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RIVISTA DI STUDI ITALIANI
CONTRIBUTI
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
ANTONIO D’ELIA
Università della Calabria
Arcavacata di Rende-Cosenza
ὅταν δὲ ὑποταγῇ αὐτῷ τὰ πάντα, τότε καὶ αὐτὸς ὁ υἱὸς ὑποταγήσεται τῷ
ὑποτάξαντι αὐτῷ τὰ πάντα, ἵνα ἦ ὁ Θεὸς τὰ πάντα ἐν πᾶσιν
(Προς Κορινθιους α' 15, 28 )
Ma Dio cos’è?
E la creatura
atterrita
sbarra gli occhi
e accoglie
gocciole di stelle
e la pianura muta
E si sente riavere
(Risvegli, L’Allegria, 1914-1919)1
U
ngaretti formula, in dolorosa ma, assieme, lucida partecipazione,
l’abreazione verso il mistero dell’Eterno incardinato all’atto poetico,
al proprio atto poetico, che è, pertanto, consustanziale all’enunciato
conoscitivo formante il suo “modulo scrittorio”.
1
Tutti i testi poetici ungarettiani che verranno ripresi nel presente studio,
quando non diversamente tratti da altre edizioni esplicitamente citate,
provengono da Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura
e con un saggio introduttivo di C. Ossola, Milano: Mondadori, “I Meridiani”,
2009.
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Il poetare ungarettiano è, dunque, inevitabilmente connotato al gusto
irrefrenabile di una linguistica che definiamo teologante e che verrà a
sviscerarsi nel corso del suo canto con sempre maggiore adesione quale
colloquiante dialogo tra l’inconosciuto e l’esserci. Esplicandosi con valore di
“predicato fondativo” fino agli ultimi testi e suggellando entro uno slancio
contemplativo profondo, che nella Parola rivelativa del Dio degli Ebrei ed in
quella estratta dall’Atto dell’Incarnazione segna in molti aspetti (se pur
diversi a seconda delle stazioni, o meglio degli approdi cui tenta, in desiderio
convulso, di un naufragio perenne e sagacemente belligerante con i marosi, di
cedere), diremmo in maniera perentoria, l’andamento del percorso lirico
italiano, e non solo. Una maturazione, questa, espressa nella graduale e
impavida esposizione del soggetto-persona alle escoriazioni di un io, quello
del cantore, appunto, che è turbato dall’attrazione proveniente dal terrore della
quiete minacciosa succedutasi al peccato (rottura dell’io con se stesso ed il
circostante). Peccato-disordine il quale non cancella la paura della sorpresa di
sussistere e che, assieme, spinge l’uomo a sollevarsi e capire la natura dello
stato in cui è.
Un esame, quello di Ungaretti, sul sacro e sul carattere religioso del verso,
che è parte integrante nel dire il disagio o la vicinanza-lontananza o ancora la
non-coprensibilità del Silenzio increato: la ricerca del motivo incessante di
senso. Anzi il senso principe connaturato alla formulazione contemplativa,
che è il canto stesso (lo spazio-tempo precedente e susseguente l’indagine
sull’essere oltre nell’ora, che si rende vertigine eidetica, produce nella
dittologia carne-spirito il punto più alto della gnosi), ossia alla natura non
umana a cui il “terragno” aspira.
La “mortalità” in tale passaggio avverte il bisogno, che è regola (poiché
diventa scadenzario necessitante per attuare il principio di stare al mondo, di
stare nel mondo), di congiungersi al mistero nel mentre il tempo dell’approdo
è sentimento drammatico del cantore, il quale è uomo che vive la sua durata
in mezzo e con gli altri uomini. Perennemente contrastato tra nullità (in senso
pienamente teologico-filosofico) e permanenza della nullità nell’io.
Nella poetica ungarettiana si dà avvio anche al contrastivo gioco tra
epifanica trasposizione dei segni del nulla-vuoto/assenza e orrore
continuamente richiamati ed in fondo mai percepiti stabili, mai
profondamente avvertiti in completi atti ricognitivi. Da questa mancanza, da
un vuoto cioè imbarazzato dalla pensabilità di colmarsi quale apposizione
dell’indistinto, Ungaretti aprendo all’ermetismo il proprio suono-forma lo
ribalta come per negarlo, secondo la felice analisi di Giacomo Debenedetti.
Questi legge significativamente la raccolta Sentimento del tempo,
soffermandosi specificatamente su alcuni testi, all’interno di un’accurata
riflessione erotico-mistica, che riprende, come modello cui attiene il poeta
dell’Allegria, il dérèglement de tous les sens di Rimbaud, in un ritorno
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continuo, quindi, alla distruzione del raggiunto. Entro una guerra necessaria,
esperienziale alla chiamata di rendersi nella contraddittorietà, appunto, nel
transeunte dell’esserci.
Un tempo la cui imprendibilità rende malato (infermo nell’impazienza di
raggiungere ciò che l’ente-cantore definisce “equilibrio”) l’uomo, poiché
quest’ultimo è affascinato (attratto ed avvolto dall’arcano) dall’immagine di
se stesso in-costruibile. L’immagine è smaniosa nel soggetto-uomo di
germinare il suo seme (produrre forme uguali e distinte, sublimi ed orrifiche,
ossessive e “occasionali”) come se volesse ingravidare della propria struttura
transeunte e non riproducibile, appunto, tutto il nostro essente:
Il sentimento che noi abbiamo del tempo è coscienza affettiva del nostro
durare in esso: ne nasce, dunque, una poesia fisica, sentimentale, sensuale,
affettiva, morale. La raccolta ermetica di Ungaretti, quella che appunto si
intitola Sentimento del tempo, porta al limite la possibilità della poesia
metafisica, la registrazione di eventi e attimi di esistenza che annunciano
un senso e non lo spiegano […].
Il poeta stesso, nella Nota introduttiva al poema Terra Promessa, ha
indicato il punto di quel passaggio – il passaggio riguardante l’intera
parabola della sua opera – in una delle sue poesie del ’34-’35, quindi
successivamente al Sentimento […]. È la poesia che si intitola Auguri per
il proprio compleanno. […].
L’esperienza sensuale [della quale discorre il poeta e sulla quale si
incentra Debenedetti nel suo esame] cattura le immagini, gli eventi, con
una tale forza, che ha l’illusione di possederle. Ma quelle immagini,
appena si fissano in se stesse, appena si oggettivano così vivide,
ricuperano il loro arcano, la loro inconoscibilità, la terribile estraneità, le
quali ci dimostrano che non le avevamo mai realmente possedute, che
realmente non le possederemo mai.
Il carattere principale, che finora abbiamo trovato in comune a tutta la
poesia ermetica, è proprio questa contraddittorietà: ineluttabile forza di
apparizione sensuale delle singole immagini, di quell’imporsi delle loro
forme alla vista, all’udito, a tutte le nostre facoltà sensitive e sensoriali, e
viceversa il loro negarsi al nostro bisogno di conoscerne il significato.
[…].
In tutta la mistica il massimo della spiritualità si manifesta associato al
massimo si sensualità. Persino l’ascetica, questo momento preparatorio
dell’estasi, è energia di una sensualità che si nega. E la carica che spinge il
mistico al grande balzo, all’estatica fuoriuscita da se stesso per
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raggiungere l’assoluto e il divino, ha molto in comune con una carica
sensuale2.
La critica ungarettiana si è rivolta in modi diversi a perlustrare il nesso
poesia-sacro e tuttavia indagante necessariamente la vocazione della “storia”
tormentata di un’anima, quella del poeta. Il quale è rapito tra idola e
recrudescenza di un’agnizione febbrile, la propria, nell’incauta (voluta)
caparbietà di porre l’ascoltatore poetico (il poeta nella sua vicenda e l’astante)
fuori, oltre la datità inevitabilmente connessa all’atto “uditivo” precedente e
susseguente il canto. Come a voler rompere una linearità tra pensiero ed
essere in fondo mai acquisita da Ungaretti, e, tuttavia, percepita dal poeta
quale punto nodale dell’esistere metafisico (e versificatorio). E, pertanto,
rivestita di continui interrogativi, che fanno dell’analessi accurata del
Girovago la procedura compositiva robusta da cui il soffio dell’inespresso e
pur presente si edifica:
Che cosa resti alle immagine, senza più ‘apparenze’, che cosa ai miti
edenici tolta la ‘divinità’ (l’innocenza della parola d’innanzi nascita), alla
discesa primordiale nel grembo dei quattro elementi (i fiumi, la terra di
Lucca e le pietre di trincea, il ‘nuovo vento’ di Popolo [redazione 1931], il
sole dei miraggi – ‘con i suoi calcinanti’ nel Sentimento) quando essi siano
misurati al tempo, è quête, ricerca e ossessione, che – chiuso appunto il
Sentimento del Tempo – tenta nelle prose il confronto con lo spessore
storico della materia, con la fisicità corporea del presente3.
Allucinazione coperta anche da cronaca e fascinazione di istanti, pertanto,
cronachistici impiegati dal senso come “vettore capriccioso” dell’anima (ma
questa sembrerebbe una visione troppo riduttiva), che si immola senza mai
fermarsi a gestire tra accaduto e veniente la caustica riviviscenza dei pensieri
disordinati portando a smontare l’Assoluto e nutrire il canto proprio dei
discorsi attorno a quest’ultimo. Nell’ansia sempre attiva di ricostruzione
diremmo storica (non solo propria), in un flusso riordinatore precario ma
continuo di propositi rivolti a depositare nella memoria e nei suoi lacerti punti
fermi sui costumi che avevano condotto il poeta a parlare e scrivere (a dire in
un certo modo le cose), la maturazione cioè del piano riflessivo si rende non
in contrasto ad una logica calcolante il reale nelle sue fattezze fenomologiche
comunemente avvertite da “tutti”, quanto in una esplorazione dei termini
2
G. Debenedetti, “Ungaretti”, in ID., Poesia italiana del Novecento.
Quaderni inediti, introduzione di P. P. Pasolini, Avvertenza di R.
Debenedetti, Milano: Garzanti, 1980, pp. 84-85.
3
C. Ossola, “Un indice, un incubo”, in ID., Figurato e rimosso. Icone e
interni del testo, Bologna: il Mulino, 1988, pp. 213-214.
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ragionativi sul modo della percettività. I risultati poetici “raggiunti” non
rinnegano le precedenti tappe analitiche, ma le perlustrano nel mentre ne
edificano l’origine. Origine è parola chiave di tutto il suo pensiero-poesia:
Certo commettevo un errore quando nel ’22 dicevo che in Dostoevskij non
c’era se non un fantasma che diventava turba per potenza allucinante dello
scrittore. C’è realmente una turba, e non di fantasmi; ma di cuori doloranti
– un dolore d’inferno. È una turba, e ciascuna persona è data – il senso
vivo di ciascuna persona – non per quello che ha fatto o voluto fare, ma
per quello che ha sognato di fare – e sognato è qui detto in senso letterale;
per quello che è come apparso in istato di sonno, e che non si sa come
interpretare, e che viene raccontato come se un cieco dalla nascita
raccontasse la sua visione del mondo. E se in quei romanzi si fa un gran
parlare del divino e di Dio, in fondo in fondo è orrore della vita, è senso
del nulla equivalente a senso del divino: è il senso d’un’umanità che si
raffigura in un’orrenda mitologia e nella quale ciascun individuo non si
differenzi dagli altri se non per la turba mostruosa e torturante delle
proprie fissazioni.
Ma subito dopo, e forse non erano nemmeno passati due o tre anni,
l’esame di coscienza doveva prendere un carattere spasmodico.
Inquietudine, perplessità, angoscia non potevano non sconvolgere allora
smisuratamente l’animo d’un poeta, del poeta dell’Inno alla Pietà4.
Il non sapersi “accasare” (Girovago, Campo di Mailly maggio 1918) diventa
nell’Allegria la cifra primaria del suo peregrinare, che è volto, in modo
congenito alla formazione dello stesso girovagare oltre il tempo ed il luogo
specifici contattati comunque, ma in modo frammentario, dall’irrinunciabilità
all’esserci. Ad un esilio, “pertanto” e assieme “intanto”, squadernato dalla
brama di ricavare dal mistero una sorta di giustifica all’impazienza propria del
cantore. Quella cioè di darsi in una parola che sa di essere frutto di una
accurata “logopatia smaniosa”. Di ricercare nella nevrosi del segno-suono il
motivo del dramma che sopporta mentre gira continuamente e vede la
finitezza come forma e “contenuto” del suo stesso riflesso cognitivo:
In nessuna
parte
di terra
mi posso
accasare
4
G. Ungaretti, “Ragioni d’una poesia”, in ID., Vita d’un uomo. Tutte le
opere, a cura di L. Piccioni, Milano: Mondadori, “I Meridiani”, 2005 (I ed.
1969), pp. LXXII- LXXIII.
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ANTONIO D’ELIA
A ogni
nuovo
clima
che incontro
mi trovo
languente
[…]
E me ne stacco sempre
straniero
Nascendo
tornato da epoche troppo
vissute
Godere un solo
minuto di vita
iniziale
Cerco un paese
Innocente
(ibidem).
Se con formula perentoria chiede il motivo del suo desiderio di Dio, del suo
ardore verso Dio, proprio col verbo “bramo”, che è evidentemente posto alla
prima persona del presente indicativo (Dannazione, Mariano il 29 giugno
1916), il poeta esprime l’atto di apertura oltre il senziente. Al di là delle
robuste pareti costituite da quelle “cose mortali” (ibidem), che nel momento in
cui vengono dette fondano a nostro dire in maniera apofantica la presa d’atto
dell’essere del mondo e una prima via d’accesso che immette oltre “cielo
stellato” (ibidem):
Chiuso fra cose mortali
(Anche il cielo stellato finirà)
Perché bramo Dio?
(ibidem).
In Varianti a L’Allegria5 notiamo evidenti le sostituzioni dell’interrogativo in
formula causale e l’eliminazione della parentesi (edizione del ’23) per poi
ritornare nel ’43 (edizione Mondadori) alla stesura primaria con la
5
Cfr. L’Allegria – Varianti a cura di G. De Robertis, “Aggiornamento” di M.
Diacono, in G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le opere, cit., p. 615.
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reimmissione della parentesi e dell’interrogativo.
E la lirica con la quale abbiamo aperto lo studio, Risvegli avente identica
intestazione (luogo e data della precedente Dannazione), Mariano il 29 giugno
1916, insiste sull’interrogativo palese. Si sofferma non camuffando l’oggetto
del canto, ossia Dio, per cui il tempo che è viene determinato dal poeta come
vissuto. Ed ora è in quanto immerso nel già, che è stabile nel presente, quando
lo si richiama, eppure passato nel mentre lo si nomina: i vettori, persone e
cose morte e date nel qui come “consuete” (Risvegli), di uno spasmo verso
l’Essenziale, muovono alla vita, palesemente espressa dai verbi “desto” e
“riavere” (ibidem), riferiti al poeta e al tutto.
Da ciò la presa di coscienza di una maturazione dell’idea di cantabilità del
nulla-sacro e di un moto che travalica il calcolo di una poesia che
dichiarerebbe nell’incertezza del procedere la tragicità dell’assenza quale
impossibilità di suggerire alternative che non siano continui ritorni di represse
fughe nel vuoto. Il quale è spesso frutto di circostanze speculative limitate nel
dare dell’esperienza anche un connotato problematizzante in seno ad una
riflessione sull’oltre che resta ancora disorientata.
E se Pier Paolo Pasolini definisce appunto il problema del rapporto con Dio
la questione (indagine) primaria di Ungaretti, anzi espressamente formula per
tale quaestio un preciso “confronto” tra il mondo poetico ungarettiano e
l’elemento religioso: “la religiosità si esprime direttamente come problema di
Dio”6. L’espressione “Dio” come dichiarazione soggettiva e oggettiva
assieme, di un soggetto e di un oggetto che formano i rispettivi complementi
predicativi (del soggetto e dell’oggetto), crediamo non dica la sovrapposizione
Dio-poeta o Dio-io. Ciò sarebbe un gioco retorico e “speculante” ormai
esauritosi per un poeta qual è Ungaretti, nel momento in cui esprimono
grammaticalmente l’identificazione “di Dio” (come scrive Pasolini) con la
ricerca primaria del Sacro da parte dell’uomo-poeta. Nel senso cioè di una
impellente necessità esistenziale. Un canto che è assieme questio, qui da
intendere come lamento tormentoso di desiderio metafisico incessante, che
formula la succitata quaestio.
Siamo entrati di fatto nel vivo dell’esame che tenteremo, nel mentre
ovviamente lo verificheremo, di esporre: quello inerente il sacro e l’aspetto
religioso in Ungaretti ritenuto, e non a torto, carattere centrale della sua
poetica.
Le stigmate di una creazione che in un riflesso teofanico producano
affidabilità da parte del poeta al mistero incondizionato sembrano non esserci
nell’Ungaretti giovanile. E, tuttavia, la smania di indagare l’ostacolo che gli
impedisce di accedere alla risoluzione di sé è da ricondurre ad un palese
interrogativo teologico formulato in seno alle riflessioni più antiche del
6
P. P. Pasolini, “Un poeta e Dio”, in ID., Passione e ideologia, Milano:
Garzanti, 1973, p. 354.
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cantore. Frutto o addirittura “scarto”, poniamo per il momento in questi
termine le movenze primarie dell’analisi, della cultura a cui appartiene e verso
la quale il “neofita artista”, assorbendola, tenta inevitabilmente di imploderne
gli assi portanti con l’apparente germinazione della vocazione ad un certo
assunto (in questo caso il divino) per advenire ad una rimozione del suo senso
più ancora che del suo segno.
Se alla dichiarazione palese del e sul Sacro il poeta partecipa con il “nome
divino” palesemente immesso nella formulazione poetica, parto sì della
filosofia ma assieme orma chiara del “di più” che lo sovrasta e lo regge, se
dovessimo, quindi, vedere da quest’ultima angolazione l’intero quadro, allora
parleremmo di ricerca programmatica del mistero sin dall’inizio del suo canto.
Mistero, quindi, come cifra desunta dal moto interiore da cui e per cui l’uomo
è contemporaneamente pensato oltre e dentro la sfera materica:
Nelle mie carte, trovo alcune mie prime annotazioni. Sono di data
abbastanza lontana, posteriori all’Allegria e indicano come, da pensieri,
quali erano quelli che ispiravano il mio libro scritto nella tragicità della
trincea, pensieri di stretta essenzialità espressiva, tutta ristretta nel
vocabolo, passassi a più complesse ricerche per le quali l’antecedente
esperienza rimaneva però sempre viva. Alludo ad alcune mie annotazioni
che uscirono sulla ‘Ronda’ nel 1922. Trovo detto in quegli appunti: […].
‘Ma noi sappiamo benissimo che, se per l’uomo tutto poggia sempre su
un dato oscuro, nessuno sarà in grado di risolversi umanamente in tale
dato senza confondersi perdersi e annullarsi […]’.
‘Il mistero c’è, è in noi. Basta non dimenticarcene. Il mistero c’è, e col
mistero, di pari passo, la misura; ma non la misura del mistero, cosa
umanamente insensata; ma di qualche cosa che in un certo senso al mistero
s’opponga, pure essendone per noi la manifestazione più alta: questo
mondo terreno considerato come continua invenzione dell’uomo. Il punto
d’appoggio sarà il mistero, e mistero è il soffio che circola in noi e ci
anima; ma noi siamo portati a preoccuparci di quegli sviluppi che dànno
situazione magari a un albero in un paesaggio; di quella trama di rapporti
che non tollera spostamenti se non subendo un cambiamento di carattere.
Perciò per noi l’arte avrà sempre un fondamento di predestinazione e di
naturalezza; ma assieme avrà un carattere razionale, ammesse tutte le
probabilità e le complicazioni del calcolo’7.
Comprendiamo, di conseguenza, come religio significhi pienamente e
volutamente in Ungaretti legame al (e del) divino.
7
G. Ungaretti, “Ragioni d’una poesia”, in ID., Vita d’un uomo. Tutte le
opere, cit., pp. LXVIII-LXIX.
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Un rapporto, poeta-sacro, al quale Ungaretti nulla concede in deroga se non
una continuativa ipoteca (obbligo) di sviscerare nella parola il nesso da cui
quest’ultima dipende.
E non tanto come risultato di una “naturale”, evidente suggestione, pur
presente nel rapporto uomo-natura-ambiente, dei relitti culturali variamente
disseminati. O ancora suggestione derivante dal lavoro effettuato tra sé
(strutturalmente flesso e l’Incognita) e il mondo, quanto una riflessione che fa
dell’intuizione sull’origine e lo stato delle cose la fantasia motrice dello stesso
atto empirico a cui il poeta approda in una epistematica analisi rigorosa tanto
degli affetti dell’anima quanto della presa d’atto della modernità. In questo
senso fantasia ha in sé il valore, come spiega Ungaretti, che sostanzia il
pensiero o nella recrudescenza per ciò che non ha potuto sgravare o nella
strategia sottile, e spesso malevola (di contro all’innocenza che ricerca e che,
tuttavia, non conosce la “natura completa”), per ciò che non ha saputo o
voluto abortire. In ogni caso al centro del discorso crediamo vi sia una parola
che ha intenzione di dire in senso attivo il confronto sempre e comunque con
l’Essere. Di essere cioè linguaggio come “valorialità” ultima e prima assieme
affinché si attivi la salvezza oltre l’“immaginabilmente” stesso della parola.
Oltre, dunque, la sua fantasia:
Non si trattava più d’intendere la misura come mezzo per chiarirsi il
sentimento del mistero; ma di spalancare gli occhi spaventati davanti alla
crisi d’un linguaggio, davanti all’invecchiamento d’una lingua, cioè al
minacciato perire d’una civiltà – si trattava di cercare ragioni di una
possibile speranza nel cuore della mia stessa storia: di cercarle, cioè, nel
valore della parola.
Concludevo con le seguenti osservazioni, una lettura che feci in molte città
italiane, e quasi dappertutto in Europa, e nella quale discutevo dello
sviluppo storico della poesia italiana e europea:
‘Dice Galilieo: “Quello che noi ci immaginiamo, bisogna che sia o una
delle cose già vedute, o un composto di cose, o di parti delle cose altre
volte vedute, e tali sono le sfingi, le sirene, le chimere, i centauri…”
‘È noto quale importanza fosse dall’Umanista attribuita alla memoria; ma
egli, nel tempo, aveva scelto certi modelli stabiliti della bellezza formale.
