MARGOT di Mauro Mattiolo Un giorno mi piacerebbe tornare nei
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MARGOT di Mauro Mattiolo Un giorno mi piacerebbe tornare nei
MARGOT di Mauro Mattiolo Un giorno mi piacerebbe tornare nei boschi in cui sono nata ma non so se potrà mai accadere; pur avendo quattro gambe per spostarmi devo sempre dipendere dagli altri. Mi troverei fuori posto, lo so, e tuttavia sarebbe un’esperienza interessante, un ritorno alle radici nel vero senso della parola. Se le cose fossero andate in altro modo potrei essere ancora là, nel mezzo della foresta, a respirare anidride carbonica, distillando clorofilla nella bella stagione per poi cadere in un confortevole letargo durante l’inverno. Sarei una pianta tra le altre, bagnata dalla pioggia, asciugata dal sole, accarezzata dal vento, semplice e libera. La memoria di noi alberi è lenta, registra il tempo in cerchi concentrici costruiti seguendo il ritmo delle stagioni e imprigiona ogni istante nella materia stessa di cui siamo fatti. Fu il morso dell’ascia, seguito dal ronzio implacabile di una sega a motore, a risvegliarmi dal sonno il giorno in cui mi strapparono alla vita vegetale. Le mani degli uomini e le lame impietose delle loro macchine cambiarono la mia forma e con essa il senso della mia esistenza. Sepolta nella semioscurità di un magazzino sopportai l’attesa dell’ignoto mentre il tempo scorreva battendo un ritmo monocorde che non ero più in grado di riconoscere. Ero una cosa, adesso, non più un essere vivente, ma presto mi accorsi che potevo ancora percepire il mondo, se pure in modo differente. Imparai ad ascoltare le vibrazioni che mi attraversavano, a distinguerle e poi a catalogarle. Nessuna materia inanimata è sensibile quanto il legno. Vennero a prendermi e lo spazio attorno a me cambiò ancora, riassaporai l’abbraccio delicato della luce e anche se continuavo ad avvertire la mancanza del vento e della pioggia, ritrovai almeno il senso del tempo. Subito compresi che tutto era diverso, non ero più un oggetto tra gli altri, relegato in un angolo buio, gli uomini parevano aver deciso quale fosse il mio scopo e mi avevano posto al centro di qualcosa che per loro era davvero importante: una casa. Un uomo e una donna vivevano in quel luogo, era chiaro che ci erano arrivati da poco, proprio come me. La giovinezza riempiva di energia ogni loro movimento, il suono delle loro voci era spesso dolce e quando si sedevano accanto a me percepivo con chiarezza le emozioni che si scambiavano. Non ero nuova alle manifestazioni del mondo animale, anni di vita nel bosco mi avevano insegnato qualcosa sulla vita e il suo modo di perpetuarsi. Numerosi uccelli avevano nidificato tra le mie fronde ed esemplari di altre specie avevano compiuto i loro rituali di accoppiamento proprio accanto alle mie radici. Ciò che trovai in quei due esseri umani, tuttavia, non lo avevo mai incontrato prima. Ora so che si chiama amore. Il risentimento che avevo covato per la crudeltà con cui ero stata separata dalla terra poco alla volta si attenuò mentre iniziavo ad apprezzare il mio nuovo ruolo. Arrivavo a chiedermi come quelle due persone, così sensibili e capaci di attenzioni tra loro e verso di me, potessero appartenere alla stessa stirpe dei miei carnefici. Lei mi girava attorno con passi lievi, apparecchiandomi per la cena. Sentivo con piacere il tessuto leggero delle tovaglie stendersi sopra di me e sopportavo senza sforzo l’ordinata disposizione di ciò che sarebbe servito a consumare il pasto. I gesti precisi con cui depositava piatti, posate e bicchieri, oppure spostava di poco le bottiglie e il cestino del pane perché fossero proprio dove lei desiderava, erano pieni di attenzione e buoni propositi. Imparai