Consapevolezza femminile e femminista

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Consapevolezza femminile e femminista
Consapevolezza femminile e femminista
di Emanuela Costa
Mi saluta educatamente e si siede davanti a me. Condividiamo, assonnate, lo
scompartimento dell’intercity Genova – Milano delle 7.19. E’ molto graziosa. Alta, bionda. I
capelli le ricadono mossi e voluminosi sulle spalle. Ha un corpo che si impone. Si nota.
Gambe lunghe. Mani grandi. Sfoglia un giornalino a distribuzione gratuita. Come me. Un
paio di signore, pendolari che conosco ormai da qualche tempo, prendono posto con noi.
Alla seconda pagina del “quotidiano”, una notizia. Non resisto e commento a voce alta.
Sono indignata per la sentenza mite, a mio parere, a carico di un uomo che ha
ripetutamente violentato una ragazza, minorenne all’epoca dei fatti. Franca e Margherita
sostengono la mia posizione e intavolano con me una riflessione sulla difficoltà di cambiare
la cultura, oggigiorno dominante, se neppure il diritto riconosce, in modo inequivocabile,
l’inviolabilità del corpo delle donne. Lei alza lo sguardo dalla sua lettura e inizia a parlare
con noi. E’ la prima volta che la vedo. Non abbiamo mai scambiato una parola insieme
eccezion fatta per il “buongiorno” di poco prima. Si inserisce nella conversazione come se
fosse una di noi. Lo è. Ci ritroviamo a discutere delle esperienze “da treno”. Degli sguardi
insistenti e delle parti di corpo che gli uomini, con la scusa degli spazi angusti, insinuano,
prepotenti, a sfiorare le nostre. C’è complicità, empatia. Elisabetta è giovane. Ha dieci anni
meno di me. Mi racconta di un anziano signore che qualche giorno prima continuava a
toccarle una gamba noncurante della sua ritrosia. Le dico che quella è una molestia bella e
buona! A quel punto però lei scuote la testa come a sminuire l’accaduto e se ne esce con
un “eh si…” non troppo convinto. E’ proprio allora, in quel momento preciso che ho sentito
la mia responsabilità di donna più grande. Ho capito che spettava a me il compito di
aiutarla a comprendere che quel “si” non doveva essere in alcun modo ridotto o
compresso. A traghettarla attraverso e oltre il senso doloroso di vergogna. Ho avvertito
che era necessario mettere a sua disposizione la mia esperienza, il mio vissuto. Ho pensato
che dovevo provare ad esserci per lei. Per quelle di vent’anni.
Ho riflettuto su questo incontro tutto il giorno e, sulla via del ritorno, mi sono abbandonata
al mio personale rewind.
Il primo corpo a corpo della mia vita l’ho avuto con mia madre. Mia madre è nata femmina
ed è diventata donna. La più grande di quattro sorelle. Famiglia meridionale emigrata al
nord per sopravvivere. Una storia come tante. Punto di riferimento in sostituzione di un
padre severo e amorevole spesso malato. Capelli corti, occhi dolci la mia mamma. Poco più
che ventenne è entrata in fabbrica a sfornare connettori elettrici. Cappa blu e cartellino
d’ordinanza. E, giorno dopo giorno, mentre montava pezzi metallici, ha trovato, oramai
adulta, il suo modo di emanciparsi. Fiera, ha avuto il coraggio di parlare di diritti in un
luogo dove, se alzi troppo la testa e in più sei donna, metti a repentaglio la tua tranquillità.
E’ stata eletta delegata sindacale perchè il suo comportamento onesto e leale le era valso
più di una buona campagna elettorale. E’ stata la sua capacità di parlare alle sue compagne
ad insegnarmi il valore “dell'esserci in modo solidale”. L’impegno. Qualche giorno fa,
mentre pensavo a cosa poter scrivere per questo numero di Marea, le ho chiesto come
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ricordava gli anni 70’. I movimenti delle donne. Non ne avevamo mai parlato. Scandalosi.
Mi ha colpito perché mi ha detto che per una come lei, nata e cresciuta in una famiglia
chiusa al mondo e, per giunta, appena diciottenne, non era possibile, purtroppo, accedere
alla comprensione di quel fenomeno. Poteva occuparsi delle sue sorelle, della madre, della
malattia del padre. Lavorare. Ma una donna che rivendica la libertà di poter esprimere i
propri desideri, la parità sociale, la propria volontà? Scandalosa… per una cultura che ti
premia e riconosce solo se ti trasformi in “uomo” di casa.
Quando avevo io vent’anni e dividevo il mondo tra ciò che era giusto e sbagliato con
assolutezza granitica, ho incontrato Santa. Dieci anni più di me. Attivista politica durante la
sua giovinezza. Una donna che era stata a contatto con realtà che nemmeno immaginavo.
