Solitudine: pena o grazia?
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Solitudine: pena o grazia?
Solitudine: pena o grazia? All’inizio del libro di Giobbe, compare questa lucida costatazione pronunciata dal protagonista dopo che la sventura si è abbattuta su di lui: «Nudo uscii dal grembo di mia madre e nudo vi ritornerò» (Gb 1,2). Di fronte alla vita e di fronte alla morte l’uomo è nudo, senza difese, senza sostegno: entra nella vita solo, uscendo da una solitudine protetta per affrontare l’avventura del vivere ed esce dalla vita affrontando la morte nella solitudine. Si deve riconoscere che la solitudine è un elemento antropologico costitutivo. Eppure entrando nella vita, l’uomo impara a conoscere i suoi simili, ad intessere con loro relazioni, ad incontrarli e a comunicare con essi. Scopre così di essere fatto per la relazione, di non poter vivere la sua singolarità e unicità chiudendosi nella solitudine; scopre di aver bisogno degli altri e di donare agli altri per poter vivere in pienezza. È, in fondo, questo il paradosso dell’uomo: la sua unicità lo porta alla solitudine, a sentirsi come “solo” di fronte alla vita; ma la stessa unicità e irripetibilità del suo mistero lo porta ad incontrare gli altri. Come diceva Thomas Merton, “nessun uomo è un’isola”. Credo che la sfida che dobbiamo affrontare risieda proprio in questo paradosso, in questa apparente contraddizione: saper affrontare la propria solitudine nell’equilibrio di una relazione con glia altri. Devo ammettere che in un certo senso questa sfida è un po’ inscritta nella mia esperienza, anzi diventa la struttura quotidiana della mia vita. Sono un monaco cenobita un monaco che vive con altri fratelli nella vita comune. “Monaco” significa colui che vive nella solitudine per giungere alla piena unificazione (“solo” e “uno” sono i due significati della parola monaco). Ma questa solitudine si confronta con altri che desiderano compiere lo stesso cammino; anzi questa ricerca di unificazione è mediata dalla comunione con dei fratelli. In fondo sta qui la sfida della vita monastica nella sua forma cenobitica. Certo la vita monastica vive anche una solitudine più strutturale che la porta ad una certa marginalità rispetto al mondo, alla società: questo bisogno di solitudine e di silenzio porta i monaci a cercare luoghi appartati, lontano dal frastuono della città. Ma in fondo tutto si gioca poi su questo equilibrio che è proprio di ogni uomo: essere soli ed esse in relazione. Le mie riflessioni saranno dunque quelle di un monaco che cerca ogni giorno di abitare n questo paradosso. 1. I volti della solitudine Tre testi possono orientare la nostra riflessione. Ognuno di essi presenta un aspetto della solitudine, ma anche ne rivela la fatica e a volte l’ambiguità. Il primo testo è tratto dal vangelo dei Matteo: «quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,5-6). Gesù pone il discepolo di fronte a due possibili modi di agire, a due scelte che orientano in profondità la stessa vita. Si può vivere continuamente in “piazza” o, se si vuole, “in vetrina”, illusi di gestire le proprie relazioni con gli altri senza veramente affrontare la verità della propria vita, schiavi del giudizio degli altri. Oppure si ha il coraggio di guardare in faccia il proprio volto interiore e lasciarlo illuminare da chi veramente può rivelarcelo nella sua verità per entrare in una relazione feconda non solo con Dio ma anche con gli altri. Questa scelta suppone una solitudine, un entrare nella camera e chiudere la porta, rimanendo “nudo” di fronte a Dio e lasciando che sia lui a guardarci nella verità. Altrimenti la paura di questa 1 solitudine ci porta a cercare una falsa relazione con gli altri e, quindi, a diventare come gli altri ci vogliono. Il secondo testo è di Blaise Pascal. Il filosofo così annota nei suoi Pensieri: «Niente è insopportabile all’uomo quanto di essere in un completo riposo, senza passioni, senza faccende, senza divertimento, senza un’occupazione. Avverte allora il proprio nulla, il proprio abbandono, la propria insufficienza, la propria indipendenza, il proprio vuoto. Subito saliranno dal profondo dell’animo suo la noia, l’umor nero, la tristezza, il cruccio, il dispetto, la disperazione. ...Ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa, dal non saper starsene in pace, in una camera»1. Siamo in continuità con il testo evangelico, ma mentre Gesù mette la solitudine in relazione con Dio, qui Pascal pone l’accento sulla relazione con se stessi. La frenesia dell’agire, l’immersione disordinata nelle relazioni, lo stordimento in tante forme di evasione, alla fine possono nascondere una paura della solitudine intesa soprattutto come paura di stare soli con se stessi. Perché si ha paura di stare con se stessi? Forse la paura di stare soli con sé stessi è la paura di intraprendere un pellegrinaggio dentro di se di cui non sempre si possono conoscere gli itinerari o gli imprevisti, né prevederne nei dettagli i movimenti o i passi. In questo simbolico cammino nella solitudine, si possono scoprire dentro di noi presenze o volti che non vorremmo vedere, che non vorremmo che esistessero. «Vedere in faccia se stessi è spesso fonte di disillusioni, è atto che spezza le idealizzazioni di sé, le immagini di noi che ci siamo forgiati. Tutto questo può implicare l’entrare in crisi e il subire ferite. Il lavoro di discesa nel proprio cuore, di ricerca della propria verità non lo intraprende chi ha paura delle ferite, della sofferenza che a lui ne può derivare. Quando la verità vuole rivelarsi all’uomo fa uso di un grande dolore: vi è sempre il prezzo di un’acuta sofferenza da pagare al disvelarsi della verità. La paura può paralizzare e impedire il cammino interiore, ma allora si resterà spettatori della vita ed essa ci passerà accanto come un’estranea»2. “Starsene in pace, in una camera”, come dice Pascal, non è facile perché la tentazione di fuggire da questa solitudine si fa presto sentire. Ma è la via per scoprire la verità su di sé, per scoprire la vita ed è il punto di partenza per iniziare una autentica relazione con gli altri. E infine il terzo testo, un detto dei padri del deserto. È la risposta che un anziano dà ad un giovane monaco che fatica a gestire le relazioni con gli altri. «Un fratello chiese ad abba Matoes: ‘Che devo fare? La mia lingua mi è causa di afflizione: quando giungo in mezzo agli altri non riesco a trattenerla, ma in ogni loro buona azione trovo da giudicarli e accusarli. Che devo dunque fare?’ L’anziano gli rispose: ‘Fuggi nella solitudine. È debolezza infatti. Chi vive con dei fratelli, non deve essere un cubo, ma una sfera, per poter rotolare verso tutti’. E disse: ‘Non per virtù vivo in solitudine, ma per debolezza; sono forti infatti quelli che vanno in mezzo agli uomini»3. Ammiriamo l’onestà e l’umiltà dell’anziano, ma dobbiamo anche riconoscere che scegliere la solitudine perché non si sa vivere con gli altri può essere una soluzione realistica, ma non è l’ideale. Però è indicativo di una situazione: spesso la scelta della solitudine è una fuga dalle relazioni, una paura di confrontarsi con la diversità, una paura di mettere in discussione le proprie sicurezze, una pretesa di autonomia che non sa riconoscere il bisogno dell’altro. Quando si vive questo tipo di solitudine bisogna anzitutto avere il coraggio di riconoscere la 1 BLAISE PASCAL, Pensieri, tr. A. Bausola (=Testi a fronte 5) Milano 1993, p.l21 (Pensieri 201. 205). 2 L.MANICARDI, La vita interiore oggi, (= Testi di meditazione 89) Bose/Magnano (Qiqajon) 1999, p.17. 3 Matoes 13: Vita e detti dei Padri del deserto, II, cur. L. Mortari, Città Nuova, Roma 1975, p. 43. 2 propria debolezza, cioè riconoscere le fatiche nelle relazioni e non “scaricarle” sugli altri. Come ha fatto quell’anziano che ha il coraggio di dire: sono forti, infatti quelli che vanno in mezzo agli uomini. Di fronte a questa solitudine, a questa fuga dalle relazioni, forse converrebbe farsi sempre la domanda suggerita dalla immagine usata dal monaco del deserto: sono sferico o sono spigoloso? Una sfera, ci ricorda l’anziano, rotola verso tutti: appena la si appoggia a terra si muove subito ed è aperta ad in direzione. Un oggetto spigoloso avanza con fatica e se urta produce danni, fa male. Per la sua forma, la sfera non tiene nascosto nessun lato: tutto è omogeneo e