Pensavo alla Mongolia Hannah seppe della morte

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Pensavo alla Mongolia Hannah seppe della morte
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Pensavo alla Mongolia
Hannah seppe della morte di suo fratello tramite il notiziario di BBC Radio 1.
Da anni, lei e io abitavamo a sud del fiume, vicino alla stazione di Kennigton, in una casa con
le finestre piccole e un giardino dove piantavamo solo narcisi molto effimeri.
Siccome Roger morì in primavera, quei giorni li associo ai fiori gialli che raccolsi,
diligentemente.
Hannah desiderava un funerale di narcisi, e io eseguii il tutto con pazienza e guanti: temevo il
contatto con il veleno che quelle piante, come pochi sanno, rilasciano; una paura irrazionale,
dato che per morire bisognerebbe mangiare petali in grande quantità. D’altronde la prossimità
con la morte di qualcuno talvolta induce a strane cautele. Raccoglievo dunque i fiori e
pensavo alla mia vita, che volevo salvare, e ai narcisi, che la minacciavano.
Pensavo anche alla macchina della nebbia.
Alcune settimane prima ero stato a vedere la compagnia giovane che metteva in scena, nel
teatro a pochi metri da casa mia, l’adattamento di un film espressionista tedesco degli anni
Venti.
Il teatro, all’interno, era nero e pieno di polvere, grande quanto un salotto, con due file di
poltroncine blu. Io sedevo in un angolo, vicino alla macchina della nebbia – quella che,
tramite certe sostanze chimiche, crea il fumo finto nei teatri.
Non si è mai capito se quelle sostanze facciano male oppure no, ma non è irragionevole
temere che i miei frequenti mal di testa fossero il sintomo di un’intossicazione da nebbia
teatrale. Infatti a teatro, nella mia vita, ci ero andato moltissime volte. Sin da piccolo, ma
anche dopo, soprattutto per lavoro. Chissà se, con gli anni, tutto quel fumo bianco mi aveva
dato alla testa.
Perché a me l’odore della nebbia finta, lo confesso, piace. Ho sempre respirato a pieni
polmoni. Ma quel giorno, mentre raccoglievo i narcisi, questa passione per la nebbia
sembrava una grave leggerezza: avevo messo a rischio il mio corpo, esponendolo per anni a
sostanze velenose, e forse – un giorno si sarebbe scoperto – mortali per l’organismo umano.
Ricordo anche che, durante lo spettacolo, per tutto il tempo avevo avvertito una presenza
familiare alle mie spalle. Quando lo spettacolo era finito, la figura dietro di me era scivolata
via attraverso una porta secondaria. Una volta all’aperto avevo udito una voce nota, e mi ero
voltato per ricevere conferma.
Roger sostava in piedi di fronte all’uscita, succhiando il solito sigaro spento e calzando quel
suo berretto che non si toglieva neanche a luglio. Parlava con un ragazzo, uno smilzo dal
maglione verde bucherellato – l’attore che nello spettacolo faceva tutti quei personaggi, e tutti
quegli accenti. Ero tornato sui miei passi, ma i due stavano rientrando in teatro. Per un istante
Roger mi aveva guardato, e anzi proprio allora si era ritirato all’interno, come per
nascondersi. Comunque non era la prima volta che lo incontravo agli spettacoli
d’avanguardia, e non era nemmeno la prima volta che lui compariva a Kennington senza
farcelo sapere.
È vero, con quei teatri e quel tipo di produzioni Roger aveva poco o nulla a che fare. Tuttavia
gli piaceva andare a vedere gli attori giovani, in via ufficiale perché amava farsi scopritore di
nuovi talenti, ma anche, secondo me, perché sentiva il bisogno di invaghirsi di continuo. Una
mano, uno sguardo, una camminata. Una voce, un profilo. Erano tante le infatuazioni in
grado di ravvivare lo stato di innamoramento cronico del quale certi avvertono la necessità.
