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ARTICOLO 40 – GENNAIO 2010
TEAM WORKING
PREMESSA
Di recente J. Richard Hackman, professore di psicologia sociale e delle organizzazioni presso
l’università di Harvard, ha rilasciato un’intervista (pubblicata sul numero di luglio/agosto
dell’Harvard Business Review, v. rif. bibliografici in calce) in cui spiega come sia sbagliata la
diffusa convinzione secondo cui i team rappresentino il modo migliore per fare le cose. Non
perché il team non sia di per sé il giusto mezzo per raggiungere degli obiettivi (come infatti ha
sostenuto poco più di un anno fa nel libro “Team di vertice. Squadre vincenti per aziende di
successo”), ma perché purtroppo nelle aziende di oggi i team non sono ben costituiti e ben
gestiti: spesso nei team work si trovano persone dall’atteggiamento non positivo, che per la
maggior parte del tempo non si trovano nemmeno d’accordo sul lavoro che stanno svolgendo;
in tale contesto, risulta essere cruciale il ruolo del leader, che deve essere disposto a mettersi
in gioco personalmente e professionalmente per dare al team una direzione comune.
Nel seguito del presente articolo, verrà presentato il pensiero del prof. Hackman che porta alla
definizione delle cinque condizioni principali che determinano il successo o il fallimento di un
team; a seguire viene fatta una breve digressione sul coaching emozionale, come tipologia di
formazione a sostegno della quinta condizione citata dal prof. Hackman; in ultima, viene
considerato il team “azienda” nel suo insieme, e vengono delineati i fattori sui quali i manager
devono agire per creare un motivato ed efficiente gruppo di lavoro.
COME SI COSTRUISCE UN TEAM DI SUCCESSO
È molto diffusa la convinzione secondo cui il lavoro in team impatti positivamente sulla
creatività e sulla produttività dei singoli, tanto da spingere qualsiasi leader alla costituzione di
un gruppo di lavoro per il raggiungimento di un obiettivo. Nella maggior parte dei casi, però, i
problemi di coordinamento e motivazione annullano i benefici prodotti dalla collaborazione
di più risorse. Da questo si evince l’importanza del ruolo del leader di un qualsiasi team che, a
parere del prof. Hackman, deve attuare cinque condizioni fondamentali per la creazione ed il
mantenimento di un gruppo efficiente:
1. i team devono essere reali, ovvero deve essere ben chiaro a tutti i componenti chi ne fa
parte o meno. Su un campione di 120 team sparsi in tutto il mondo, è stato riscontrato
che in meno del 10% di questi i componenti si sono trovati d’accordo su chi facesse o
meno parte del loro gruppo; la responsabilità di tale scarsa precisione è del leader, che
spesso non vuole dare l’impressione di escludere qualcuno dalla squadra. In realtà, se
si vuole creare un team, ci sono delle decisioni molto ferme che devono essere prese in
tema di inclusione ed esclusione; occorre tenere presente che non tutte le persone che
vogliono entrare nel team possono farne parte e che ci sono delle persone che devono
essere obbligate a rimanerne fuori;
2. ai team deve essere data una direzione trainante, ovvero i membri devono avere ben
chiaro cosa ci si aspetta che realizzino come gruppo e devono essere concordi con
l’obiettivo, affinché tutti seguano una direzione comune. La responsabilità della
definizione di una direzione non è detto debba ricadere sul leader: il leader potrebbe
individuare una persona, interna o esterna al gruppo, che lo faccia al posto suo;
l’importante è che la persona scelta abbia molto coraggio, in quanto vi è la necessità di
gestire l’ansia nel gruppo generata dall’esercizio della sua autorità;
3. i team hanno bisogno di strutture facilitanti, ovvero devono avere compiti ben chiari,
un numero adatto di membri, un mix adatto di persone e regole di condotta ben
definite. Non è detto che un team in cui i componenti vadano tra di loro molto
d’accordo funzioni meglio di uno in cui sono presenti degli attriti, anzi; così come non è
vero che i team in cui siano presenti più componenti siano migliori di quelli costituiti
da pochi solo perché si hanno a disposizione più risorse (per il prof. Hackman, non si
dovrebbe mai superare la doppia cifra). Inoltre, il team è più efficiente se è composto
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da membri che lavorano assieme da lungo tempo e se al suo interno è presente un
deviante, ossia una figura che apre la strada ad idee nuove, mettendo in discussione
quanto deciso fino a quel momento;
4. i team necessitano di un’organizzazione che li sostenga, ovvero di un adeguato sistema
premiante e di gestione delle risorse umane, oltreché di un efficiente sistema
informativo a supporto. Paradossalmente le organizzazioni, anche quelle con i migliori
dipartimenti di Risorse Umane, si ostinano a fare cose del tutto contrarie al buon
lavoro di squadra, in quanto tendono a creare dei sistemi che si rivelano molto efficaci
nel guidare, indirizzare e correggere i comportamenti individuali: adottano, infatti, un
sistema di gestione del personale perfezionato da psicologi del lavoro per determinare
le capacità specifiche indispensabili per lo svolgimento di un determinato compito e
valutano poi i singoli dipendenti rispetto a queste capacità richieste;
5. i team hanno bisogno di un coaching competente, ovvero di un coach che non si
soffermi sulle performance individuali, ma che si concentri sui processi di gruppo.
