Extrait de la publication

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Titoli originali:
Les frères corses
Les deux étudiants de Bologne
© 2009 Donzelli editore
Roma, via Mentana 2b
www.donzelli.it
[email protected]
ISBN 978-88-6036-352-7
Alexandre Dumas
I FRATELLI CORSI
seguito da
I due studenti di Bologna
Traduzione di Alessia Piovanello
DONZELLI EDITORE
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Il fantastico e il doppio
Nota dell’editore
Due gemelli. Una famiglia percorsa da inquietanti presenze spiritiche. La Corsica e Parigi. L’onore e la vendetta. È un viaggio appassionante quello che Dumas ci propone di compiere in sua compagnia, in questo Les frères corses, il romanzo che è forse il più breve e folgorante tra i suoi assoluti capolavori. Pubblicato a puntate su
«La démocratie pacifique» nel 1844 (lo stesso anno dei Tre moschettieri), e per la prima volta in volume nel 1845 presso l’editore Hippolyte Souverain, il racconto muove da un’esperienza di viaggio, che
si presume compiuta in prima persona. In realtà, Dumas non è mai
riuscito a recarsi in Corsica, pur avendo a più riprese concepito il
progetto di quel viaggio, da lui considerato come una delle tappe essenziali di quel tour mediterraneo che corrispondeva alla sua vocazione di viaggiatore e ancor più a un profondo bisogno dell’anima.
È dunque una Corsica sognata, depositaria di quei valori bruschi,
selvatici e schietti di una tradizione da cui ci si lascia volentieri irretire, quella a cui Dumas si industria di rendere visita. Ma fin dalle
prime battute, il racconto prende la mano allo stereotipo del resoconto di viaggio. L’ospitalità del viaggiatore presso una famiglia di
un paesino dell’isola è il pretesto per spostarsi dal viaggio al racconto. E in questo primo quadro del romanzo, la trama si fa subito fitta. La fiera signora che lo ospita gli mette a disposizione la stanza di
uno dei suoi due figli gemelli, che ha lasciato la casa paterna per andare a Parigi. I muri della stanza raccontano i flebili segnali di una
raffinatezza desiderata, di una modernità sognata, di una ricerca dell’altro o dell’altrove, che con tutta evidenza hanno messo le ali ai piedi del giovane Louis. Ma, nella stanza accanto, ecco Lucien, l’altro
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gemello corso, il doppio selvatico e fiero, così radicato nella storia
dell’isola, così profondamente intriso dei suoi valori, da essere chiamato a svolgere il ruolo di arbitro nella terribile faida che contrappone da decenni, nel paese, due clan nemici. Fantasia e realtà si mescolano inestricabilmente, in questa Corsica avventurosa e magica,
popolata di banditi che difendono il proprio onore, e scossa dal continuo inseguirsi delle vendette.
Nel secondo quadro del romanzo, Dumas, tornato a Parigi, fa la
conoscenza di Louis, il fratello gemello di Lucien, e lo scopre coinvolto in una sfida a duello, per aver voluto difendere l’onore di una
dama. Nonostante la separazione, i due gemelli sono rimasti uniti da
una inquietante telepatia, dono ereditario della loro famiglia, che
sconfina talvolta nella condivisione a distanza delle stesse sensazioni
fisiche. Sarà proprio la telepatia a richiamare a Parigi anche l’altro gemello corso, per fargli compiere il cerchio di una tragica, inesorabile
difesa dell’onore famigliare.
Dumas contrappone con grande sottigliezza la Corsica selvatica
e cruda, ma fedele alle regole dell’antica ospitalità e della morale inflessibile, a una Parigi ricercata e galante, sotto le cui vuote finezze si
celano crudeltà, cinismo e disprezzo.
Ma il tema cruciale del romanzo sta nel gioco del doppio, nel rapporto di identità e contrapposizione che lega indissolubilmente i due
fratelli, in una telepatia che rinvia a una reiterata predilezione di Dumas verso la messa in scena di una dimensione occulta, fantasmatica
(in altri classici luoghi del romanzo dumasiano saranno i magnetismi, o i tavolini che tremano…).