Mentre raccoglievo i fiori io riflettevo, anche se con distacco, su quell’episodio e su ciò che
rappresentava: concludevo di appartenere a un’altra specie creativa. L’arte, per me, non si
nutriva degli occhi color fuoco fatuo di qualche apprendista del palcoscenico.
I narcisi, imprigionati dalle corone, appassirono in fretta nel gran circo del funerale. Mi
dispiacque – tutto quel lavoro valso a nulla, senza contare il rischio di avvelenamento da
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parte mia. Fu una cerimonia interessante, intravidi molti nomi importanti, anche se in qualità
di cognato del defunto assunsi un atteggiamento decoroso e sottotono.
Certo mi presi l’onere di scambiare due parole con tutti: Hannah non era nelle condizioni. Fui
sorpreso dal fatto che molti, seppur mostrando un certo pudore, mi rivolgessero domande
dirette e dettagliate, attinenti allo stato delle indagini. D’altronde i giornalisti, in poche ore,
avevano raccattato e impacchettato tutti gli elementi base della storia, e lo avevano fatto in
una maniera che io, da sceneggiatore, sotto sotto ammirai, con sincerità.
Va detto che la storia, di per sé, presentava aspetti grandiosi.
Il produttore di musical Roger Livengood era stato ucciso con un colpo di pistola nel suo
studio londinese. Nessun testimone di sorta, nessun vicino di casa accortosi di nulla, nessun
indizio almeno a una prima analisi.
Si parlò di delitto passionale, senza riuscire tuttavia a identificarne i contorni: Roger aveva
tanti amici e tanti amici degli amici, per così dire. Si parlò anche di quella lettera trovata nel
cestino dello studio, in cui Roger comunicava a Franz Zylberstein, con il quale aveva lavorato
per anni, la volontà di terminare il loro rapporto di collaborazione. Si parlò infine del
computer di Roger, nel quale fu trovata una cartella dedicata al primo progetto indipendente
che intendeva realizzare, senza Zylberstein fra i piedi.
Il progetto portava il titolo preliminare di “Musical asiatico”.
Per ora esisteva solo una breve sinopsi. In essa, si riprendeva per filo e per segno quanto io
avevo proposto a Roger durante una visita memorabile, avvenuta due settimane prima della
sua morte.
Quel giorno, ricordo, mi sentivo soddisfatto e felice. Da qualche mese avevo deciso che
presto mi sarei ritirato in un luogo remoto (un monastero?) a leggere mattoni, nel senso di
libri pesanti. Ma se ci fossero anche state pareti con le incisioni rupestri, io le avrei lette
volentieri. D’altronde sin da piccolo avevo coltivato una passione per l’archeologia, noi artisti
siamo eclettici e voraci.
Ma prima di andarmene avevo ancora qualche idea che mi bruciava dentro. Più di tutto,
bruciava l’ambizione di veder realizzato un musical di fama internazionale, il sogno della mia
vita.
Ero una firma per le storie di fantasmi e le commedie. Mezza Inghilterra aveva applaudito il
mio “Solitamente in giornata”, una piccola produzione indipendente che, a seguito del suo
successo, era quasi diventata un film. Dico quasi perché purtroppo si mise di mezzo Franz
Zylberstein, all’epoca uno dei capi della Turner Brothers, il quale all’ultimo momento bloccò
il progetto: “Sceneggiatura troppo europea. Adesso in America va di moda l’America”.
Esisteva solo l’America, per lui. I produttori indipendenti inglesi si erano volatilizzati al
seguito.
A parte il mancato film, vantavo soddisfazioni di un certo livello. Ma il musical era un’altra
cosa. Io volevo far cantare il pubblico, io prima di morire volevo far crollare i teatri del West
End.
