Mio fratello e Roger Federer

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Mio fratello e Roger Federer
PR E M I O D I A L O G A R E 2013
Tutto è partito da…
Racconto premiato
Mio fratello e Roger F ederer
di V incenzo L isciani Petrini
Io e mio fratello
Domenica mattina, ore 8.45, nessuno in giro. Appuntamento al solito posto, vicino al
gommista che fa angolo; mio fratello mi aspetta per andare a giocare a tennis. Lo vedo
già mentre imbocco la discesa. Accosto l’auto, lui carica il borsone della Wilson ed entra.
Fa freddo e siamo ancora insonnoliti. Mormoriamo giusto un buongiorno, un come va?,
dormito bene? rispondendo a monosillabi; non abbiamo bisogno di dire altro, almeno
finché non siamo sulla statale diretti ai campetti pubblici. Lì parliamo di quello che
abbiamo fatto il giorno prima, con chi siamo usciti la sera, cosa è successo di divertente;
e poi cominciamo a parlare di noi, dei nostri progetti; infine di Roger, di quello che può
ancora vincere ai prossimi Open e Master Series. Abbiamo cominciato quasi dieci anni
fa. Sappiamo che non durerà per sempre. Ma siamo ancora lì; e pensare che ci sono stati
periodi in cui neanche ci parlavamo, perché non avevamo niente da dirci ed essere
fratelli era scomodo a tutti e due. Lui è come Roger: rovescio a una mano, gioco
d’attacco, gran servizio, classe sopraffina; ma deve essere in giornata, altrimenti perde.
Mi parla sempre del suo gioco e di come migliorarlo, o delle racchette che ha provato;
spesso si sofferma sui suoi soliti avversari del circolo, quelli che magari non riesce a
battere o che ha appena sconfitto in un bel match. Lo ascolto mentre guido. Ci sono
stati periodi in cui il silenzio tra noi era imbarazzato e teso. Ognuno ha le proprie colpe.
Credo, per questo, che sia un miracolo andare a giocare insieme, perché erano tanti i
motivi che ci dividevano e ci sembrava di non avere niente in comune. Ma ci
sbagliavamo: avevamo il tennis e Roger.
Mio fratello giocava nella categoria juniores. Aveva smesso perché i miei non gli
avevano permesso di continuare con l’agonismo. Smise di seguire il tennis in TV per
l’amarezza, così cominciai io. Tifavo per Lleyton Hewitt. A forza di vedermi incollato al
televisore, riprese anche lui a interessarsi. Un giorno vide Roger Federer giocare in
Coppa Davis contro Sanguinetti. Rimase abbagliato. Io ci misi più tempo a
innamorarmene e ricordo precisamente come e perché accadde. Ve lo racconterò.
Intanto siamo quasi ai campetti. Arriviamo, parcheggio la macchina. Che freddo. Tra
poco sapremo se qualcuno avrà occupato il campo prima di noi. Credo di no: nessuno è
così pazzo da uscire di domenica mattina alle nove, soprattutto il trentuno di dicembre.
Io e Roger (per non parlare di Nadal)
A un certo punto lo decisi o qualcosa dentro me lo decise. Non ho mai capito il
perché di tutto questo: è curioso, vi dico. Non c’è mai una precisa ragione per cui si
comincia a tifare… semplicemente accade. È qualcosa che ha quasi a che fare con la
religione. Sei lì mentre guardi la partita e, d’un tratto, ci sei. Sei in quella partita tutto
schierato da una parte, coinvolto nella lotta furibonda. Stai tifando per sconfiggere più
che un avversario, un’idea di avversario; è un mondo, un’allegoria; si gioca su piani
diversi, come se la vittoria o la sconfitta avessero un significato più profondo. Lo so.
Questo adesso forse non c’entra; comunque, il 23 marzo del 2005, Federer per me
divenne semplicemente Roger.