È la stessa predilezione che si trova sviluppata in un altro racconto breve di Dumas, Les deux étudiants de Bologne (I due studenti di Bologna), che presenta tali affinità e consonanze con I fratelli corsi da averci indotto a comprenderlo in questo nostro volume.
Nel racconto, scritto nel 1849, noto anche col titolo Un dîner chez
Rossini e compreso da Dumas nella raccolta Les mille et un fantômes, i due protagonisti, Beppo e Gaetano, uniti da una tale amicizia
da renderli fratelli, spingono anch’essi il loro legame d’affetto fino
alla solidarietà estrema. E anche in questo caso, come in quello di
Louis e Lucien, sarà la vendetta a sancire e sublimare una condivisione destinata a protrarsi idealmente ben oltre la morte.
Ma è la maestria dell’orchestrazione narrativa, che tocca, ne I fratelli corsi, le vette del migliore Dumas. Il ritmo, il respiro incalzante,
il crescere della frequenza del polso del lettore al succedersi di ogni
pagina.
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Non ci si stacca facilmente da una vicenda così stringente, così
ricca di materie diverse, che si apre con la levità di un diario di viaggio, e si conclude con un esito tragico. A metà strada tra dramma
morale e racconto fantastico, questo romanzo ci riporta al centro di
quel secolo XIX di cui Dumas è stato forse l’interprete più fedele e
il narratore più vero.
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I fratelli corsi
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«Vi sono più omicidi da noi che in qualunque altra
regione; ma non riuscirete mai a trovare un movente
ignobile in questi delitti. Abbiamo, è vero, molti assassini, ma neppure un ladro».
«[…] Perché mandare polvere a un furfante che se ne
servirà per commettere delitti? Senza questa riprovevole
debolezza che tutti dimostrano di avere per i banditi, sarebbero già spariti dalla Corsica da un bel pezzo […] E
che ha fatto dunque il tuo bandito? Per quale delitto si è
dato alla macchia?».
«Brandolaccio non ha commesso nessun delitto. Ha
ucciso Giovan’ Opizzo, il quale gli aveva assassinato il padre mentre era soldato».
Prosper Mérimée, Colomba1.
Caro Mérimée,
Consentitemi di prendere in prestito quest’epigrafe
e di dedicarvi questo libro.
Con tutto il cuore,
Alexandre Dumas.
1
P. Mérimée, «Colomba», in Tutti i racconti, trad. it. di A. Comes, Donzelli, Roma
2004, cap. III, p. 254; cap. X, pp. 289-90.
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I.
Intorno al principio del mese di marzo dell’anno 1841 mi trovavo in Corsica.
Nulla di più pittoresco e di più agevole di un viaggio in Corsica: ci si imbarca a Tolone e in venti ore si arriva ad Ajaccio o, in
ventiquattro, a Bastia.
Una volta lì, potete comprare o prendere a nolo un cavallo: a
nolo, ve la caverete con cinque franchi al giorno; acquistandolo,
con centocinquanta franchi sull’unghia. E non si rida della modicità dei prezzi: in entrambi i casi il cavallo, al pari del famoso destriero del guascone che saltò giù nella Senna dal pont Neuf, farà
più prodezze di Prospero o di Nautilus, gli eroi delle corse di
Chantilly e Champ de Mars. Attraverserà sentieri dove lo stesso
Balmat1 avrebbe messo i ramponi, e ponti dove Auriol2 chiederebbe un bilanciere.
Quanto al viaggiatore, non ha che da chiudere gli occhi e lasciar fare all’animale: il pericolo non lo riguarda.
Aggiungiamo che un cavallo simile, in grado di passare dappertutto, può coprire una quindicina di leghe al giorno senza reclamare da bere né da mangiare.