Se il Seicento ha l’idea già scientifica della memoria indicataci da Galileo,
e porta una grande rivoluzione nelle forme, ed è un secolo violento
d’espressione, trova appunto nell’identità fra memoria e fantasia,
quell’eccesso di fantasia che gli permetterà di ricongiungere gli spezzati
modelli in una forma nuova sì, ma non meno regolata dalla classicità’.
Ai primi dell’800 la memoria prende un tutt’altro senso: il Romantico è
filologo, e non crede, o non vorrebbe credere, in nessun assoluto,
nemmeno in quello di date forme perfette. […]. Il Leopardi è uno dei
primi a fissare la diversità di coscienza tra l’uomo dei tempi omerici e
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ANTONIO D’ELIA
quello del secolo d’Augusto. Ma non è qui la scoperta. Egli, indicando due
tappe della sensibilità, mette in moto tra quei due stati della coscienza, una
frazione di tempo come riflesso variabile, come il simbolo fluido, lo
specchio della vita psicologica.
‘La nozione di tempo è ormai data come storia dell’anima e d’un’anima –
in quei termini cioè che svilupperà il Romanticismo’8.
Ed è proprio il recupero che Ungaretti fa dei motivi originari del suo
poetare, che in sé include atto e pensiero, dramma di vivere e dramma per la
vita, dramma per la morte e ansia di una fine imminente e terrifica
nell’incognita di una sua epifania, appunto, sconosciuta, che segna una
visitazione puntuale non solo su ciò che è stato fatto, ma soprattutto su quello
che resta da fare: ossia paradossalmente l’approdo progettante il tempo di là
da venire continuamente: che è, poi, il desiderio di naufragare.
L’ansia di dire in versi è, pertanto, connaturata all’ansia di dire il mistero a
cui il poeta aspira ed in cui vuole palesemente scrutarne i principi affini o
addirittura allusivi alla propria genesi creativa.
Un rapporto quello tempo-memoria-immagine-linguaggio che è
“deliberatamente denotativo” della formazione del morfema lirico e della
metrica forgiata di volta in volta a seconda dell’idea che gestisce in musica
“l’equazione approssimazione memorifica-sentimento del tempo”. In essa si
viene a costituire il legame (variamente presente e diversamente attuato lungo
tutto il suo poetare) a partire dall’Allegria (e specificatamente in questa) e nel
Sentimento del tempo tra
elementarità ritmica e […] violenza espressiva, deformante, a un
espressionismo. Da qui la densità semantica, quasi iperbolica delle due
parti polari del discorso (che nasce posteriormente alla parola […]), il
nome e il verbo, e l’insistenza egocentrica sulla prima pers. del pres. ind.,
e forme personalizzanti affini. […]. Nell’Allegria è ben maggiore la
presenza dell’identificazione analogica, un po’ come già in Rebora e nei
vociani. […].
Ungaretti ha raggiunto l’elementarità del dettato, l’isolamento e la
pregnanza di parole e immagini talora d’acchito, spesso attraverso un
travaglio elaborativo protratto e tormentato. […].
Il Sentimento del tempo presenta magari anche caratteri involutivi,
comunque molto diversi, rispetto all’Allegria, a cominciare dalla gabbia
metrica: versi e non più versicoli, e versi tradizionali come l’endecasillabo
spesso ricostruiti nell’elaborazione; maggiore complessità metrica; e poi
prevalenza del legato o mannianamente dell’invertebrato, sullo staccato,
ritorno della punteggiatura […].
8
Ibidem, pp. LXXIII-LXXIV.
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Col maggiore “tradizionalismo”, o meglio compromesso fra
innovazione e tradizione del Sentimento, con la sua maggiore apertura a
fonti “classiche”
o vicine, quali Petrarca e Leopardi, Pascoli e
D’Annunzio, va l’aulicizzare non raro […] colpiscono anche qui quelle
complesse e tormentate […], talora con ritorno al punto di partenza, e la
ricerca di una maggiore essenzialità9.
Una tale costruzione è dettata dall’ansia al ritorno del sentire/vedere e del
tratteggiare i tempi delle attese verso un oltre decifrato in sequenze ritmiche
differenti e, tuttavia, sempre smaniose di decretare una soluzione che ricavi
l’innocenza del cantore di fronte la guerra che vive come io peregrinante o
addirittura come soggetto di un illusione dei sensi, che schiacciano ogni
speranza di congiungimento con l’Essenza.
E nella lirica Preghiera, atto diegetico/lirico compiuto e accuratamente
informato dal senso di religio/fede, il poeta si fa presenza nella “lucidità
fatica”. Nella presa di coscienza del “fine” del suo dire, ossia a partire dalla
“fine” del suo stato. Costituendo pertanto la chiara, partecipativa
frequentazione dell’io storico (il soggetto a cui ci siamo riferiti) all’io lirico
unitamente all’astante-uditore ed immergendosi nei marosi del naufragio per
aprire parte decisiva dell’intera poetica (la causa del suo linguaggio), la
ragione della sua musica, come spiega Emerico Giachery:
Preghiera, alla cui evidenza significativa, quasi di “punto trigonometrico”
dello spazio poetico ungarettiano, concorre più di un elemento. Anzitutto,
e soprattutto, la forte posizione finale nel macrotesto dell’Allegria; subito
dopo, l’impegno dell’elaborazione variantistica che imprime al testo un
senso di armonica misura e di durata che lo distingue dagli altri della
stessa raccolta a prelude a Sentimento del tempo; infine la stessa
compagine come di cristallo del testo definitivo10.
Tutto il suo dire poetico è da ricondurre a quelle premesse costituite in
apertura e che ora abbisogna vengano sciolte più compiutamente. Quelle
relative ai termini di religio e di fede unitamente all’espressione nulla, che è
chiave di volta a nostro avviso nella riflessione ungarettiana operante
dall’interno della parola un rinnovamento decisivo ed anomalo assieme non
solo in seno al genere poetico, ma alla connotazione di poesia come atto
salvifico o dannazione, cioè inerente il genoma (corredo cromosomico) dell’io
lirico.
9
P. V. Mengaldo, La lingua della poesia. Giuseppe Ungaretti, in ID.,
Storia della lingua italiana, Bologna: il Mulino, 1994, pp. 218-221.
10
E. Giachery, “La parola trascesa”, in ID., La parola trascesa e altri scritti,
Roma: Vecchiarelli Editore, 2001, p. 33.
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Punti decisivi, questi, che costituiscono discorsi-teorie di Ungaretti sui
modelli cui attiene o da cui, perlustrando l’abitato, se ne sente attratto o
rifiutato.
Petrarca principalmente e la classicità come “nostalgia dell’Antico”
(nell’ampia modalità che il sintagma ungarettiano significa), Leopardi, ed
ancora, in un duplice connettere ed espellere, Modernità e avanguardia, come
pure Dante (lontano-vicino), Mallarmé, Bergson, il viaggio come peregrinatio
e la Bibbia quale codice insostituibile alla traslazione definitiva del semema
ungarettiano educato nella citata classicità.
Il poeta cerca una poesia che sia resa (in modi non sempre simili) in tono
orante, ovvero canto, strutturalmente orchestrato, rivelato dalla ritmica
dell’invocatio, tanto laus nel silenzio dei suoi timbri (cioè nel mistero che
recita) quanto “prex”, che in definitiva è una vera in-vocazione (chiamata a
dire, votata a parlare), è canticum:
Così dicevo nel 1922. Nel 1930 mi avveniva, sulla ‘Gazzetta del Popolo’
di Torino, di dovermi a quegli appunti riferire […]:
‘Le mie preoccupazioni in quei primi anni del dopoguerra – e non
mancavano circostanze a farmi premura – erano tutte tese a ritrovare un
ordine, un ordine anche, essendo il mio mestiere quello della poesia, nel
campo dove per vocazione mi trovo più direttamente compromesso. In
quegli anni, non c’era chi non negasse che fosse ancora possibile, nel
nostro mondo moderno, una poesia in versi. Non esisteva un periodico,
nemmeno il meglio intenzionato, che non temesse ospitandola, di
disordinarsi. Si voleva prosa: poesia in prosa. La memoria, a me pareva,
invece una àncora di salvezza: io rileggevo umilmente i poeti, i poeti che
cantano. Non cercavo il verso di Jacopone o quello di Dante, o quello di
Petrarca, o quello di Guittone, o quello di Tasso, o quello di Cavalcanti, o
quello del Leopardi: cercavo in loro il canto11.
Entriamo nel vivo del tessuto poetico ed esaminiamo Preghiera.
L’attenzione si ferma sulla formula temporale di apertura, sull’avverbio
“Quando” (Preghiera), che schiude la nozione, appunto, di tempo in un
percorso formativo accurato e lineare. Esso ci informa della possibilità di
cambiamento dello stato del poeta. Un mutamento che è sentito come augurio,
ma assieme atto volitivo, perentoria presa di possesso del percorso cui l’io
lirico indica di imboccare. Una sorta di vaticinio-profezia in cui in modo
singolare, come molti commentatori hanno evidenziato, il poeta con formula
di richiesta, appunto, imperativa, propria della preghiera, per cui l’orante,
11
G. Ungaretti, “Ragioni d’una poesia”, in ID., Vita d’un uomo. Tutte le
opere, cit., p. 9.
133
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
come a nostro avviso accade anche nel poeta, in virtù del legame con Dio, può
esercitare filialmente un comando per richiedere.
Un concessivo diremmo d’obbligo che il poeta porge a se stesso (è un dono
che si concede, è una sorta di “pensata allucinazione”, un’illusione che riversa
nel dopo e da cui inevitabilmente si genera speranza) e che rivolge a Dio: cioè
una petizione, a noi pare, che dovrà essere esaudita poiché vi è
consapevolezza (fiducia e timore) nel mistero. La cui storia per il poeta si è
spalancata prima dell’atto-poesia ed ora nel linguaggio in versi epitoma
l’augurante naufragio, che è qui tra i primi e più palesi segnali dell’indiarsi
(non in senso “eroico-pagano” ma in senso “teologico-cristiano” pur senza
alcuna, per il momento, almeno apparentemente, dichiarata specificazione di
completa affidabilità) dell’uomo e del cantore:
Quando mi desterò
dal barbaglio della promiscuità
in una limpida e attonita sfera
Quando il mio peso mi sarà leggero
Il naufragio concedimi Signore
di quel giovane giorno al primo grido
(ibidem).
All’ottativo è posta appunto la “futurità” del prodotto poetico, nell’accezione
salvifica: “Quando il mio peso mi sarà leggero” (ibidem), incrementando così
la vicinanza al mistero, che inevitabilmente segna ora il passaggio da uno
stadio “laicistico” ad uno di fede. Entriamo così nel vivo del rapporto di cui si
accennava.
Il “Quando” indica non solo il tempo dell’approdo, ma indirizza il lettoreuditore a tenersi pronto per il momento in cui approderà.
Se il poeta è legato ad un cristianesimo culturale, ossia ad una cultura
cristiana trasmessagli dalla famiglia, in cui la fase di aperto ateismo ne è
lealmente la convinta maturazione interpretativa, il distacco dall’atmosfera
cultuale-culturale, di una religiosità, quindi, unicamente erudita e sostenuta, di
conseguenza, da un ateismo ben saldo all’eversione dei suoi prodromi, è
l’accadimento, la maturazione del naufragio. Il quale realizza convintamente
un primo approdo al cristianesimo. Si epifanizza, cioè, come fatto storico, e
quindi può prodursi come evento lirico.
Il poeta inizia ad esprimersi “nell’adesione” ad una chiamata, che non è solo
frutto dell’elaborazione artistica, ma maturazione della fede:
134
ANTONIO D’ELIA
Al di là dell’ovvia relatività di qualsiasi osservazione dall’esterno di così
delicati moti dell’animo, di per sé inafferrabili, si può tentare di seguire
l’itinerario spirituale di Ungaretti pure attraverso la sua opera, anche se la
corrispondenza non è sempre dia cronicamente precisa. […].
Alle consuetudini religiose della famiglia d’origine Ungaretti accenna
anche nella lirica in prosa Lucca, compresa nella sezione Prime de
L’Allegria: riferisce della recita del rosario, in comunità, a orario fisso,
(‘dopo cena’) in un contesto di sacralità che porta alle origini. […].
In discordanza con le notizie biografiche, che farebbero ritenere ancora
lontano il momento della conversione, è la lirica Preghiera, nella quale il
poeta si rivolge direttamente a Dio chiamandolo ‘Signore’, con evidente
desiderio di chiarificazione interiore, di individuare la giusta strada di
realizzazione12.
“Barbaglio della promiscuità” (ibidem) costituisce la valenza del portato
storico, appunto di una storia che è assieme personale e comunitaria,
intersecantesi con gli avvenimenti dei tempi e del tempo intimo del poeta, in
cui Ungaretti tenta di divincolarsi per ritornare a leggere lo scadenzario
umano con occhi rigenerati dalla brutalità del vuoto-nulla.
“Promiscuità” (ibidem) è formula intesa come l’insieme aprentesi all’io; ed
essa invischiando quest’ultimo nelle trame avverse alla salvazione dell’ente
(non solo in senso “religioso”) attua la “mescolanza dell’indistinto”:
“Promiscuità sono i contatti che si hanno in un momento storico, cagione
d’irretimento di imbrogli a chi cerchi un proprio orientamento chiaro”13. Tutto
ciò è operato a partire dalla necessità impellente di comprendere l’“avvertita”
e sovrastante assenza.
Il concetto di tale atto, l’espressione di questo non-essere, che è in ogni caso
un presente proprio nel suo non svelarsi, o meglio nel suo disvelarsi quale
assenza compiuta e, dunque, essenza posta al grado “negativo” del suo
partecipare. Occorre domandarci, arrivati a questa tappa dell’analisi, in quale
modo il poeta porge a noi l’assenza del suo canto?
La critica ungarettiana ha esplorato tale passaggio fondativo non solo
partendo dai testi, ma dalla dichiarazione di poetica, che è intimamente l’atto
di pensiero, lo statuto teorico, e che in Ungaretti viene ad essere registrato
anche nelle tappe storiche del suo mestiere di critico letterario, di docente
universitario, giornalista, intellettuale. La ricerca di una tecnica poetico12
G. Baroni, “La ricerca di Dio nella poesia di Ungaretti”, in P. Gibellini
(ed.), La Bibbia nella letteratura italiana, II, L’età contemporanea, a cura
di P. Gibellini e N. Di Nino, Brescia: Morcelliana, 2009, pp. 215-17.
13
G. Ungaretti, “Note” (a cura dell’Autore e di A. Marianni), in ID., “NoteL’Allegria”, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, cit., p. 527.
135
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
linguistica e l’applicazione dei risultati a cui approda, dal frammento all’
“inno-canzone” all’ “epigramma” cadenzato e al verso spesso “oscuro” nel
suo giro tonale sono in Ungaretti la possibilità (il frutto della scelta di essere
uomo) per cui debba e possa essere Girovago. Si conceda e venga sgravato,
cioè, all’innesto nella Modernità-Contemporaneità. E qui riprendiamo i citati
classici e il canto dei poeti italiani.
Nel recuperare il passato scavando in esso la cuna, che è culla-mangiatoia e
sepolcro, Ungaretti tenta di raggiungere l’innocenza mediante la memoria,
entrando ed uscendo repentinamente dall’idea di tempo attraverso la repetitio
della figura dell’approdo. Il quale garantisce assieme stabilità per l’arrivo e
incertezza poiché quest’ultimo non può e non deve essere stazione definitiva,
se mai vi fosse un approdo.
A Petrarca Ungaretti affida convintamente il ruolo di traghettatore della
parola come trasfigurazione alta e sublime del linguaggio poetico, che è
veicolo di luce. Il verso, annunciando l’approdo nella e della Modernità,
stabilisce la misura dello sbarco come già attuato: come un ricordo operato
nella felicità luminosa e numinosa del trascorso, la cui traccia è in noi
presente ma non afferrabile: una presenza “certa” che nel nunc si palesa come
presenza di un’assenza, come commenta Romano Luperini:
Per Ungaretti Petrarca è il ‘nostro migliore e maggiore contemporaneo’. È
l’inventore della poesia moderna perché è l’inventore del tempo, del
‘sentimento del tempo’. L’interpretazione della poesia petrarchesca che
Ungaretti ci offre è splendidamente modernista. Nella poesia del
Canzoniere la meta sta dietro le spalle. Ogni luce è trascorsa e può solo
essere ricordata. […]. Il poeta è in esilio dal passato, in una separazione
senza pace. La sua condizione è quella dell’assenza. La malinconia è
l’unica corda che possa esprimerla. Malinconia, esilio, assenza, mito degli
inizi: si squaderna qui tutta la gamma tematica del modernismo simbolista
e primo novecentesco. La durata non è solo più bergsonianamente una
condizione dell’interiorità o della coscienza, è soprattutto percezione di un
distacco storico da colmare attraverso un tragitto a ritroso fra le rovine e i
detriti del passato. Il linguaggio della poesia porta con sé, insieme,
l’invecchiamento del mondo e l’eco dell’origine perduta. Petrarca insegna
la nostalgia dell’Antico; e come raggiungere l’innocenza attraverso la
memoria14.
Attraverso il poeta di Laura, Ungaretti registra e (soprav)vive alla
deflagrazione dell’immagine come specchio di una eternità che si
perpetuerebbe nella narrazione del prima, non inteso unicamente come topos
14
R. Luperini, “Modernismo e antimodernismo”, in ID., L’autocoscienza del
Moderno, Napoli: Liguori, 2006, p. 27.
136
ANTONIO D’ELIA
che giustifichi l’annullamento della storia in successione di avvenimenti, ma
stazione presente a cui rivolgere l’analisi sui “succeduti”, intesi, quindi, quali
motivi principali da osservare e a cui tendere. Pur non afferrabili nella
procedura mimetica di ripetibilità: egli salva nell’arcano primario il calco
dell’azione, ma non riconnette in forma a-razionale, come potrebbe sembrare
(e come per altro da noi già sottolineato), il presente ad esso, se non come
partecipazione storica. E il barocco è chiaro segno di un continuum a cui si è
pervenuti e si perviene solo attraverso la rottura della pur presente origine,
anche mediante l’assenza, o soprattutto per essa (assenza che richiede, per
effettuarsi come essenze del non-essere vigente, la sua presente privazione),
della sua memoria, della sua immagine. Ossia il frazionamento del tempo per
cui e da cui l’innocenza si fa a partire e dentro l’esperienza del vuoto.
Quest’ultimo è un altro punto nodale, differente ma liminare, rispetto al
precedente, un “altro” decisivo modo di intendere l’origine-innocenza:
Il Petrarca parte dall’idea di assenza: Laura è un universo assente, un
universo da recuperare. Si recupera, ricorrendo alla poesia, facendo
recuperare alle nostre lingue l’esperienza delle antiche lingue, delle lingue
classiche. Ma l’assenza è una cosa, il vuoto ne è un’altra. C’è una viva
forma che è assente, oppure non c’è forma viva, c’è il vuoto. È diverso, è
un modo di sentire diverso. […]. Occorre ch’ io precisi l’idea di assenza.
L’idea di assenza, quale il Petrarca la concepiva è tutt’altra cosa, è un
mondo lontano nello spazio e nel tempo, che torna a udirsi vivo tra il
fogliame del sentimento, della memoria e della fantasia. È soprattutto
rottura delle tenebre della memoria.
La sensazione dell’assenza radicale dell’essere è forse, in realtà,
sensazione dell’assenza divina? Solo Dio può sopprimere il vuoto,
essendo, Egli, l’Essere, essendo, Egli, la Plenitudine? È il sentimento
dell’assenza di Dio in noi, rappresentato non simbolicamente,
rappresentato, in realtà, da quell’orrore del vuoto, da quella vertigine, da
quel terrore? Michelangelo e alcuni uomini dalla fine del ’400 e sino al
’700 avevano, in Italia, quel sentimento, il sentimento dell’orrore del
vuoto, cioè dell’orrore di un mondo privo di Dio15.
La constatazione severa e ineludibile della condizione epagogica, dello stare
dell’uomo “in condizione”, procrastina la declinabilità di risoluzioni sui
motivi della “postura” fisica e morale, diremmo dell’anima del poeta e
dell’uomo in genere. L’esperienza della grande guerra e l’incrudimento della
presa del reale descrive l’attesa dell’essere con movenze assieme lineari e
15
G. Ungaretti, “Note - Sentimento del Tempo”, in ID., Vita d’un uomo.
Tutte le poesie, cit., p. 535.
137
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
profonde in merito al “perché esistenziale”, che detta nella storia l’evento
imperturbabile, oltre la vita e la morte, quello cioè della pensabilità
“dell’istante” di scegliere la parola quale canto: “Si sta come/ d’autunno/ sugli
alberi/ le foglie” (L’Allegria, Soldati, Bosco di Courton luglio 1918). Di
oltrepassare nella memoria la scelta “dell’istante vissuto” e riproporlo non
solo come monito, ma primariamente continua chiamata all’allora, all’essere
presente qui “dal” già vissuto. A rovesciare con l’esperienza la scoperta di
preporre la presenza non come gioco psicologico, ma comprendere che il
“ricordo pensato” diventa più che accessorio della memoria, condizione
d’esistere. Di essere nel prima e nella storia: tempo che dura. Tutto ciò
immette in quella ricerca dell’Eterno ancora non pienamente individuato dal
cantore.
La biografia ungarettiana, se da una parte, viene letta dallo stesso autore e
dalla critica, o da parte di essa, come modello esegetico primario da cui
ricavare le tracce per meglio inquadrare il pensiero-poesia, e soprattutto la
dicitura del verso, dall’altra parte, sembrerebbe quasi fosse sconveniente
intenderla “ermeneuta unico” della storia poetica e della genesi complessiva
del canto.
Se un simile discorso è, invero, da rivolgere a più di un artista, con
l’ingresso nella contemporaneità le cose (le vicende e i suoi modi) non solo
sembrano di per sé anomale, ma soprattutto, scomposta, appunto, l’anomalia
da cui sarebbero generate e di cui diremo, si presentano rovesciate.
