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Saggi. Natura e artefatto
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Serie Critica del progetto
diretta da
Cristina Bianchetti e Mariavaleria Mininni
Volumi pubblicati:
Cristina Bianchetti, Urbanistica e sfera pubblica
Angelo Sampieri, Nel paesaggio.
Il progetto per la città negli ultimi venti anni
Pier Carlo Palermo, I limiti del possibile.
Governo del territorio e qualità dello sviluppo
Antonio G. Calafati, Economie in cerca di città.
La questione urbana in Italia
Carmen Andriani (a cura di), Il patrimonio e l’abitare
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Cristina Bianchetti
IL NOVECENTO È DAVVERO FINITO
Considerazioni sull’urbanistica
DONZELLI EDITORE
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Il volume è stato realizzato con il contributo
del Dipartimento Interateneo Territorio (DITER),
Politecnico e Università di Torino
© 2011 Donzelli editore, Roma
Via Mentana 2b
INTERNET www.donzelli.it
E-MAIL [email protected]
ISBN 978-88-6036-549-1
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IL NOVECENTO È DAVVERO FINITO
Indice
Introduzione. Spazi praticabili
p.
1. Riformismi
2. Il discorso sulla città
3. Osservare il mutamento
4. Quattro temi
6
9
11
14
I.
II.
Nuove virtù
1. Abitare
2. La casa isolata è un sogno senza avvenire
3. Riscritture del lusso
4. Vecchi e nuovi funzionalismi
5. Vivre ensemble
6. Mistica del buon abitare ed etnografie urbanistiche
7. Conclusioni
51
57
60
63
64
68
73
III.
81
84
86
89
93
95
99
103
Inerzie
1. Forme della descrizione
2. Lo sperimentalismo degli anni novanta
3. La dispersione è finita, le sue storie no
4. Critica della ragione morfologica
5. La decrescita: un salto all’indietro
6. Conclusioni
19
24
34
37
42
48
Teatralità minori
1. Riscritture
2. La sfera pubblica non è più duratura
3. Théâtres en plein air
4. Ceti medi
5. Chi norma lo spazio pubblico?
6. Prossimità e condivisione
7. Il controllo estetico dello spazio
8. Conclusioni
V
Bianchetti, Il Novecento è davvero finito
IV.
107
113
117
121
126
132
135
Disancoraggi
1. Tre posizioni riformiste
2. Una nuova forma di piano
3. Ancora uno scarto
4. Principi di giustificazione
5. Congruenze con le forme dell’azione politica
6. Conclusioni
Conclusione. Quiete, convergenze, disaccordi
145 Indice dei nomi
VI
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Il Novecento è davvero finito
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IL NOVECENTO È DAVVERO FINITO
Introduzione
Spazi praticabili
«Non sono le lucciole ad essere state distrutte: è piuttosto qualcosa di essenziale nel desiderio di vedere – nel desiderio in generale, e dunque nelle speranze politiche» (G. Didi-Huberman, Come le lucciole, 2009)1.
Questo libro prende spunto dalla percezione di un profondo
cambiamento che segna l’urbanistica e l’architettura di questi ultimi
decenni e che si esprime come lontananza dal progetto moderno,
apertura di nuovi problemi, modifiche di linguaggi e tecniche. Al
cambiare di tutto o quasi si sovrappone un discorso critico che non
è mai sembrato così disarmato. Sia quello che manifesta indignazione e protesta morale, sia quello entusiasta che rincorre mutamenti
tecnologici e linguistici. Due forme della rinuncia a fare i conti con
il cambiamento. Manca una critica capace di osservare ciò che l’urbanistica fa, il modo in cui argomenta ciò che fa, in cui interpreta
problemi, chiarisce intenzioni, produce giustificazioni, cambia linguaggi. Manca, in altri termini, «una migliore descrizione»2 dell’urbanistica e del suo progetto che sia anche un «retourner aux choses
mêmes»: un tornare a descrivere, osservare, interpretare i temi del
discorso urbanistico; chiarire ed esplicitare i modi messi in atto per
far fronte a un compito sociale differente da quello svolto in passato, indubbiamente più complesso; immaginare qualche diversa pos1
G. Didi-Huberman, Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze (2009), Bollati
Boringhieri, Torino 2010, p. 38.