COACHING EMOZIONALE
In merito all’ultima condizione citata dal prof. Hackman, si segnala come negli ultimi anni sia
nata una nuova forma di coaching, detta coaching emozionale, che la pedagogista Emma
Rosenberg Colorni ha ampiamente descritto nel suo testo “Lavorare senza offendersi” (v. rif.
bibliografici in calce), definendone le regole per il corretto svolgimento. Tale tipologia di
formazione ha la finalità di aumentare la responsabilità di ogni individuo in funzione
dell’evoluzione del sistema di cui fa parte; in altre parole, aiuta ad aumentare la capacità di
risposta del singolo e della sua organizzazione, definendo le responsabilità di ognuno. Ciò
viene fatto attraverso l’analisi delle emozioni, che rappresentano il sistema di comunicazione
tra il livello di equilibrio individuale e quello sociale; le emozioni infatti ci informano
contemporaneamente sul nostro stato di benessere e/o malessere e sul nostro modo di
interpretare la realtà. Con il coaching emozionale è possibile riconoscere i propri disagi e
risalire da essi ai presupposti in base ai quali si agisce automaticamente; scoperti tali
presupposti, è poi possibile negoziarli sia con se stessi che con gli altri, ridefinendo i contesti
relazionali, in modo che siano più efficaci per raggiungere gli obiettivi condivisi.
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In azienda, con il coaching emozionale diventa possibile riconoscere come si comunica con se
stessi e con i colleghi, rendendosi conto di come e quanto ciò determini il proprio
comportamento ed il raggiungimento di obiettivi propri e aziendali, risolvendo problemi ed
evitando di crearne. Si verrebbe così a creare un know how relazionale, in grado di dirigere le
energie sprecate nelle relazioni disfunzionali o non pienamente soddisfacenti verso gli
obiettivi di collaborazione. Il know how relazionale è un processo, induttivo e dinamico, di
creazione consapevole del sistema di relazioni e dei contesti aziendali, scelto
responsabilmente e collaborativamente in funzione della salute dell’azienda, dei risultati e del
benessere delle persone. Quando ben delineato, diventa parte del capitale dell’azienda,
contribuendo a definire e raggiungere gli obiettivi aziendali.
I risultati del coaching emozionale non si tramutano immediatamente nel successo economico
dell’azienda: i risultati, infatti, passano prima attraverso la scelta consapevole delle persone di
volersi realizzare, recuperando gusto e motivazione in quello che fanno, facendolo poi al
meglio; se il risultato di questo processo di consapevolezza si sposa con gli obiettivi
dell’azienda, quest’ultima ottiene anche il proprio profitto; in caso contrario, raggiunge
comunque il suo risultato se le persone che non trovano riscontro cercano nuove strade (oggi
purtroppo l’azienda non decolla perché molte delle persone che lavorano al suo interno non
sono contente di restare, impegnandosi, ma nel contempo non sanno scegliere di andarsene).
IL TEAM “AZIENDA”
L’azienda non è altro che una grande organizzazione, per la quale valgono quindi le cinque
condizioni enunciate dal prof. Hackman.
Ultimamente, purtroppo, si assiste alla mancanza di un senso di comunità in azienda, ovvero
di quel sentimento di appartenenza e di attenzione verso qualcosa che va al di là del singolo
individuo. Secondo il prof. Henry Mintzberg, negli ultimi decenni le strategie di management si
sono concentrate troppo sulle figure del CEO e del livello manageriale, riducendo al minimo il
ruolo e l’importanza delle altre persone presenti in azienda, considerandole come pezzi
sostituibili in qualsiasi momento: seduti nei loro uffici, i dirigenti si limitano ad annunciare gli
obiettivi che gli altri devono raggiungere, senza tenere i piedi per terra e senza dare un
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contributo significativo per migliorare la performance aziendale. Si è perciò andata
diffondendo un’idea secondo cui la leadership è un qualcosa di separato dalla gestione,
qualcosa di superiore. È quindi necessario che le aziende cerchino di coinvolgere i loro
dipendenti in un modo nuovo, rinnovando le vecchie pratiche di management e di leadership.
