Relazione elegante
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Relazione elegante
LIBRO IN ASSAGGIO SE DOMANI FARA BEL TEMPO DI LUCA BIANCHINI Se proprio devi morire, è meglio farlo guidando una Cadilac Eldorado. Mia madre me lo ripete ogni giorno. Peccato che noi non abbiamo mai avuto una Cadilac. A casa nostra abbiamo distrutto solo Mercedes, le migliori, due Porsche, una Lamborghini Diablo, un’Aston Martin e il mio Maggiolino, tre volte. Ah, naturalmente anche la Panda per il personale di servizio, quando la prendevo di nascosto prima di avere la patente. Mia madre vuole che i camerieri abbiano sempre un’auto riconoscibile, e ha scelto il Pandino perché crede che metta loro allegria. Come avrete capito, siamo una famiglia che ama la velocità, le belle macchine e le buone maniere. La capofamiglia, in particolare: potrebbe scrivere un saggio sul cenno con cui a tavola rifiuta da bere, anche se è un gesto che non compie quasi mai. E il modo in cui si asciuga la bocca prima di sorseggiare il suo Chevalier-Montrachet? Impeccabile e insopportabile, come è lei la maggior parte del tempo. Ma non l’ho mai odiata quanto quella mattina, quando spalancò la porta di camera mia e mi trovò con la sigaretta accesa e gli occhi spenti. Ero veramente sotto, sottissimo, e lei riuscì a farmi solo un’unica, drammatica domanda: Ti hanno di nuovo ritirato la patente? Non le interessava la risposta — in cuor suo forse sapeva che era una domanda del cazzo — ma in quel momento aveva ‘una fremente priorità: l’open day a scuola di Maria Lorena, la mia sorellina-sorellastra. Sette anni e mezzo, erre moscia come la mia, apparecchio colorato, un’ammirazione proibita per le Winx, una chiara inattitudine per la danza classica e tendenza a parlare di soldi come quel tirchio di suo padre. Però, in fondo, ho sempre voluto bene alla mia Lola, e le avevo promesso che sarei andato a vederla al suo ultimo giorno all’International School Lei e i compagni avevano fatto con le loro manine oggetti che sarebbero stati battuti all’asta fra i genitori. Profitti in beneficenza per la costruzione di una scuola in Africa, sai che novità. Era una mattina di giugno senza sole, con grandi nuvole che intasavano il cielo di Milano come il traffico cittadino. Io avevo un solo, grande desiderio: essere investito da una macchina appena uscito di casa, magari una Cadillac Eldorado. Quella sì che sarebbe stata una morte grandiosa. Poi vedere mia madre che mi scorge dalla finestra con il gessetto bianco intorno, e mi piange per un attimo da lì, prima di pensare a quale cappello mettersi per il funerale. E poi cosa scrivere sui biglietti di ringraziamento? E come dare l’annuncio ai giornali per fare sapere che “non fiori, ma opere di bene alla Rockefeller Foundation”? Uh, quanti problemi se muoio, per una madre come la mia. Anita mi aveva lasciato quella mattina. Dopo tre anni, due mesi, sette giorni e una manciata di ore, forse sei. E sentivo che non sarebbe più tornata indietro. Me n’ero accorto dal modo in cui aveva chiuso la porta, senza un attimo d’indecisione, senza nervosismi, senza nessun cedimento delle gambe. Un colpo secco e stop, il passato alle spalle. Aveva trovato un sasso nel bagno, la sera prima. Era andata su tutte le furie, delusa e alterata come ogni volta che una discussione si ripete — quando si litiga spesso, si litiga sempre con le stesse dinamiche, con le medesimelo pause — e mi aveva supplicato di lasciarlo lì, quel sasso, almeno per un giorno. Non c’ero riuscito. Non ci sarei mai riuscito. Al mattino, dopo una notte insonne per entrambi, aveva fatto un’inutile doccia di riflessione, si era preparata per andare a catalogare i suoi Pistoletto da Sotheby’s e mi aveva detto: - Non siamo più uguali, Leon. Io ero troppo fatto per capire, prima che per dire qualcosa, e le avevo risposto “fanculo-tu-e-i-tuoi-quadri” senza conoscere il significato di quella sequenza. Avevo un gran mal di testa per starmi a sentire, e soprattutto per ascoltare il suo addio senza lacrime. Ma quando un paio d’ore dopo ho rivisto la foto farsi più nitida, ho capito che Anita non sarebbe più tornata sui suoi passi. Ed è stato lì che gli Stones hanno iniziato a cantare Angie nella mia testa. Ed è stato li che mia madre ha fatto irruzione in stanza con il fottutissimo open day di Lola. — Per l’asta dei ragazzi ci raggiunge anche Pierandrea, perciò vedi di ricomportì che tra poco passa a prenderci Amedeo. Quindi, anche se non hai la patente, non importa. — E ricordati la camicia. Ventisette anni. Ventisette anni a sentire “ricordati-lacamicia” e non sapere mai come ribattere. Mi guardai allo specchio cercando di ricompormi. Le regole, innanzitutto le regole. Le regole che mi avevano tramandato, quelle che mi avevano schiacciato. Le regole che mi avevano permesso fino a quel giorno di non lavorare. Vivere era il mio lavoro, ed era un lavoro che non mi piaceva più di tanto. Soprattutto quella mattina di giugno — maledetto giugno, che dio ti fulmini e ti trasformi in un novembre piovoso che nemmeno l’irlanda — in cui a tutto avrei voluto pensare tranne che vedere mia madre a un’asta delle scuole elementari. Conoscete punizione peggiore per uno che è appena stato lasciato dalla donna più bella di Milano? A parte restare bioccati in ascensore con un portavoce del Vaticano, intendo. Ma alla fine la camicia la misi. Una camicia di Caraceni con le mie belle iniziali ricamate tono su tono: LSD. Leonardo Sala Dugnani. Leon per gli amici (con l’accento sulla “o”, alla francese). Un ragazzo smarrito davanti a se stesso, questo ero, ma ancora in grado di ammettere il proprio sex appeal. Ora, non perché sia io, ma non si può proprio dire che sono un brutto ragazzo: ho occhi chiari, un naso appena deviato, capelli corti e scuri che taglio da solo, quasi a scodella, due fossette che m’illuminano il sorriso, un fisico tonico e tre tatuaggi. Fossi una donna, cederei subito al mio fascino, insomma. A meno che scoprissi il significato del mio tatuaggio preferito, una specie di simbolo orientale che per anni ho creduto volesse dire “lunga vita felice”. In realtà, una volta un cinese mi rivelò che significava “nuvolette di drago a tremila lire”. Ancora adesso non riesco a farmene una ragione. © 2007 ARNOLDO MONDADORI EDITORE S.P.A., MILANO