2
Una migliore descrizione è obiettivo di una linea d’azione critica che Luc Boltanski discute in De la critique. Précis de sociologie de l’emancipation, Gallimard, Paris 2009 (in particolare a p. 47, quando discute la differenza tra la sociologie critique e la sociologie pragmatique de la critique. Ovvero tra le posizioni assunte da Bourdieu e quelle che stanno alla base del Groupe de Sociologie Politique et Morale).
3
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Bianchetti, Il Novecento è davvero finito
sibilità3. In mancanza di un tale atteggiamento è fin troppo facile
parlare di difficoltà, sconfitta, impoverimento.
Scopo di questo libro è provare a descrivere alcuni aspetti dell’urbanistica italiana degli ultimi venti anni. Al di fuori da un atteggiamento nostalgico di perdita e al di fuori da una entusiastica accettazione delle condizioni contemporanee. Un tale compito si giustifica dalla convinzione che entro una situazione difficile permangano
importanti spiragli di conoscenza e azione. Che lo sfondo disegnato
da coloro che pensano a un impoverimento sia realistico, ma non
racconti tutto. Che in esso si possa ricollocare un’azione affermativa: una certa libertà di movimento e di pensiero. E che sta a noi saperci riorientare per afferrarla. In altri termini ci sembra possibile
rinforzare la resistenza al fatalismo della nostalgia e a quello (uguale, anche se di segno contrario) dell’entusiasmo; provare ad assumere un cambiamento di disposizione; de-naturalizzare i problemi che
si pongono oggi al progetto, rivedere le loro costruzioni sociali, le
loro radici, le loro ideologie. Un lavoro che ha il tono di altri, condotti in passato e tende a cogliere questioni che un critico del passato, quale è Franco Fortini, avrebbe detto di frontiera. Intendendo
con questo termine alludere a questioni che il progetto offre a una
discussione sulla città, sulle decisioni, sulle politiche. Un tale esercizio non può essere demandato alla rivendicazione di qualche scuola,
di un circolo di amici, di affinità o appartenenze a qualche progetto
didattico o editoriale. Il fantasma dei piccoli gruppi, delle circolarità,
delle scuole ci seduce e ci commuove tutti. Ma nel momento in cui
la marginalità si universalizza, tentare di farvi fronte non è più affare di una scuola o dell’altra: è necessaria una visione diversa; un’attenzione critica a ciò che si può fare. Inutile chiudersi in considerazioni cupe e inacidite sul presente. La risposta è in un’arte del fare,
direbbe de Certeau, dove il fare è anche fare critica delle nostre pratiche. Un’arte cosiffatta guida a esplorare altre piste, allargare il campo di analisi, ripensare ciò che pensiamo, provare esercizi nuovi,
3
L’idea di critica qui allusa si muove tra la riflessione di Boltanski e quella di Judith
Butler, What Is Critique. An Essay on Foucault Virtue, in The Political, a cura di D. Ingram, Blackwell, Oxford 2001, pp. 212-26 e poi in www.tedruland.org. Questo ci dà modo di chiarire subito un aspetto che risulterà evidente nelle pagine seguenti: l’utilità dell’accostamento di autori che un diffuso dogmatismo fa ritenere poco avvicinabili. Quello che
abbiamo tentato di praticare è un pensiero che ne attraversa altri (di cui le note cercheranno di dare conto).
4
Spazi praticabili
mettere al lavoro dialettiche dei tempi. Richiede una certa astuzia per
muoversi dentro le condizioni date. Al di fuori da un atteggiamento
freddamente scientifico, a favore di giudizi, passioni, scelte pedagogiche personali, che ciascuno si ritaglia.