Fu così che quel giorno citofonai a Roger. Mi tremavano le gambe: è vero, lo vedevo ai
pranzi di Natale e ai barbecue in estate, ma lui non era un cognato qualunque, lui era Roger
Livengood, il più grande talento vivente nel mondo dei musical, colui che – per intenderci –
aveva scritto e prodotto “Scarpe di neve, piedi di fuoco”, ma anche “Buon Onomastico,
signor Nessuno!”.
Ma soprattutto il Roger di “Moquette in rivolta e stoviglie in libertà”, una produzione
sull’anarchia domestica costata milioni di sterline, con i vasi Ming che si schiantavano sul
palco per davvero, e l’argenteria lanciata sul pubblico, insomma un’emozione dopo l’altra.
Io “Moquette in rivolta…” l’avevo rivisto quindici volte, portandomi a casa sei forchette e sei
cucchiai d’argento, più tre coltelli. Mi mancava insomma poco a finire il servizio, e se non io,
di certo Hannah avrebbe colto l’occasione.
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Roger mi accolse nel suo appartamento a Piccadilly, una stanza da letto, una cucina, uno
studio e un bagno, che usava come pied a terre per le questioni d’affari (viveva poi con il
compagno Fred, detto Fidanzatino Fred, a Primrose Hill).
Liquidammo i convenevoli del caso, formali ma affettuosi (avevamo fatto Cambridge negli
stessi anni). Ci scambiammo informazioni utili sullo stato di salute (sempre ottimo quello
dichiarato). Seguì una breve ma pur sempre informata discussione sul tempo atmosferico, il
discorso che a Londra anzi in Europa anzi nel mondo non c’erano più le stagioni, e prima la
siccità e poi gli alluvioni. Infine affrontammo il motivo della mia visita.
ROGER – “Insomma, vuoi farmi credere di avere in testa il prossimo Moquette in rivolta.”
IO – “Lo sai che sono un’intimista… Però questa volta ho un’idea, una storia americana,
pensa!”
ROGER – “Americana? Per carità. Abbiamo già in produzione il musical sulla scuola
militare americana dove insegnano a mettere i fiori nei cannoni, e non è che ci caveremo
granché secondo me. Non è stata un’idea mia. È una delle innumerevoli cretinate che mi
trovo a fare per via di quell’accordo commerciale con la Turner. Adesso in America va di
moda l’America, come cinguetta Zylberstein, lasciamo perdere. Comunque non ho bisogno di
un’altra storia americana. Secondo me il futuro è il cinese, l’indiano, l’Asia insomma. Fra
l’altro ho allo studio una cosa con i bambini tailandesi che cantano, dillo a mia sorella, volevo
fare dei costumi.”
IO – “Grazie Roger, davvero. Lo dirò ad Hannah. Però il mio musical, sai, è anche un po’
asiatico.”
(Abbassai lo sguardo. Non sapevo mentire).
ROGER – “Ma va? Sentiamo.”
IO – “È la storia… Insomma c’è una liceale americana, la bella della scuola, ragazza pon–
pon e tutto il resto, fidanzato capitano della squadra di palla prigioniera, amiche fedeli tutte
intorno, una vita perfetta, ma un giorno le scompaiono le tette, o forse non le ha mai avute?”
ROGER – “Va bene le tette, ma l’Asia?”
IO – (Feci una pausa teatrale, riflessiva. Sudavo). “Aspetta. Le tette le ritroverà dopo anni.
Congelate. Sì, congelate a… Non so, in un posto freddo… Pensavo alla Mongolia.”
(Mongolia?)
ROGER – “Vai avanti.”
IO – “Colpo di scena finale, le tette ritrovate in Mongolia non sono le sue ma del fidanzato
che in realtà era una donna operata per diventare uomo.”
ROGER – “E la ragazza pon–pon? Le sue tette intendo dire.”