Di quando in quando, durante una sosta per visitare un antico castello costruito da qualche signore, eroe e capostipite di un
lignaggio feudale, o per ammirare una vecchia torre elevata dai
1
Jacques Balmat (1762-1834) raggiunse per primo la vetta del Monte Bianco, nel
1786, insieme al naturalista Saussure, ascensione evocata da Dumas in Impressioni di
viaggio.
2
Il clown Jean-Baptiste Auriol (1806-1881) debuttò al Cirque olympique di boulevard du Temple nel 1833, conquistandosi da subito il favore del pubblico per la sua stupefacente destrezza.
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genovesi, la brava bestia bruca un ciuffo d’erba, scortica un albero o lecca una roccia ricoperta di muschio: tutto qui.
Quanto all’alloggio per la notte, la faccenda è ancor più semplice: il viaggiatore arriva in un villaggio, percorre la via principale in tutta la sua lunghezza, sceglie la casa che più gli aggrada
e bussa alla porta. Un istante dopo, il padrone o la padrona
compare sulla soglia, invita il viaggiatore a entrare, gli offre metà della sua cena, il letto intero se ne ha uno solo e, l’indomani,
riaccompagnandolo all’uscio, lo ringrazia della preferenza che
gli ha accordato.
Beninteso, di compenso neanche a parlarne: il padrone di casa
reputerebbe un insulto ogni accenno a riguardo. Se nella casa c’è
a servizio una fanciulla, le si può regalare un fazzoletto, che userà
per acconciarsi in modo pittoresco quando andrà alla festa di Calvi o di Corte. Se invece il domestico è un uomo, questi accetterà
volentieri un pugnale, con cui potrà uccidere il proprio nemico
nel caso lo incontri per strada.
Occorre inoltre informarsi su un fatto: se, come talvolta accade, i servi non siano parenti meno fortunati del padrone di casa, i
quali gli rendono dunque servizi domestici in cambio di vitto e
alloggio, che si degnano di accettare insieme a una o due piastre
al mese.
E non si pensi che i padroni serviti da pronipoti o da cugini di
quindicesimo o ventesimo grado siano per questo meno soddisfatti. Nient’affatto. La Corsica è un dipartimento francese, ma è
ancora ben lungi dall’essere la Francia.
Quanto ai ladri, non se ne sente neppure parlare; di banditi a
iosa, ma non bisogna confondere gli uni con gli altri.
Recatevi senza timore ad Ajaccio, a Bastia, con una borsa piena d’oro appesa all’arcione, e attraverserete l’isola intera senza
correre l’ombra d’un pericolo; ma se avete un nemico che vi abbia giurato vendetta, non andate da Occana a Levaco, perché per
quel tragitto di due leghe non risponderei di voi.
Mi trovavo dunque in Corsica, come dicevo, in principio di
marzo. Ero solo, dal momento che Jadin1 era rimasto a Roma.
1
Louis Godefroy Jadin (1805-1882), paesaggista in seguito consacratosi alla pittura
di animali, accompagnò Dumas nei suoi viaggi nel Sud della Francia e in Italia tra il
1834 e il 1835.
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Ero arrivato dall’isola d’Elba; ero sbarcato a Bastia; avevo comprato un cavallo al prezzo suddetto.
Dopo aver visitato Corte e Ajaccio, stavo percorrendo la provincia di Sartène.
Quel giorno, andavo da Sartène a Sollacaro.
Era un tragitto breve, forse una decina di leghe, ma tutto curve e con un contrafforte della catena principale che forma la spina dorsale dell’isola da valicare: pertanto avevo preso una guida,
per paura di perdermi nelle macchie.
Verso le cinque, arrivammo in cima alla collina che domina
Olmeto e Sollacaro.
Lassù ci fermammo un istante.
«Dove desidera alloggiare Vostra Signoria?», mi chiese la guida.
Gettai un’occhiata sul villaggio: da quell’altezza il mio sguardo poteva spaziare sulle sue strade che sembravano tutte semideserte; soltanto poche donne comparivano qua e là camminando
leste e lanciando sguardi furtivi intorno a sé.