Affermare spiragli di conoscenza e azione nella compattezza del
presente non significa sottovalutare i problemi che sono ampi. Prima di tutto la scarsa rispondenza del progetto urbanistico a fronte di
alcune questioni che oggi si pongono con grande urgenza. Ad esempio a fronte del ridefinirsi di una questione urbana che va riscrivendo velocemente i suoi contenuti in termini (direbbero Bernardo Secchi e Paola Viganò) di crescita progressiva delle distanze sociali, dell’estremizzarsi dei rischi ambientali, della crisi profonda nella quale
versano molte economie locali e globali4. Condizioni che realmente
potrebbero trasformare la città nel luogo del risentimento, di cui parlava circa cento anni fa Max Scheler5. E segnano il suo «disfarsi» anche sul piano spaziale6. O, per fare un altro esempio, la difficoltà a far
fronte alla cura di ambienti fisici e sociali: a quella dei contesti ordinari e a quella di contesti cui è riconosciuto comunemente valore,
come direbbero tanti cultori del paesaggio. O ancora la difficoltà a
perseguire una più soddisfacente qualità dell’abitare, muovendo impresa e politica a una maggiore responsabilità sociale. Si potrebbe
continuare. Ma si finirebbe con il rimanere confinati nell’inadeguatezza o in quella sindrome del ritardo che è da sempre evocata per
parlare di progetto e di studi urbani. Negli anni sessanta, un importante libro di Leonardo Benevolo sosteneva che l’urbanistica fosse
nata nella prima parte del XIX secolo per far fronte ai mali della prima industrializzazione. In ritardo ed entro un’ottica rimediale7.
Questa prospettiva dell’inseguimento e del ritardo convince poco
per il XIX, come per il XXI secolo. L’urbanistica è stata ed è contemporanea al suo presente. Non in senso banalmente cronologico.
Contemporaneo, ci ha insegnato Giorgio Agamben8, non è ciò che
procede insieme, ma ciò che va contro il presente, che sa cogliere
B. Secchi, A New Urban Question, in «Territorio», 2010, 53, pp. 8-18.
M. Scheler, La crisi dei valori (1912, 1915, 1919), Bompiani, Milano 1936; V. FilipponeThaulero, Il problema del risentimento di Max Scheler, La Cassandra, Pineto 2008.
6
J. Donzelot, Quand la ville se défait, Seuil, Paris 2006.
7
L. Benevolo, Le origini dell’urbanistica moderna, Laterza, Bari 1963.
8
G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo, nottetempo, Roma 2008, poi in Id., Nudità,
nottetempo, Roma 2009.
4
5
5
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Bianchetti, Il Novecento è davvero finito
quanto è celato nella sua trasparenza9. C’è stata in passato questa capacità di stabilire una relazione profonda con il presente e c’è ancora. Capacità di disvelare valori che magari ci piacciono poco. Quanti progetti oggi insistono sui caratteri congiunturali, sul coinvolgimento personale, sul narcisismo. Quanti mettono al centro un ritrovato rapporto con la natura: una sorta di saggezza pagana, l’eterno
fluire delle cose10. Quanti pongono al centro la quiete del multiculturalismo che celebra la differenza sottraendole il valore radicale e
sostantivo che negli anni settanta era ad essa affidato11. O un «umanesimo tenero», come scriveva sarcasticamente Foucault quando se
la prendeva con l’umanesimo del dopoguerra, con la centralità di un
io ubriacato di se stesso12. Non siamo più nei tempi con i quali Foucault polemizzava e neppure in quelli in cui scriveva, ma di nuovo al
centro è l’uomo, sono i buoni sentimenti, la condivisione magari attorno a un orto o a un progetto di controllo delle emissioni inquinanti. Tutto questo descrive con precisione il punto in cui siamo.
Certo non va contro il presente, ma disvela un universo valoriale.
Non è il progetto a essere spiegato dalle condizioni entro le quali si
trova. È vero il contrario.
1. Riformismi.
Questo libro è rivolto a capire come si prefigurano le forme del
progetto contemporaneo al di fuori del riformismo novecentesco.
L’urbanistica ha costituito una componente importante dei riformismi13 e della loro azione tesa a creare istituzioni e mentalità collettive; a plasmare politiche inclusive dei ceti sociali sulla base dei diritti
di cittadinanza e dei sistemi di welfare; a sostenere lo scambio e il
9
Nella ripresa per l’edizione francese (Qu’est-ce que le contemporaine?, Payot & Rivages,
Paris 2008) Agamben richiama su questo punto il poema di Osip Mandel’štam, Il secolo, del
1923, sul quale ha scritto anche Alain Badiou, Il secolo (2005), Feltrinelli, Milano 2006, cap. II.