E nell’atto di ritornare al punto di partenza, Storia e storie si fermano in
modo obliquo (un tentato ritorno di capriola al punto di partenza, dunque una
capriola “spezzata”, a metà, pur nell’apparente stabilità) per cui dire il
soggetto-persona in senso storico non solo non corrisponderebbe a trattare del
soggetto-uomo cantore, quanto l’enunciato così espresso curverebbe in
diverse posizioni una verità che si darebbe nella diversificazione dei suoi
innumerevoli risvolti: “questa tendenza a identificare biografia e produzione
letteraria, uomo e poeta, produceva interpretazioni dell’Allegria incentrate nel
‘ritratto’, anche fisico, di Ungaretti”16. Ma subito il poeta spazializza il
proprio rendiconto storico e dichiara la scoperta del proprio mondo interiore a
causa della trincea: si storicizza poiché mosso dalla poesia e si racconta come
uomo per la poesia. Partorisce la vita biologica dalla presa di possesso
dell’esserci (come uomo, perché uomo): di un avvenimento cioè tanto surreale
quanto concreto, sfuggente e tangibile, libero dall’oscurità e vivo nella
trasparenza al contatto degli altri uomini. Una umanità che scopre il soggettoartista in tutte le diversificate trame della persona vivens che particolarmente
per un poeta il linguaggio lirico, anzi solo esso può aiutare a manifestare:
16
G. Faso, La critica e Ungaretti, Bologna: Cappelli, 1977, p. 13.
138
ANTONIO D’ELIA
‘Sono un frutto/d’innumerevoli contrasti d’innesti’ così si definisce
Giuseppe Ungaretti nella poesia Italia, manifesto del Porto Sepolto, 1916.
Tale l’origine, e pari il destino. […].
Ungaretti non conosce le estenuazioni del Decadentismo italiano perché,
dalla militanza degli anni parigini che precedono la Guerra, apprende –
immediata – l’urgenza della rottura […].
La poesia di Ungaretti è così, subito, quella di una generazione – di poesia
e pittura, e cinema – europea che, senza mediazioni di crepuscolari, si è
trovata alla frontiera della morte e dell’assoluto, nella vita e nelle arti17.
La poesia del Novecento rispecchia la frattura dell’ente, da un lato, e
richiama, dall’altro, in una sintesi arcana, lo spirito imprendibile di un
soggetto, appunto, frazionato.
Essa rientra con tutta la sua “endemica specificità” nel panorama europeo, in
un tempo in cui l’arte versificatoria (divenuta del contemporaneo, o meglio
approssimandosi nella contemporaneità) è ormai “consapevole” di esprimere,
in uno stesso luogo (il quale diventa diverso ogni qual volta si nomini lo
spazio in cui, per “possibilità” intrinseca al suo essere, non vuole abitare e nel
quale non può neppure stazionare) e nei tempi perimetrali in cui le rivelazioni
poetiche emergono, molte voci. In un quadro poetico così “accuratamente
frammentario”, di una frammentarietà tendente, da un lato, alla ricostruzione
dei propri tasselli compositivi in nome di una comunicazione che per
dimostrare l’attendibilità della sua ricerca assoggetta la parola “al servizio
della realtà da svelare”18, e saldamente compatto, appare, dall’altro lato, il
ricovero di essa nel “già codificato” (che genera una altrettanta complessa
rappresentazione musiva resa dalla costruzione dei frantumi alla elargizione
promanata entro un verso “autobiografico” succeduto alla deflagrazione
futurista), si riconosce il bisogno di recuperare altre formule calligrafiche. Da
una continua scissione dei sensi reattivi alle immagini e dalle forme diverse
del linguaggio si dà vita all’esperienza ermetica, quella matura, che dal già
richiamato espressionismo frammentistico si dirige verso il disconoscimento
di una visione totalizzante e “totalitaria” della dispersione dell’io che dice io.
E la poesia, in questa nuova (ma non ultima) epifania “diventa depositaria
17
C. Ossola, “Introduzione” a Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le
poesie, cit., pp. XII- XIV.
18
A. Berardinelli, “Quando nascono i poeti moderni in Italia”, in ID., La
poesia verso la prosa. Controversie sulla lirica moderna, Torino: Bollati
Boringhieri, 1994, cit., p. 105.
19
ID., “Le molte voci della poesia moderna”, in H. Friedrich, La struttura
della lirica moderna, trad. it. di P. Bernardini Marzolla, Milano: Garzanti,
1989, p. 345.
139
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
dell’utopia e della critica dell’esistente”19. È in ogni modo necessario tenere
scissi, pur in un clima di “novità” apparentemente comune a molti poeti di
questo periodo, gli ambiti e le connotazioni profonde che distinguono un
verso da un altro: diverse poetiche espresse in altrettanti differenti suoni che
riprendono e coagulano la tradizione nella modernità20. Nel “frammentario” si
insinua il dubbio della ricreazione dell’altrove. E dalla ripresa di questo,
nell’ambiguità del segno partoriente, il soggetto subisce la smentita
dall’oggetto. E l’io si ripiega anche entro una poesia indotta dall’“ontologia
misterica”, che sembrerebbe elargire il suo approssimarsi inquietante al
dialogismo (in una tensione solitaria):
uso ambiguo di parole, nel loro senso concreto e astratto […] uso, e forse
abuso di forme ellittiche […] nell’ordine della fantasia, spezzati al demone
dell’analogia i ceppi, s’è cercato di scegliere quella analogia che fosse il
più possibile illuminazione favolosa; nell’ordine della psicologia, s’è dato
soffio a quella sfumatura propensa a parere fantasma o mito; nell’ordine
visivo, s’è cercato di scoprire la combinazione di oggetti che meglio
evocasse una divinazione metafisica21.
Per alcuni poeti il verso erige il luogo nel quale dichiaratamente l’homo
faber (sulla scorta della “rigida” formalizzazione di Valéry) tenta di
soggettivarsi e rivelarsi in un divenire consapevole, dentro e al di là dell’
“individualistico”, richiamando lo sconosciuto dell’essere nel trauma di una
spiritualità “intimistica” volta all’agnizione dell’identità dell’io. In questa
tensione regolata da un equilibrio interno della forma, il verso trasfigura
l’interpretazione ontologica e la figurazione assoluta della “tortuosa”
proposizione lirica (molto spesso lontana da relazioni con il tangibile e il
“diveniente” storico), ponendo in essere il rapporto/differenza tra totalità e
parzialità, tra connessione e differenza. Ungaretti apprende dall’esistente,
20
Per una visione d’insieme che tenga conto degli itinerari della poesia
moderna cfr. G. Ferroni, “Le vie della modernità: dai crepuscolari agli
ermetici”, in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi,
Vol. IV, Dall’Unità d’Italia alla fine del Novecento, a cura di F. Brioschi-C.
Di Girolamo, Torino: Bollati Boringhieri, 1996, pp. 407-450.
21
G. Ungaretti, “La poesia contemporanea è viva o morta?”, in ID., Vita d’un
uomo. Saggi e interventi, a cura di M. Diacono - L. Rebay, Milano:
Mondadori, 1974, pp. 191-192.
140
ANTONIO D’ELIA
durante l’esperienza della guerra, il motivo del suo canto, e la relazione vitamorte si effettua nella concretezza materica della verifica. Da qui il verso
enuclea la riflessione sul tangibile, che non nega un primo approccio
all’Assoluto, dichiarato nell’altro (il prossimo), nell’assenza dell’altro, di un
corpo “vuoto” fattosi nella presenza incessante tra l’io e il tu (Veglia, Cima
Quattro il 23 dicembre 1915):
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita.
Il poeta riporta accuratamente nelle liriche luogo e data a suggellare l’istante
in una incessante scadenza diacronica (variamente rivisitata), che ha valore di
pro-memoria. Di motivo ordinatore dei versi sparsi, che costituiranno il
pensato e ordinato, appunto, testo dell’anima.
L’attaccamento alla vita è quindi il motore per la comprensione diremmo
religiosa dell’esistere a cui “M’illumino/ d’immenso” (Mattina, Santa Maria
La Longa il 26 gennaio 1917) è pericope dell’intera avventura umana.
Religio, pertanto, ha valore sì inclusivo del Sacro con carattere cristiano, ma
si dipana entro sfere differenti in Ungaretti prima di giungere ad una
assimilazione cosciente del mistero evangelico.
E sul concetto di religio e di letteratura religiosa, soprattutto nel Novecento
italiano, rimanendo punto incontrovertibile l’intreccio di “motivi religiosi”
con formulazioni “laicistiche” sin dall’inizio della letteratura italiana, e
addirittura il genere religioso come principio naturaliter di quello letterario,
tra tutti l’esempio biblico, occorre ben formulare una necessaria se pur breve
inserzione, volta a meglio intendere le finalità del presente esame. Nel
riattivare i processi della storia di questa “forma letteraria”, unitamente alla
visione della poesia in altri suoi aspetti, venutisi foggiando a partire da
141
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
esperienze peculiari che hanno riguardato in un mutuo scambio di interessi,
non solo e non tanto la poesia italiana, ma significativamente quella europea,
è necessario prendere in considerazione i “relitti” che essi hanno collocato
lungo il tracciato della storia letteraria nella modernità, di quella storia che a
noi interessa qui ripercorrere strettamente legata alla formazione filosofica,
che ha visto il nascere di una speculazione sul carattere “religioso” dei
pensatori e delle loro idee, fondativo strumento per meglio esplorare l’ambito
letterario. La filosofia della religione, infatti, come tutte le filosofie
“seconde”, ha per scopo quello di chiarire ermeneuticamente i propri
procedimenti all’interno di un sistema dialogico con l’oggetto che indaga e,
assieme, porre nel proprio metodo intenzionalmente la volontà di non
costruire “un legame che sopravviene per stabilire un punto di contatto o un
terreno comune tra realtà estranee, quanto piuttosto […] lo sviluppo naturale
(anche se a volte contrastato) di un’affinità più profonda e originaria […] di
indagare il rapporto dell’uomo con quell’Altro che è insieme il suo
fondamento […]”22. La presenza nel Novecento di questa “condizione
dell’anima” dà testimonianza dell’esistenza di una relazione che vive
all’interno di un contrasto, il quale pone in essere la riflessione raziocinante
sulla tecnica in nome di un rituale laico connesso ad un pensiero scientifico
che ha ridotto l’approccio ad una problematica esistenziale e sul sacro. Questo
contrasto, tuttavia, non ha impedito che essa (la presenza del Sacro)
continuasse a produrre una relazione serrata tra il divenire nelle epoche
storiche, e nel presente, e la tensione verso Dio. E non tanto il Dio della
rivelazione, quanto quello, appunto, della filosofia. Da qui un richiamo al
Sacro nell’accezione speculante, dunque, del semema, che, tuttavia, non nega,
anzi ribadisce con forza l’appropriazione cristiana ad archetipo del dire,
appellato in varie formule:
Erede delle esperienze più laceranti, spinte fino al limite della follia, di
certo romanticismo mistico e visionario (Hölderlin, Novalis, Nerval, lo
stesso Goethe), la grande poesia simbolista che da Baudelaire si dirama,
oltre le soglie del Novecento, fino ai nostri ermetici, lancia a se stessa, sul
piano conoscitivo, una sfida temeraria, come mai prima d’ora aveva osato
fare: addentrarsi nel mistero più fitto dell’universo, davanti al quale la
ragione e la scienza – l’orgoglio dell’età moderna – s’erano dovute
piegare disarmate, e svelare, col solo mezzo della parola, in forza delle sue
virtù evocative, il fondamento delle cose, l’origine e il destino, il senso
ultimo del nostro esistere inquieto tra le angustie della carne e gli aneliti
dello spirito. Alla parola […] si chiede di compiere un “miracolo” di
sapienza, di illuminare le tenebre della mente ottusa con la perentorietà di
22
M. Ravera, Introduzione alla filosofia della religione, Torino: UTET,
1995, pp. 6-7.
142
ANTONIO D’ELIA
una folgorazione, di metterci in rapporto con la volontà che ci sovrasta,
con l’essere che abita in noi e cui apparteniamo.[…], la nuova poesia si
affaccia su orizzonti metafisici. […]. Lo statuto ‘ontologico’ della poesia
esige che si spezzi l’insulsa rete delle cieche passioni, dei gesti meccanici,
delle frasi fatte, dei giudizi scontati, chiede che si rompa il muro d’omertà
che circonda il mistero della vita23.
E se è vero che, come rileva Bárberi Squarotti, il più delle volte il motivo
religioso in letteratura, soprattutto nella letteratura moderna, corrisponde ad
una abilitazione in forma “moralizzante” del costume e alla celebrazione del
passato, e aggiungiamo noi, quale epoca d’oro, mitica nei confronti di un
presente nefasto ed un futuro proiettato dalla visuale di un utopico
rinnovamento, in una formulazione del “Tu religioso non diversamente
costruito da una proiezione di sé”24, riferito da un certo ambiente letterario, in
Ungaretti, lungi da una connotazione mistico-rituale (fideistica in senso
stretto), soprattutto se attribuita al primo periodo della sua poesia, ma
estensibile a quasi tutta la produzione nei termini di una ripresa retorica del
vagheggiamento del prima in opposizione a idee ateistiche, la religio è,
quindi, maturazione dell’assenza, del vuoto. Della crisi dell’immagine (in
senso platonico, un “senso-immagine” molto vicino ad Ungaretti),
dell’infinito e addirittura una chiamata al senso di “resurrezione”, di luce. In
questo modo la religio ungarettiana (anche i primi segnali evidenti di essa)
lega, appunto, congiunge poesia e humanitas in caritas secondo la penetrante
analisi di Giachery:
Secondo una bella e consacrata accezione […] conforme a una certa
attitudine ‘sacerdotale’, del maturo Ungaretti, la poesia si rende alleata alla
caritas, si pone come un sì alla vita e all’amore, un atto di fede in ciò che
germoglia e sopravvive (‘febbrilmente superstite’), non fosse che
attraverso la vita non necessariamente spettrale della memoria.
In una notte della prima guerra mondiale [prosegue Giachery], per
istintiva rivincita vitale, Ungaretti accanto a un compagno massacrato dal
nemico aveva scritto ‘lettere piene d’amore’. Poi, con la maturazione degli
anni, il senso della notte sembra approfondirsi, avvicinandosi alla
suggestiva affermazione di Heidegger intento a commentare Hölderlin:
23
G. Langella, Poesia come ontologia. Dai vociani agli ermetici, Roma:
Edizioni Studium, 1997, pp. 9-10-11.
24
G. Bárberi Squarotti, “La poesia religiosa nel Novecento”, in ID., Poesia e
narrativa nel secondo Novecento, Milano: Mursia, 1978, p. 132.
143
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
‘Nel tempo del la notte del mondo il poeta canta il sacro’. Ed ecco che
nella grande notte (davvero ‘notte del mondo’) della seconda guerra, fra
tanto scempio di corpi e cuori umani e di opere e valori di civiltà e
bellezza, Ungaretti torna a scrivere parole d’amore e inneggia di nuovo
alla vita. Si tratta stavolta d’un diverso amore, cristiano e fraterno e storico
[…]. Oggetto del canto, divenuto inno carico di affannosa speranza, è ora
la vita di tutta una civiltà, ancorata al sacro che si è storicamente incarnato
in essa25.
L’interpretazione di Giachery permette di addentrarci nel solco del sistema
ungarettiano sacro-poesia e riprendere il percorso sul quale ci eravamo
incamminati.
Il tema della poesia e del tempo-memoria, del naufragio e del vuoto si
riconnette all’esperienza, già citata, del Nulla e dell’infinito.
Con nulla si apre il primo componimento dell’Allegria (Ultime – Milano
1914-1915) dal titolo significativo, per l’apparente ossimoro che si genera con
il vocabolo appena riportato (nulla), Eterno.
Tra un fiore colto e l’altro donato
l’inesprimibile nulla
(ibidem):
di un Nulla che è pienamente conforme a nostro giudizio all’idea cristiana, o
meglio all’“esperienza teologica”, che predica la verifica del Nulla
germinatore della vita, dell’essere.
Un percorso che il poeta esegue a nostro avviso nel combattimento, che è il
viaggio stesso, tra luce e tenebra, tra vuoto e pieno, appunto tra nulla e tutto:
parti antinomiche che reggono l’equilibrio della memoria per cui si rintraccia
l’origine. Così nella lirica dal titolo Peso (Mariano il 29 giugno 1916),
precedente Dannazione, facente parte anch’essa della sezione Porto Sepolto
dell’Allegria:
Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto
(Peso).
25
E. Giachery, “Tra segni e Varianti – Poeta della speranza”, in ID., Nostro
Ungaretti, Roma: Edizioni Studium, 1988, p. 178.
144
ANTONIO D’ELIA
È il cantore ad esprime la riflessione compiuta sul concetto di Nulla più volte
ripreso nel suo poetare. Un Nulla la cui esistenza nel pensiero ungarettiano è
per noi da avvicinare al senso della mancanza da colmare, che è, dunque,
foriero di sé nell’oltre. Esso è, poiché, appunto, mancanza, capace, quindi, di
riempiersi ed estrarre un elemento diverso da ciò che è.
Carlo Ossola significativamente apre la questione sul pensiero ungarettiano
in relazione al sistema-pensiero, reso esplicito dallo stesso Girovago, di
Agostino, Pascal per giungere a Leopardi, segnando, pur nella
diversificazione della comprensione temporale da parte dei tre autori appena
citati, i quali partano ed approdano a sistemazioni speculative non simili, la
costante riflessione sulla nozione di tempus a cui Ungaretti si rivolge e per cui
il concetto di Nulla si ricollega nel suo sistema poetico. Comprendiamo da ciò
pienamente il ritorno alla radice dell’essere e alla sostanza di esso: sono messi
a confronto da Ungaretti stesso nella testimonianza delle sue preferenze
culturali, e nello studio che ne approva i risvolti, tutti i temi riferiti in
precedenza (tempo, assenza, nulla, mancanza) al chiarore diremmo di un
fuoco (la vita), qual è intesa la poesia, che divampando nel suo ardere l’uomo
(combustibile) sprigiona luce e si consuma fino a morire, nel mentre apre alla
profondità del canto i suoi chiarori e le ombre che simultaneamente il verso va
formando:
il poeta unendo ‘poesia’ e ‘profondità’, sottintendeva – nell’evocazione
stessa degli ‘abissi umani’ – la lezione di Pascal, che gli era familiare dai
corsi alla Sorbona e dal nuovo impegno contratto con don Giuseppe De
Luca per introdurre Tre prose di Pascal (F. I. U. C., Roma, maggio 1925).
Nella Premessa Ungaretti concludeva che ‘Da questo spavento [scil. del
‘dover morire’], da questa consapevolezza della propria nullità ha origine
la vita morale, ha principio la rivelazione della dignità umana’ […]. In tale
‘nullità’ si spiega l’anticipazione, dall’edizione Preda 1931 dell’Allegria
in poi, dell’‘inesprimibile nulla’ della vicenda umana26.
E l’Eterno è introdotto nel contrastivo rapporto “nulla-vita” e aprentesi al
dramma della vanità, in senso biblico, così come lo intende e lo riprende
Ungaretti stesso, per cui il tempo diventa anche coefficiente dell’ingresso
dell’uomo nel rapporto con il Sacro, e quindi con la sfera dell’essenza
dell’uomo stesso con l’Eterno, tra il pieno ed il vuoto (‘Tra’, Eterno):
poneva Ungaretti la base di quella parabola rinviando alle meditazioni su
Pascal del 1923-24 – proprio gli anni di svolta dal Porto Sepolto al
Sentimento del Tempo –, anni nei quali traduce e introduce Tre prose di
26
C. Ossola, “Introduzione” a Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le
poesie, cit., pp. XXVII-XXVIII.
145
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
Pascal: ‘il commento dell’Infinito è in molte parti mutato, in seguito alla
scoperta ch’esso era, nel suo nucleo, una traduzione di Pascal. I pensieri
precedenti sul nulla, me lo avevano fatto prevedere e dire, e in discorsi al
pubblico, sino dal 23-24. […] La storia della poesia italiana è semplice: il
gran segreto è sempre in Agostino sia direttamente, come in Petrarca, sia
indirettamente, come, attraverso Pascal, in Leopardi […].
Questa ‘continuità agostiniana […]’ determina dunque la collocazione
della “Vita di un uomo” come cantico di sillabe […] nello iato che si apre
tra il “nulla” e l’ “eternità”. L’anticipazione, dunque, di Eterno […] ad
apertura della raccolta e dell’intera vicenda poematica di Ungaretti
segnala, nel modo più eloquente, nella crisi e nella meditazione poetica
degli anni Venti, questa nuova scelta dell’autore: il collocarsi in una
regione ideale “d’infinito di sè”, di confessione e di contemplazione:
Agostino, Petrarca, Pascal, Leopardi’27.
Il “porto sepolto” è il centro inconsapevole dell’incontro tra la frattura dell’io
e lo spazio-tempo in cui partenza e ritorno smontano l’approdo dei rispettivi
principi, che informano i disegni (“presumibili”, “avvertibili”) dei propri
tracciati: è l’essenza costitutiva della ricerca. Il disvelamento del segreto della
poesia stessa come condizione primigenia in cui è il sacro a manifestare la
propria “personalità” imprendibile:
Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto
(Il porto sepolto, Mariano il 29 giugno 1916).
Il senso di dilagante dispersione in un allontanamento-avvicinamento
all’eterno, al modo di sentire l’eterno è racchiuso nello sgretolamento dei
percorsi personali e comunitari, in un tempo, appunto, “personale” e
“comunitario” disadattato e disabilitato a reggere le tensioni provenienti dagli
incontri tra le cose passate e quelle presenti. Un modello poetico, questo, che
è di per sé de-costruito costantemente nel sospetto (cioè da un’analisi rigorosa
e mai giacente nel dato raggiunto e ritenuto continuamente in-soddisfacente),
27
ID., “Commento a L’Allegria, Una parabola pascaliana”, a cura di C.
Ossola, F. Corvi, G. Radin, in G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie,
cit., pp. 816-817.
146
ANTONIO D’ELIA
voluto e incoraggiato, di ricavare dal nulla il vuoto incolmabile, ma, assieme,
spinto da quella mancanza-assenza a ritrovare l’effettiva ferita, che è predicata
con la certezza di non essere in armonia con il tutto (“Il mio supplizio / è
quando / non mi credo / in armonia”, I fiumi, Cotici il 16 agosto 1916- Il
Porto Sepolto - Allegria).
Questa mancanza, intesa in senso filosoficamente più “corretto” come
assenza, è stata da Bo individuata con la radice stessa del canto: poesia come
“assenza costitutiva”. In questo modo crediamo che la ricerca per
congiungersi nella pienezza da parte del poeta, conosciuto il vuoto e avvertito
il dramma della incolmabilità, diventa una vera e propria strada, o meglio
esercizio teologante, sforzo di una impossibile, ma pur sempre presente
certezza di raggiungere un segno che dica la conquista dell’io nel recupero del
concetto del nulla e nell’intensificazione del processo sensi-ragione. In una
sempre più avanzata drammatizzazione del senso della vita. Ciò che
definiamo l’“impossibile certezza” è frutto di un processo che a nostro avviso
accomuna Ungaretti a coloro che compiono, se pur con intenti di
sublimazione spirituale diversi per gradazione e risultati, un itinerario volto a
Dio.