Secondo il prof. Mintzberg, l’individualismo è una buona cosa, in quanto fornisce un incentivo,
incoraggiando lo sviluppo; ma da solo non basta: come definito già ai tempi di Aristotele,
l’uomo è un animale sociale, che non può funzionare in maniera efficace senza un sistema
sociale più grande di lui, detto “comunità”, che funziona da collante che lega gli individui per
un bene superiore. Comunità significa preoccuparsi del proprio lavoro, di quello dei propri
colleghi e del proprio posto nel mondo, ricevendo in cambio energia positiva. Generalmente,
le aziende giovani (e di successo) possiedono questo senso di comunità: sono in crescita,
piene di energia, legate al personale quasi come in una famiglia; quando l’azienda cresce però,
tende a perdere tale spirito, con la nascita di vari equilibri interni. Si osserva, invece, che ciò
non accade nel settore sociale, dove la mission è più coinvolgente e le persone sono più
motivate.
Secondo il prof. Mintzberg, in azienda si dovrebbe lasciar spazio alla “comunitocrazia”, ovvero
ad una via di mezzo tra la leadership individualista e la cittadinanza collettiva: ovviamente, la
“comunitocrazia” si avvale della leadership, ma non di quel tipo egocentrico ed eroico oggi
molto frequente nel mondo del business, in cui il leader, inavvicinabile, esercita la propria
autorità dall’alto; si dovrebbe trattare di una forma di leadership più modesta, impegnata e
presente, che interviene quando è il caso, incoraggiando i dipendenti dell’organizzazione a
fare progressi.
Le aziende dovrebbero essere pronte a cambiare, ma il cambiamento non deve essere
impartito dall’alto verso il basso, e nemmeno in senso contrario, ma dall’interno verso
l’esterno, attraverso gruppi di manager di medio livello che si uniscono per guidare i
cambiamenti chiave nella loro organizzazione: devono assumersi il potere di agire, senza
delegare agli altri e senza aspettare che siano i leader a far qualcosa. Il prof. Mintzberg ha
delineato “5 lezioni fondamentali” che possono essere utili per guidare il cambiamento sopra
descritto, ovvero la trasformazione dell’azienda da un aggregato di risorse umane in una vera
e propria comunità di persone:
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1. è meglio cominciare da piccoli gruppi di manager, con un coaching di gruppo, evitando
la formazione individuale;
2. i manager devono prendersi il tempo necessario per riflettere sulle esperienze che
hanno condiviso con gli altri nell’organizzazione;
3. le idee che nascono dalle riflessioni dei diversi manager devono essere utilizzate come
base per la costituzione di una strategia aziendale, che, a differenza di quella
pianificata dal CEO, sarà più pratica, operativa, realistica ed efficace;
4. i piccoli gruppi devono poi essere presi a modello dalle altre risorse presenti in
azienda che, riscontrando gli immensi vantaggi apportati con la nuova strategia ed il
nuovo modo di operare, ne vengono contagiati;
5. i membri di una comunità devono poi aprirsi anche alle altre comunità presenti
attorno a loro, in quando devono comprendere e fare propri i valori della
responsabilità sociale, riscontrando i vantaggi che da questa possono nascere: coloro
che si sentono membri di una solida comunità aziendale capiscono quanto la
sostenibilità del successo della loro organizzazione dipenda da un impegno costruttivo
con le comunità che la circondano.
MOTIVARE I DIPENDENTI
Per aumentare il senso di responsabilità nei dipendenti, questi ultimi devono essere motivati:
gli autori Nitin Nohria, Boris Groysberg e Linda-Eling Lee spiegano in un articolo edito
sull’Harvard Business Review (v. rif. bibliografici in calce) come i manager devono agire sugli
istinti che guidano l’agire dell’uomo per soddisfarli, delineando i fattori su cui è possibile
operare.