IO – “Esatto, e la ragazza pon–pon? Le tette le ha mai avute? Potremmo anche lasciare il
mistero irrisolto. Oppure la ragazza pon–pon non le ha mai avute e da tutta la vicenda impara
che le tette non sono importanti, quello che conta è l’anima. Insomma il crollo di un mito
americano contrapposto alla spiritualità asiatica. Alla fine della storia tutti cantano una
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canzone, qualcosa tipo: My soul has no tits at all… La mia anima non ha tette. Io avrei anche
pronto un tema musicale. Lo canto?”
ROGER – “Sì, ma il messaggio? Ci vuole un messaggio.”
IO – “Il messaggio? Te l’ho detto, è un musical pieno di messaggi, un musical
sull’adolescenza e i suoi falsi miti. È un attacco culturale agli Stati Uniti. Indiretto,
certamente. Una riflessione sulla confusione fra i sessi. E sulla superiorità dello spiritualismo
asiatico. Musica tipo, come si chiama, hai presente quello che si dipinge la faccia di bianco e
le labbra di rosso? Musica americana commerciale contrapposta a leggeri temi asiatici.
Pentatonici.”
ROGER – “Mah, la confusione fra i sessi, lo spiritualismo. Fa tanto anni settanta, a quel
punto lì faccio un remake con i travestiti. Dai, su.”
IO – “Non i travestiti, io parlo di transessuali, guarda che è ben diverso.” (“Se non lo sai tu”
stavo per dire, ma mi trattenni.) “Comunque se pensi che non vada. Poi se quelli della Turner
lo fanno al posto nostro, il musical coi transessuali, e ci viene fuori una gallina dalle uova
d’oro che neanche Il fantasma dell’opera.”
ROGER – “Perché la Turner fa un musical coi travestiti?”
IO – “I transessuali.”
ROGER – “Ecco, ma allora uno che cavolo li fa a fare gli accordi commerciali se poi non sa
nemmeno cosa gli combinano sotto il naso. Porca pupazza.”
IO – “Ma no Roger, è solo una voce di corridoio…” (Mentivo, di nuovo! Non era una voce di
corridoio, me l’ero proprio inventata io su due piedi.) “E poi, ecco, non mi sorprenderebbe se
tu non lo sapessi.”
(Stavo per fare il passo più lungo della gamba…)
ROGER – “In che senso, scusa?”
IO – “Insomma, che la Turner abbia in mente di non rinnovare gli accordi con voi, non è
mica un mistero.”
(Questa però era vera. L’aveva scritto perfino il Financial Times).
Roger sorrise con la bocca. Si lasciò andare sulla poltrona e incrociò le mani. Passò qualche
secondo o forse minuti e quando parlò aveva un tono così affabile.
ROGER – “Benjamin, allora, porterai i miei saluti ad Hannah? Dille mi raccomando dello
spettacolo coi bambini cinesi.”
IO – (Ma non erano tailandesi?) “Certo, come no. Senti lo so, sono stato poco delicato, ecco,
dovrei farmi gli affari miei. Immagino allora che del musical non se ne faccia nulla.”
ROGER – “No! Ma cosa dici. Scusami, ogni tanto mi assento. Dev’essere quella cosa che
prendo per il fegato. Il tuo musical. Non so, ci penso. Se c’è qualcuno che può accollarsi il
rischio di una storia un po’ sopra le righe sono io, perché credimi la tua storia è sopra le
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righe, e te lo dice uno che ama andare sopra le righe, anzi fosse per me vivrei a strapiombo
sul pentagramma. Poi però ci sono gli spettatori, c’è il botteghino a riportarci giù no?”
IO – “Ma è per via dei transessuali? Quello si può cambiare.”
ROGER – “Ma no. Anzi, la parte sui transessuali è fin troppo tradizionale. È più… Te l’ho
detto, ci penso.”
IO – “Va bene. Grazie, davvero. Ti chiamo allora? Ci sentiamo, quando?”
ROGER – “Ti chiamo io. Ti faccio sapere.”
IO – “Va bene. Allora dico ad Hannah dei costumi per i bambini.”