Io avevo frequentato il liceo classico in una scuola di periferia circondata dalle mie
compagne e dai giardini fioriti di Villa Doria. Il massimo della deviazione dalla “normalità”
era marinare la scuola e tra l’altro...non l’avevo mai fatto. L’ho conosciuta presso la
Comunità di San Benedetto. Avevo deciso di fare un’esperienza nel volontariato per le
donne che venivano prostituite sulle strade. Per dare una sostanza alle realtà sociali che
studiavo sui libri all’università. Una mia amica d’infanzia mi aveva suggerito di bussare a
quella porta. La Comunità e le persone che ho incontrato in quegli anni sono state un
importante laboratorio di vita. La prima cosa che ricordo di Santa è il suo corpo. Come si
muoveva nello spazio in modo naturale. Senza artifici. Le sue tette. Rotonde, abbondanti.
Mi aveva colpito la capacità di stare al centro dell’attenzione fiera di essere guardata nelle
sue forme. La sua generosità nel mostrarsi al mondo. Io, insicura e timida, non uscivo di
casa se non avevo trucco accurato e tacco alto. Adeguata allo standard che mi sembrava
venisse richiesto per essere “in”. A ripensarci facevo di tutto per non passare inosservata
ed ero, però, assolutamente incapace di gestire lo sguardo dell’altro. Credo che più di tutto
mi abbia insegnato che la femminilità è qualcosa che si conquista con la consapevolezza e
la conoscenza di sé. Mi ha aiutato a rispettare ed accettare il mio corpo che non ne voleva
sapere di restare muto. Semplicemente parlava una lingua a me sconosciuta. Penso che lei
mi ci abbia messo in comunicazione. Un corpo a corpo impegnativo il nostro. Intimo.
Una volta che avevo provato a farmi carico di ciò che esprimeva il mio corpo, non avevo
nessuna intenzione di tornare indietro. Le femministe erano, nella mia idea colorata da
immagini stereotipate, donne che, terrorizzate dall’idea di suscitare il benché minimo
desiderio sessuale negli uomini, se ne andavano in giro senza curare il loro aspetto
esteriore rivendicando la libertà di essere sciatte, chiatte e mal vestite. Ma quale libertà?..
mi chiedevo. Mi piaceva l’idea di profumarmi e imbellettarmi. Passare il tempo nelle
profumerie dove mi perdevo tra gli scaffali annusando profumi e oli. Le creme, i trucchi e
gli specchietti. Sapevo che il femminismo aveva avuto un ruolo importante nelle battaglie
per i diritti delle donne. Il divorzio, la legge sull’aborto… Che i collettivi femministi
portavano avanti importanti campagne di sensibilizzazione. Ero confusa. Non capivo come
potevo conciliare le istanze così diverse che si agitavano dentro di me. In più lavorando
attivamente per le donne che venivano prostituite e rivendicando fortemente la possibilità
di esercitare la professione sessuale laddove alcune lo avessero scelto, non riuscivo a
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capire dove mi potevo collocare. Mi percepivo certamente femminista e appoggiavo,
partecipavo alla lotta per i diritti delle donne, per la parità. Non mi definivo femminista se
mi si chiedeva, o almeno così credevo allora, di rinunciare alla mia femminilità. Mi sentivo
sfocata. Poi è arrivata Pia.
Pia austera, chiusa e snob. Sempre in ordine. Riesce ad andare dalla parrucchiera in
qualunque città si trovi. Io non ho mai cambiato. Impensabile. Ha quel suo modo di parlare
molto english. Posata. Passionale. Pia è stata una puttana. Conosciuta in tutta Italia perché
negli anni 80’ ha deciso di fondare il Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute insieme a
Carla, sua amica e compagna di marchette. Un’estate, stufe dei soprusi perpetrati dai
soldati di stanza alla base americana di Pordenone che si permettevano ogni genere di
comportamento e linguaggio nei confronti delle donne di strada, si sono unite con altre
colleghe e hanno creato il loro sindacato. Conoscevo le attività del Comitato perché ero
impegnata da molti anni in progetti con l’obiettivo di sostenere le vittime della tratta e
dello sfruttamento sessuale ed ero assolutamente affascinata e persuasa che lo spirito
laico della loro Associazione fosse quello che meglio si adattava alle mie idee. E così la mia
determinazione e le occasioni della vita mi hanno permesso di lavorare per il Comitato e di
frequentarla, corpo a corpo. Pia si definiva una femminista. Però aveva fatto la puttana e,
quindi, si era prestata al potere dell’uomo che l’aveva utilizzata come un oggetto sessuale.