10
Una critica in A. Sampieri, Nel paesaggio. Il progetto per la città negli ultimi venti anni, Donzelli, Roma 2008.
11
G. Deleuze, Differenza e ripetizione (1968), il Mulino, Bologna 1971.
12
Richiamato da A. Finkielkraut, L’umanità perduta. Saggio sul XX secolo (1996), Lindau, Torino 2009, pp. 40 e 50.
13
La letteratura ovviamente è sterminata. Mi sono sembrati nello specifico utili due testi
recenti: G. Sapelli, Sul riformismo, Bruno Mondadori, Milano 2005, e Riformismo/i, numero monografico di «Meridiana», 2004, 50-51. Sull’urbanistica come componente dei riformismi: B. Secchi, La città del XX secolo, Laterza, Roma-Bari 2005.
6
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Spazi praticabili
mercato con una dimensione morale; a ridefinire il senso della politica intorno a impegni e giudizi. Azione dapprima associativa e comunitaria; poi nel dopoguerra, statalista e redistributiva. Ma la vicenda del riformismo novecentesco è, in quella forma, consumata.
Lo ricorda Giulio Sapelli quando scrive che: «i riformismi polifonici del Novecento […] non riescono più a dare né una dimensione
morale a sostegno del nuovo capitalismo molecolare, né una rete istituzionale che favorisca anziché limitare e soffocare il dispiegarsi delle nuove forze produttive e riproduttive»14. Altre forme di riformismo sono necessarie per la ridefinizione di un sistema di cittadinanza non escludente e non distruttore di capitale sociale. Forme che Sapelli definisce entro un fondamentale slittamento: dai diritti acquisiti ai doveri che le persone sentono come vincolo morale per garantire il miglioramento e la riproduzione della società. Un passaggio la
cui radicalità è difficile sottovalutare poiché mette in discussione
equilibri tra Stato e società, politica e competenza, diritti di cittadinanza e doveri individuali e collettivi, sostegni universalistici e condivisioni che si costruiscono continuamente sulla base delle aspettative, degli stili di vita e delle preferenze individuali e di gruppi. In
questa direzione, il richiamo per un’azione riformista che, anche in
campo urbano, possa dirsi non più associativa e comunitaria, statalista e redistributiva, ma più semplicemente, modesta e responsabile15.
Che i riformismi siano in grado di restaurare se stessi in relazione alle nuove forme dell’economia, a un cosmopolitismo delle fedi e
delle etnie, al superamento dello statalismo e a un’idea asfittica dell’intervento pubblico non è certo. Quel che è certo è che l’urbanistica non può non ricevere dal franare dei vecchi riformismi un duro colpo, per la rilevanza che ha avuto in essi contribuendo all’ampliamento dell’inclusione sociale, cognitiva e morale. Come regge
l’urbanistica a questo franare? Come restaura in una fase non riformista (in senso novecentesco) un sapere e un fare che non si riducano a una sorta di pratica ascetica con il suo seguito di rituali e devozioni? Come si riformula quella «partizione del sensibile»16 operata
dal progetto per la città, e che tipo di spazi d’azione questo apre?
Sapelli, Sul riformismo cit., p. 14.
Su questo P. C. Palermo, Senza governo urbano non si fa città, in Milano Downtown.
Azione pubblica e luoghi dell’abitare, a cura di M. Bricocoli e P. Savoldi, et.al./edizioni, Milano 2010.