Non vogliamo qui esaminare o mettere a confronto. Ed in parte non
possiamo, trattandosi di un percorso sì vicino a quello del poeta, ma differente
poiché occorrerebbe addentrarsi in un terreno prevalentemente ricognitivo ai
fini di un inquadramento “dogmatico” o a un’espulsione dai circuiti di tale
asserto, un esame cioè sulle virtù spirituali di un’anima che qui ci limitiamo a
ri-volgere al discorso teologico di un ente, quindi, che nel linguaggio poetico
tenta una risoluzione nel discorso teologante alla “vita di un uomo”.
Un’assenza-nulla che ribalta la luce nella tenebra, e viceversa, costituendo ciò
uno dei motivi principali della poetica ungarettiana.
Se Contini parla di via tenebrarum in merito ad uno degli aspetti della
teologia negativa anche come motore di un disvelamento divino,
sottolineando, appunto, che “È noto che la teologia imperniata sul modo di
essere di Dio, per essere questo incomparabile con ogni altro modo di essere,
conclude alla non-esistenza di Dio (teologia negativa). Con premesse affini,
questa poetica negativa dovrebbe giungere a identici risultati: il silenzio
portato sulla propria tenebra […]. Il luogo ideale degli ‘ermetici’ è [dunque]
quella che i mistici chiamano via tenebrarum”28), le premesse “mistiche”
sottolineate da Debenedetti commentatore di Ungaretti, riportate all’inizio
della nostra analisi, concorrono a meglio eseguire l’esame sulla ricerca del
Sacro e diremmo di Dio da parte del poeta.
28
G. Contini, “Risposta a un’inchiesta sull’ermetismo”, in ID., Esercizi di
lettura, Torino: Einaudi, 1982, p. 385.
147
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
Se Agostino, a cui molto attiene il dettato riflessivo sul tempo da parte di
Ungaretti, identifica con Nihil il non essere di Dio, per cui, per esso, ossia per
il Nulla, paradossalmente Dio crea dal Nulla, che è il contrario di ciò che è la
cosa creata da Dio e, assieme, è l’atto stesso del Creatore. Così che si passa
dalla sensoria palpitante fase dell’Allegria alla contemplazione-azione
indagatrice e violenta e, contemporaneamente, amaramente più dialogante
ancora col pensiero del Sentimento del Tempo: la catastrofe e il barocco
unitamente al pensiero leopardiano giungono a disegnare i risvolti incisivi sul
volto del carme che genera la già citata Preghiera.
In essa il concessivo, sotto forma di supplica (orante), disintegra nell’orrore
di una eternità disegnata dalla logica i fantasmi del triplice tempo per edificare
la gioventù perfetta nel sempre. E nel nunc (tempo continuativo) in cui il
“giovane giorno” (ibidem) racchiude e l’origine del nostro essere e la fine del
nostro esserci si staglia in una presenzialità rigorosa, l’“immagine” del Sacro,
di Dio, il suo suono, partecipe del canto.
E il senso del vuoto è inteso (sentito) come senso d’angoscia creatrice, come
tempo senza una identità specifica, ma riconducibile alla catalogazione
personale dell’essente e, assieme, modulo accurato di investigazione
linguistica sorvegliata da pause che ricoprono a mo’ di commenti gli “asserti”
espressi in spezzature meno rigide e più stabilmente codificate in musicalità
suadenti:
L’universo è il risultato dell’atto libero di creazione da parte di Dio, che
Agostino legge come un atto di amore divino verso le cose create e verso
l’uomo in particolare, il quale, scrutando l’universo sensibile, scopre
l’immagine dell’ordine, della bontà e della bellezza del suo creatore. […].
L’eternità è un presente immobile, un punto incapace di distendersi;
Agostino rielabora ampiamente la dottrina dell’eternità e del tempo
presente nelle opere di Plotino, il quale, abbandonato il metodo esteriore e
descrittivo in favore della linea genetica dell’interiorità, vedeva nell’Uno
la sorgente dell’eternità e della vita, essendo l’uno né riposo né
movimento. La sua durata è “nulla” e può essere paragonata allo stato di
riposo dell’anima […]. La prospettiva agostiniana attua una partenza
molto simile a quella di Plotino, muovendo dalla nozione rigorosa
dell’eternità di Dio, e approda al tempo come distensione dell’anima che
abbraccia ogni successione29.
29
A. Ghisalberti, “Agostino di Ippona”, in ID., La filosofia medievale. Da S.
Agostino a S. Tommaso. La fede alla ricerca dell’intelligenza, Firenze:
Giunti, 2002, pp. 20-22. Sulle relazioni-differenze Plotino-Ungaretti rinviamo
all’importante studio di M. Petrucciani, “Elytis, Ungaretti e Plotino
l’egiziano”, in ID., Il condizionale di Didone. Studi su Ungaretti, Napoli:
Edizioni Scientifiche Italiane, 1985, pp. 273-284 e per un quadro generale sui
148
ANTONIO D’ELIA
In questo senso il Nulla, elaborato nel pensiero cristiano tra gli altri da
Tommaso d’Aquino, si connette all’idea da cui e per cui nel Nulla Dio opera
la creazione:
il molteplice, sia materiale sia spirituale, è opera di un Essere incausato e
causante, trascendente e personale, la cui natura contiene in sé in modo
eminente, infinito ed eterno, tutto il valore ontologico e percettivo che la
ragione riscontra negli insiemi degli enti e dell’esperienza.
[…] Dio è l’essere come Soggetto e Persona, colui che liberamente crea e
governa l’universo[…].
Ma […] come si spiega la creazione? Se Dio è purissimo atto, semplicità
assoluta, come può derivare da Lui l’essere di enti materiali, limitati,
diversi tra loro e, si direbbe, contrastanti con la natura del Creatore? La
sapienza classica in genere, specialmente con Platone e Aristotele, aveva
affermato l’eternità del mondo, ma rimaneva la difficoltà metafisica
secondo la quale non si può ammettere l’eternità di enti per la loro natura
contingenti, mutabili e corruttibili, poiché l’eternità è immutabilità,
incorruttibilità, necessità e perfezione. Né d’altra parte il mondo può
essersi dato da sé l’esistenza, giacché il contingente non può essere causa
di se stesso; rimane da vedere come ha fatto Dio a crearlo. La creazione è
per la filosofia cristiana attività libera, propria della natura divina, con la
quale si hanno dal nulla le creature. Dio […] genera il mondo […] produce
gli esseri derivandoli […] dalla sua essenza spirituale, ma li trae dal nulla
con l’atto eterno del suo pensiero onnipotente; perciò si spiega come la
natura materiale, pur essendo diversa da quella umana, sia anch’essa
effetto della creazione, della perfezione e della provvidenza di Dio. Sicché
la creazione di cui parla la Rivelazione, esaminata alla luce della ragione,
costituisce per Tommaso un valore positivo della ragione, una conquista
irrinunciabile del pensiero. Ciò non significa che l’Aquinate voglia
razionalizzare la fede, sottoponendola al vaglio della comprensibilità
meramente razionale: si tratta di una elevazione delle facoltà umane con la
quale la ragione acquista sempre più coscienza del suo valore in relazione
intima con le verità eterne che Dio ha rivelato all’uomo30.
rapporti filosofici Platone-Plotino ed in genere sull’estetica antica cfr. G.
Lombardo, L’estetica antica, Bologna: il Mulino, 2002. Sulla recezione della
parola biblica da parte dei Padri della Chiesa, i quali insegnano che l’ascolto
del Verbo, del Logos avviene nella diretta corrispondenza con la Sacra
Scrittura: nell’ascolto-dialogo-interrelazione, dentro, ma anche, o soprattutto
oltre il discorso su Dio, cioè un discorso con Dio: cfr. E. dal Covolo, La
Bibbia e i Padri, Todi: Tau, 2011.
30
A. Livi, Tommaso D’Aquino. Il futuro del pensiero cristiano, Milano:
Mondadori, 1997, pp. 101-103.
149
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
Plotino risulta, pur non dichiaratamente ripreso in senso sistematico da
Ungaretti, una fonte co-primaria per il poeta. E il legame tra il pensiero
platonico, a cui il Girovago si riferisce, e la cultura dell’Umanesimo,
anticipata-attuata dal Petrarca, nella valorialità della memoria presente-futuro,
condensa il processo di formazione del Nulla e della memoria. Agostino,
tuttavia, è colui il quale, insegnandogli il tempo come principio d’eterno,
schianto per il limite materico, pone la relazione nel poeta, attraverso il verso
del Petrarca, con il silenzio, con quello ‘stupore contemplativo’, mediante cui,
oltrepassando il sensorio, proprio in esso si addentra con più caparbietà lo
stretto rapporto anima-mente. E attraverso l’ulteriore scoperta dell’infinito,
Ungaretti con il Leopardi, appunto, scopre il tempo interiore inteso come
coscienza, o meglio “vita psicologica” maturante anche nell’esegesi sul Tasso.
Per cui lo stile, la parola che dice tempo ed infinito, che muove gli antichi aedi
e i loro simboli verso nuove rotte di stile, proprio a partire dal Sentimento, in
cui l’uomo (e la scoperta d’essere uomo) è il motivo centrale del canto, si
identifica con la ricerca in senso (ora) programmatico dell’Assoluto. A partire
dall’esame su Leopardi e il citato barocco, con e nella scoperta che fa di
Roma:
Il Leopardi è uno dei primi a fissare la diversità di coscienza tra l’uomo
dei tempi omerici e quello del secolo d’Augusto. Ma non è qui la scoperta.
Egli, indicando due tappe della sensibilità, mette in moto, tra quei due stati
della coscienza, una frazione di tempo come riflesso variabile, come il
simbolo fluido, lo specchio della vita psicologica. […]. Col Leopardi il
tempo facendosi punto, punto mobile, di riferimento, è la relatività che
entra risolutamente in campo, la relatività morale, del bene e del male, la
relatività estetica, del brutto e del bello. […]. In Leopardi, l’uomo avendo
tolto alla realtà il mistero osservava che la visione del vero s’era fatta
orribile31.
Il Leopardi è così modello per la modernità di “classicità” e, soprattutto, in
merito alla rilettura temporale dell’io in una esecuzione precisa in cui al
mito del passato per il poeta girovago, lettore ed ermeneuta del
Recanatese, corrisponde la ricerca dell’“innocenza” che proprio Ungaretti
identifica nella rivisitazione del “classico”:
Così l’idea ungarettiana del classico è anche la consapevolezza della
tabula rasa, con l’ossessione della decadenza, con il senso cupo della
perdita e della rovina, in assonanza con la grande avventura del barocco
europeo e la sua domanda su una civiltà che finisce. […]. L’immagine
ossessiva del tempo devastatore assume poi una precisa connotazione
31
G. Ungaretti, “Ragioni d’una poesia”, cit., pp. LXXIV-LXXV.
150
ANTONIO D’ELIA
religiosa, e con Agostino e Pascal diviene sinonimo di corruzione della
purezza originaria. […]. Il nomade Ungaretti sa che la stabilità è sempre
congiunta all’erranza, cioè alla ricerca di una casa perduta, di una patria
sognata. Anche per lui il pathos nasconde l’ironia, esattamente come in
Leopardi. […].
Per Ungaretti classicismo non significa culto o imitazione dei modelli del
passato, ma vera e propria rivitalizzazione della tradizione, trasmissione di
linfa vitale per il nutrimento del nuovo32.
Il sentimento inerente la catastrofe, il nulla, il vuoto generativo-degenerativo,
il viaggio (metafora dell’esistenza), oltre il simbolo propriamente detto, segna
il percorso che nelle epoche dell’uomo rivive nell’io del poeta. Il quale col
canto si fa segno di trasposizione “dal mito classico al mito cristiano, tocca
tutte le sfere e le risoluzioni della storia e della vita dell’uomo”33. A Leopardi
Ungaretti rivolge la ripresa del senso del vuoto-nulla di carattere
eminentemente e primariamente religioso che inevitabilmente si ricollega alla
tradizione sopra citata. Ma quale senso religioso in Leopardi e quale
riferimento al sacro da parte di Ungaretti in merito al discorso leopardiano,
sempre che vi sia un riferimento che possa legare anche nell’aspetto religioso
i due poeti? Tentando di non rendere evanescente e addirittura improponibile
un senso religioso leopardiano, che, quindi, se fosse posto in modo
sconsiderato, per un gusto, assai cattivo, di far rientrare in una visione
puramente suggestiva ciò che non le è proprio, occorre si tengano debitamente
di conto le premesse “laicistiche” del poeta dell’Infinito. Contiguamente è
considerevole registrare, argomento ben noto ai leopardisti, come la critica
abbia esaminato, giungendo a esiti diversi, i riflessi religiosi operanti nella
poetica del Recanatese. E per meglio riordinare tale processo e individuarne le
tappe funzionali all’esame ungarettiano, ci soffermiamo brevemente
sull’analisi di questo aspetto quale passaggio, quindi, necessitante. Occorre,
invero, riferirci agli studi di un importante esegeta novecentesco, Giovanni
Getto, riletto dal Blasucci, il quale segna un significativo passaggio della
gnosi leopardiana in rapporto alla più volte richiamata religio. Costituendo
tutto ciò per noi uno snodo decisivo lungo la traiettoria indicata dalla
riflessione fino ad ora effettuata:
[lo studio] sul Leopardi impegna […] [Getto], prima ancora che in una
ricognizione di valori poetici, in un’operazione assai delicata di
32
D. Baroncini, “Premessa” a ID., Ungaretti e il senso del classico, Bologna:
il Mulino, 1999, pp. 8-9.
33
G. Rogante, “Ungaretti, Montale, Luzi”, in La letteratura e il sacro, II,
L’universo poetico (Ottocento e prima parte del ’900), a cura di F. D.
Tosto, prefazione di P. Gibellini, Napoli: ESI, 2011, p. 245.
151
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
qualificazione e insieme di recupero ideologico. Vero è che il Getto aveva
dietro di sé, a sostegno, una cospicua tradizione critica di interpreti […]:
sin da quando il Gioberti […], aveva affermato che il poeta, deplorando la
nullità di ogni bene, ‘non fa se non ripetere le divine parole
dell’Ecclesiaste e dell’Imitazione’ ed aveva per questo aspetto avvicinato
il pessimismo leopardiano a quello di un Agostino o di un Pascal […].
[…] Getto cerca di precisare un atteggiamento peculiare dello spirito
leopardiano, che condiziona a sua volta la nascita della stessa poesia.
Questo atteggiamento egli lo individua essenzialmente in un’ansia di
infinito, in un’istanza di assoluto con cui il poeta si pone davanti alla
realtà, o nelle sue illusioni […]; un’istanza che il Getto riconosce presente
[…], e che comunica alla sua pagina una caratteristica vibrazione religiosa.
Ora è indubbio che la posizione leopardiana include in sé, come aspetto
fondamentale, un’ansia e un’istanza inappagate […]. […] con la sua
impostazione speculativa il Leopardi tese ad escludere qualsiasi possibilità
di integrazione del suo pessimismo con spiegazioni in chiave di
trascendenza religiosa. […] dobbiamo riconoscere [aggiunge Blasucci] che
quale criterio di valutazione della poesia dei Canti essa si rivela
singolarmente comprensiva, permettendo all’autore di superare certe
pregiudiziali di ‘genere’ ancora operanti all’interno della critica
leopardiana, e di individuare anche al di fuori delle sedi ormai celebrate
alcuni nuclei di altissima poesia. […].
Certo il Getto non ignora, ed anzi egli stesso tiene opportunamente a
precisarlo nello studio sugl’Inni cristiani, che in Leopardi non si trova quel
che è alla base della intuizione cristiana, e cioè il sentimento della
irrimediabile servitù al peccato e la ricerca della mediazione redentrice di
Cristo’ […]. Tuttavia il Getto ritiene di ravvisare ugualmente, […], alcune
particolari corrispondenze con l’esperienza di scrittori ascetico-mistici34.
Arrivati a questo punto occorre rivolgere un’altra domanda non disgiunta da
quella sulla letteratura religiosa fatta in precedenza, anzi ad essa intimamente
connessa: quale il valore dell’elemento religioso nella letteratura, e soprattutto
in quella italiana?
Non a caso, e sembrerebbe un’ovvietà sconsiderata il solo fatto di ribadirne
la presenza, ma tuttavia un’evidenza è tale quando il suo stato (cioè il suo
rendersi visibile: stazionare) rende operativa, anzi proiettiva della propria
essenza la cosa che è: il discorso letterario in sé.
La letteratura italiana, pertanto, sin dalle origini parte, anzi nasce con una
chiara (quindi evidente) connotazione religiosa. Sia in riferimento al contesto
34
L. Blasucci, “Capitoli di critica leopardiana”, in ID., Leopardi e i segnali
dell’infinito, Bologna: il Mulino, 1985, pp. 265-267 e 269-270.
152
ANTONIO D’ELIA
in cui germina, sia in riferimento alle questioni che tratta, ma anche ai motivi
a cui dice di ispirarsi.
Bisogna pensare ad una cultura della religio che a diversi titoli e scopi ha
sempre pervaso mediante tratti distintivi i “momenti” letterari: da Iacopone a
Dante a Petrarca (considerati oltre il simbolo religioso, pur trattando temi
prettamente inerenti la sfera del Sacro: si è operati in parte su di loro un rito
purificatore delle istanze religiose, ma se si pensa in età moderna, ad esempio,
a Baudelaire o al cristianesimo ateo di Bloch, tutto sembrerebbe avere altro
significato).
Nella “modernità” il disagio da e di una dipendenza dal religioso è avvertito
dalla critica (ovviamente non da tutta) come premessa necessitante,
paradossalmente, per separare il “ristretto atto religioso” dall’avvenimento
creativo formatosi dal più scientifico senso raziocinante. Non considerando
che (per costituire un semplice discorso temporale) nella continuità avviene la
differenza: da un modello il suo contrario.
Il “cristianesimo” di Baudelaire, quindi, diventa religio poetica proprio su
basi sacre, che ovviamente distrugge e trasforma: “non si può concepire
Baudelaire senza il Cristianesimo. Ma egli non è più un cristiano. […]. Egli ha
avuto la volontà di preghiera […] [che poi] non è più preghiera”35.
La stessa tensione verso il tempo-modo leopardiano è sentito nel Novecento
in merito all’espulsione e quindi ad una previa individuazione anche del senso
del mistero (o se vogliamo del religioso) a cui l’infinito avvertito, avvertibile,
pensato e pensabile non può che almeno venirne in contatto.
Ed è il contatto, eseguito dallo stile di colui che compie il gesto di dire,
attraverso la lingua e nel caso specifico la lingua poetica, il tempo dell’io e le
sue declinazioni-flessioni a cui noi ci rivolgiamo.
A partire dalla considerazione su ciò che rende l’uomo della terra ma,
assieme, anelante ad un infinito (il tempo senza scadenza), che se per il
Recanatese è “esperienza [che] può dare l’idea dell’infinito. L’infinito
appartiene soltanto al pensiero”36, per Ungaretti, anche o soprattutto tramite i
citati Agostino, Petrarca e il necessario Leopardi, il tempo ed il mistero sacro
35
H. Friedrich, La struttura della lirica moderna, cit., pp. 45-46. Sulla
poesia religiosa cfr. C. Di Biase, La letteratura religiosa nel Novecento.
Sondaggi, Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, G. Petrocchi, Il
sentimento religioso alle origini della letteratura italiana, a cura di E.
Fumagalli, Cinisello Balsamo (Milano), Ed. San Paolo, 1996, Il sacro nella
poesia contemporanea, a cura di G. Landolfi - M. Merlin, Introduzione di M.
Luzi, Novara: Interlinea, 2000.
36
G. Macchia, “Leopardi e il viaggiatore immobile”, in ID., Saggi italiani,
Milano: Mondadori, 1983, p. 258.
153
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
si indirizzano in un sentire nuovo, e non certo meno inquietante, tanto da
aprire una rinnovata e “diversa” fase del suo cantare: quella del Sentimento
del Tempo. Che è sentimento del “religioso”: sentimento verso il tempo di
Dio, che è sempre. Oltre il tempo, senza tempo.
Lo stesso Ungaretti rivolge a Leopardi le seguenti considerazioni in merito
al senso del tempo-parola e alla sacralità del gesto poetico come unico atto
che possa riuscire ad avvicinare l’infinito (ciò che è incompreso e pur sempre
attivo nella presenza, tra memoria ed “illusione sensoriale”) ai segmenti
trascendenti del silenzio (cioè del mistero, variamente appellato):
fui mosso, conducendo a termine il Sentimento, e meglio più tardi, a
sentire e capire come la parola avesse un valore sacro proveniente dalle
stesse difficoltà tecniche che, conducendo a termine il Sentimento, aveva
da superare per esprimersi un poeta del nostra tempo.
E furono le difficoltà, le difficoltà tecniche, difficoltà divenute sotto certo
aspetto davvero apocalittiche, a farmi verso l’ultimo, dubitare se oggi non
fossero gli uomini tormentati da un folle problema di disintegrazione del
linguaggio, anziché assorbito nel conseguimento della perenne unità
poetica della parola.
Mi fu facile ritornare in me, riprendendo a commentare Leopardi. Il
sentimento dell’Allegria, che l’atto poetico è, qualunque ne sia il prezzo,
atto di liberazione, che solo nella libertà è poesia, era ritornato vivo e
chiaro in me, con la conferma in me che non si ha nozione di libertà se non
per l’atto poetico che ci dà nozione di Dio. […].
Leopardi si chiede se non saremmo ridotti – più non essendo il passato se
non tempo consumato, tempo defunto – a non più essere in grado di
evocare la realtà del nostro essere, a non più potere, salvo che per effetto
di memoria, metterla in moto […].
Ma là dove l’ironia del poeta giunge sino al suo punto di humor nero
estremo, è nel canto L’Infinito. L’infinito non può essere noto all’uomo,
essere finito, che a mezzo di oggetti finiti: cose la cui vista ci è esclusa non
foss’altro che da una semplice siepe, possono diventare ‘interminati spazi’,
similmente l’eterno, il tempo abolito, non potrà concepirsi che a seguito
d’uno stormire di foglie in corso di smarrirsi dentro uno spazio, divenuto
per causa di quel chiasso smarrito, senza più fine. Chiasso che darà vita
all’immagine del nostro pensiero fermatosi ad inseguire, a perdita di vista,
gli innumeri secoli morti, precedenti al nostro […].