Devo confessare che in passato tifavo per Lleyton Hewitt. Mi ci ritrovavo parecchio
perché rappresentava la rivincita dei mediocri. C’era qualcosa di eroico in questo e a me
gli eroi erano sempre piaciuti. E poi era irriverente con quel suo C’mon! Federer, invece,
mi infastidiva. Sembrava che non rispettasse gli avversari con quel suo modo di giocare
così perfetto: disumano, quindi divino. Hewitt, poi, in quei primi anni Duemila aveva
portato a casa diversi tornei: si era imposto a Wimbledon, alla Master Cup e agli US
Open. Mio fratello lo sviliva reputandolo un semplice pallettaro, “uno che ributta di là la
palla, uno che aspetta solo che l’altro sbagli”. Solo che i pallettari sono affidabili e
vincono spesso. Odiava i pallettari perché ci perdeva contro. Come Federer, d’altronde,
che a inizio carriera perse contro Hewitt diverse partite. Ma ricordo il primo slam di
Roger: Wimbledon 2003, in finale contro Philippoussis. Vidi tutta la partita. Mi
impressionò, ma non tifavo per lui: tifavo sempre per Lleyton. Per me era un idolo e
pensavo, da stupido, fosse più forte di Roger. Tuttavia, mi dovetti ricredere agli US Open
del 2004 quando Hewitt trovò Federer in finale, il quale era desideroso di vendicare le
sconfitte precedenti. Sotto gli occhi attoniti del Centrale di Flushing Meadows Hewitt si
prese un sonante 6-0 7-6 6-0. Venne demolito, annichilito e, direi, umiliato. Federer,
numero 1 al mondo, aveva vendicato definitivamente le sconfitte subite da lui. Infatti
ammise: “Mi piace giocare contro coloro che mi hanno battuto in passato, soprattutto
all'inizio della mia carriera, mi piace provare a recuperarli.” In quella finale fu spietato.
Hewitt, da vero sportivo, gli fece i complimenti, riuscendo addirittura a sorridere. Sapeva
che era giusto così e nello sport esiste una strana giustizia.
Il 23 marzo del 2005 qualcosa cambiò. Irreversibilmente, si potrebbe dire. Era la
finale del Master Series di Miami e l’avversario di Federer era Nadal, che nel 2004 lo
aveva battuto a sorpresa in due set, con un doppio 6-3, lasciando tutti di stucco. Uno che
si presenta così non può che essere l’avversario cruciale, la perfetta nemesi tennistica.
Credo però che la loro rivalità cominciò quel giorno, nel secondo confronto diretto, tra
scoppi di scintille. Nadal sapeva di poterlo battere ancora.
La partita cominciò con un Federer da subito costretto a correre da una parte all’altra:
tornava in mente la partita dell’anno prima. Il suo tennis era inefficace. Il suo gioco era
messo in seria difficoltà dallo spagnolo; Federer tirava fuori, sceglieva male le direzioni
dei colpi, steccava. Dava l’idea di non avere pronto un piano di riserva. A ogni suo
attacco corrispondeva una difesa attiva da parte dello spagnolo e un successivo
contrattacco. Ero lì a guardare la partita e per la prima volta sentivo di non essere felice
per ciò che accadeva. Qualcosa mi impediva di gioire. Volevo che Federer vincesse e
stavo cominciando a tifare per lui, quasi senza accorgermene. Quei due non erano solo
avversari: erano mondi differenti, erano il Bene contro il Male. Mi sentivo chiamato in
causa, dovevo scegliere da che parte stare. Allora mi lanciai in un tifo da stadio per
Roger, saltando dalla poltrona a ogni 15 conquistato; e mia madre che, di tanto in tanto,
si affacciava in cucina per vedere che cosa accadeva. E io: “Niente, mamma, niente! Vai
di là! Chiudi la porta!”
