
in mezzo alla folla. E termino con queste parole del saggio cinese Lao Tse (VII secolo AC):
“Siete capaci di custodire la vostra anima vagabonda, di inserirla nell’unità e mai
abbandonarla? Siete capaci di concentrare il vostro soffio vitale e addolcirlo perché sia come
quello di un bambino? Siete capaci di purificare la vostra contemplazione interiore fino
all’ultima scoria?… Senza oltrepassare la porta della vostra camera, potrete conoscere il
mondo. Senza guardare dalla finestra, voi potete veder il cammino del cielo. Più lontano
andrete e meno conoscerete. Così il saggio arriva alla conoscenza senza viaggiare. Vede senza
guardare e trionfa senza far rumore”13.
Padre Adalberto Piovano O.S.B.
13
LECLERCQ, ‘Eloge de la strabilité, pp.259-260.
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