Misterioso è l’aggettivo che s’addice meglio al vocabolo poesia […] ma il
Leopardi si lusingava che, dissimulando la sua costretta confessione del
sacro sotto un vocabolo tanto razionale quanto poteva esserlo il vocabolo
154
ANTONIO D’ELIA
infinito, le dava lo stridore d’un pizzico di malizia volteriana. Non faceva
che mettere a nudo la pietà del suo cuore37.
Ungaretti costruisce il proprio accesso al Moderno nel distacco
dall’avanguardia (surrealismo) e nell’incremento del tutto innovativo della
criticità che il suo verso, nel creare all’intero e fuori dall’esperienza ermetica,
come già affermato, un nuovo percorso, contribuisce “contemporaneamente”
a risaldarne la lezione, appunto, da lui rinnovata, proprio sulla concezione del
tempo. Della sua effimera durata e della sua grave persistenza, che diventa
memoria, la quale diremmo si consacra come immagine in un ricordo
distrutto. La memoria, il ragionamento su di essa parte da una soluzione di
finitudine, da cui in effetti esce, quale prodotto nel nulla, ed entra nella
ripetitività non come gioco dello scontato incontro, inteso come possibilità
unica del pensiero per concepire l’origine, ma critica (riflessione) del ripercorrere la storia con lo slancio di un continuum che è sempre veniente al
nuovo:
Con Baudelaire il tempo assume un ruolo attivo: quello di principio attivo
e rinnovatore delle arti. L’eterno di Baudelaire si trae dalla circostanza, da
ciò che muta più velocemente, dalla moda. Non è più il romantico ‘sogno
di una cosa’, l’utopia di una conciliazione, la speranza di un superamento
dei tempi, mala cosa del sogno che vive nel tempo e del tempo ha la
variabilità. Una cosa introvabile. E guai se fosse trovata, o fosse fissata in
una forma. […]. L’ideale è ormai in funzione del cambiamento. L’assoluto
diventa una figura del relativo. Il tempo entra nelle forme e le trascina nel
suo movimento. Da difetto, mancanza, non essere, si trasforma in risorsa e
vitalità delle arti. […].Baudelaire partiva da una situazione di logoramento
delle tradizioni, e indicava una nuova via. Mezzo secolo dopo, a processo
storico più avanzato, le avanguardie radicalizzano il programma tracciato
da Baudelaire. Esse affermano il nuovo, e rifiutano ogni eredità del
passato. Per un’altra corrente artistica, del resto dialetticamente connessa
con le avanguardie, ritiene urgente, al contrario, risalire all’ “eterno” di
Baudelaire – alle origini delle tradizioni –, e operare una revisione del
processo della modernità. A questa corrente appartiene Ungaretti.
Entrambe le correnti constatano lo stato di invecchiamento di un mondo,
di una cultura, di un contesto tradizionale. Entrambe le correnti hanno un
senso nuovo del tempo o della durata. Ma si dividono nella sua
valutazione. Così la durata sarà importante per i futuristi come per
37
G. Ungaretti, “Ragioni d’una poesia”, cit., pp. XCV- XCIX.
155
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
Ungaretti. […]. Proprio Ungaretti del resto è stato – ed ha voluto essere –
il poeta della durata38.
Una durata che non si limita nella osservazione dell’oggetto in sé e, quindi,
del suo tempo-modo, ma va al principio da cui e per cui è. Raggiunge
l’origine nella primigenia sostanza, che in Ungaretti è innocenza. Un tempo
che è, quindi, e occorre ribadire tale passaggio, approfondirlo il fattore delle
azioni umane come principio, non tanto (e “non solo”) di causa-effetto, quanto
e soprattutto il riscontro perenne dell’io di fronte se stesso come avvertita
pensabilità nel mentre si disvela. Ossia come presenza costante nella
conoscenza, che si apre al poeta nelle modalità di un riassumente nell’adesso
di tutto ciò che ha vissuto. Perdurante emozionalità per cui viene provocato,
nella resistenza, a rimanere, cioè a durare: apertura del momento alla sua
nascita: quando il tempo dell’io si accorge, e sempre commette tale azione, di
essere in quanto mortale: durata-quantità (quando-quanto): “continua a
morire in una memoria che non è trama di ricordi, passato da recuperare, ma
flusso ininterrotto della vita psichica profonda”39. Se, pertanto, Ungaretti
riprendendo dalla lezione di Bergson il concetto di tempo come memoriaprofondità, entro una visione “spirituale” di fronte ad un esame che si incentra
nelle coordinate materiali-spaziali, la storia, decostruendosi da tali processi,
assume la tradizione e la legge nella sorpresa d’esserci. Sorpresa d’infinito,
come assonanza dell’effimero-origine, da cui, come sottolinea Guglielmi, per
il poeta
nella modernità la tradizione è un ordine corroso, rovinato, frantumato.
Nella modernità l’origine è sempre meno riudibile. Della polarità di eterno
e relativo o, per dirla con Ungaretti, di eterno ed effimero […] è il primo
termine che chiede di essere salvato dalla dissoluzione. [….] risalire al
mistero delle origini, al sacro dimenticato, all’infanzia del mondo sarà
possibile solo sulle tracce di litterae, segni, frantumi. […]. Il mistero, il
sacro, l’infanzia (l’ ‘infanzia ritrovata’ di Baudelaire) interessano invero
sia la poetica di Ungaretti e dei metafisici, sia la poetica dei surrealisti. E a
differenza dei futuristi, anche i surrealisti guardano al passato. E il passato
cui guardano i surrealisti è quello delle tradizioni esoteriche, magicoalchemiche, rimosse dalla civiltà europea, e vive solo nei modi
extraeuropei. […]. Il sacro dei surrealisti è un sacro della prossimità. Lo si
incontra per le strade […] è tra noi, abita il mondo, basta saperlo vedere,
avere occhi innocenti. Tutt’al contrario del sacro di ungaretti – e dei
38
G. Guglielmi, “Una revisione del moderno”, in ID., Interpretazione di
Ungaretti, Bologna: il Mulino, 1989, pp. 7-9.
39
F. Curi, “L’Allegria”, in ID., La poesia italiana nel Novecento, RomaBari: Laterza, 1999, p. 174.
156
ANTONIO D’ELIA
metafisici – che è un sacro della lontananza: di cui la letteratura è la
memoria. […]. Non il qui e ora di una esperienza magica – dell’esperienza
dell’innocenza –, ma l’altrove della memoria40.
La poesia è dunque per Ungaretti testimonianza dell’esistenza, del suo
esserci e dell’essere dell’uomo in quello del mondo: tesi che in lui diventa
modo poetico-linguistico di avvicinamento sempre più stretto all’Eterno, per
meglio dire, la questione dello stile è tutt’uno con la questione dell’esser
vissuti e del vivere. Nel 1924, al ricordo di Apollinaire, sul letto di morte,
Ungaretti sente che la giovinezza è finita per sempre: ‘Nous avons encore
essayé d’etre hommes d’aventure. Un vent d’automne nous a glacé. Nous
voilà serviteurs de l’ordre jusqu’au bout’. [...]. [Tuttavia, il poeta darà linfa
vigorosa alla sua vita, “umana e artistica”] Nel 1933 scriverà: ‘Oggi il poeta
sa e risolutamente afferma che la poesia è testimonianza d’Iddio’. Giova qui
sottolineare [prosegue nel suo commento Giuliano Manacorda] come le
dichiarazioni di Ungaretti, anche quando assumono aspetto generale, vadano
lette con preciso riferimento a se stesso, quasi un’autoconfessione che gli
usciva dalla penna con totale e persino candida convinzione; così come
quando proclama nel 1929: ‘di fronte alla poesia dell’Ottocento…ecco
nascere una poesia che brama di ristabilire un rapporto tra la creatura e Dio’41.
Giunge, così, alla dichiarazione del 1933 attorno alla poesia come
“testimonianza” del e sul Sacro, succedutasi al soggiorno del 1928 nel
monastero di Subiaco.
Nel ritiro il poeta, tra le altre esperienze-perlustrazioni dell’anima e perizie
letterarie-filologiche attorno alle proprie e altrui opere, medita più
approfonditamente sul testo-testimonianza per antonomasia non solo della
cultura in senso ipertrofico, ma soprattutto sul versante specificatamente
religioso-teologico: il Codice per eccellenza, ossia la Bibbia42.
Testimonianza, tra le tante, di ciò il compimento di una pratica culturale
raffinata ed estremamente bramosa di dettagli erudito-filologici tratti dalla
lezione della Bibbia, che è assieme modello esistenziale nel momento in cui
l’ideologia diventa idea piena, coerenza psichica e costituzione etica del
progressivo maturamento di alcune istanze, religiose, oltrepassando altre di
segno comunque diverso.
Tutto questo non significa che il poeta sia divenuto ex abrupto credente, in
senso pieno del termine, per il semplice (e certo non semplicistico fatto) di far
40
G. Guglielmi, “Una revisione del moderno”, cit. pp. 10-11.
G. Manacorda, “La poesia. Saba, Ungaretti, Montale”, in ID., Storia della
letteratura italiana contemporanea 1900-1940, Roma: Editori Riuniti,
1999, pp. 284-285.
42
Cfr. su questo tema il fondamentale N. Frye, Il grande codice. La Bibbia e
la letteratura, trad. it. di G. Rizzoni, Torino: Einaudi, 1986.
157
41
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
immergere il suo poetare nel segno sacro, variamente codificato nell’alveo
della tradizione cristiana.
La situazione di “enorme peso” esistenziale, ossia la conversione, invero si
presenta (così come accade sovente per l’intera trama dell’esistenza
dell’uomo, per e nelle estreme tappe in cui il singolo deve trascegliere il
fondamento dal tutto essenziale, eppure ingombrante), risulta lineare,
tragicamente lineare.
La scelta, o se volessimo dire la “svolta” è maturazione dei contrari.
Accettazione del non compreso, critica alla polemica verso l’istinto, che aiuta
a ragionare, ma, assieme, purificazione incessante di un cammino che tenta di
raggiungere in ogni caso, ma ora in modo più avvertito, l’Incognita quale
azione del suo riflesso nel soggetto (vita-cultura-ambiente). A dire ciò la
registrazione dei segni delle tematiche deliberatamente religiose non basta.
Ma se ad esse affianchiamo la testimonianza più schiacciante, ossia la poesia
nel suo complesso, la sua parola primariamente e il suo pensiero-musica
incardinati ad un’indagine dichiaratamente redentiva, connotata da
formulazioni specificatamente di fede, possiamo allora affermare che in
quest’ultimo passaggio il discorso poetico, o meglio la poetica ungarettiana
diventa religiosa a partire dall’atto di fede di cui si è detto. O meglio dalla
professione di fede che per un poeta qual è Ungaretti ricercante nel segnoparola Dio ed in quello del Cristo un effettivo inizio di risoluzione
dell’incognita segna evidentemente un evento. Ma a quale Dio e a quale
esempio cristologico dobbiamo riferirci?
Il soggiorno a Subiaco, fuori da qualsiasi “piccina” visitazione, nel senso,
appunto, di restrittiva lettura, che farebbe di quel momento unicamente il
ricovero in un ritrovo da cui uscirebbe la figura di un Ungaretti ritemprato per
le cure, vaghe, dell’anima (non precisamente intesa), un corso di
perfezionamento su temi e motivi squisitamente religiosi, è, invece, per il
poeta un vero e proprio periodo di esercizi spirituali. Un decisivo momento
d’adesione piena al Mistero, e alla pratica che lo esplica, nell’enigma dei suoi
camminamenti.
In merito al soggiorno a Subiaco, Ungaretti nel presentare nel 1952 il testo
lirico di David Maria Turoldo, Udii una voce, testimonia il suo apprendistato
biblico e la costituzione religiosa che informa la propria poetica.
Una lettura incisiva e lucida del precorso intrapreso in cui al tema del Sacro
e alla presa di possesso in senso “storico-temporale” sul religioso si affianca,
intimamente connesso a quest’ultimo, quello del barocco, del binomio carnespirito. All’intrinseca presenza tra vuoto-orrore e viaggio-tempo-memoria a
cui precedentemente ci siamo riferiti:
Nel ’28, dal Monastero di Subiaco dove avevo trascorso ospite una
settimana, di ritorno da Marino dove allora risiedevo, d’improvviso – in
quell’anno mi sarebbero nati gl’Inni – seppi che la parola dell’anno
158
ANTONIO D’ELIA
liturgico mi si era fatta vicina all’anima. Non che, nella sua attualità
perenne, quella parola non mi trovasse a volerla amare, da lunghi anni
intento. Nella parola mi ero affannato sino dai miei inizi nel mestiere di
poeta a cercare un segreto che mi isolasse dagli eventi, quantunque
maggiormente nel vivo legandomi ad essi, con meglio accettata
sofferenza. Lo stesso Barocco, muovendo in me più tardi i primi interessi
del Sentimento, m’aveva attratto appunto perché si straziava a ricomporre
un’armonia tra miti sorti dalle illusioni dei sensi e l’Eterno, la Verità, non
sapendo manifestare alle somme se non irreparabile scissura (il
Michelangelo del Giudizio e quello delle ultime Pietà, osservati anche in
contrasto). […]. Vengono in mente osservazioni strane rileggendo il
profeta Isaia, e, per esempio, quella che la poesia di questo secolo è, più
che su ogni altra scrittura, poesia che prova a modellarsi su quella del
profeta più poeta […]. [Il profeta Isaia] l’ho riletto poco fa, e l’invito a
rileggerlo è il primo che rivolge la poesia di Davide Turoldo a chi si
disponga a dedicarle la dovuta attenzione. […]. La poesia di Davide
Turoldo è [come quella dell’Ebreo] poesia che scaturisce da maceramento
per l’assenza-presenza dell’Eterno, presenza in tortura di desiderio,
assenza poiché dall’Eterno ci separa l’effimero nostro stato terreno, al
quale tiene tanto la nostra stoltezza43.
43
G. Ungaretti, “Premessa” a D. M. Turoldo, Udii una voce, Milano:
Mondadori, 1952, pp. VII, XI. Turoldo è rappresentante, pur se
“anomalo”, del genere posia-religiosa con tutte le implicazioni che tale
formula apporta, soprattutto per un autore qual è stato il servita
friulano. Al centro del verso turoldiano la risposta alla domanda per
antonomasia (di colui che si pone come interrogante ed interrogato) del
chi sono/siamo e del chi è, imposta non solo da e a colui che cerca, ma
primariamente da colui che è cercato, entro uno scontro-incontro con
l’Eterno, di cui Turoldo è fedele amante-ministro. Uno scontro (la
parola liricizzante è tesa sempre al dramma colloquiale verso il senso e
non verso il consenso) sanguinante con il mondo, in una continua
conversazione abramitica con l’essere, di comparire e muoversi,
appunto, nella fertilità dinamica del ri-conosciuto e, dunque, di
attestare o rigettare la dichiarazione (sentenza) dell’esserci in quanto
sostanza pensante. Ponendosi, così, costantemente al margine del
limite del mistero della verità assoluta nel qui della storia e delle sue
verità e nell’altrove del naufragio profetico. La figura e l’opera di
David Maria Turoldo si impongono con un singolare prestigio nel
panorama poetico del secondo Novecento, attivando non pochi
processi analitici ed esegetici di ricostruzione non solo delle sue opere
ma anche della sua figura di frate. All’origine del suo canto (un tempo
ed uno spazio recuperanti i movimenti già avvenuti “prima” del
159
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
principio, che non ha di fatto nome, in cui l’uomo ha tentato di dare
ragione del suo inizio) la Parola (letta e interpretata alla luce
ermeneutica esemplata sulla scorta del “carmen universitatis”
agostiniano), che il poeta tenta di accordare nel “simbolo mistico” della
consumazione della salvezza operata dal Verbo nel mistero
dell’incontro tra carne e carne, divino e historia, estraendola, con
atteggiamento impetuoso, sulla scorta dell’esaltazione salmica, dal
nullificante silenzio. E l’allegoria promanante dai testi sacri e
l’analogia anagogica della letteratura prosastica e poetica significano,
in questo singolare giro strofico, la messa in opera di un vero e proprio
canzoniere. Un autore vicino al sentire ungarettiano, anzi per molti
aspetti “educato” dalla lirica del “Girovago” pur non diventandone
imitatore-continuatore, ma ricavando primariamente dall’esperienza
religiosa del suo stato di uomo di fede e sacerdote e da quella ereditata
dalla poesia detta ontologica un motivo originale, all’interno della
ripresa del canone biblico, come lo stesso Ungaretti sottolinea, per cui
il servita è poeta singolare del Novecento. Da ciò possiamo meglio
chiarire l’azione poetica ungarettiana derivante anche dall’emulazione
degli “enunciati” del Grande Codice, ed in specifico ediante la
simbologia biblica, a metafora, la figura possiamo percepire la
musicalità sacrale (terrifica e dolce) alla quale si riferisce il poeta. Ed è
proprio il senso-profezia, parte attiva del dire ungarettiano, una
profezia rimanda all’origine dell’Essere per inverarsi nel nunc
mediante i toni utopico-eretici propri dell’inveramento del della cosa
detta dopo il “dialogo-scontro” con il Divino. Non a caso Ungaretti nel
presentare Turoldo si riferisce, come precedentemente accennato, al
grande Ebreo: Isaia. Questi è colui che detiene la tradizione ed anticipa
col la profezia la venuta del Regno, realizzatasi poi in Cristo: vero Dio
e vero uomo. Dall’ascolto-assuimilazione del profetismo “lirico” nasce
una parola che estrae l’atto dell’annuncio all’uomo della esistenza nella
complessa trame delle sue avventure nel dramma del Novecento, di un
esodo dalla Terra per un ritorno alla nuova Terra, che è promessa nella
Scrittura come l’unica Patria, che prefigura la Gerusalemme Celeste
indefinibile e, tuttavia, avvertita dall’anima e annunciata dai sensi
quale uico vero approdo: origine-causa in cui si esprimerà
definitivamente la Parola. In questa “attesa-naufragio” (l’esistere
dell’esistente), per Ungaretti il verso è, a partire dal Porto Sepolto,
“frammentato, il linguaggio scarno, la parola sillabata per esprimere la
condizione della fragilità dell’uomo, la solitudine, l’inferno della
guerra, la nebbia che circonda l’esistenza e l’illuminazione poetica che
la può disperdere” (A. Piromalli, Le riviste letterarie. La poesia
nuova e Ruggero Jacobbi: Giuseppe Ungaretti, Umberto Saba,
160
ANTONIO D’ELIA
Tutta la riflessione sul barocco e sul laceramento dell’immagine è continua
nell’analisi ungarettiana su Turoldo.
Il poeta servita si impegna a cantare il mistero del Dio degli Ebrei e del Dio
fattosi carne.
L’esperienza a Subiaco, intimamente congiunta alla conversione, è
indubbiamente per Ungaretti tappa poetico-speculativa alla quale in molte
occasioni si riferirà, con un moto celebrale di “spostamento”, che di per sé
costituisce una metafisica dell’essente, in un’agnizione profonda e ancora
psichicamente lacerante44.
Se Pascal costituisce, come sottolinea Ossola, un elemento basilare sul
versante filosofico per Ungaretti “cristiano”, il Cristo del Sentimento è sì il
Verbum, cioè la Parola fattasi carne, tuttavia solo a tratti è assorbita dalla
poetica di quel Tutto-Nulla, di cui si diceva. E per la quale, appunto,
l’assimilazione dell’Evento dell’Incarnazione sembra, sovente, pietrificato.
Appare assenza, vuoto: “storicità salvifica […] apocalisse di un dramma
consumato nella sua assenza”45.
Eugenio Montale, salvatore Quasimodo, in ID., Storia della
letteratura italiana, Cassino: Garigliano, 1994, p. 502), così come la
voce del profeta che mentre annuncia e dà speranza ricovera nella
criticità del segno il senso ultimo, affidandolo al Silenzio della
preghiera-azione-contemplazione, che è in vero un canto, un inno:
ossia un coro espresso tanto dal singolo che dalla collettività orante.
Sull’importante testo di Isaia rinviamo a: Il libro di Isaia, Traduzione
e Note di L. Morandi, Introduzione di G. Ravasi, testo ebraico a fronte,
Milano: BUR, 1994. Sulla produzione in versi di Turoldo, sul rapporto
poesia religiosa e teologia, sulla relazione Ungaretti-Turoldo ci
permettiamo rinviare a A. D’Elia, La peregrinatio poietica di David
Maria Turoldo, prefazione di D. Della Terza, Firenze: Leo S. Olschki,
2012, e ancora A. D’Elia, “Teodicea: poesia e negazione, ovvero la
follia del mistico. Il male e il nulla sacro nei ‘versi ultimi’ di David
Maria Turoldo, Rivista di Studi Italiani, XXIV, (2006), 1, (2008), pp.
81-106; A. D’Elia, “Udii una voce: poesia e profezia nel verso di
David Maria Turoldo”, Letteratura & Società, XII, 3, (2010), 36, pp.
46-67, D. M. Turoldo, O sensi miei. Poesie 1948-1988, Note
introduttive di A. Zanzotto e L. Erba, Nota filologica di G. Luzzi,
Milano: BUR, 2002 e per un quadro approfondito sul versante
biografico che tenga, assieme, di conto le principali tematiche del suo
canto cfr. G. Ravasi, David Maria Turoldo. Invito alla lettura,
Milano: Ed. San Paolo, 2000.
44
Cfr. l’importante studio di C. Ossola, Giuseppe Ungaretti, Milano: Mursia,
1975, e specificatamente, per ciò che attiene a quanto riferito, p. 305.
45
Ibidem, pp. 301-302.
161
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
Di un’assenza quindi mossa a dimostrare la mancanza per il non
avvicinamento all’Eterno, che non significa, anche in termini di raggiunta
maturità di sentimento religioso, una cancellazione della tensione verso Dio,
di un sentire teologico presente, ma una riproblematizzazione.
Con il Sentimento del Tempo entriamo di fatto in quella fase religiosa, che è
elemento, quindi, centrale e profondo del pensiero-poesia: ossia sentimento
verso l’Eterno:
dominante […] esito di un’attitudine [afferma Antonio Sacconi]
implicitamente presente già nel primo Ungaretti, e ora agevolata, oltre che
dalla riconquista della fede cristiana, dall’assunzione di registri stilisticoespressivi fortemente connotati da una poetica della solennità […] il titolo
Prime della sezione introduttiva Allegria documenta il congedo dalla
prima stagione poetica e l’anticipazione di un nuovo atteggiamento
culturale e ideale, che sarà messo in versi nel libro a venire. È
significativo, allora, che l’explicit di quella sezione coincida con la lirica
Preghiera […]. Non si trascuri […] che quel titolo (preceduto
dall’articolo: La Preghiera) tornerà ad identificare, nella sezione Inni, una
poesia di Sentimento del Tempo46.