a distinguere il profumo delle pietanze e trepidavo con lei sperando che ogni ricetta riuscisse alla perfezione. Soprattutto, adoravo il senso di attesa che si spandeva per ogni angolo della casa quando lui stava per arrivare e la gioia contagiosa che si sprigionava quando i suoi passi risuonavano nell’ingresso. Presto fui in grado di prevedere l’arrivo delle tempeste che a volte li travolgevano, i loro gesti avevano un ritmo impaziente e le loro voci un suono più caldo, quando stava per accadere. Di solito in quei frangenti mi abbandonavano all’improvviso per poi ritornare, accompagnati da un senso di sollievo e complicità. Lo fecero anche lì, proprio sopra di me e, per quanto mi fu possibile capire, si divertirono molto. C’erano giorni con un ritmo rilassato e altri frenetici, attraversati da scariche di ansia. C’erano momenti di festa in cui la casa si riempiva di ospiti e la mia preparazione era curata in ogni dettaglio perché lei sapeva che sarei stata al centro dell’attenzione. Avvertivo l’affetto delle persone che li venivano a trovare -genitori, parenti, amici- e ne godevo insieme a loro. Vibravo al suono delle risate quando scoppiavano fragorose; ascoltavo le conversazioni che saltavano da una bocca all’altra riempiendo l’aria di convivialità, uno dei doni più preziosi di cui gli uomini godono senza rendersene conto. Di tanto in tanto accadeva che una storia spiccasse il volo e volteggiasse leggera attorno a me, sospinta dalla brezza di un improvviso interesse. Le parole si depositavano nel silenzio che si era creato spontaneamente, come se ognuno avesse compreso che era arrivato il momento di tacere e ascoltare. La vita degli uomini accade una sola volta ma può ripetersi infinite altre attraverso il ricordo e il racconto, dimensioni parallele al presente dentro le quali ogni esperienza può essere rivissuta e condivisa. Questo è l’immenso privilegio che, forse più di ogni altro, distingue gli umani dalle altre specie. Un pomeriggio la sentii rincasare piena di allegria. Già da qualche tempo avevo avvertito un cambiamento in lei ma quando aprì la porta quel giorno era come se si muovesse trasportata da un vento leggero, carico di energia positiva. Preparò una cena più elaborata del solito, mi vestì con una delle tovaglie più fini e apparecchiandomi pose una candela proprio al centro. Gli disse una cosa quella sera, guardandolo attraverso la luce della fiammella accesa, e dopo quell’istante sentii che erano ancor più vicini. Iniziarono ad aspettare qualcosa d’importante, e io con loro. La piccolina arrivò d’estate e il suo fragile pianto riempì le notti per qualche tempo. Presto la sua vocina iniziò a disegnare buffi ghirigori di cui si udiva l’eco in ogni stanza. Le graduali scoperte della crescita erano accolte alla stregua di piccoli miracoli da chi ne era testimone, me compresa. Avvertivo il suo peso impercettibilmente aumentato ogni volta che l’appoggiavano su di me per vestirla o coccolarla, le sue manine lasciavano sulla mia superficie tracce appiccicose e mi dispiaceva quando poi uno strofinaccio passava a cancellarle. Adoravo quando si nascondeva tra le mie gambe a giocare, persa dentro fantasie che potevo solo intuire, mai come in quei momenti avrei voluto conoscere la misteriosa arte del sorriso. Appena sotto la carta che accoglieva i suoi scarabocchi con le matite colorate, c’ero io, e più tardi l’ascoltai sospirare mentre componeva le sue prime frasi. Nel suo esile tronco si sarebbero contati appena dodici cerchi quando trovò il coraggio di scrivere una breve storia, io ero la sola a saperlo. Poi accadde. La cena era quasi pronta, l’allegro sfrigolio delle patate adagiate nell’olio bollente somigliava a quello di tante altre sere. Appena