visibile. Un cubo mostra solo una faccia della sua forma, tenendo nascoste le altre. Una sfera la si può tenere comodamente in mano; un oggetto con tanti spigoli bisogna prenderlo con molta precauzione per evitare di farsi male. Sono sferico o spigoloso? Uno può essere sferico o spigoloso per struttura umana o per carattere, ma un oggetto spigoloso può perdere la sua spigolosità, può ridurla se si lascia urtare e smussare dagli altri. Sta anche qui la fatica delle relazioni. Lo esprime con un linguaggio molto realistico Giovanni Climaco quando scrive: «Come una pietra appuntita e dura, se urta e sbatte contro altre pietre, smussa tutte le sue punte e tutta la sua durezza e diventa rotonda, così anche un’anima spigolosa e rigida, se si mescola ad una folla di uomini duri ed irascibili, e vive insieme ad essi, dovrà scegliere tra una delle due cose: o curerà al propria ferita per mezzo della pazienza, o, se si ritira, dovrà assolutamente riconoscere la propria debolezza, perché quella sua vile fuga, come uno specchio, gliela manifesterà in modo evidente»4. 2. Fuggire la solitudine, subire la solitudine, cercare la solitudine I tre testi che abbiamo proposto ci pongono di fronte a tre tipi di solitudine: c’è una solitudine fuggita perché si ha paura di collocarsi di fronte a sé stessi; c’è una solitudine subita perché si ha paura di confrontarsi con gli altri; c’è una solitudine cercata perché si desidera entrare veramente in relazione con Dio, con se stessi, con gli altri. Questi tre tipi di solitudine ci suggeriscono alcune considerazioni. 2.a. Il peso e la fatica della solitudine Nella nostra esperienza la solitudine può rivestirsi di ambiguità e trasformare la stessa vita in un peso. Questo avviene quando essa crea paura o quando diventa un luogo di fuga. • La fuga dalla solitudine. Pascal notava come niente è insopportabile all’uomo quanto di essere in un completo riposo, senza passioni, senza faccende, senza divertimento, senza un’occupazione. Niente è insopportabile all’uomo, si potrebbe aggiungere, quanto la solitudine della inattività, della impossibilità di agire. In questa situazione ci si accorge che non ci sono più vie di fuga e che in questo simbolico deserto in cui si è costretti a rimanere ci si scontra con la realtà di sé stessi, con la propria verità e soprattutto con la propria fragilità. Si ha la sensazione di essere lasciati soli di fronte alla vita, di essere inadeguati e incapaci di affrontarla. Allora emerge la paura, il senso di vuoto, l’angoscia e si preferisce scappare da questo luogo di verità. E tante sono le forme di fuga che illudono: dall’immergersi nella folla, dall’isolarsi in una solitudine bombardata da rumori o immagini (vedi l’uso del cellulare o di internet), dall’aver sempre bisogno di parlare, fino allo stordirsi di impegni o di evasioni. Ma paradossalmente in queste situazioni illusorie, uno si sente ancora più solo e ancora più angosciato di fronte alla sua solitudine. A questo proposito è interessante il fatto che molti di coloro che vengono in un monastero hanno, come primo impatto di fronte 4 Giovanni Climaco, Scala del Paradiso VIII, 12: Id., La Scala, cur. L. D’Ayala Valva, Qiqajon, Bose/Magnano 2005, p.212. 3 al silenzio o alla solitudine, un senso di angoscia e un bisogno di fuga. Reazione normale, ma indicativa di uno stato di disagio più profondo che deve essere affrontato. E il primo passo è proprio entrare e rimanere nella solitudine. • La solitudine come fuga. Ma paradossalmente la solitudine può diventare un luogo ambiguo quando viene ricercata proprio come fuga dalle responsabilità della vita e soprattutto dalle responsabilità delle relazioni. Ci si isola, si preferisce stare da soli, impostare la propria vita senza riferimento ad altri, in una illusoria autonomia. Questo isolamento si trasforma in una chiusura agli altri, in un rigetto del desiderio degli altri, in una paura dell’alterità. A volte vari fallimenti nelle relazioni creano una sfiducia nell’altro che alla fine porta a scegliere la solitudine oppure relazioni senza impegno che però rimandano ancora ad una solitudine. Si può tuttavia notare che queste due reazioni di fronte alla solitudine