La ratio che sta alla base del loro pensiero è quella secondo cui, essendo gli istinti regolati dal
cervello umano, la misura in cui vengono soddisfatti influisce direttamente sulle emozioni e di
conseguenza sul comportamento umano. Nel dettaglio, gli istinti sono 4:
1. istinto di acquisire: qualsiasi essere umano ha l’impulso di acquisire beni scarsi che
aumentino la sua situazione di benessere; ci si sente appagati quando l’istinto è
soddisfatto e delusi quando non lo è. Non si tratta solo di beni fisici, ma anche di
esperienze e eventi che innalzano lo status sociale (come, ad esempio, una
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promozione). L’istinto di acquisire tende ad essere relativo (l’uomo tende sempre a
confrontare quello che ha con quello che possiedono gli altri) ed insaziabile (l’uomo
vuole sempre di più);
2. istinto di unirsi: al contrario degli animali, che si sentono attaccati solo ai genitori e al
branco, è proprio degli esseri umani estendere tale legame anche a collettività più
ampie; l’istinto di unirsi, quando è soddisfatto, viene associato a forti emozioni positive
(quali l’amore e l’affetto); quando non lo è, con emozioni negative (quali la solitudine e
l’anomia). Sul lavoro, tale istinto è responsabile dell’aumento di motivazione quando i
dipendenti si sentono fieri di appartenere all’organizzazione, o del crollo del morale
quando l’istituzione li tradisce;
3. istinto di comprendere: per l’essere umano è fondamentale dare un senso al mondo
che lo circonda, attraverso la formulazione di teorie che rendano comprensibili gli
eventi e indichino azioni e reazioni accettabili; l’uomo è in continua ricerca di risposte
ed è frustrato quando le cose gli appaiono senza senso. Nel lavoro, il bisogno di
comprendere è responsabile del desiderio di apportare un contributo significativo: i
dipendenti sono motivati dagli incarichi che gli permettono di crescere ed imparare,
mentre si sentono demoralizzati se gli incarichi appaiono monotoni (al punto tale da
spingerli alla ricerca di sfide altrove);
4. istinto di difendere: ogni essere umano è portato a difendere se stesso, le proprie
proprietà e i propri affetti; a differenza con gli animali, nell’uomo tale istinto non si
manifesta solo come comportamento aggressivo o difensivo, ma anche come creazione
di istituzioni che promuovano la giustizia e che permettano alle persone di esprimere
le loro idee e opinioni. Soddisfare tale istinto genera una sensazione di sicurezza e
protezione; non soddisfarlo, produce forti emozioni negative, come la paura ed il
risentimento.
Ciascuno dei quattro istinti è indipendente dagli altri e non è possibile ordinarli in una
gerarchia, in quanto sono tutti equamente importanti; inoltre, devono essere tutti soddisfatti
per motivare al massimo i dipendenti. A tal riguardo, per ogni istinto l’azienda ha a
disposizione un fattore organizzativo che può usare per motivare i suoi dipendenti; nella
figura che segue è riportata una tabella che li riassume.
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Figura 1: Come soddisfare le necessità che motivano i dipendenti.
Istinto
Fattore Principale
Azioni
- Differenziare nettamente le performance buone da
1. Acquisire
Sistema premiante
quelle medie e scarse.
- Collegare chiaramente i premi alle performance.
- Pagare almeno quanto la concorrenza.
- Promuovere la fiducia reciproca e l’amicizia tra i
2. Unirsi
Cultura
dipendenti.
- Dare valore alla collaborazione e al lavoro di squadra.
- Incoraggiare la condivisione delle best practice.
- Definire incarichi con ruoli distinti e importanti
3. Comprendere
Definizione degli incarichi
nell’organizzazione.
- Definire incarichi significativi che alimentino un senso
di contributo all’organizzazione.
Processi di gestione delle
4. Difendere
performance e di
allocazione delle risorse
- Aumentare la trasparenza di tutti i processi.
- Sottolinearne l’equità.
- Creare fiducia premiando in modo giusto e trasparente,
e attraverso altri tipi di riconoscimento.
Fonte: Nohria N., Groysberg B., Lee L., 2008. Motivare i dipendenti: un nuovo e potente modello. Harvard
Business Review. Vol. 9, pagg. 39-47.
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PER APPROFONDIRE
HACKMAN J.R. (a cura di COUTU D.), 2009. Perché i team non funzionano. Harvard Business
Review. Vol. 7-8, pagg. 67-74.
MINTZBERG H., 2009. L’azienda come comunità. Harvard Business Review. Vol. 9, pagg. 94-99.
NOHRIA N., GROYSBERG B., LEE L., 2008. Motivare i dipendenti: un nuovo e potente modello.
Harvard Business Review. Vol. 9, pagg. 39-47.
RIBONI E., 2009. <<I team non funzionano>>. Harvard contesta le certezze. Corriere della Sera,
02 ottobre 2009, pag. 38.
ROSENBERG COLORNI E., 2006. Lavorare senza offendersi. Milano: Ed. Angelo Guerini e Associati
S.p.A.
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