16
J. Rancière, Il disagio dell’estetica (2004), Ets, Pisa 2009.
14
15
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Bianchetti, Il Novecento è davvero finito
Nella direzione di queste domande l’intenzione del libro è rivolta a capire le nuove forme del progetto per la città e il territorio entro una logica che ho chiamato, prendendo da Boltanski, degli studios cinematografici. In questa diversa prospettiva il progetto è la
costruzione di un ordine discontinuo di azioni che valorizza mobilità e costruzione di connessioni17. Ha al centro la costruzione di
marchi, immagini, prefigurazioni, ma non si esaurisce nella potenza di un’immaginazione visionaria, tipicamente modernista18. Richiede forme di impegno diverse. Differenti competenze e attitudini. Tutto questo impone un ragionamento sull’azione politica dell’urbanistica. Intesa nel senso di Rancière: non uno schierarsi contro o a favore di una causa, ma un’azione tesa a creare percezioni
in grado di far sperimentare, con i sensi e l’immaginazione, qualcosa del mondo reale, facendo al tempo stesso intravedere sviluppi
e possibilità differenti da quelle delle narrazioni dominanti19. La
politica dell’urbanistica20 non è, per come la intendo in questo libro,
la politica praticata dagli urbanisti. Non riguarda il loro impegno
nelle dispute in cui sono coinvolti. Non riguarda neppure il modo
in cui (nel dire o nel fare) è trattato il potere. Nel senso che non si
riduce alla presa o all’esercizio di un potere. Non perché questi
aspetti non siano rilevanti. Capire quale forma di governo possa
meglio guidare le trasformazioni è cruciale. Ma la politica dell’urbanistica è cruciale anche in un altro modo: entro quella dimensione dell’azione relativa alla costruzione di giudizi, a seguito dei quali alcuni oggetti sono ritenuti comuni e condivisi. Non una «partizione del reale» giocata una volta per tutte. Né un elemento fisso,
Rimando al cap. IV.
N. Spiller, Visionary Architecture. Blueprints of the Modern Imagination, Thames &
Hudson, London 2006.
19
Per Rancière, l’arte stabilisce una partizione del sensibile. In questo agisce come politica. Rimanda a possibilità diverse all’interno della contingenza della situazione, lavorando
contro le relazioni ferme e asimmetriche del potere. Ma in modo non assimilabile a nessun
engagement ideologicamente determinato, come osserva Mario Pezzella in Il malinteso dell’arte. Politica ed estetica in Jacques Rancière, in «Iride. Filosofia e discussione pubblica»,
aprile 2010, 59, pp. 99-110. Il movimento operato dall’arte organizza diversamente spazi comuni e pubblici, ricomponendo l’esistenza e, così facendo, «può contribuire a una perdita o
un’accentuazione del carattere contrastativo della situazione, può negare o risolvere un’etica
del consenso, rinunciare a modificare le cose accettando uno sguardo “di polizia”, o, al contrario, riaprire la partizione del sensibile verso la pluralità dei possibili, latenti o dimenticati
nel fondo della situazione» (ibid., p. 109). J. Rancière, Il destino delle immagini (2003), Pellegrini, Cosenza 2007; Id., Le partage du sensible, La fabrique éditions, Paris 2000.
20
Qui utilizzando quasi alla lettera Id., La politica della letteratura (2006), Sellerio, Palermo 2010, p. 13.
17
18
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Spazi praticabili
basato su qualche invariante antropologica. «L’elemento sul quale
la politica si fonda è sempre controverso» esito di uno scontro, di
«una battaglia per decidere ciò che è parola o semplice grido, per
tracciare nuovamente i confini sensibili attraverso i quali si attesta
la capacità politica»21.
Il progetto urbanistico è sempre stato parte rilevante nel governo
della città. Ma ha anche sempre lavorato su una ripartizione di spazi
e tempi, di luoghi e identità. Ha sempre contribuito a configurare
«una condivisione del sensibile» introducendo oggetti e soggetti, rinegoziando la soglia tra la sfera personale e quella collettiva, tra la vita intima e quella pubblica, rendendo palese ciò che era poco visibile. Oggi tutto questo avviene in modo diverso. Ed è questa distanza
che vorrei provare ad osservare. A partire dal fatto che una partizione del sensibile crea ineludibilmente divisione, disaccordo, contrasto. Mentre il discorso urbanistico oggi appare, almeno in superficie,
privo di una dimensione contrastativa.