Questo secondo le teorie femministe che conoscevo. La mia confusione aumentava. Nella
sua vita si è battuta come una vera leonessa nata d’agosto per dare opportunità alle
donne, tutte. Perché vengano rispettate e venga loro concessa pari dignità sociale. Non mi
è mai parsa un oggetto. E allora come conciliare la mia idea che le donne potessero
utilizzare il loro corpo, venderlo addirittura, senza essere considerate oggetti sessuali per
l’uomo? Non riuscivo ancora a formulare un’ipotesi che mi facesse sentire intera. Ero
convita - e lo sono tutt’ora - che le donne potessero disporre del proprio corpo e della
propria sessualità essendo soggetti nella relazione, anche se mercificata, e non oggetti. Se
una donna è perfettamente consapevole di utilizzarSi, di interpretare un ruolo che altro
non è che un'identità provvisoria e non la sua essenza più profonda, se raggiunge la
capacità di potersi guardare da fuori e analizzare come si muove nel modo...ma è quel
“perfettamente“ che fa la differenza. E' a quel “perfettamente” che difficilmente si può
accedere. Solo nel tempo, ho capito che mi riferivo ad un'élite. Me lo hanno chiarito Sara,
Veronica, Giulia, Fatima, Alina e le altre. Notte dopo notte. Sulla strada. Dove se vuoi
lavorare e sbarcare il lunario, ti pieghi a quello che ti chiede il compratore. Senza tante
velleità “da soggetto”.
Di donne “perfettamente consapevoli” ne ho conosciute. Come Pia. Ne ho conosciute
anche di “semplicemente consapevoli”. Come me.
Mi sono accorta che anche la mia consapevolezza difettava di perfezione quando ho letto
un articolo di Monica Lanfranco sul sessismo “ordinario”. Mi sono accorta che mi ero
assuefatta ad un modello che mi offriva di poter accedere ad una parte celandomi il tutto.
Quello che più ha attivato la mia rivoluzione è stato leggere della superficialità che è stata
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anche la mia. Di come si affrontano o si sminuiscono apparenti banalità. Come i “detti”
popolari che sembrano innocenti perle di saggezza e che invece solcano e plasmano modi
di vivere che diventano, nel tempo, acquisizioni di diritto. E così ci ritroviamo anche noi
donne a sorridere mentre, toccando la pancia rotonda e carica di promesse di una futura
mamma, le rivolgiamo il nostro: “auguri e figli maschi!”. Senza prestare attenzione alle
nostre parole. Al senso. Complici anche noi di una cultura che alimentiamo perchè
“abituate così”. Ma l'abitudine è la capacità di indossare un abito. E perchè non provare a
cambiarlo?
Io ci ho provato un mercoledì di maggio. Sono stata alla presentazione di un libro: “Il corpo
delle donne “ di Lorella Zanardo. La visione del documentario, omonimo, da cui è stato
tratto il libro, mi aveva profondamente ferito. L'immagine di donne giovani e meno giovani
(anche se la differenza si fa fatica a coglierla essendo intervenuti il bisturi e i preparati di
nuova generazione come il botulino a rendere irriconoscibile l'età e le espressioni delle
stesse) sfruttata e impiegata in trasmissioni televisive che inviano un messaggio
degradante. Come se la donna potesse fare audience solo se spogliata, sorridente, con il
seno in bella vista e il sedere ripreso in primo piano mentre magari cerca di esprimere
un'opinione Orribile. Nauseante. Ma quale potere? Quale soggetto nelle relazioni? Quale
consapevolezza? Ho compreso che nessuna donna che si definiva femminista mi chiedeva
di rinunciare alla mia di femminilità, ma di fare in modo che quella conoscenza di me
stessa sulla quale Santa aveva a lungo insistito raccontasse di me e non rispondesse ad un
banale cliché. A canoni, modelli prestabiliti per me da una società che quando nasci
ammazza ogni “segno particolare” per livellarti e ridurti a ciò che la legge del desiderio e
della volontà maschile stabilisce.
Ho pensato a lungo di essere libera. Ho creduto di esserlo. Emancipata e capace di
ribellarmi alle regole dettate per le donne dal sistema. Ho creduto davvero di poter essere
quello che volevo. Poi mi sono accorta che sì, ero libera ma dentro un recinto costruito ad
hoc. Come un canarino che nasce in cattività e che può esplorare il suo mondo solo fino ai
confini della propria gabbia impreparato a volarsene via. Rendermi conto che potevo,
dapprima, avvicinarmi alle sbarre e, poi, accorgermi che potevo farle diventare burro
partendo dalla conoscenza dei miei reali talenti di donna, dei miei diritti e dalla capacità di
incidere, con il mio pensiero e la mia azione, su quel mondo “non delimitato”, mi ha reso
coraggiosa. E se è vero che ogni donna può scrivere un pezzo della Storia delle donne, ecco
il mio.
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