sono profondamente legate: la incapacità a stare da soli rende poi difficile un’autentica relazione con gli altri. «Solo chi non teme di scendere nella propria interiorità sa anche affrontare l’incontro con l‘alterità. Ed è significativo che molti dei disagi e delle malattie “moderne”, che riguardano la soggettività, arrivino anche ad inficiare la qualità della vita relazionale: per esempio, l’incapacità di interiorizzazione, di abitare la propria vita interiore, diviene anche incapacità di creare e vivere relazioni solide, profonde e durature con gli altri»5. Le vicende della vita possono portare un uomo o una donna ad affrontare periodi di solitudine o, addirittura, a trasformare la solitudine in uno “stato di vita” (si pensi alla perdita di una persona con cui si era condiviso un cammino, oppure alla frustrazione del desiderio di una vita a due, oppure a certe scelte che non possono essere vissute che in solitudine). Uno si trova a vivere una solitudine non scelta. Ed è inevitabile che in questa situazione emergano tutte le fatiche della solitudine: il bisogno di relazioni, l’infecondità, il sentirsi solo di fronte alla vita. Che fare? Subire questa solitudine oppure abitarla per scoprire in essa una parola di vita? E quale può essere la parola di vita custodita nella solitudine? 2.b. Abitare e ascoltare la solitudine C’è una espressione che spesso ritorna sulle labbra dei monaci del deserto, rivolta soprattutto a chi è tentato di fuggire dal luogo scelto per dimorarvi: «Rimani nella tua cella e la tua cella ti insegnerà ogni cosa». La cella è il luogo in cui il monaco trascorre la sua vita; ma è anche il luogo della solitudine, in cui il monaco si ritira per entrare in una profonda relazione con il Signore. Ma questo luogo attraverso il quale si entra nell’incontro con se e con Dio, deve essere frequentato con assiduità: in esso si deve rimanere senza fuggire, anche quando le mura della cella diventano troppo strette e la solitudine troppo pesante. Solo rimanendo allora si può accogliere il magistero dio questo luogo e della solitudine che in esso si incontra. La cella è una metafora del luogo simbolico in cui uno sceglie di vivere: ha sia una valenza esistenziale indicando così lo spazio in cui matura la propria scelta di vita, sia una valenza concreta indicando l’esperienza del rimanere soli. Bisogna avere il coraggio di rimanere in solitudine; anzi è necessario educarsi alla solitudine affinché la solitudine ci educhi, ci riveli i valori che custodisce, ci apra i tesori profondi che racchiude. Questa necessità di educarsi alla solitudine vale sia per chi vive concretamente da solo, sia per chi condivide il cammino con altri. In questo senso la solitudine abitata e ascoltata è un valore essenziale per la maturazione di una persona. Ecco perché la solitudine non deve essere fuggita: anche se spaventa, anche se è faticoso abitarvi, alla fine deve essere scelta, almeno in certi momenti, perché divenga un terreno fecondo per la vita. Bisogna imparare a chiudere la porta della propria camera e mettersi in ascolto di quel silenzio che ci parla di Dio, di noi stessi, degli altri e del mondo. 5 E. Bianchi, Le parole della spiritualità, Milano/Rizzoli, 1999, p.181. 4 Come ci si educa alla solitudine e a che cosa educa la solitudine? Vorrei sottolineare alcuni aspetti che possono aiutarci ad apprezzare e ad accogliere positivamente questa esperienza. • Anzitutto nella solitudine non siamo educati ad abitare con noi stessi. Habitare secum è una espressione che spesso ritorna nel monachesimo antico. E questo è più che mai urgente oggi in quanto siamo continuamente provocati ad esser “fuori di se stessi”, a rifugiarci nella folla, in un anonimato che crea solitudini spersonalizzanti e facciamo fatica ad incontrarci e ad amarci nella verità. «Chi assume la solitudine è colui che mostra il coraggio di guardare in faccia sé stesso, di riconoscere, di accettare come proprio compito quello di “divenire sé stesso”; è l’uomo umile che vede nella propria unicità il compito che lui e solo lui può realizzare… La solitudine guida l’uomo alla conoscenza di se e gli richiede coraggio»6. • Di conseguenza la