Giacché, in ragione delle consolidate leggi dell’ospitalità cui
ho testé accennato, potevo scegliere tra le cento-centoventi case
che compongono il villaggio, cercai con gli occhi l’abitazione che
paresse offrirmi maggiori comodità, e mi soffermai su una casa
quadrata, costruita a mo’ di fortezza, con caditoie davanti alle finestre e sopra la porta.
Era la prima volta che vedevo quelle fortificazioni domestiche,
ma va detto che la provincia di Sartène è la patria della vendetta.
«Ah, bene!», esclamò la guida seguendo l’indicazione della
mia mano. «Andiamo da madame Savilia de Franchi. Venite, venite, Vostra Signoria ha fatto un’ottima scelta, si vede che non difetta d’esperienza».
Non dimentichiamo di dire che, nell’ottantaseiesimo dipartimento della Francia, si parla correntemente italiano.
«Ma – obiettai – non è sconveniente chiedere ospitalità a una
signora? Se ho inteso bene, quella casa appartiene a una donna».
«Certamente – riprese quello con aria stupita, – ma cosa vede
di sconveniente in ciò Vostra Signoria?».
«Se è una dama giovane – ribattei, mosso da un senso di convenienza, o forse, per usare il termine giusto, di amor proprio
parigino – una notte trascorsa sotto il suo tetto non può comprometterla?».
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«Comprometterla?», mi fece eco la guida cercando evidentemente il significato di quella parola che avevo italianizzato con la
consueta sfacciataggine che caratterizza noialtri francesi, quando
ci arrischiamo a parlare una lingua straniera.
«Ma certo!», esclamai cominciando a spazientirmi. «Quella dama è vedova, non è così?».
«Sì, Eccellenza».
«Ebbene, riceverà in casa propria un giovanotto?».
Nel 1841 avevo trentasei anni e mezzo, e mi dichiaravo ancora giovanotto.
«Se riceverà un giovanotto?», ripeté la guida. «Ebbene, che differenza può fare per lei, se siete un giovanotto o un vecchietto?».
Capii che non ne avrei cavato niente continuando a fare domande a quel modo.
«E quanti anni ha madame Savilia?», chiesi.
«Quaranta, suppergiù».
«Ah!», esclamai rispondendo sempre ai miei pensieri. «Allora
è perfetto. E immagino abbia dei figli?».
«Due figli, due bei ragazzoni».
«Potrò vederli?».
«Soltanto uno, quello che vive con la madre».
«E l’altro?».
«L’altro abita a Parigi».
«E che età hanno?».
«Ventuno anni».
«Entrambi?».
«Sì, sono gemelli».
«E verso quale professione s’indirizzano?».
«Quello che è a Parigi sarà avvocato».
«E l’altro?».
«L’altro sarà corso».
«Ah! ah!», risi, trovando la risposta molto caratteristica, benché mi fosse stata rivolta in un tono del tutto naturale. «Ebbene,
vada per la casa di madame Savilia de Franchi».
E riprendemmo il cammino.
Dieci minuti dopo entrammo nel villaggio.
Allora notai un particolare che mi era sfuggito dall’alto della
collina. Ovvero che ogni casa era fortificata come quella di madame Savilia; ma non con caditoie, poiché probabilmente non
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tutti potevano permettersi quelle fortificazioni lussuose, ma semplicemente con tavoloni che coprivano dall’interno le finestre, lasciando aperture sufficienti a far passare le canne dei fucili. Altre
finestre erano invece rinforzate con mattoni rossi.
Domandai alla mia guida come si chiamavano quelle feritoie,
e questi mi spiegò che si trattava di arciere, risposta che mi fece
intendere come le vendette corse fossero precedenti all’invenzione delle armi da fuoco.
Man mano che ci addentravamo nelle strade, il villaggio assumeva un aspetto di solitudine e tristezza più marcate.