2. Il discorso sulla città.
Sono in molti a ritenere che si debba tornare a ragionare della città. A decostruirne legittimazioni e giustificazioni. A osservare le separazioni tra dicibile e visibile. E che questo sia oggi particolarmente urgente. Il farsi della città è attraversato da una moltitudine di dispute, di disaccordi e di tentativi per ricostruire localmente intese
sempre fragili, pronte a disfarsi. Le trasformazioni innescano interessi, delusioni, contrasti. A volte conflitti. Ciò nondimeno la città
viene descritta troppo spesso come fosse entro una sospensione,
un’apnea. Il discorso sulla città ha espunto i contrasti, rifiuta la dimensione antagonista come dimensione costitutiva. Le trasformazioni che stanno cambiando fortemente il carattere delle città europee sono intese come qualcosa di progressivo, di buono per tutti. La
contrapposizione è vista come fenomeno arcaico che riguarda minoranze particolarmente disagiate o connotate. C’è una concezione
dell’abitare coprente, omogenea (la città infinita e la città generica,
due formule di successo della città contemporanea, portano con sé
una tale idea). Pochi i tentativi di costruire un discorso sull’abitare
21
Ibid.
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Bianchetti, Il Novecento è davvero finito
che ne riconosca il carattere non solo plurale, ma ambivalente, per cui
stare in alcuni luoghi è stare al centro e stare ai margini; essere premiati ed essere penalizzati; godere di reciprocità e di ostilità. Qualcosa che non è buono per tutti22. Detto in altri termini, il discorso urbanistico è quieto per il modo in cui costruisce il proprio sistema di
legittimazioni e giustificazioni23, una propria ideologia24 in grado di
coinvolgere e legare a sé i soggetti che, a diversi livelli, vi sono implicati. Per una sorta di ansia a voler andare subito agli effetti, all’efficacia, alla capacità visionaria, all’adattabilità del progetto. Espressioni
chiare di un insieme di convinzioni e valori diversi da quelli del passato (che, entro uno sfondo riformista, erano essenzialmente ispirati
da idee di giustizia redistributiva, di inclusione sociale, di superamento delle inuguaglianze intese come condizioni atte a garantire il
miglior processo di riproduzione sociale). Quello che oggi osserviamo nella quiete del discorso è una confusione dei valori vecchi e nuovi, un loro riarticolarsi25. Il che rende ancora più urgente una riflessione su discorsi, legittimazioni, giustificazioni.
L’ipotesi che vorrei sostenere è che il discorso sulla città oggi sia
nella maggior parte dei casi povero e debba essere riportato all’altezza dei problemi che la città pone. Ma che per questo vada riformulato. Non basta riscoprire l’atteggiamento radicale degli anni sessanta, come fanno in molti. O riscoprire l’autonomia dell’architettura,
come fanno alcuni. O ancora celebrare una dimensione politica entusiasmandosi per un certo marxismo che sta chiassosamente tornando entro uno sfondo acquietato26. È necessario riposizionare il
discorso urbanistico nel mondo, come avrebbe detto Wittgenstein.
Coglierne gli elementi di sfrido, le contraddizioni, i paradossi nei di22
Il discorso sulla città appare oggi fondamentalmente una banalizzazione del liberismo:
non solo perché pone al centro il mercato, ma per l’equazione che pone alla sua base: poiché
viviamo in un mondo segnato da molte traiettorie e molti valori, godiamo di una condizione potenzialmente armoniosa. La prospettiva molte traiettorie-molti valori enfatizza una dimensione dialogica (è la banalizzazione dell’idea di Habermas della solidarietà tra estranei
giocata sul dialogo), nega qualsiasi dimensione antagonista, gioca tutto sull’incontro, pone
un accento particolare sul consenso (che disconosce la categoria hirschmaniana di passione e
le sue dimensioni affettive) a favore di quella razionalista di interesse.
23
Nel senso di L. Boltanski - L. Thévenot, De la justification. Les economies de la grandeur, Gallimard, Paris 1991.
24
Userò spesso questo termine nel senso precisato da Boltanski, De la critique cit.
25
Rimando al cap. IV.
26
Nell’attuale ritorno del marxismo, gli spunti più interessanti sono, quasi paradossalmente, offerti dalle nuove biografie. N. Merker, Karl Marx. Vita e opere, Laterza, RomaBari 2010, e T. Hunt, La vita rivoluzionaria di Friedrich Engels, Isbn edizioni, 2010.