solitudine educa a scendere nella interiorità per scoprire quali sono i veri valori della vita, per ascoltare il pulsare della vita, per scoprire che anzitutto la vita non è una conquista ma un dono. Come scriveva Etty Hillsum: «Oggi voglio ritirarmi a riposare nel mio silenzio: nello spazio del mio silenzio interiore a cui chiedo ospitalità per un giorno intero. Forse riuscirò a riposarmi così’… Passerò tutto il giorno in un angolino di quella gran sala silenziosa che ho dentro di me»7. Questa sala silenziosa che abbiamo dentro di noi è il vero luogo in cui può rivelarsi in tutta la sua bellezza il segreto della vita. E dobbiamo desiderare di scendervi. • Nella solitudine si è educati scoprire il grande valore del silenzio. Non del mutismo, ma di un silenzio abitato, un silenzio che è ascolto, un silenzio che apre alla vera parola. Se uno sa abituarsi a stare in silenzio, chiudendo la porta della propria camera (non solo quella materiale, ma anche quella del cuore) allora saprà riconoscere le vere parole: quelle mute della natura, quelle autentiche che comunicano bontà e bellezza, e in fine la Parola stessa di Dio. Oggi abbiamo bisogno di parole vere, parole che sanno comunicare vita e pace. Ma «la giusta parola nasce dal silenzio e il giusto silenzio nasce dalla parola» (D. Bonhoeffer)8. Parola e silenzio sono l’uno la porta aperta dell’altro. I valori a cui educa la solitudine non sono valori chiusi in se stessi; con un gioco di parole, si potrebbe dire che la solitudine non isola ma apre alla relazione. Anzi diventa la qualità profonda di ogni autentica relazione. Anzi essa è essenziale alla relazione, «consente la verità della relazione e si comprende proprio all’interno della relazione. Capacità di solitudine e capacità di amore sono proporzionali. Forse la solitudine è uno dei grandi segni dell’autenticità dell’amore. Scrive Simone Weil: “Preserva la tua solitudine. Se mai verrà il giorno in cui ti sarà dato un vero affetto, non ci sarà contrasto fra la solitudine inferiore e l’amicizia; anzi, proprio da questo segno ineffabile la riconoscerai”»9. • Gesù invita a entrare nella camera per incontrare il Padre celeste nella verità del proprio essere. È dunque nella solitudine che si affina la nostra relazione con Dio; non è nel rumore della folla, nel frastuono che ci fa evadere dalla nostra interiorità, che impariamo a riconoscere l’approssimarsi di Dio e lo incontriamo. Come ci ricorda il profeta Osea: «La condurrò nel deserto e là parlerò al suo cuore». Certamente Dio ci parla ovunque, anche in mezzo alla folla. Ma ci abituiamo a riconoscere la sua presenza discreta solo se sappiamo ascoltarlo nel silenzio: qui ci apprestiamo al discernimento della sua presenza in noi che è come «il sussurro di una brezza leggera» (1Re 19), qui risuona la sua parola nel nostro cuore. Solo così potremmo riconoscere 6 Ibid., p. 182. Il Silenzio. Pagine mistiche di santi e maestri spirituali, cur. R. Russo, Gribaudi/Milano, pp. 32-33. 8 Ibid., p.26. 9 E. Bianchi, p. 182. 7 5 la sua voce anche in mezzo al rumore della città. Perché il deserto? Semplicemente perché nel deserto siamo soli, senza appigli o distrazioni, senza fughe. Certo il deserto è un luogo temibile perché ci evoca la solitudine della morte, perché in esso siamo tentati, perché ci appaiono i nostri idoli. Ma è lì che impariamo ad affidarci completamente a Dio e, affidandoci a lui, riconoscerlo come nostro Signore e come Colui che ci ama e vuole entrare in comunione con noi. «Quando ci si ama – scrive Madeleine Delbrel – si vuole stare insieme e quando si sta insieme ci si desidera parlare. Quando ci si ama, è penoso avere sempre gente intorno. Quando ci si ama, si vuole ascoltare l’altro, solo, senza che voci estranee ci vengano a turbare. Per questo coloro che amano Dio hanno sempre sognato il deserto, per questo a coloro che l’amano, Dio non può rifiutarlo»10. Questa è la qualità della relazione con Dio. • Ma nella solitudine noi impariamo a scoprire l’autentica relazione con l’altro. La dialettica tra stare da soli e stare con gli altri dà veramente qualità alle relazioni. In Vita comune così scrive D. Bonnhoefer: «Chi non sa stare da solo, si