Il senso della caducità è invasivo dell’intero testo: ma perché Eterno e
morte, presenza e assenza di Dio, visione che produce credo e “ateismo
imbelle”, quello reso dal senso della fine e dall’ingestione di una resurrezione
che dell’evento ultraterreno avrebbe solo il fascino bloccato, come
precedentemente riferito, nella stessa parabola che lo narra?
La domanda appena rivolta trova la sua risposta, diremmo consequenziale, a
nostro avviso, proprio nella struttura appositamente retorica (un linguaggio
codificato, un idioletto religioso-teologico) entro cui gli argomenti elencati
vengono da Ungaretti coniati.
Quando Ungaretti parla dell’arte ed in specifico di quella manifestazione
che più di tutte lo ha colpito (affascinato e trasformato: gli ha procurato
perdita in senso attivo, volta cioè ad una, pur se anomala, ricostruzione), il già
citato barocco, connette lo stravolgimento (che, appunto, l’opera d’arte di quel
periodo e soprattutto la combinazione barocco romano e rovine antiche della
città eterna mescolandosi ergono una modalità comunicativa) in un linguaggio
voluttuoso e straziante. In esso la rappresentazione del sublime, che è
46
A. Sacconi, “Sentimento del Tempo”, in ID., Ungaretti, Roma: Salerno
Editrice, 2012, pp. 124-125.
162
ANTONIO D’ELIA
l’essenza stessa del fenomeno, per cui esterno ed interno reciprocamente si
rovesciano nella prospettiva di chi osserva, riscontrato in Michelangelo
“romano”, deterge paura e desiderio di morte in una esaltazione dell’assenza,
che è quindi “sublimità”. Assenza, che è vuoto incolmabile. Programmatica
scelta esistenziale, per cui la materia è lavorata al fine di restituire una
perdizione nella “nullità” (il passaggio continuo dal buio alla luce e
viceversa), che è sempre una ricerca dell’assoluto.
Una tenebra che cerca per essere il sole da cui nascondersi, affinché possa
“apparire” e sopravvivere, cioè in Ungaretti mostrarsi essenziale alla e per la
vita. Deve cedere, quindi, alla variazione delle “forme” per cui si dà solo se i
colori (quindi la “gradazione” di se stessa) trasformano i propri gradi in
“alternative”(foniche-ritmiche, scultoree e pittoriche) sempre ricorrenti e,
assieme, differenti.
Da ciò il tema della luce e del buio, della vita e della morte ripresi da
Ungaretti, anche o soprattutto attraverso la poetica di Michelangelo, di
Michelangelo “cristiano” diremmo, come sentimento primario del pensiero,
per il quale sentimento il pensiero stesso si fa:
La tradizione biblica [scrive Giachery] (anche nello Zahar della Kabbalah)
e soprattutto neoplatonica e mistica, in cui si oscilla a partire già da Plotino
tra luce come metafora e luce come sostanza (‘lux est forma substantialis
corporis’ secondo San Bonaventura), è così impastata nella cultura
europea, nell’anima europea, nel nostro immaginario, che non è facile
dissociare la luce dal senso del divino e dell’assoluto. […]. ‘Dio è luce’,
proclama San Giovanni […] San Paolo […] (il quale più di una volta parla
di luce, sia della luce di tutto ciò che si rende manifesto, come nella
Lettera agli Efesini, sia di quella ‘inaccessibile che nessun uomo mai può
vedere’, abitata da Dio) […] nei Nomi divini di quel misterioso e
affascinante maestro per secoli di mistica che va sotto il nome di Dionigi
(o pseudo-Dionigi) Areopagita47.
Spiegando il barocco (romano) Ungaretti spiega il passaggio poetico di luce
e buio, di tenebra, di nulla e di tutto, del pieno e del vuoto: parla attraverso la
semantica poetica di Dio, del Dio creatore e corrosivo e dell’uomo formatore
e corrodente, dell’anima e delle sue trame nell’ordito della materia:
Quando dicevo che il barocco provoca il sentimento del vuoto, che
l’estetica del barocco romano era stata mossa dall’orrore del vuoto, citavo
il Colosseo. Temo di non essere stato chiaro. L’orrore nel barocco
proviene dall’idea insopportabile d’un corpo privo d’anima. Uno scheletro
provoca orrore del vuoto.
47
E. Giachery, La parola trascesa e altri scritti, cit., pp. 43-44.
163
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
Quando Michelangelo rappresenta nella sua ultima opera, la Pietà
Rondanini, Cristo, Cristo è un corpo disanimato, un corpo vuoto e, in
quell’effetto della giustizia, Michelangelo non vede se non orrore. La
Pietà non la vede nella Madre che, ad ogni costo, vuole resuscitare il suo
bimbo. L’Apocalisse aveva indicato a Michelangelo Cristo giudice. Lo
rappresentava interpretando testi sacri. Era l’idea del Cristo tremendo che
gli proveniva dall’idea della morte. Non arrivava ad ammettere la morte, e
in niun’altro dei grandi artisti che verranno dopo Michelangelo arriverà ad
ammetterla. L’idea di resurrezione è un’idea che non si arriva ad
assimilare. Michelangelo era un buon cristiano, ma…era davvero un
cristiano Michelangelo? È domanda alla quale nessuno saprebbe
rispondere, vuoto e spazio non sono affatto nozioni identiche. In qualsiasi
forma, per esempio, di cui l’uomo si sia appropriato con la poesia o
l’architettura o la pittura, c’è sempre una specie d’abisso che lo attrae,
nell’interno stesso della forma che ha inventato, edificato. C’è sempre
nella sua opera, come in sé, un’assenza, e quell’assenza produce vertigine,
spavento. E l’uomo, alla vertigine, che sarebbe come la definizione
materiale, spaziale, dell’assenza d’essere, l’uomo corrisponde con la sua
frenesia di agire e in particolare di agire come poeta, come artista48.
In questo esame che definiamo cristologico, lo stesso Ungaretti pone un
evidente parallelismo tra sé e Michelangelo, anzi con il Michelagelo cristiano.
O meglio con il cristianesimo dell’artista-uomo Michelangelo e
dichiaratamente ne cerca di misurare lo spessore, ed ecco che ora abbisogna
usare il termine in senso trasparente, ossia tenta di valutare la natura della fede
del cristiano-artista: si parte dall’inquietante e pur giusta domanda sulla verità
o meno di Michelangelo in quanto cristiano.
Al di là di una ingenua visione di sovrapposizione dei personaggi-persone
(Michelangelo-Ungaretti) tanto evidente quanto risolvibile in, appunto, un
parallelismo la cui natura è insita nel processo stesso di comparazione
“voluto-non voluto” da un artista con un altro “sodale delle Muse”, tanto più
se richiamato per, appunto, evidenti, a suo avviso, riferimenti-distacchi da e
con ciò che li accomuna. L’oggetto, quindi, con cui entrambi hanno a che fare.
Oltre una esamina esplicita del fascino che colui il quale crea il “paragone”, o
semplicemente indica un avvicinamento all’altro elemento di comparazione,
come necessità per chiarire con la mediazione di una diversa poetica la
propria. Intanto, osserviamo e riflettiamo sulla formula: “Michelangelo era un
buon cristiano, ma… era davvero un cristiano Michelangelo?” Sul termine
cristiano bisogna compiere una primo commento. Di quale cristianesimo si
discorre? Giovanni Fallani propone e dimostra una lettura dell’esperienza
48
G. Ungaretti, “Note a Sentimento del Tempo”, in ID., Vita d’un uomo.
Tutte le opere, cit., p. 534.
164
ANTONIO D’ELIA
religiosa in letteratura che evidenza come l’arte in questo caso letteraria non
solo prende il genere-modello religioso nel proprio, ma è la religione, in
quanto cultura e atto culturale, ma anche o soprattutto pratica non solo
cultuale, ma diremmo di avvicinamento al Sacro, il vero carattere del discorso
che materia parte, se non il cuore di molte poetiche, celate o palesemente
riferite al Sacro in tutti i tempi. E per di più al Sacro con chiare connotazioni
cristiane. Quindi, esiste un cristianesimo, come già ribadito, che fa da sfondo
ad un messaggio codificato entro un certo modello derivante dal predetto
contesto culturale-religioso ed un cristianesimo, dall’altra parte, che genera
“culturalmente-letterariamente” la produzione religiosa nel calco della propria
tradizione e della formazione sociale in cui è elaborata la vis dell’artista,
poiché frutto di un atto incondizionato (sembrerebbe) di fede. Il carattere
cristiano dell’opera tutta di Michelangelo non può essere messa in discussione
per palese manifestazione dei propri segni, che poi l’animo, cioè l’intentio
vera dell’autore non corrisponda ai suoi più visibili segni è lo stesso Ungaretti
a ribadirlo. Ma vi è un altro passaggio che ci sembra importante e
assolutamente non pretestuoso. Noi crediamo che il poeta girovago proprio
partendo dall’evidenza, sopra richiamata, più disarmante, espressa dai temiargomenti delle opere di Michelangelo, e spesso, quindi, fin troppo
“considerata”, attui e svisceri analiticamente in senso funzionale al proprio
intento parte del sospetto di un poeta ed esaminatore quale egli è.
Interrogativo, ci pare, che è proprio di chi nell’affermare-evidenziare,
appunto, la domanda, un dubbio proteso pressoché ad enucleare una
risoluzione negativa, per mancanza di prove schiaccianti, o per quelle troppo
evidenti, dichiari quasi in modo perentorio che “È domanda alla quale
nessuno saprebbe rispondere”. E, tuttavia Ungaretti aggiunge: “vuoto e
spazio non sono affatto nozioni identiche”. In che modo il precedente asserto
può integrarsi nella stessa formula dichiarativa con un altro, che del primo
costituisce “evidente” proseguo, congiunto, o meglio separato da una virgola?
E, al contempo, quale corrispondenza “evidente” tra la “risoluzione assoluta”
di un quesito con l’introduzione della differenza tra le “categorie” vuoto e
spazio? La virgola che separa le due formule altro non sarebbe che la
prosecuzione in veste esplicativa del ragionamento in forma di risoluzione. Ci
sembra che il poeta dica in modo dunque evidente che se l’intimità dell’io è
inconoscibile addirittura allo stesso io, per quel senso di profondità e di vuoto
che gli abissi costituiscono, ed in questo caso l’animo è l’abisso insondabile, il
vuoto inteso come orrore per la mancanza provoca la ricerca di ciò che non
c’è, mentre lo spazio è l’abito in cui si genera la pienezza, quando è edificata,
altrimenti rimanda all’assenza. Ma l’assenza di spazio è rispetto al vuotoassenza un modo diverso, quello cioè che concepisce il Petrarca: “L’idea di
assenza quale il Petrarca la concepiva è tutt’altra cosa, è un mondo lontano
165
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
nello spazio e nel tempo, che torna a udirsi vivo tra il fogliame del sentimento,
della memoria e della fantasia”49. Ed ecco che l’interrogativo su
Michelangelo, a questo punto, non diciamo che si scioglie, ma fa il suo
ingresso ben formato nel Sacro. O meglio si disigilla proprio perché Ungaretti
sceglie, o la sua scelta è conseguenza, mentre lo interpreta, dell’atto religioso
di Michelangelo al Sacro, con il quale il Girovago condivide l’induzione
artistica e per il quale anch’egli opera un similare movimento. Se non può dire
la realtà intima del cristiano Michelangelo (nel mentre registra tra tanti i tratti
del cristianesimo michelangiolesco), è convinto che proprio nel Mistero, che è
affidabilità, Silenzio, il grande artista abbia trovato lungo il cammino un senso
preciso che si rende come fede, atto di fede nel cristianesimo. E in ciò che lo
informa. L’orrore del vuoto di Michelangelo è letto da Ungaretti come il
mancamento per l’assenza, il terrore per non avere Dio. Oltre quindi la forma
corporea, oltre la materia e dentro il metafisico, perciò al di là dello spazio:
C’è una viva forma che è assente, oppure non c’è forma viva, c’è il vuoto.
È diverso, è un modo di sentire diverso.
Poco fa si parlava del vuoto, poiché il vuoto nell’ispirazione poetica
appare con Michelangelo e poi con il barocco, che Michelangelo inventa.
Occorre ch’io precisi l’idea di assenza. […].
Michelangelo e alcuni uomini alla fine del ’400 sino al ’700, in Italia, quel
sentimento, il sentimento dell’orrore del vuoto, cioè dell’orrore di un
mondo privo di Dio50.
Ungaretti legge tale mancanza in chiave desiderativa. O meglio, l’atto della
mancanza produce un piacere sottile, un desiderio del Sacro, che si manifesta
in senso tensivo non solo nell’anima e nella cerebralità, ma anche nella carne,
come precedentemente riferito. La mancanza (avvertita da Ungaretti e da lui
letta anche in Michelangelo), che provoca orrore per la non presenza del suo
contrario e per la forma irrealizzata del suo essere (di un nulla-vuoto che è
mentre, appunto, manca, altrimenti non sarebbe), per il non raggiungimento:
un Nulla avvertibile come niente, che è degenerativo e non come Nulla
generatore dal buio verso la luce:
All’origine del canto di Ungaretti si scopre l’idea del nulla, dapprima
come spazio dell’assenza che invade la scrittura attraverso i bianchi
49
Ibidem, p. 535. Su Ungaretti e Petrarca per un quadro d’insieme cfr. M.
Boni, Ungaretti e Petrarca con altre occasioni critiche, Bologna: Edizioni
Italiane Moderne, 1976.
50
G. Ungaretti, “Note a Sentimento del Tempo”, in ID., Vita d’un uomo.
Tutte le opere, cit., p. 535.
166
ANTONIO D’ELIA
dell’Allegria, segno visibile del vuoto, quasi trasposizione grafica del
deserto. […].
Nella stagione remota della prima giovinezza nasceva così ‘la nozione e il
sentimento dell’infinito, del primitivo, del decadimento fino al nulla’. […].
Dall’esperienza della trincea sorgeva l’angoscia della precarietà e la
coscienza della condizione transitoria dell’uomo, pascalianamente
disperso nell’infinito […]
con una riflessione sorprendentemente vicina alla negatività esistenzialista
di Sartre e Heidegger […].
Ma sul ‘silenzio eterno’ anche Valéry aveva composto le proprie
‘variazioni’ […].
Ma la radice moderna del nulla novecentesco, e in particolare del
sentimento di caducità che percorre la poesia di Ungaretti a partire dagli
anni Venti, risale in verità ai trattati sul Nulla che fiorirono nel Seicento
insieme agli elogi accademici di Nessuno e del Niente, una sorta di
‘archeologia del nulla’, ovvero il primo grande nichilismo ontologico
dell’Occidente dopo i greci, che si manifesta nella dimensione barocca
della frattura, del discontinuo, della catastrofe, traducendosi in una vera e
propria filosofia negativa51.
Dall’altra parte, proprio lo spazio è atto d’accoglienza del Nulla. È sempre
pronto, nella sua differenza dal vuoto, ad accogliere, drammaticamente
l’espulsione dell’Altro ingenerando in sé comunque un pieno.
Un equilibrio sottile, una dittologia spazio-vuoto i cui risvolti si recepiscono
nell’infittirsi della tenebra e della luce: entrambi portano al buio-silenzio.
Quello in cui il confronto e la separazione si generano: essere e non essere si
attraggono, incontrano, si allontanano, si cercano, muoino al Nulla-Tutto e al
Tutto-Nulla ri-vengono. Nell’attesa della venuta e del suo contrario si respira
la modalità, ancora in-conosciuta all’uomo, della resurrezione.
E il Cristo di Michelangelo segna nello svuotamento corporeo addirittura il
desiderio dell’Assenza, l’anelito tragico verso il Tutto, in quell’idea di
resurrezione, appunto, presente, che, a causa del limite materico e dell’orrore
per il nulla-vuoto, “non si arriva ad assimilare”52.
Il verbo assimilare segna un tentato nutrimento ad un corpo che non
potrebbe riceverlo, e, tuttavia, rimane bloccato, a metà, proprio per il limite in
noi che l’infinito produce: ossia per la non capacità del soggetto di tutto
contenere, di fare spazio al Mistero in senso completo. Proprio questa
profonda contraddittorietà, questo ossimoro del Nulla-Tutto, del peccato51
D. Baroncini, “Sentimento del Nulla”, in ID., Ungaretti barocco,
prefazione di A. Battistini, Roma: Carocci, 2008, pp. 91- 95.
52
G. Ungaretti, “Note a Sentimento del Tempo”, in ID., Vita d’un uomo.
Tutte le opere, cit., p. 534.
167
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
salvezza, dell’orrore e della pietà è lezione teologica che Ungaretti ricava
soprattutto dall’analisi di e su Michelangelo, dalla poetica del grande
Toscano.
Ecco che tramite il linguaggio poetico-pittorico-scultoreo Ungaretti
proferisce il senso della vertigine nell’immagine eidetica con la quale
abbiamo aperto il presente studio: Cristo, vero Dio e vero uomo, racchiude lo
scandalo della caritas, insopportabile all’uomo, ma insopprimibile per l’uomo
e all’uomo rivolto:
La Giustizia tremenda del Giudizio della Sistina è posta in iscacco dalle
Pietà scolpite nell’atto estremo stesso nel quale si afferma la Passione e la
Crocifissione del Figlio di Dio fatto uomo, o se si vuole, del figlio
dell’uomo innalzato dalla sofferenza immeritata, ma accettata, fino a Dio.
Cristo, Dio e uomo, essendo giudice e vittima, succede che giustizia e
pietà sono due modi di leggere un medesimo testo divino, nel mistero
insondabile mediante il quale Dio si svela e si nasconde nello stesso
tempo53.
Timore e pietà si accompagnano in quella Felix culpa54 che il Sacro Testo
pone come base della riconciliazione tra Dio e l’uomo. Ecco che dalla volta
della Sistina il poeta si sente orribilmente rinvigorito dalla luce della
pacificazione, che è ab origine, ma l’immagine nel qui proietta ed attua la
salvezza come, appunto, procedura futuribile nel dramma di una esistenza che
è di per sé fralezza. C’è nella differenza tra spazio e vuoto il necessario
passaggio dell’uomo dalla vita oltre la vita. Il Michelangelo cristiano ha
contribuito a detergere e spiegare il Testo: è, invero, un esegeta primario
diremmo per Ungaretti, che ricerca il proprio essere cristiano, attuando nel
confronto del quale si è detto il disvelamento dell’Essere.
Da qui nascono gli Inni, manifesto chiaro di un impegno teologico, cioè di
un più sottile argomentare sulle questioni di Dio.
In questo senso, che è in definitiva il senso originario e profondo del
termine-concetto. Un approfondire, da parte del poeta del Sentimento del
Tempo, con caparbietà, quindi un istruire le virtù (capacità-volontà dell’uomo,
ma anche di Dio com’è inteso dall’ente e ciò che il soggetto acquista dal Testo
53
Ibidem, p. 530.
Il tema della Felix culpa (per cui Cristo, morendo, obbedendo alla legge di
Dio, e dovendosi assoggettare alla morte, liberando l’uomo con la
Resurrezione) è punto centrale del cristianesimo e del cattolicesimo in
particolare: “sistema ineludibile” (teologico-filosofico e soprattutto atto di
fede) da cui si motiva l’intera Incarnazione e passione e, dunque, redenzione.
La Felix culpa è ampiamente trattata non solo dalla teologia e dalla letteratura,
ma dall’arte in genere, nelle sue più articolate espressioni.
168
54
ANTONIO D’ELIA
e dall’esemplarità biblica) esegetiche sul Grande Testo.
In questo senso il termine conversione in Ungaretti significa unione (convergere) delle istanze morali, ideologiche, artistiche ed esistenziali
(nell’ampia accezione che il termine significa) con specifico riguardo alla
formula metafisica55. E non solo il Dio della filosofia e se si vuole quello della
teologia propriamente formulata con processo “logico-scientifico”, ma il Dio
rivelato in Cristo.
E se il carattere ontologico56 del canto squaderna la sua ratio religiosa, “I
55
Di metafisica e di ontologia nel pensiero moderno e contemporaneo molti
filosofi ne hanno ripreso le tracce considerando entrambi i termini processi di
uno stesso sistema. Se con Aristotele metafisica indica sì la filosofia prima, e
l’opera dello Stagirita viene designata dai suoi allievi come ricerca successiva
a quella della fisica, le “espressioni” ontologico e metafisico nei rispettivi
impianti speculativi dei pensatori, in relazione alla “speculazione prima” di
Aristotele, designano allora la ricerca dell’essere in quanto essere e la ricerca
su Dio (il Dio della filosofia) unitamente allo studio delle coppie concettuali
che la costituiscono (qualità/ quantità, necessità/ contingenza, sostanza/
accidente, mutabilità/ immutabilità, causa/ effetto, finitezza/ infinitezza,
identità/ diversità). Kant concepisce l’analitica trascendentale come nuova
ontologia ed Hegel con la propria logica vi identifica la metafisica, mentre
Husserl parla di “ontologie regionali” e non di metafisica. Bergson parla di
metafisica come “intuizione” ed Heidegger oppone l’ontologia alla metafisica,
definendo quest’ultima come oblio dell’essere. In relazione ai processi
suddetti rinviamo, per un discorso che tenga conto in linea generale delle
tematiche proposte, ai seguenti studi: G. Reale, Introduzione a Aristotele,
Metafisica, Napoli: Loffredo Editore, 1978, G. Vattimo, Etica
dell’interpretazione, Torino: Rosemberg & Sellier, 1989, L. Pareyson,
Ontologia della libertà, Torino: Einaudi, 1995, C. Vigna, Metafisica ed
ermeneutica, Brescia: Morcelliniana, 1997.