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Spazi praticabili
scorsi, nelle ricerche, nei progetti volti alla città contemporanea. Cercare di rintracciare quegli elementi del mondo che non coincidono
con le interpretazioni comuni. Non è gusto per la divergenza, l’ambiguità, l’errore. Non è questo il punto. Il punto è come possa darsi
oggi un discorso critico sulla città contemporanea che mantenga una
tensione tra esigenze di una buona descrizione e orientamento normativo di una pratica sociale quale è l’urbanistica.
Il che significa che non interessa capire meglio per meglio decidere, secondo l’assunto riformista. Da tempo Pier Luigi Crosta27 ha
mostrato come una posizione di questo tipo semplifichi la conoscenza e riduca la società alla sua parodia. Interessa invece capire se,
di fronte a ciò che sta cambiando nel territorio e nella società, siamo
attrezzati a mettere in campo idee progettuali, ridefinizioni di problemi, capacità tecniche, immagini interpretative adeguate. Entro
un’idea dello spazio che, per dirla con Lefebvre, rimane «uno spettacolo letteralmente popolato di ideologia»28. Poi le cose andranno
come potranno andare. Per queste ragioni quello contenuto nelle pagine seguenti si può dire un esercizio sul discorso. A patto di riposizionare il discorso nel mondo, in modo molto aperto come un insieme vario e variabile nel tempo di prodotti, attività, mezzi, fini, usi
pubblici e privati, riti, istituzioni.
3. Osservare il mutamento.
Come valutare il cambiamento di linguaggi, di tecniche, di temi? Anthony Vidler in apertura del suo testo La deformazione dello spazio nota come alcune parole (pieghe, bolle, reti, pelli, diagrammi) abbiano rapidamente sostituito altre parole (tagli, crepe,
faglie) che a loro volta avevano sostituito il lessico e le strutture
morfologiche del razionalismo29. L’osservazione è valida anche per
il progetto urbanistico e lascia intravedere un movimento continuo. Un ripetuto scostarsi da ciò che fino a poco prima era dato per
acquisito. Ma non è solo questione di linguaggi e di tecniche. Alcuni temi sono letteralmente sfumati negli ultimi tempi. Altri sono
P. L. Crosta, Politiche. Quale conoscenza per l’azione, Franco Angeli, Milano 1998.
H. Lefebvre, La produzione dello spazio (1974), Moizzi, Milano 1976, I, p. 55.
A. Vidler, La deformazione dello spazio. Arte, architettura e disagio nella cultura moderna (2000), postmedia books, Milano 2009.
27
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Bianchetti, Il Novecento è davvero finito
stati riformulati. Altri ancora se ne aggiungono. Ad esempio il tema costitutivo del dibattito degli anni ottanta (poi ripreso da certa
architettura di paesaggio) del disegno dello spazio aperto permane
a legittimazione di operazioni di trasformazione urbana, la cui
qualità è ricondotta (riduttivamente) ad esso, ma ha perso il suo significato originario: il contrasto tra spazi aperti e chiusi è sdrammatizzato, lo stesso valore democratico, di cui lo spazio aperto era
caricato, sfuma attraversato da ansie sicuritarie che sono la forma
aggiornata delle agorafobie di fine XIX secolo. Anche il tema del
frammento, altrettanto importante, è ormai tralasciato. Sia nella
declinazione postmodernista (come ricordo di un passato, lesionato e rotto), sia nella versione modernista (come scheggia di un insieme potenzialmente completo, possibilità di un mondo futuro,
annuncio, potenzialità). Materiale di un montaggio o di una meccanica dello straniamento. Nelle pagine che seguono provo a osservare altri temi. Il persistere di alcune forme della descrizione.
L’emergere di nuovi funzionalismi. Il passaggio rapido dalla felicità privata alle consolazioni della condivisione nelle diverse forme
con le quali riemerge come qualcosa di cangiante e fragile, di poco
duraturo, privo dell’intenzionalità comunitaria come della prossimità fisica. Un’idea mistica del buon abitare. Le riscritture del pubblico, cioè il manifestarsi (nello spazio) di temi e valori ritenuti
condivisibili. La ricerca di efficacia e di provvisorietà nel progetto.