distratti dalla tv accesa aspettavano il ritorno della piccolina. Suonò il campanello e dalla cornetta del citofono filtrò una notizia che cambiò tutto. La casa si svuotò in pochi istanti. Uscirono di corsa, improvvisamente disperati, lasciandosi dietro la vita che gli era appartenuta fino a quel momento. Restai lì per tutta la notte e la mattina seguente, apparecchiata per un pasto che nessuno avrebbe più consumato. Le patate fritte si freddarono, la loro fragranza appassì e si spense, la gioia che avrebbero portato era andata perduta in una curva improvvisa del tempo. Trascorse un’intera stagione prima che la piccolina tornasse, ancor più fragile di quando era entrata per la prima volta in casa. Nel suo corpo ora c’erano viti e placche di metallo, proprio come nel mio, ma non erano sufficienti per riparare tutti gli equilibri che si erano spezzati dentro e fuori di lei. Uscì dalla sua stanza solo dopo qualche settimana, le tracce di fatica e paura nel suo respiro erano ancora più profonde di quelle che l’ansia aveva scavato nei volti dei suoi genitori. Ascoltai i suoi passi diventare più saldi, giorno dopo giorno, ma il suo incedere non riacquistò mai più la simmetria originale. La corteccia sottile attraverso la quale era sempre stato così facile leggere le sue emozioni si fece via via più spessa. Prevedere le sue reazioni diventò impossibile, il padre e la madre si sforzarono di rimanere in sintonia con lei ma fu tutto inutile. Era lei a fuggire, a cambiare, ogni volta che li sentiva troppo vicini a comprendere il suo dolore. Avvertivo in lei il tremito della disperazione e sapevo che la rabbia, quella che a volte la spingeva a battere con il pugno su di me, era solo un modo per difendersi dai timori che la divoravano, primo tra tutti quello di non poter essere amata come aveva sempre sognato. La famiglia s’invischiò poco alla volta nella ragnatela dell’incomprensione e ne rimase prigioniera. Andarsene, non appena fu abbastanza grande per farlo, fu solo l’ultimo dei torti commessi dalla piccolina verso chi non poteva restituirle il destino andato perduto la sera dell’incidente. La casa cambiò dopo la sua partenza e anch’io rimasi vittima dell’amarezza che ne seguì. Scoprii che persino i migliori tra gli uomini, quando sono infelici, diventano capaci d’ingratitudine, e mi ritrovai all’improvviso nell’angolo di una cantina, dimenticata insieme ad altri oggetti colpevoli di ricordare a chi li possedeva un tempo felice che non poteva più tornare. Lì sono rimasta abbastanza a lungo da diventare amica della polvere e dell’umidità, ignara di ciò che accadeva alle persone che avevo servito in silenzio. Non mi è stato difficile riconoscere il passo che scendeva le scale. Era più sicuro dell’ultima volta che l’avevo sentito avvicinarsi ma la sua lieve irregolarità era inconfondibile. Accese la luce e si guardò attorno, finché non mi trovò. Le sue dita mi sfiorarono raccogliendo granelli invisibili del passato che avevamo condiviso. S’accucciò sotto di me, come faceva un tempo, e iniziò a cercare. Un giorno aveva scritto con il pennarello in un angolo della mia faccia nascosta, era il nostro segreto. Le lettere erano ancora lì, sbiadite ma visibili a chi sapesse dove guardare: MARGOT, il suo nome, che era diventato anche il mio. È tornata a cercarmi, dopo tanto tempo, e mi ha portata via con sé. Ora sono in un’altra casa, la sua. In poco tempo ho scoperto molte cose su di lei: qualcuno la ama come aveva sognato, ha ritrovato l’affetto della sua famiglia, scrive, e questo la rende felice. Mi piace ascoltarla mentre batte i tasti del computer appoggiato sopra di me. Proprio ieri sera ha terminato di raccontare la storia di un tavolo che porta il suo stesso nome, questa storia.