Diverse abitazioni parevano aver sostenuto un assedio ed erano crivellate di pallottole.
Di quando in quando, attraverso le feritoie, vedevamo scintillare un occhio curioso che ci guardava passare; ma era impossibile distinguere se appartenesse a uomo o donna.
Arrivammo alla casa che avevo indicato alla guida, e che difatti era la più imponente del villaggio.
Una cosa però mi colpì: la casa, apparentemente fortificata
dalle caditoie che avevo notato, in realtà non lo era affatto, vale a
dire che le finestre non avevano né tavole, né mattoni, né arciere,
ma semplici vetri, protetti, la notte, da imposte di legno.
Vero è che quelle imposte conservavano segni che un buon osservatore non poteva non riconoscere per fori di proiettili. Ma
erano vecchi fori, risalenti almeno a una decina d’anni prima.
Non appena la mia guida ebbe bussato, la porta si aprì, senza
alcun timore o esitazione, non socchiudendosi, ma spalancandosi, e sulla soglia apparve un lacchè…
Sbaglio a dire lacchè: dovrei dire piuttosto un uomo.
A fare il lacchè è infatti la livrea, e l’individuo che ci aprì era
semplicemente vestito con una giacca di velluto, calzoni della
stessa stoffa e ghette di pelle. Le brache erano strette in vita da
una cintura di seta variopinta, dalla quale usciva il manico di un
coltello di foggia spagnola.
«Amico mio – gli dissi, – è inopportuno da parte di un forestiero, che non conosce nessuno a Sollacaro, venire a chiedere
ospitalità alla vostra padrona?».
«Certo che no, Eccellenza», mi rispose. «Il forestiero fa onore alla casa in cui si ferma. Maria – continuò rivolgendosi a una
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serva che faceva capolino alle sue spalle, – avvisate madame Savilia che c’è qui un viaggiatore francese a chiedere ospitalità».
Così dicendo, scese otto gradini, ripidi come i pioli di una scala, che conducevano alla porta d’ingresso, e afferrò la briglia del
mio cavallo.
Misi piede a terra.
«Non dovete preoccuparvi di nulla, Eccellenza – disse, – i bagagli saranno portati tutti nella vostra stanza».
Approfittai di buon grado di quel cortese invito alla pigrizia,
uno dei più graditi che si possano fare a un viaggiatore.
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II.
Mi arrampicai lesto su per la scala, e feci pochi passi all’interno della casa.
Girato l’angolo del corridoio, mi trovai di fronte a una donna
alta, vestita di nero, fra i trentotto e i quarant’anni, ancora bella.
Capii che era la padrona di casa, e mi fermai dinnanzi a lei.
«Madame – le dissi con un inchino, – dovete trovarmi davvero indiscreto; ma mi giustifica l’uso del paese e mi autorizza l’invito del vostro domestico».
«Siete il benvenuto per la madre – mi rispose madame de Franchi, – e tra poco sarete il benvenuto per il figlio. A partire da questo momento, monsieur, la casa vi appartiene; disponetene dunque
come se fosse vostra».
«Vengo a chiedervi ospitalità per una sola notte, madame. Me
ne andrò domani stesso, allo spuntar del giorno».
«Siete libero di fare quel che più vi piacerà, monsieur. Tuttavia, spero cambierete d’avviso, e ci farete l’onore di restare con
noi più a lungo».
Mi inchinai una seconda volta.
«Maria – riprese madame de Franchi, – conducete questo signore nella camera di Louis. Accendete immediatamente il fuoco
e portategli acqua calda. Perdonateci – continuò rivolgendosi a
me, mentre la domestica si apprestava a eseguire i suoi ordini, –
so che le prime necessità di un viaggiatore affaticato sono l’acqua
e il fuoco. Vogliate seguire questa giovane, monsieur. Chiedete a
lei tutto ciò di cui avrete bisogno. Ceniamo tra un’ora, e mio figlio, che nel frattempo sarà rincasato, avrà l’onore di venire a
chiamarvi».
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