Temi che mi sono parsi avere una loro chiara riconoscibilità nell’urbanistica italiana di questi ultimi venti anni.
Osservare il mutamento è condizione obbligata. Non una facile risposta all’accusa di Eric Hobsbawm circa la poverty of theory,
spesso richiamata da Carlo Olmo. Riflettere sulla frattura che si è
data alla fine del secolo scorso è qualcosa di diverso da un gioco intellettuale, poco consono a un’attività pratica. Oggi si può effettivamente dire che il Novecento sia davvero finito. Quello sfondo «è
rimasto incompiuto, certo. Ma non sembra più impegnativo per
nessuno. Si sono infranti i codici e le norme di quel progetto. Poi
si è esaurita anche l’infrazione». «Invece di scavalcare il Novecento, lo si ignora», scrive Alfonso Berardinelli30. Anche in campo urbano quel progetto non solo è percepito come parziale, incomple30
A. Berardinelli, Casi critici. Dal postmoderno alla mutazione, Quodlibet, Macerata 2007.
In particolare l’Introduzione e «La fine del postmoderno»; le citazioni sono alle pp. 12, 32.
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Spazi praticabili
to. Ma diviene poco credibile. E, alla maggior parte, sembra importagliene poco.
Ma se il Novecento è davvero finito, rimane il compito di capire
dove esattamente ci situiamo. Quali spazi di operatività e di critica ci
è possibile praticare. Problematizzare la discontinuità di fine XX secolo e coglierne le implicazioni delinea uno straordinario programma di ricerca entro il quale si colloca anche questo esercizio, come
esercizio sulla distanza. Distanza dalle culture del progetto degli anni ottanta e novanta. Distanze diverse che non si consumano mai del
tutto e in parte si sovrappongono.
Siamo tornati spesso a riflettere sulle condizioni degli anni novanta cercando di coglierne gli aspetti nel presente31. Al di fuori di
uno storicismo anestetizzato per il quale ciò che precede si riflette su
ciò che segue. Senza presupporre alcuna benevola o malevola trasmissione. Piuttosto un corpo a corpo32. Entro una tale condizione
possiamo dire di conoscere gli anni novanta solo a partire dai nostri:
un periodo difficile anche da delimitare, al di là del riferimento rituale agli eventi del 1989 e del 2001 e sul quale ormai si esercita
un’ampia letteratura in campo storico e sociale che ha intrecciato, di
quel periodo, una buona e una cattiva fama33. Per alcuni, questi anni
rappresentano il periodo della maturazione, della rottura: anni in cui
si sono fatti finalmente i conti con lo strutturalismo, si sono abbandonate posizioni fondative, si è fatto posto a una dispersione di posizioni: plurali, meno ambiziose, caute nel frequentare utopie che
non fossero fin da subito realizzabili, diffidenti verso tradizioni.
Pronte a sdrammatizzare attriti e rotture. Un periodo di apertura e
prosperità. Un’autentica belle époque. Per altri, sono anni di evasione dalla verità, di distrazione dalla responsabilità, di diffidenza verso il disincanto dei moderni, di emozioni blande; disegnano il mondo ricco, soleggiato, splendente del postmoderno e della fine della
storia, del nuovo ordine mondiale del tardo capitalismo, libero dagli
spiriti malvagi della tradizione moderna. Per i nostalgici, sono «gli
anni che la locusta ha mangiato»34, un periodo di opportunità spre31
Le condizioni sono cambiate 2. Gli anni Novanta: alle origini della nostra quiete, Masterclass del dottorato in Urbanistica, Scuola di Dottorato dello Iuav, Venezia, 27 agosto-3 settembre 2009.
32
Harold Bloom chiarisce bene una tale condizione in L’angoscia dell’influenza. Una
teoria della poesia (1973), Feltrinelli, Milano 1983.
33
Rimando al cap. I.
34
T. Judt, L’età dell’oblio. Sulle rimozioni del ’900 (2008), Laterza, Roma-Bari 2009, p. 3.
13
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