Federer era sotto di due set. Nadal dopo aver vinto il primo set 6-2 e il secondo per 76, si trova 4-2 nel terzo, con un break a favore. Non cedeva un punto, confermando di
non essere una sorpresa e che l’anno prima non l’aveva battuto per caso. La partita
sembrava avviata alla fine, ma ecco che Federer strappa il servizio a Nadal portandosi 34, e poi sul 4-4; sul filo di rasoio si prosegue fino al 6 pari del terzo. Tie-break: Nadal va
in vantaggio 5 punti a 3, ed è a soli due punti dalla vittoria oltre che da un risultato
storico. Serve lui: lo scambio si fa duro, supera i dieci colpi, nessuno vuole cedere – è
quello che si dice un “punto pesante”. Alla fine però, mette fuori: 5-4, ancora a due
punti dal set, ma questa volta due servizi per Federer. Lo svizzero li trasforma con
autorità, 6-5 e set point a favore. Serve Nadal, scambio mozzafiato, ma sbaglia il
rovescio. La palla esce. 7-6 Federer. “Grande Roger!”, urlai a squarciagola.
Che dire? Nel tennis tutto può cambiare a partire da un 15 che molti giudicherebbero
insignificante. L’occasione sfumata può pesare moltissimo. Infatti, anche il quarto set va
a Federer per 6-3, che ora è più sciolto, a differenza di Nadal che sta inesorabilmente
uscendo dalla partita. Nel quinto lo svizzero è in controllo e chiude per 6-1. Fine: 3 set a
2. Ha vinto lui. Spensi la TV con la voglia, forse il bisogno di urlare. Da tanto tempo
non avevo tifato così, con tale trasporto. Non potevo resistere: chiamai al cellulare mio
fratello e gli dissi: “Roger ha vinto!”
Così, ora eravamo dalla stessa parte.
Mio fratello e Roger Federer
Domenica mattina, ultimo dell’anno. Entriamo nel campetto vuoto, posiamo le borse,
tiriamo fuori le racchette e cominciamo a scaldarci. Penso che, se siamo lì, è perché
abbiamo trovato il nostro punto di contatto, perché abbiamo capito come volerci bene,
come parlarci. È stato così: Roger e il tennis. Forse ho tifato per Roger anche perché mi
piace vedere felice mio fratello: gli brillano gli occhi ogni volta che vince e a ogni
vincente che fa con il rovescio, si sente un po’ come lui.
Eccoci. Ancora qualche minuto di riscaldamento e poi l’ultimo scontro dell’anno tra
fratelli avrà inizio. Mio fratello usa le Wilson di Roger, sfoggia sempre un completino ad
hoc e fa gioco d’attacco: servizio e dritto. Io uso le Babolat di Rafa, metto i pinocchietti e
sono un pallettaro anomalo. Mio fratello emula i colpi di Roger e ha una grande tecnica.
Il mio dritto, invece, ricorda molto “l’uncino” dello spagnolo. I ruoli, insomma, sono
chiari.
Si comincia: “Servi o rispondi?” Servo. Ci stringiamo la mano e salutiamo un pubblico
invisibile. Gli dico: “Vedi di giocare bene; oggi mi sento in forma”. Si fa una risata: “Tu
vedi di non fare i tuoi soliti venti doppi falli”. Comincio a servire e… prima e seconda
non entrano. Doppio fallo. Scoppiamo a ridere come due stupidi. “0-15!” grida lui.
“Non vale!”, protesto. “Il primo si ripete”. Si scherza, ma la partita è vera e senza sconti.
Lo so bene che un giorno finirà, come tutte le cose di questo mondo. Però questa
storia ci appartiene e sta a noi portarla avanti finché sarà possibile. Mentre gioco, infatti,
penso a quando non ci parlavamo perché non avevamo niente da dirci e penso a come
sono poi cambiate le cose negli ultimi anni. Penso a quello che è accaduto e che può
ancora accadere.
E sono pieno di speranza.