guardi dal cercare la comunione…Ma viceversa è vero anche che chi non si trova in comunione, si guardi dallo star da solo…Sappiamo che esclusivamente nella comunione riusciamo ad essere soli ed esclusivamente chi è solo è in grado di vivere la comunione. Sono due cose interdipendenti. Esclusivamente nella comunione impariamo ad essere soli nel modo giusto, ed esclusivamente nella solitudine impariamo ad essere nella comunione in modo giusto. Non si ha la precedenza di una condizione sulle altre, ma esse si determinano contemporaneamente con la chiamata di Gesù Cristo. Ognuna delle due isolatamente presa presenta pericoli di cadute vertiginose. Chi vuole la comunione senza la solitudine è risucchiato nel vuoto delle parole e dei sentimenti, chi cerca la solitudine senza la comunione, sprofonda nella vanità, nella autoinfatuazione, nella disperazione…»11. Perché è necessario stare da soli per imparare a stare veramente con gli altri? Nella solitudine noi accogliamo la nostra unicità in quanto scopriamo chi siamo realmente: essere irrepetibili ma anche fragili e bisognosi dell’altro per giungere a pienezza. Scopriamo di essere allo stesso tempo soli e bisognosi di comunione. L’altro allora, anche lui nella sua solitudine e irrepetibilità, uguale a me e anche completamente diverso, diventa necessario per la mia vita e nella relazione con lui, nel dono della mia unicità, diventa cammino di comunione e di pienezza. L’altro non mi crea più paura (questo è il risultato di una solitudine non vera, quella dell’individualismo, quella del peccato), ma diventa il punto di arrivo del mio dono, della ricchezza che ho in me. E viceversa. E questo ci fa capire che anche nella solitudine, non si è mai soli: nel nostro cuore portiamo sempre l’altro e gli altri. Come dice in modo stupendo G. Bernanos nel suo Diario di un curato di campagna: «Il silenzio interiore non mi ha mai isolato dagli esseri. Mi pare che essi vi entrino, e allora li ricevo come sulla porta della mia casa. Ci vengono, senza dubbio, a loro insaputa. Ahimè, non posso fare altro che offrire a loro un riparo posticcio! Ma immagino i silenzi di certe anime come degli immensi luoghi di asilo. I poveri peccatori, allo stremo delle forze, v’entrano a tentoni, vi si addormentano e se ne vanno afflitti senza conservare alcun ricordo del grande tempio invisibile dove, per un momento, hanno deposto il loro fardello»12. Essere educati alla solitudine non è privilegio di pochi. Certo, alcuni possono sceglierlo come stato di vita, altri come momento necessario per ritrovare la verità della propria esistenza, di se stessi, delle proprie scelte, della propria relazione con Dio e con gli altri. Ma la solitudine 10 Il silenzio, pp. 53-54. D. Bonhoeffer, Vita comune. Il libro della preghiera della Bibbia, Queriniana, Brescia 1991, pp. 59-60. 12 Il silenzio, p.44. 11 6 vera è necessaria per tutti. Bisogna però abitarla, e non subirla o fuggirla. Anche quando le vicende della vita possono portare a vivere quella solitudine che può diventare un peso, prima o poi si pone la scelta: o vivere sotto questo peso o imparare a portarlo, nella speranza che esso mi insegni qualcosa di me e degli alteri. Allora forse si scoprire che la vera solitudine, quella che deve essere temuta, non è lo stare da soli in silenzio in una camera, ma il non sapere stare con se stessi e il non entrare in vera comunione con gli altri, pur essendo immersi in mezzo alla folla. E termino con queste parole del saggio cinese Lao Tse (VII secolo AC): “Siete capaci di custodire la vostra anima vagabonda, di inserirla nell’unità e mai abbandonarla? Siete capaci di concentrare il vostro soffio vitale e addolcirlo perché sia come quello di un bambino? Siete capaci di purificare la vostra contemplazione interiore fino all’ultima scoria?… Senza oltrepassare la porta della vostra camera, potrete conoscere il mondo. Senza guardare dalla finestra, voi potete veder il cammino del cielo. Più lontano andrete e meno conoscerete. Così il saggio arriva alla conoscenza senza viaggiare. Vede senza guardare e trionfa senza far rumore”13. Padre Adalberto Piovano O.S.B. 13 LECLERCQ, ‘Eloge de la strabilité, pp.259-260. 7