56
Se l’idea di Valéry sulla poesia vive in un alternarsi di forze ignote, non
rilevate, nel sogno di purezza giacente nella coscienza, e poeti quali Gatto,
Sinisgalli, Solmi, nelle differenti trame rese dai rispettivi segni e di-segni, si
ricollegano sotto un profilo retorico ad un fulcro orfico-platonico della lirica
europea risalente, dai decadenti attraverso le poetiche romantiche, e prima
ancora barocche, al poeta di Laura: la lezione di Valéry ha posto al centro del
discorso poetico la fabrication della parola,nel senso della produzione, del
costruire, e la sua “È un’Estetica del ‘testo in atto’, poi parzialmente
sistematizzata in due corpi simmetrici: una Poetica che ha per oggetto l’atto di
scrittura, e una programmatica Estetica che […] dovrà avere il suo oggetto nel
169
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
rapporto di eccitazione e reazione configurato dall’atto di lettura. ‘Poetica’, o
‘Poietica’, […] [è] un ‘fare’ che si conclude in un’opera, provvisoriamente
limitato all’ambito letterario, di cui si potrebbero teoricamente dilatare i limiti
fino a comprendere tutti i prodotti dell’ingegno” (M. T. Giaveri, “La poetica
dell’angelo”, in Aesthetica Preprint, 23, (1989), p. 26). La ripresa di questo
modello della costruzione del poetico attiva un codice che si regge su un
canone di ascesi lirica, dell’essenza dell’essere, in cui il “fare” (beninteso non
quello storico e della storia oppure dell’operabilità dell’uomo in essa ma,
appunto, del poetico), universalizza l’io nell’intuizione pura, che inaugura in
Italia una fase della poesia ermetica: “La famosa poesia ‘pura’ era stata
oggetto di dibattiti e discussioni molto celebri, da parte dei critici e dei poeti
francesi […] a provocarne la nascita erano state ed erano soprattutto le poesie
e la poetica di Paul Valéry […] [ per l’abate Bremond] poesia ‘pura’ [è] quella
che non si presta ad essere risolta, esposta, in un discorso logico, parafrasata
in altre parole, quella insomma della quale non si può dare un equivalente
discorsivo” (G. Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, Milano:
Garzanti, 1980, pp. 14-15). Molti poeti si muovono nei dintorni di questa
nuova “esperienza”: essa dà voce anche al quel “movimento” letterario
definito poesia ontologica (espressione coniata da Maritain), che, nell’ambito
italiano, Carlo Bo (sulla figura e l’opera di Carlo Bo cfr. F. Castelli, Carlo
Bo. Una vita per la letteratura, Cinisello Balsamo-Milano: Ed. San Paolo,
1996) riprende nel cosiddetto manifesto della “terza generazione” (Letteratura
come vita). Poesia ontologica come forma (idea e struttura) che indica la
qualità gnoseologica dell’essere, e che, dal processo poetico dei vociani,
secondo il critico, giunge fino agli ermetici, in una estrema avventura
spirituale nella quale si fa strada l’istanza di una scrittura che tende di
raccordare l’ordine trascendentale della realtà e la traducibilità del mistero
dell’essere in un linguaggio che non può, tuttavia, contenerlo. In questa “eletta
confessione” di impotenza che cerca di elevare l’essenza assoluta delle cose in
una poesia che dice l’inquieta e tumultuosa vicenda dell’anima (e che la
poetica ermetica, quella dell’inopia, dell’attesa, della memoria e
dell’assenza/presenza iconoscibili, riprende e rimodula nella lirica detta pura),
il tema religioso viene toccato in diversi momenti e formulato in vari modi:
“Erede delle esperienze più laceranti, spinte fino al limite della follia, di certo
romanticismo mistico e visionario (Hölderlin, Novalis, Nerval, lo stesso
Goethe), la grande poesia simbolista che da Baudelaire si dirama, oltre le
soglie del Novecento, fino ai nostri ermetici, lancia a se stessa, sul piano
conoscitivo, una sfida temeraria, come mai prima d’ora aveva osato fare:
170
ANTONIO D’ELIA
segni della conversione si riconoscono [proprio] nel passaggio da una
generica ricerca dell’Altro ad una più specifica adesione al divino”57.
Al Codice vi è un chiaro ritorno, nel senso e con gli intendimenti di un
continuo meditare, un salmodiare silente nel ventre dell’erranza, nel senso di
un cammino rivolto alla ricerca della teofania. All’inveramento del nomade
che vuole salire il monte santo, al ribaltamento della logica di Odisseo, per cui
terrore e tremore, pazienza e sconforto, ma anche bene e male sembrano
registri coniati in un’unica parabola dalla quale l’uomo non riesce ad
intravedere fino in fondo il principio informatore: “l’Ecclesiaste […] Giobbe
[…] [sono] archetipi esemplari del perenne alterco tra disincanto e speranza.
[…] il viaggio sub specie mystica del ‘profugo’ Ungaretti si inserisce come
una recherche ontologica che, oltrepassando lo stadio delle ragioni puramente
biblico-evangeliche fatte proprie durante la stesura degli Inni – la sezione del
Sentimento del Tempo dove l’horror vacui incontra e si colma nella figura
sacrificale del Cristo –, diviene un tentare le strade dell’assoluto […] assetato
di luce metafisica”58.
Perché crei, mente, corrompendo?
Perché t’ascolto?
Quale segreto eterno
Mi farà sempre gola in te?
addentrarsi nel mistero più fitto dell’universo, davanti al quale la ragione e la
scienza – l’orgoglio dell’età moderna – s’erano dovute piegare disarmate, e
svelare, col solo mezzo della parola, in forza delle sue virtù evocative, il
fondamento delle cose, l’origine e il destino, il senso ultimo del nostro esistere
inquieto tra le angustie della carne e gli aneliti dello spirito. Alla parola […] si
chiede di compiere un “miracolo” di sapienza, di illuminare le tenebre della
mente ottusa con la perentorietà di una folgorazione, di metterci in rapporto
con la volontà che ci sovrasta, con l’essere che abita in noi e cui
apparteniamo.[…], la nuova poesia si affaccia su orizzonti metafisici. […]. Lo
statuto ‘ontologico’ della poesia esige che si spezzi l’insulsa rete delle cieche
passioni, dei gesti meccanici, delle frasi fatte, dei giudizi scontati, chiede che
si rompa il muro d’omertà che circonda il mistero della vita” (G. Langella,
Poesia come ontologia. Dai vociani agli ermetici, cit., pp. 9-11).
57
G. Baroni, “La ricerca di Dio nella poesia di Ungaretti”, cit., p. 218.
58
G. Rogante, “Ungaretti, Montale, Luzi”, in La letteratura e il sacro, cit.,
pp. 247-249.
171
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
[…].
Ma avremmo vita senza il tuo variare,
Felice colpa?
(Danni con fantasia, 1928, Inni – Sentimento del Tempo, 1919-1935).
L’affranta presa di coscienza del materiale e del suo limite non blocca il
poeta, ma lo edifica al punto da interrogarsi sulla capacità creatrice
spingendosi nello “slancio” a ricercare nella colpa non il motivo dello stato
dell’ente, ma la ragione per cui l’uomo dal peccato possa ri-mettersi in
cammino: la colpa è felice poiché promuove la ricerca che conduce alla terra
promessa. Al premio dei sensi alla pacificazione ventura che in Dio si ritrova.
E, tuttavia, Dio è nominabile come segno ed è imprendibile come senso: è
quindi dannazione, perciò la felicità è una colpa, cioè è inattuabile poiché non
si dà nella materia se non come percezione, come l’infinito lirico (poeticomusicale). È colpevole di una sua futurità, che si avverte, appunto, ma non
giunge nel materico. E, tuttavia, in Cristo misura ed eternità si attua realmente
la il risvolto della colpa felice, per la quale l’uomo che non può che pensarlaavvertirla è dannato. E solo tramite il peccato-colpa di morte, quella del
Cristo, tuttavia, si può accedere all’Eterno: “Tu non mi guardi più,
Signore…// E non cerco se non oblio/ Nella cecità della carne” (Dannazione,
1931).
In questa direzione La Pietà diventa un macrotesto spirituale in cui i motivi
dell’abbandono e dell’esaltazione della sofferenza, del ragionare su Dio/io e
sull’avventura umana si condensano nell’atto non di natura commiserevole,
ma vicina al senso mistico di pietas. Di virtù comprendente la remissione, il
perdono, e, assieme, atto del poeta in cui dal suo nulla esamina a nostro avviso
Dio.
Proprio dalla limitatezza del ragionare si apre all’ermeneutica teologica di
un cantore il grido, la “bestemmia”; ed il poeta tenta di ricoverarsi sotto le ali
del Fautore. Lo decostruisce, lo vorrebbe re-inventare, gli restituisce la
dimensione divina nell’atto sospensivo del proprio, poiché altro non può fare,
e tuttavia continua proprio con l’Inno a chiedere e richiedere, a “fantasticare”
(anche in senso degenerativo), a partire da un processo tanto lineare quanto
veritiero. Se non può concepire in atto di fede completo Dio, tenta di
appropriarsene con gli interrogativi e le esclamazioni su una figura che è
anche in quanto contraria a ciò che si pensa e a ciò che la realtà
“dimostrerebbe”.
Questo procedimento, rischioso, poiché potrebbe affogare nel sogno la
certezza della speranza, non deve essere valutato nella retorica e malevola
esercitazione su un modello da reiterare per fini di esercizio semplicemente
artificiale, ma proprio perché tema centrale, il poeta lo affronta (nel senso
172
ANTONIO D’ELIA
biblico di combattimento) nel deserto, durante il viaggio nel simile. Anche
rischiando nella possibilità di una onanistica proiezione: per il momento
registriamo che la poetica si forma nella già citata ricerca. Ossia nel bramare
Dio, nel dire il desiderio verso di lui:
La luce che ci punge
È un filo sempre più sottile.
Più non abbagli tu, se non uccidi?
Dammi questa gioia suprema.
4.
L’uomo, monotono universo,
Crede allargarsi i beni
E dalle sue mani febbrili
Non escono senza fine che limiti.
Attaccato sul vuoto
Al suo filo di ragno,
Non teme e non seduce
Se non il proprio grido.
Ripara il logorio alzando tombe,
E per pensarti, Eterno,
Non ha che le bestemmie.
(La Pietà, 1928, Inni – Sentimento del Tempo, 1919-1935).
Il poeta sperimenta il senso di compassione, di sofferenza che lega gli uomini
tra loro, la confidenza “cauta” che instaura tra l’Eterno e il monotono
universo, sotto il segno del limite si svela la traccia primaria della ricerca,
della volontà di passare dal Nulla al Tutto. Qui vi è il tema del naufragio
recepito e rilanciato in sfera più accanita sul versante della pensabilità in
merito al Sacro che ne Il Porto Sepolto, segnando i diversi gradi di naufragio
stagnante nel semema “sepolto”, accorda sotto il motivo del naufragio tutte le
altre raccolte.
L’esperienza archeologico-storica, quella ricettiva dell’impianto speculativo
e teologico, versa nel ritorno all’essenza il ribaltamento della cronologia
all’interno; “temporalità” che non è posta nel nascosto ed invisibile, ma
nell’ulteriore, il quale si dà con il tremendo e gestante esodo operante nel
verso, lungo la traiettoria dei probabili approdi, promesse della promessa di
continuare ad approdare:
si volge, sin dall’inizio, verso quel punto […]: il viaggio verso il ‘dentro’,
l’identità […] coincidendo solo in quel circolo dove tutto ritorna,
nell’eterno ritorno (e Nietzsche […] continuamente evocato negli
epistolari […] in particolare con Pea e con Papini) di memoria a oblio,
173
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
della parola alle radici dei significanti, al ‘porto sepolto’. Là si
ancoreranno i miti del Sentimento […] di Leda […] ai “grandi emblemi”
del Capitano […] non meno che quelli del Dolore […]. Là infine
torneranno la Terra promessa e gli Ultimi cori, che quel ‘porto’, quei
fondali-archetipi, più volte rivisitano59.
Il senso profondo di una letteratura che si indirizza al carattere religioso, e
specificatamente cristiano è l’indicazione del semema esplicante il segnonome e gli attributi cristici a cui attiene la torsione, spasmodica, del canto
quale significante preciso (il nome, l’aggettivo) a cui si riconnette senza
mediazioni di sorta un significato preciso: “A taluni Ungaretti poté apparire
un ‘alchimista poetico, capace pur di attimi e di atomi felici’; certo la sua
lirica più distesa è rivolta a Dio, la s’individua nelle quattro lasse de La Pietà,
che vuol essere mediazione di penitenza, dopo la lettura del Giobbe e
dell’Ecclesiaste, elegia dei defunti, in attesa della resurrezione, inno al verbo
incarnato”60.
Come dolce prima dell'uomo
Doveva andare il mondo.
L'uomo ne cavò beffe di demòni,
La sua lussuria disse cielo,
La sua illusione decretò creatrice,
Suppose immortale il momento.
La vita gli è peso enorme
Come liggiù quell'ale d'ape morta
Alla formicola che la trascina.
Da ciò che dura a ciò che passa,
Signore, sogno fermo,
Fa' che torni a correre un patto.
Oh! rasserena questi figli.
Fa' che l'uomo torni a sentire
Che, uomo, fino a te salisti
Per l'infinita sofferenza.
Sii la misura, sii il mistero.
Purificante amore,
Fa' ancora che sia scala di riscatto
59
C. Ossola, “Introduzione”, a G. Ungaretti, Il Porto Sepolto, a cura di C.
Ossola, Venezia: Marsilio, 1990, p. 10.
60
G. Fallani, La Letteratura religiosa in Italia, prefazione di R. Giglio,
Postilla novecentesca e note a cura di C. Riccio, Napoli: Loffedro, 2000, p.
165.
174
ANTONIO D’ELIA
La carne ingannatrice.
Vorrei di nuovo udirti dire
Che in te finalmente annullate
Le anime s'uniranno
E lassù formeranno,
Eterna umanità,
Il tuo sonno felice
(La Preghiera, 1928- Inni- Sentimento del Tempo, 1919-1935):
la certezza inerente il carattere della misura di Dio, cioè atto proprio di colui
che fa (per molti versi simile al poeta puro, ovviamente, nella modalità
esistentiva differente), diventa certezza nell’affidabilità di un pur macabro
rito, la morte attuata per la vita.
“Purificante amore” (ibidem) è nomato il Sacro: si entra così nel vivo della
rivelatio, che nella formula “Eterna umanità” (ibidem) sancisce l’evidenza del
legame (religio) con le istanze proprie del Cristianesimo, anzi della fede
cristiana. E l’anima si apre all’interrogativo di una carne violata dal raziocinio
di concepire nella soddisfazione concettuale sempre più penetrante un oblio
che dia quiete alla ricerca. Ed è proprio l’oblio la negazione estrema, la nullità
assoluta a far procedere il viaggiatore Ungaretti lungo il percorso. Da qui
comprendiamo come la storia si organizza nella memoria del poeta non nel
segno del ricovero, ma sotto quello di espulsione.
In Dannazione (1931) la vanità dell’ex-sistere connessa alle liriche
precedenti esamina il motivo dell’avvicinamento a Dio, non come
ripiegamento, scelta unicamente consolatoria (nei termini ristretti della
compassione generica), ma seduzione dell’orrore per il non trovare il
principio, per il non gemere ancora più forte, non poter stazionare in
quell’Altro di cui si avverte la forza impellente come fondamento.
Se l’annullamento maturato nell’oratio è diventato consacrazione del divino
nell’umano, “Che in te finalmente annullate/ Le anime s’uniranno/ E lassù
formeranno/ Eterna umanità/ Il tuo sonno felice” (La Preghiera, 1928),
l’invocatio strutturata, pertanto, nel Tu della deità si staglia in forma chiara,
perentoria: “Tu non mi guardi più, Signore” (Dannazione).
La lezione degli scrittori “ispirati”, da Iacopone a Dante, contribuisce ad
acuire il senso del mistero nella concezione cristiana, per cui l’amore letto
sulle labbra della petrarchesca Laura è il punto di arrivo del processo
teologico. Di una virtù, di una conoscenza teologante che si è esercitata a
ricostruire i moti dell’anima disperante il congiungimento, anche attraverso il
carnale mediante cui lo spirito esplica la fuga e il ritorno, nella nichilità
propria dell’autore del Qohelet (colui che è senza Dio, colui che brama la
morte e, tuttavia, ricerca Dio, allontana la morte evocando dal nulla il nulla)
175
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
per poi con il Canto dei Cantici61 aprire la porta alla Rivelazione compiutasi
nell’atto della resurrezione per sempre attuata dal Cristo. In un sempre che
troverà nella Parusia l’epilogo inteso come ritorno all’origine dell’essere
dell’ente. In questo senso l’atto poetico-religioso di Ungaretti comprende sì il
mistero di resurrezione, ma esteso alla comprensibilità solo in quella citata
futurità in cui il naufragio non ha, come abbiano evidenziato, possibilità di
acquisirlo, ma unicamente partorirne per l’ente-uomo la speranza:
La ‘nichilità’ è ‘l’annichilimento della persona umana nella divina’: il
divino è immaginato da Iacopone ‘sotto forma delle cose più belle provate,
quasi sempre, irrimediabilmente subito perdute’ […].
A leggere con attenzione le argomentazioni contenute nelle lezioni e nelle
conferenze brasiliane, si intuisce che l’inserimento decisivo di Iacopone (e
di Dante) nella riflessione teorica e critica di Ungaretti è funzionale alla
messa a punto del sistema petrarchesco avviato negli anni Venti e
verificato da Sentimento del Tempo in poi62.
La letteratura intonata da queste premesse (una letteratura aperta nella
caritas, una poesia-profezia rivolta alla “terra promessa”, come eco e
attuazione eretica del dramma dell’io, che, pur credendo nega azione fideistica
e atto religioso poiché avverte il nulla) ed avviata sulla strada dell’incontro
metafisico è la lezione che si fa carne negli avvenimenti. Nell’accadente in cui
il laceramento della lontananza e della vicinanza dalla morte (esperienza che
toccherà più volte da vicino l’uomo-poeta su tutto e tutti la perdita dell’amato
figlio) e il rincorrere il limite del limite per annientarlo nella “cicala”, “nella
rosa” (La morte meditata, Canto secondo, 1932), “Nella paura del palpito/ E
della solitudine” (La Morte meditata, Canto primo 1932- Sentimento del
Tempo).
Si individua così nell’amica-amante-compagna, la Morte, con cui da sempre
dialoga, nell’arsura del giorno e nella fitta tenebra della notte, l’altro limite,
ora infranto, che è proprio della condizione umana. Morte come orrore,
nemica e Morte come concreta presa d’atto del tempo, del suo inveramento
come “fatto personale”, cioè del suo venire non come accidente o
concettualizzato al fine di scansionarne i cicli, come più volte detto, ma vera e
proprio “epifenomeno” in cui la poesia dà inizio al riconoscimento
dell’esperienza religiosa. Dunque, alla comprensione di uno stato profondo
che se ricerca, scava nella cultura il mito del suo ri-torno sventra, assieme,
61
Sull’aspetto erotico-mistico del Cantico cfr. R. Osculati, Cantico dei
Cantici, Milano: IPL, 1985 e sul libro “ateo” della Bibbia cfr. G. Ravasi,
Qohelet, Milano: Ed. San Paolo, 1988.
62
A. Sacconi, “Ungaretti professore”, in ID., Ungaretti, cit., pp. 182-183.
176
ANTONIO D’ELIA
nella sorpresa, passato il momento di alta palpitazione teofanica (e retorica), il
metafisico per fare spazio alla voluta connessione canto-Dio.
Tutto ciò è sgravato dal rapporto (che diventa tappa “storica”) con Roma,
con la sua “immagine eterna”. Che è immagine perenne di movimento, di
violenza, di continuo passaggio nel tempo, nel senso dell’essere dell’ente che
esce ed entra dal e nel Nulla. Apre e chiude, si dà alla vita e alla morte, non
genericamente intese, nella “fralezza” dell’uomo:
nel Sentimento […] ancora Roma al centro delle mie meditazioni. Roma
diventa, nella mia poesia, quella città dove la mia esperienza religiosa si
ritrova con un carattere inatteso di iniziazione. Certo, e in modo naturale,
la mia poesia, interamente, sino da principio, è poesia di fondo religioso.
Avevo sempre meditato sui problemi dell’uomo e del suo rapporto con
l’eterno, sui problemi dell’effimero e sui problemi della storia. Sono
tornato […] a meditare con maggiore profondità sugli stessi problemi.
Sarà ancora il barocco a porgermi aiuto.
Una città come Roma, negli anni durante i quali scrivevo il Sentimento, era
città dove si aveva ancora il sentimento dell’eterno e nell’animo nemmeno
oggi scompare davanti a certi ruderi. […]. A Roma si ha il sentimento del
vuoto […] dall’orrore del vuoto nasce, non la necessità della riempitura
dello spazio con non importa quale elemento, ma tutto il dramma dell’arte
di Michelangelo. […].
Il Sentimento è dunque la pienezza implacabile del sole, la stagione di
violenza e, nello stesso tempo, la clausura dell’uomo, nella seconda parte
del libro, dentro la propria fralezza63.
In tal senso la storia come profondità del non luogo e del tutto in uno specifico
spazio (Roma) edifica il passaggio da un micro-sistema di relazioni proposte
dal soggetto col proprio paesaggio autobiografico a un macro-sistema in cui
l’incontro tra avvenimento personale e azione collettiva, anche in senso
archeologico, genera la relazionalità stretta, ed ingombrante ormai, tra l’io e
l’io. Tra l’uomo d’Egitto e l’italiano partorito in terra straniera, per cui il
limite è la patria senza nome: l’io che riappropriandosi delle origini lucchesi,
girovagando, anche fisicamente, stabilisce di accasarsi, tuttavia con la tenda
del nomade-pellegrino. Di stabilirsi durante il viaggio al cento di un nuovo
limite, che è ricucito nel seno del vuoto: in Roma.
I sensi nel Sentimento non si placano, ma dettano con vigore rinnovato i
sentieri erotici lungo l’itinerario che nuovamente li ingloberà, per ancora una
63
G. Ungaretti, “Note” (a cura dell’Autore e di A. Marianni), in ID., “Note Sentimento del Tempo”, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, cit. pp. 767-769.
177
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
volta espellerli, nella Terra Promessa. Amore in senso voluttuoso, amore
d’esistere e di resistere, nel tempo giovanile, e, poi, ancora insistere per atto
d’amore, non meno potente del precedente, anche nell’età più matura in cui
mistica ed esaltante erosione del piacere nella riflessione del corpo vuoto
osservato e de-costruito si appropriano del dolore (religioso) che lo introduce
“nell’autunno da cantare nella Terra promessa. […] nel ’39 la morte del
figlioletto, e, ancora, la guerra, il ritorno nella patria sconvolta, la Resistenza,
l’occupazione”64.