ROGER – “I bambini? Ah, i bambini vietnamiti! Sì, dille che pensavo a qualcosa sul
malva…”
Passeggiai a lungo per Piccadilly e poi Regent Street, ero parecchio confuso, un vago senso
di sconfitta si stagliava sullo sfondo di bambini tailandesi che cantano (o cinesi? o
vietnamiti?), di balletti delle ragazze pon–pon e di vasi Ming schiantati sul palco. Alcuni
giorni dopo, a freddo, cominciai a speculare su come fossero andate le cose, nelle ore
immediatamente successive alla mia visita. Non posseggo alcun elemento a sostegno della
mia ricostruzione, d’altronde ci sono abituato, nella vita scrivo storie.
Tanto per cominciare, Roger viveva appiccicato al telefono. Sicuramente, non appena io
lasciai il suo studio, chiamò il suo assistente Waller. Subito dopo – non poteva aver atteso
troppo tempo – chiamò Zylberstein a New York. Il telefono squillò mentre Franz Zylberstein
ancora dormiva nel suo appartamento a Manhattan, nel Village. Zylberstein all’epoca aveva
settant’anni, era magro, mostrava ancora tutti i capelli che portava bianchi e un po’ lunghi.
Accanto al letto probabilmente c’era un fanciullo d’ordinanza, in calzoncini da palestra e
torso nudo, che faceva flessioni sul pavimento. Al primo squillo, Zylberstein aprì gli occhi e
sedette sul letto senza nemmeno uno sbadiglio. Brontolò qualcosa come: “Ludovic? Porteresti
cortesemente le tue chiappe in salotto?”. Il ragazzo si alzò e uscì dalla stanza come un
automa. Zylberstein inforcò gli occhiali, si voltò verso il comodino dove giaceva, presumo,
“Memorie di una ragazza per bene”. Sollevò il telefono.
ZYLBERSTEIN – “Pronto? Roger? a che debbo l’onore di una telefonata alle sei di
mattina?”
ROGER – “Scusa mi dimentico sempre il fuso, eccetera. Se vuoi ti richiamo più tardi.”
ZYLBERSTEIN – “No figurati, tanto mi stavo per alzare. Che si dice?”
ROGER – “Le solite, stiamo lanciando qui a Londra lo spettacolo sulla scuola militare
americana.”
ZYLBERSTEIN – “Ah sì? Guarda che ci tengo. Quello è il mio bambino, qui a Broadway
abbiamo venduto il teatro fino a gennaio.”
ROGER – “Mah vedremo, la sensibilità qui è un po’ diversa. Ne abbiamo già discusso.”
ZYLBERSTEIN – “Già, ne abbiamo già discusso. Appunto, non discutiamone più. Altro? Il
Fidanzatino Fred come sta?”
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ROGER – (E come vuoi che stia? Uguale a settimana scorsa quando eri a Londra e l’hai
visto. A venticinque anni le persone difficilmente crepano in una settimana. E poi a me non
interessa che Fred abbia altri amanti, al limite mi secca che se la faccia con te, ma cosa devo
dire, amen, se è per questo so anche che c’è mezzo sindacato degli attori, uomini e donne, che
gli corre dietro. Però caro Franz mi secca questa recita, tutte le volte.) “Fred sta bene, è alle
Canarie adesso. Ti chiamavo perché ho appena visto Benjamin Williams, ti ricordi?”
ZYLBERSTEIN – “Williams, Williams… Non è mica quello della commedia, come si
chiamava? ‘Solitamente in giornatà, la commedia sulle Poste inglesi, oddio se penso che ho
perso sei mesi a farla rigirare come un guanto per vedere se ne cavavamo fuori un film. E
tutto questo per fare un favore a te. E quel Willis, cioé Williams, che non voleva cambiare
neanche una virgola, neanche a coprirlo di soldi. Quando muoio fatemi un monumento alla
pazienza. E che dice il nostro Wilson?”
ROGER – “Williams? Niente, passava di qui, vuole fare un musical, ma io gli ho detto,
meglio che vai in pensione e ti salvi il deretano. Una storia improponibile su dei giocatori di
basket travestiti, ambientata in Nepal, voglio dire, tutta roba già vista, già sentita, il pubblico
oggi è più maturo di così. E poi l’Asia, chi se ne importa dell’Asia no?”
ZYLBERSTEIN – “Ah beh certo, lo sai come la vedo io.”
ROGER – “Ecco. Niente. Mi chiedevo, ma s’è fatto vivo anche con te?”
ZYLBERSTEIN – “No. Ti avrei chiamato subito. Uno sceneggiatore inglese, figurati. E poi
abbiamo degli accordi no? Comunque, come ti ho già detto prima, ho perso già un sacco di
tempo in passato, ormai quel Timothy Williams l’ho depennato.”
ROGER – “Benjamin. Benjamin Williams. Comunque se si fa vivo fammi sapere, non sia
mai che ci faccia perdere tempo di nuovo.”
ZYLBERSTEIN – “Figurati. Allora salutami Fred. Siete proprio belli insieme, ci starebbe un
bel matrimonio, voi inglesi queste cose le fate bene.”
ROGER – (Queste cose cosa?) “Sì. Già. Vedremo.”
Roger riappese, si tuffò all’indietro nella poltrona, incrociò le mani, stette fermo alcuni
secondi, forse minuti. Poi afferrò il telefono. Chiamò il suo assistente, Waller.
ROGER – “John? Ehi John. Niente, è come ti ho accennato prima. La storia di Williams sulla
ragazza pon–pon in Mongolia se la vogliono accaparrare quelli della Turner. Ho appena
parlato con Zylberstein. Ha fatto finta di niente, come sempre è un pessimo attore.” (E Fred
come sta?) “Comunque manteniamo la calma. Io ho detto a Benjamin Williams che ci
pensavo su, per il musical, sono stato sul vago, non volevo si montasse la testa, non sono
nemmeno sicuro che abbia una storia buona. Però non pensavo fosse andato davvero da
Zylberstein, lo sai che è uno smidollato Benjamin Williams, se non ci fosse sua moglie
Hannah, sai che è mia sorella, non parliamo neanche di come sia finita a sposare uno del
genere, una ragazza così fine, così sensibile. Se non ci fosse lei a tenergli insieme i pezzi. Ma
sai che aveva su i calzini di colore diverso? Comunque tu segui le mosse di Zylberstein e
fammi sapere. Mi chiedevi di quell’altro progetto con la BBC? Per carità lo sai che io quelli
della BBC non li sopporto. Tutte checche isteriche. Sì lo so, anche io sono una checca. Però
non sono isterico, sono una checca equilibrata, una checca con una relazione stabile, una
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checca laureata a Cambridge, vorrà dire ancora qualcosa o no in questo mondo oppure ormai
non conta più niente di niente? E come no, te lo saluto Fred, non ti preoccupare.”
Intanto, dall’altra parte dello stagno (nel senso dell’Atlantico), Franz Zylberstein si alzava dal
letto, si guardava allo specchio. Rughe e capelli bianchi, però sono un uomo interessante,
faccio ancora la mia figura.
E invece Roger che tristezza d’uomo che era, stempiato e con la pancia, un piede nella fossa
praticamente, non stupiva che il Fidanzatino Fred se la facesse con altri, questi inglesi come
invecchiano male, sarà la birra, sarà il mangiare. Però quel musical di Benjamin Williams,
cos’era? Qualcosa sui diritti degli omosessuali in Afghanistan.
Il punto è che per Zylberstein le cose di Roger erano impastocchiate da vecchia Europa, gli
altri azionisti della Turner non gliel’avrebbero mai perdonata, uno investe dei soldi per
produrre un musical e noi imbastiamo documentari sulla Bielorussia?