Il Sacro diventa ora il soggetto assoluto del verso e il poeta dimostra la sua
vocazione orante.
Il modello applicativo in tale processo esige che la parola venga “mutata in
mutua” alternativa di suoni e di idee all’interno di una tensione, così come la
definisce Ravasi, “attualizzante”, che da Borges a Montale a Pasolini si
dispiega tra l’uso degenerativo e quello trasfigurativo del segno-simbolo
religioso, ad esempio
il Cristo in croce [di Borges in cui la figura] salvifica del Crocifisso
incombe e interpella l’uomo d’oggi: ‘ è un volto duro, ebreo. / Non lo vedo
e insisterò a cercarlo/ fino al giorno/ dei miei ultimi passi sulla terra’ […]
[e] la ripresa del celebre Salmo 137, il Super flumina Babylonis (pensiamo
cosa esso fu per la musica), da parte di Salvatore Quasimodo nella nuova
situazione del nazifascismo […]. Un altro modello applicativo [di stampo
degenerativo] con ciò volendo marcare non un giudizio estetico o
ideologico negativo, ma soltanto il trapasso verso prospettive antitetiche a
quelle sottese al testo o all’immagine biblica [come nel caso dei versi che
Montale] dedica a Zaccheo [i quali] vanno in direzione opposta [al] passo
lucano. […].
[E con] L’usignolo della Chiesa cattolica […], teologia, redenzione,
giudizio, peccato, perdono […] sono rielaborati in un’esperienza di
ribellione, che è nondimeno intesa e persino luminosa […]. C’è, […], un
terzo modello […] quello ‘trasfigurativo’ […] Nelly Sachs […]. David
Maria Turoldo. […].
Ormai la Parola con il suo mistero di luce e di tenebra irradia, pervade e
lievita nella poesia, e la poesia diventa tramite di ‘diafania’ (per usare un
termine di Pierre Teilhard de Chardin), cioè trasparenza incontaminata
della Parola65.
64
L. Piccioni, Vita di Ungaretti, Milano: BUR, 1979, p. 209.
G. Ravasi, “Insonne presenza della Sacra Scrittura nella poesia”, in
AA.VV., La poesia e il sacro alla fine del secondo millennio, a cura
di F. Degasperis-M. Merlin, Cinisello Balsamo (Milano): Ed. San
Paolo, 1996, pp. 63-67.
178
65
ANTONIO D’ELIA
In tale processo lo strumento lirico ungarettiano produce una struttura metrica
precisa che nella figura dell’assenza-nullità in senso teologico e, dunque, della
ricerca di Dio-uomo, offrendo del Sentimento del Tempo la “mediazione sulla
storia, tra la Fine di Crono e Il Coro […] in un ‘vuoto universale’ nel quale la
‘carne dei giorni’ per eco lascia nella scrittura, nella storia, ‘perenne scia / eco
velata’ […]. Tale eco, tuttavia, non è volta ad approssimare ma ad
‘approfondire lontananze’”66, per cui il canto è l’incantevole “accordo”, come
afferma Giuseppe De Robertis, è, pertanto, l’unione di “idea e ritmo”67, come
nella riscrittura di Preghiera dall’Allegria al Sentimento.
Alla figura della propria origine, all’immagine di un ritorno nel ventre
(creatore), alla madre il poeta nel 1930 aveva affidato lo sgomento nel
veniente di Dio, nell’oggettivazione spazio-temporale del prima in cui scopre
la nascita eterna, in cui e per cui esercita l’etica della sua musica a parlare
dell’ipostasi per cui l’utero materno si ricompone nella retorica memorifica di
atti e sguardi (il quando temporale diventa quando metafisico), di là, oltre “il
muro d’ombra” (La Madre, 1930 – Leggende - Sentimento del Tempo):
E il cuore quando d’un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d'ombra
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all'eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m'avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d'avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.
Nella figura della madre il rapporto creatore-creatura/generatore-generato si
intensifica nel tormento di un dopo, paradossalmente, attuato solo in funzione
del peccato rimesso.
66
C. Ossola, “Introduzione” a Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le
poesie, cit., pp. XXXI-XXXII.
67
G. De Robertis, “Sulla formazione della poesia di Ungaretti”, in G.
Ungaretti, Vita di un uomo. Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni, cit., p.
416.
179
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
Il percorso ungarettiano è quindi giunto a definirsi da sé percorso sì
religioso, ma primariamente atto-ricerca “spirituale”68. Lo sguardo e gli occhi
sono i vettori primari della con-versione ritmica da cui lo strazio per la
succitata morte (quella degli affetti, fratello e figlio, anzi figli) non è placato,
ma continuamente reintrodotto nel canto-pensiero: “quella soggettività che si
risolve tutta, a ragione della sua stessa purezza, in ‘attualità vitale’”69.
Il Dolore diventa, pertanto, il libro di ricapitolazione dell’itinerario
ungarettiano: un riordinare il vuoto-nulla e l’orrore del vuoto-nulla misurati
col tempo della conquista di un silenzio scandito dalle pause celebrative.
La laus vitae è secondo il modello applicativo della mistica, ma anche della
letteratura di ispirazione religiosa (San Francesco, Iacopone), il momento,
dunque, di riepilogo in cui si incentrano i voti (gli auspici) e si sciolgono le
richieste: vi è una narratio dettagliata di ciò che si è già intrapreso e di ciò che
resta da attuare70.
In Mio fiume anche tu deliberatamente ritornano tutti i temi della ricerca
intrapresa: dal tempo all’immagine di esso, alla pietra, all’innocenza-assenza,
alla perdizione delle rovine, al nome del Dio-figlio, all’uomo in viaggio,
all’uomo indiatosi, alla perentoria consacrazione del Sanctus, Sanctus
liturgico-celebrativo. Per cui l’assenza-nulla diventa la constatazione
dell’essere posti nella condizione di uomo, e gli affetti, i dolori, le perdite, gli
amori pur rimanendo nella dignità di ogni singolo enunciato, sembrano,
assieme, porsi quale riassumente, “merce di scambio” per poter entrare nella
“Terra promessa”, anzi per poterla semplicemente intuire, immaginare. Che
l’accento religioso in Ungaretti sia anche frutto dovuto all’innesto naturale tra
dramma per il senziente e dramma per ciò che il senziente, pur recependo, non
rimanda con linearità all’anima, che dunque è posta allo scacco dell’esistenza,
nel giro, appunto, pneumatico del rincorrere nell’intelletto (specificatamente
nell’intelletto all’informazione di un di più, quasi codificato in una
raziocinante tensione), è un dato acquisito proprio nella pratica letteraria.
Potremmo dire dalla pratica letteraria esercitatasi sui temi religiosi.
Un pre-scritto “modulo teatrale” volutamente drammaturgico, per cui, se da
un lato, “la religiosità della poesia ungarettiana appare astratta, così priva di
inquietudine, di contatti col mondo in cui viviamo: una costruzione, appunto,
un ordine retorico, se non proprio una semplice fonte di saldezza e di
elevazione di immagini”71, dall’altra parte, al linguaggio teologico,
saldamente codificata nel verso, fa riscontro una metafisica, che per inverarsi
68
E. e N. Giachery, Ungaretti ‘verticale’, Roma: Bulzoni, 2000, p. 103.
A. Gargiulo, “Premessa al Sentimento del Tempo”, in G. Ungaretti, Vita di
un uomo. Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni, cit., p. 424.
70
Cfr. G. Getto, Letteratura religiosa dal Due al Novecento, Firenze:
Sansoni, 1967.
71
G. Bárberi Squarotti, La poesia religiosa nel Novecento, cit., p. 136.
180
69
ANTONIO D’ELIA
come applicazione trascendentale, cui molto attiene la tensiva volontà del
poeta nel chiamare Dio nel nome del Cristo-uomo-Dio, non può che tracciare
un circuito che, espellendo la storia in “un’esperienza biografica proiettata al
di là del tempo sullo sfondo infinito della religione […] [che] non è coinvolta
in una vicenda attuale”72, fa proprio del dolore la realtà in noi del non.
Sopraffazione esterna di esso, costituendo tutto ciò per Ungaretti la svolta
decisiva.
Da qui la posizione religiosa diventa, o meglio dire si converte in più
profonda adesione di fede. Un discorso che fa dell’etica intellettuale il sinolo
di quell’incremento di virtù, cioè il valore come somma delle valorialità
raggiunge, acquisite per arrivare a chiedere della Terra promessa (non solo
come applicazione poetica) dell’ingresso in essa. Tale procedura è quindi
l’intensificazione sul discorso su Dio: la teologia poetica ungarettiana accorcia
le distanze tra accaduto e accadente. Il cantore opera, infatti, un innesto
programmaticamente felice tra istanze della poesia pura, di un’ontologia tutta
squadernata ai fini della propria metafisica, e l’accostamento alla concezione
storica integrantesi nell’asse dicibilità dell’essere-dicibilità del tempo, e se
“nessun poeta come lui ha saputo rispondere meglio e più in profondità
all’idea di poesia pura e nessuno come lui è stato il simbolo di una
straordinaria partecipazione umana”73, dunque storica, da ciò si può affermare
che la teocrazia si riduce ampliandosi, paradossalmente, in teopatia, che è
teofania scarna nella dialogicità del poeta, diretta ad una antropologia che in
Cristo esplica il proprio fine.
Un affidarsi, che è dunque un grado superiore dell’affidabilità razionale al
Sacro. Una devozione non solo dell’anima, ma derivante dal contingente nel
soggetto:
Nell’ultimo volume che appunto s’intitola al dolore, l’accento religioso è
più forte e, mi si perdoni il bisticcio, più religioso. Dio non è più un dato,
puro e astratto, un elemento dell’estrema, inevitabile dialettica dell’esistere
umano;| ma è sceso dentro i termini della vita spirituale e affettiva del
poeta, ha preso un volto più preciso e familiare e se voi richiamerete alla
mente qual è da ultimo in Ungaretti il sentimento della tradizione, potrete
senza troppa circospezione tradurre i due aggettivi in uno solo e dire
cattolico. Nella celebre poesia su Roma occupata, Mio fiume anche tu,
[…] il poeta non chiede più la certezza e il soccorso, ma celebra la
connivenza nel dolore; e in questo sembra riconoscersi e scoprirsi devoto
(‘d’un pianto solo mio non piango più/ Ecco, Ti chiamo, Santo, / Santo,
Santo che soffri’). È questo certamente il punto più chiaro della religiosità
di Ungaretti. Essa si chiarifica per vie tutte umane. E se ora potete perfino
72
73
Ibidem.
C. Bo, “Un poeta da vivere”, in l’Approdo letterario, 57, 1972, p. 7.
181
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
darle il nome di cattolicesimo, non avrete difficoltà a riconoscerla,
identificata col culto della tradizione civile o poetica che l’ha espressa in
passato, nell’accorato discorrere sulla patria (Accadrà), o nella iperbolica
visione di Defunti su montagne67.
In questa semantica del dolore la vanità delle vanità proprie del Qohelet
esercita la predetta virtù in continua torsione teologante nel battere e nel
ribattere a Dio. Nel senso proprio di complemento: compimento che
completa, dunque, ciò che da soggetto Dio stesso ed il poeta hanno intrapreso.
Dio è termine, che si estende in un infinito non più sensorio ma partecipativo
all’ente nella sua interezza, come lancio di quest’ultimo dalla finitudine
all’origine. E, tuttavia, Ungaretti non può e non deve pacificarsi col canto in
Dio, poiché rileva nella sofferenza il dato comune e, tuttavia, lo riproblematizza non più come sfogo fine a se stesso, ma come atto
confidenziale, che permette di chiamare:
1.
Mio fiume anche tu, Tevere fatale,
ora che notte già turbata scorre
ora che persistente
e come a stento erotto dalla pietra
un gemito d’agnelli si propaga
smarrito per le strade esterrefatte;
che di male l’attesa senza requie,
il peggiore dei mali,
che l'attesa di male imprevedibile
intralcia animo e passi;
che singhiozzi infiniti, a lungo rantoli.
Agghiacciano le case tane incerte;
ora che scorre notte già straziata,
che ogni attimo spariscono di schianto
o temono l’offesa tanti segni
giunti, quasi divine forme, a splendere
per ascensione di millenni umani
ora che già sconvolta scorre notte,
e quanto un uomo può patire imparo;
ora, ora, mentre schiavo
il mondo d’abissale pena soffoca;
ora che insopportabile il tormento
si sfrena tra i fratelli in ira a morte;
74
M. Luzi, “Giuseppe Ungaretti”, in V. Volpini, Antologia della poesia
religiosa italiana contemporanea, Firenze: Vallecchi, 1952, pp. 135-136.
182
ANTONIO D’ELIA
ora che osano dire
le mie blasfeme labbra:
“Cristo, pensoso palpito,
perché la tua bontà
si è tanto allontanata?”
2.
Ora che pecorelle cogli agnelli
si sbandano stupite e, per le strade
che già furono urbane, si desolano;
ora che prova un popolo
dopo gli strappi dell’emigrazione,
la stolta iniquità
delle deportazioni;
ora che nelle fosse
con fantasia ritorta
e mani spudorate
dalle fattezze umane l’uomo lacera
l’immagine divina
e pietà in grido si contrae di pietra;
ora che l’innocenza
reclama almeno un’eco,
e geme anche nel cuore più indurito;
ora che sono vani gli altri gridi
vedo ora chiaro nella notte triste.
Vedo ora nella notte triste, imparo,
so che l'inferno s'apre sulla terra
su misura di quanto
l’uomo si sottrae, folle,
alla purezza della tua passione.
3.
La piaga nel Tuo cuore
la somma del dolore
che va spargendo sulla terra l’uomo;
il tuo cuore è la sede appassionata
dell’amore non vano.
Cristo, pensoso palpito,
astro incarnato nell’umane tenebre,
fratello che t’immoli
perennemente per riedificare
umanamente l’uomo,
Santo Santo che soffri,
183
UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
per liberare dalla morte i morti
e sorreggere noi infelici vivi;
d’un pianto solo mio non piango più.
Ecco, Ti chiamo, Santo,
Santo, Santo che soffri
(Mio fiume anche tu – Il Dolore).
Perciò se l’atto di resurrezione è per l’ “homo viator” la meta da raggiungere
con il dolore, per il dolore, ecco che nel sentimento sempre presente del
dolore come memoria maturante il battesimo dell’inquietudine della scrittura
offesa dall’orrore e dal vuoto, proprio dal nulla-vuoto, dal corpo e dall’anima
dilaniati, devastati dall’ingresso del nulla verso il niente, il poeta lega la
promessa di riaversi con l’incontro definitivo.
Un aprirsi ad altra misura del reale, anzi per Ungaretti “il nascere della
realtà di secondo grado, è […] il conoscersi essere dal non essere, essere dal
nulla […]. Orrida conoscenza”68. Da qui un procedere ambivalente: in salita e
in discesa: in salita per discendere e ascendere nuovamente.
La vecchiaia più che maturare le istanze religiose del cantore, o fortificarle
diremmo che le completa in senso biologico. Se riflettono una fine naturale,
non cedono alla degenerazione materica che la corruttibilità della carne
apporta nel mentre le membra iniziano a cedere. Non c’è soltanto la naturale
paura apportata dalla certezza della morte, che lo proietta in una visione
quindi strumentalmente convinta dall’ideologia religiosa affinché si ripieghi
nell’accettazione tutta consacrata al mistero. Vi è in Ungaretti “ultimo” la
lezione riassunta dai suoi esercizi di vita ed ora riletti alla luce non meno
indistinta della giovinezza: vi è il sentimento del profugo, di colui che cerca il
ritorno mentre fugge, impaurito, dalla vita nella quale deve, per atto
congenito, accasarsi. Deve trovare spazio per cedere nella morte all’epilogo
terreno per cui è: cioè comunque mortale, preso dal vuoto: “Verso meta si
fugge: / Chi la conoscerà?” (Ultimi cori per la Terra Promessa- 4- Il Taccuino
del Vecchio- 1952-1960).
L’ora della conoscibilità è posta nel niente da poter sapere, eppure
costruisce a nostro avviso una dialettica dell’attività verso la quiete, che è
promossa dall’azione del pellegrino nel mentre quest’ultimo progetta il
viaggio nella stabilità della mente e lo attua nella fisicità. Anzi, proprio
quando il pellegrino si ferma, prima e durante il viaggio, realizza la dialettica
75
G. Ungaretti, “Note” (a cura dell’Autore e di A. Marianni), in ID., “Note La Terra Promessa, Canzone”, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, cit. p.
546.
184
ANTONIO D’ELIA
peregrinante (orrore-sublime) per cui osserva ciò che ha compiuto, nel mentre
rielabora ciò che ha pensato introducendosi a nuovamente progettare il
pensiero. E accostandosi a riprendere il passo nel naufragio la dialettica è
posta in stato di quiete: si trova ad un punto di morte (Bild ist die Dialektik im
Stillstand): sembra non possa esprimere se stessa, gareggiare con sé e con
l’Altro. Per cui la possibilità offerta dal verso consiste ora nell’indurre le
immagini a muovere dal passato per ri-edificarlo nel qui della morte affinché
esse stesse si rendano produzione del “vero” assunto nello scambio (passatopresente) sul limite, sull’ingresso del porto nel quale si incontrano luce e
tenebra, deserto e trincea: vita e morte.
Se l’apocatastasi (nel senso ampio filosofico-teologico ossia di ritorno allo
stato originale e che qui noi lo usiamo anche in relazione alla “religiosità
poetica” del verso teologante di Ungaretti) è elemento principe del canto (pure
in senso storico), proprio l’apocatastasi come palingenesi lirica diventa un
voluto ritorno all’origine. Un ritorno al binomio ripreso dallo stesso poeta
sulla cristianità, o meglio sul cristianesimo di Michelangelo. Sul fatto o meno
cioè che Michelangelo fosse un buon cristiano: “Michelangelo era un buon
cristiano, ma…era davvero un cristiano Michelangelo? È domanda alla quale
nessuno saprebbe rispondere, vuoto e spazio non sono affatto nozioni
identiche”. Per cui il poeta rende la sincerità del canto tanto nel vuoto come
nulla-generatore all’essere, quanto spazio come verificatore-dell’essere
all’essere-vuoto. E la dialettica in stato di morte, distrutta l’immagine, si
riedifica proprio nella quiete, che immette nel confronto in nuova dialettica
tra Assenza e Presenza dell’Altro. Cioè in una presenza che è tale in quanto
rende bramosa di sé il circostante e fa dell’infinito, dunque, l’orrore del vuoto
e l’approssimarsi del nulla-niente. Tale asserto a nostro avviso non solo
costituisce un punto chiave della poetica ungartettiana, soprattutto se
relazionata all’Eterno, ma formula una innovativa riflessione poetologica sul
senso dello stato dell’uomo e sul fine della propria “natura”. Una concezione
siffatta dell’apocatastasi in Ungaretti, rovesciati i termini di una teologia
strutturata ai fini di un processo rigorosamente teoretico, assolutamente non
presente nel poeta, non include per contro le tesi panteistiche di un Dio che
sarà ed è tutto in tutti.
L’espressione paolina, posta come esergo al nostro studio, “E quando tutto
gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli
ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1 Corinzi 15, 28)69 non
è da noi strumentalizzata ai fini di una lettura ungarettiana come processo
esegetico del cantore specificatamente (“tecnicamente”) al senso teologicomistico-arcano della Scrittura, ma funzionale a dire come Ungaretti abbia
recepito ed educato il proprio verso nell’avvicinamento all’infinito di Dio,
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Per un quadro dettagliato cfr. Seconda Lettera ai Corinzi, nuova versione,
introduzione e commento di F. Manzi, Milano: Edizioni Paoline, 2002.
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UNGARETTI, O DELLA “ VIRTÙ TEOLOGANTE”
recuperabile attraverso il Figlio, e comprensibile solo nell’attesa ultima che il
Padre offrirà ulteriormente.
L’umanità del Cristo è così, da un lato, verificata nell’assimilazione del
dolore dell’ente nella persona del Dio-uomo, e, dall’altra, proprio l’umanità
del Figlio indica nella chiara espressione Dio la differenza insita nel verso
ungarettiano tra il Nazareno e l’Eterno. In questo e da questo comprendiamo
come Ungaretti, pur non costruendo un discorso dogmatico sul Verbo,
rintraccia nel segno-cultura cristiano l’enunciato per cui il Padre è quello della
Scrittura e Cristo è la Parola di quel Logos. E con loro dialoga e con noi
racconta il discorso su Dio. Non un vaga ed incerta semantica teologica è
versata a noi pare nel canto, ma un preciso se pur drammatico atto
versificatorio modellato dall’esperienza personale di Ungaretti dentro il
Grande Codice.
Dio è, quindi, enunciato e letto dall’angolazione umana, dallo sguardo del
poeta, che cerca dal nulla l’origine.
Ad una semplicistica, corriva visione per cui si vorrebbe un artista, quindi
un uomo appagato per sempre, da mortale, con sé e con l’Eterno, si oppone,
come avviene costantemente in Ungaretti, una realtà verificabile, quella cioè
espressa dal continuo combattimento, di cui si è detto. Esso è a volte tragica
stasi ma assieme ripresa nel canto della lode e del dubbio. Per cui vuoto e
spazio non possono che essere differenti, e, tuttavia, vicini, presenti e assenti:
in questo naufragare tra i marosi dell’essere-nulla all’essere-pre-senza il poeta
attua il comandamento della spes, che per darsi deve offrire, dunque,
continuamente nell’agone se stessa: “Ma prima di essere un orientamento
distinto dello spirito, la religiosità di Ungaretti è un’attitudine innata e la
possiamo vedere nel drammatico senso di perdizione e di colpa, nell’orrore e
nell’incantazione dei sensi, in quel certo suo feticismo”70. Perciò lo definiamo
virtù teologante il suo discorso poetico, poiché esercita verso il bene, nella
lotta di far emergere sempre la vita: “Non sono il poeta dell’abbandono alle
delizie del sentimento, sono uno abituato a lottare […]: sdegno e coraggio di
vivere sono stati la traccia della mia vita”71. Ungaretti si dà fino all’ultimo al
sentimento della vita, ossia al sentimento pur “dannato” e logorante verso
l’Eterno-Dio, che è sempre. E dal quale la creatura che lo cerca “si sente/
riavere” (Risvegli, L’Allegria, 1914-1919).
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M. Luzi, Giuseppe Ungaretti, cit., p. 136.
G. Ungaretti, “Note (a cura dell’Autore e di A. Marianni), in ID., “Note L’Allegria”, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, cit., p. 752.
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