Solo Roger può correre dietro a queste cose. Sì, perché era chiaro, la sua telefonata tutta
interessata a sapere se Benjamin Williams lo avesse disturbato. E il fatto che a lui, Roger, lo
spettacolo di Williams non interessasse. Tipico Roger, in realtà aveva già messo almeno otto
sceneggiatori al servizio di Williams, come minimo. Certo però bisognava ammetterlo, in
passato Roger era stato il più grande, Moquette in rivolta non era solo un musical, era la
celebrazione dell’anarchia artistica tradotta in un linguaggio comprensibile alle masse,
un’opera subliminale e intimamente più rivoluzionaria di qualunque spettacolo si fosse mai
visto, e senza neanche un nudo, senza una parola volgare, mica quegli spettacoli con gli attori
che mostrano gli zebedei sul palco.
E adesso Roger pianificava una storia ambientata in Asia, quella di Williams o un’altra non
importava, Roger era determinato a dimostrare di aver ragione e di certo lo avrebbe provato
con qualcosa di rivoluzionario, qualcosa in Asia, il futuro era l’Asia.
Zylberstein lo sapeva, aveva sesto senso ma soprattutto aveva un infiltrato nell’entourage di
Roger che gli aveva raccontato di alcuni progetti, e comunque non si stupiva che Roger non
gli dicesse nulla. Gli accordi fra Roger e la Turner erano stati solo un grosso errore, il poco
che avevano prodotto insieme era stato un insuccesso, quando era andata bene avevano
coperto i costi. C’erano troppe divergenze di sensibilità artistica, e Roger era una primadonna
che non cedeva mai di un’unghia, e adesso che invecchiava diventava ancora più estremo.
Per contro, Roger aveva ottenuto entrature e visibilità nell’industria cinematografica
americana altrimenti impensabili, grazie agli accordi con la Turner – grazie a Zylberstein!
Perché Zylberstein se l’era dovuto scarrozzare per tutta New York e anche a Hollywood, e
Roger si faceva portare in trionfo a ogni festa, recitando la parte del produttore inglese
omosessuale ironico, Cambridge e tutto il resto, infilava gli aforismi, discettava di jazzisti
svedesi e oscure produzioni francesi e romanzi nordafricani e tutti gli altri intorno a
sorseggiare da bicchierini conici e ad adorare questo strano animale da bordo piscina.
E cosa aveva ottenuto Zylberstein in cambio? Solo una miriade di grattacapi, andare a
mettere una pezza ai disastri che Roger combinava a Londra ogni qualvolta si lanciasse uno
spettacolo americano della Turner nel West End, perché Roger se ne disinteressava e gli
spettacoli finivano in pasto ai critici senza nemmeno un intermediario.
Le rughe sulla fronte di Zylberstein probabilmente si accentuavano piano piano, mentre
rimuginava su tutte queste cose, e la solita piccola fitta allo stomaco si fece sentire. Pensò
allora che erano già le sette e che sarebbe andato a fare una bella passeggiata al parco e che
avrebbe letto i giornali e che doveva smetterla di bucarsi lo stomaco per niente. Ma non c’era
nulla da fare, la fitta stava lì e pulsava e l’unico modo per farla andar via era far qualcosa per
mettere a tacere i suoi tormenti. In maniera definitiva.
Ora io, chiaramente, le cose che passavano per la testa di Zylberstein non le so di preciso.
Non ho i poteri magici e non leggo nel cervello, anzi, mia moglie dice che so interpretare a
malapena i pulsanti del forno elettrico. Tuttavia so che Zylberstein, pochi giorni prima della
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morte di Roger, prese un aereo e venne a Londra. C’era quel festival del cortometraggio e lui
consegnava un premio. Al festival Zylberstein aveva una faccia bianca, mentre la solita
smorfia che gli metteva il mento fuoriasse rispetto al naso sembrava più che mai accentuata.
Questo lo so perché le immagini di Zylberstein al festival fecero il giro dei telegiornali, nei
giorni successivi a quando Roger Livengood fu trovato nel suo studio, in equilibrio sulla
seggiola rotante, con una pallottola piantata esattamente in mezzo alla fronte.
Al funerale, Zylberstein si presentò, nonostante le voci sempre più insistenti di un suo
coinvolgimento nell’omicidio. Il Fidanzatino Fred, che come molti mormoravano aveva
anche una relazione segreta con Zylberstein, fece una scenata, apostrofandolo al cimitero con
epiteti che qui non posso riportare, affiancati alla parola “assassino”. Questo non fece che
aggiungere elementi interessanti a chi seguiva la pista del delitto passionale.
In realtà, temo che la frustrazione del Fidanzatino Fred derivasse dal non essere
particolarmente soddisfatto in relazione alla vicenda ereditaria. A lui era toccata solo la barca,
ironia della sorte, visto che Fred soffriva il mal di mare e andava in barca solo perché Roger
negli anni lo aveva costretto, ma lui vomitava tutto il tempo e odiava il mare, sommamente.
Tutti gli altri beni, ma, soprattutto, i diritti sui musical e la proprietà della casa di produzione
di Roger Livengood, finirono invece alla sorella, cioé a mia moglie Hannah, con la quale
Roger aveva da sempre avuto un rapporto strettissimo, quasi morboso. Era l’unica donna per
la quale lui provasse emozioni.
E fu così che io divenni il marito di tutto quel ben di dio artistico. Fin da subito, Hannah
dichiarò di non volersi impicciare degli affari. Fu anzi felice del fatto che io, senza esitare,
prendessi le redini della faccenda.
Devo ammetterlo, furono anni meravigliosi. Successi, amicizie, prestigio ma soprattutto
totale libertà di espressione artistica. Nonostante l’età, mi comportai da bambino pieno di
energie. Fu un’infanzia ritrovata, con tutti i benefici materiali e psicologici dell’età adulta. La
salute non mi abbandonò, e anche quella fu una vera fortuna. Ovviamente, il primo progetto
cui mi dedicai fu il musical sull’Asia, che intitolai “Pensavo alla Mongolia”. Andò
abbastanza bene, ma niente di comparabile ai progetti successivi. Come noto, il nome di
Roger Livengood fu in breve sostituito dal mio.
Le indagini sulla morte di Roger proseguirono, senza risolvere il caso. Franz Zylberstein
rimase per anni il maggior indiziato, sebbene soprattutto nella testa dei giornalisti, che
sostanzialmente distrussero la sua carriera. D’altra parte sono cose che succedono, anche per
molto meno.
Dopo la morte di Roger, Zylberstein si allontanò dal mondo delle produzioni e prese a
scrivere racconti del terrore. Qualche anno dopo si ammalò allo stomaco. In pochi mesi la
malattia lo prosciugò e lo uccise senza tanto rumore.
Ogni tanto rifletto su quanto la vicenda abbia del meraviglioso. In quei momenti, la
tentazione di farne uno spettacolo è fortissima: forse è la storia migliore che abbia mai avuto
fra le mani.
Penso anche a Zylberstein, ma è uno di quei pensieri vaghi e oziosi, da divano. Trovo
confortante che tutta quell’arroganza stia ben custodita a tre metri sotto terra.
A Roger, invece, non penso quasi mai. La sua morte è talmente necessaria da sfiorare il
cliché. Roger era famoso per rubare le idee. Tutti lo sapevano. Ascoltava le storie degli altri,
fingeva disinteresse, e poi anni dopo se ne usciva con una produzione milionaria. Il musical
sulla Mongolia, nella testa di Roger, era diventato la sua storia sin dal giorno in cui gliene
parlai.
In primavera, quando sbocciano i narcisi, metto i guanti e raccolgo un piccolo mazzo fresco
per il vaso del soggiorno. I fiori crescono meno effimeri laddove un giorno seppellii la mia
piccola rivoltella.
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