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La radice
di Chiara Bertani
Da giorni gli operai scavano sul pendio al di sotto della strada per realizzare le fondazioni di una nuova
casa dove, nell’inverno, una baita di Luigi, vecchia di secoli, è bruciata. Il sole è caldo, malgrado i 1700
m di quota, e gli operai si fermano per asciugare il sudore e lo sguardo corre verso i ghiacciai che
chiudono la valle. I più giovani si lasciano sfuggire un sospiro quando, nelle giornate terse, si vedono
formichine nere in fila salire sul bianco del ghiaccio: ma è solo un momento. La testa si riabbassa e le
braccia riprendono il lavoro.
Yves è uno dei giovani, uno di quelli che più spesso sospirano guardando gli alpinisti. Lui è studente di
Scienze Naturali; è lì solo per aiutare il padre che operaio lo è davvero e scambierebbe pala e piccone
con piccozza e ramponi per essere anche lui una formichina nera sul bianco del ghiaccio. E allora,
mentre le braccia faticano, i pensieri si perdono sulle cime.
“Che caldo!” “Oh, lo sai che farà sempre più caldo?Vedi come si ritira il ghiacciaio?” “Quando ero
giovane, arrivava al lago. Adesso è sopra il rifugio” “Stiamo distruggendo il pianeta!” “Sì, ma sono
anche i cicli naturali: lo sai che qui c’era la strada dei mercanti verso la Svizzera e che al colle
passavano carri trainati da buoi?” “Allora non c’era tanto ghiaccio!” “No: era molto meno freddo!”
Non tutti credono alle parole di Luigi, il vecchio, anche se un po’ di credito glielo danno: legge molto, è
stato guida alpina e quelle montagne le conosce bene. Le parole servono a far passare le ore e a sentire
meno la fatica, come la borraccia di buon vino della bassa valle, tenuta al fresco nella fontana, che aiuta,
dice Luigi, a mantenere giusto il livello degli zuccheri nel sangue perché, si sa, la fatica li brucia.
A un tratto il piccone di Luigi si pianta.“Qualcuno mi aiuti. C’è una grossa radice qui! Bisogna che la
imbraghiamo: può rotolare sulla strada a valle.” Ridono, ma potrebbe capitare. Così, vanno ad aiutare
Luigi e liberano dal terreno la radice. Poi ne emergono altre, come un filare.
Sono molto vecchie, asciutte e rugose come i visi dei montanari, contorte per abbarbicarsi al terreno in
pendenza, ma non sono abeti. Gli uomini le guardano , poi Yves azzarda “Viti!?”. Sì, sono viti e allora
Luigi ricorda quando, bambino, nella stalla, aveva trovato oggetti strani e il bisnonno gli aveva detto che
erano antichi e servivano per fare il vino che adesso non si faceva più perché le viti al freddo non
crescono. Sono euforici e l’allegria continua durante la pausa pranzo. Oggi rifiutano il menu- lavoro: per
festeggiare il ritrovamento delle viti, pranzano alla carta. Lardo e mocetta con castagne e miele (e una
bottiglia di Torette), soupa di cavolo e fontina (e un’altra bottiglia di Torette, ma questa volta superieur),
polenta con carbonada (la bottiglia è offerta dall’oste), crostata e caffè, ovviamente con la grappa.
Lucien non è abituato a bere; è intorpidito dal cibo abbondante e dal caldo e, fra le risa degli altri,
tornato al cantiere, si piazza all’ombra di un abete e si addormenta. Presto non è più sotto un abete, ma
tra filari di viti che terrazzano il pendio. I grappoli non sono belli come quelli della bassa valle ma, si sa,
qui è più alto e fa più freddo. Più su, sulla strada, passano carri dalle alte ruote, trainati da buoi, carichi
di balle di lana grezza e stoffe che arrivano dalla pianura. I mercanti si fermano per fare provvista di quel
buon pane di segale che durerà per tutto il viaggio e riempire gli otri di pelle con l’ultimo vino che si
può trovare lungo la strada per la Svizzera perché, si sa, il vino aiuta a combattere il freddo e la fatica.
Yves guarda verso il valico: il viola delle eriche crea chiazze di colore sul verde delle praterie in cui
pascolano le mandrie e solo in alto splendono i ghiacci. Un sorriso illumina il volto di Yves. “Svegliati!
Si torna a casa.” E’ stato l’effetto del buon cibo e del buon vino o davvero ha vissuto, per un attimo, un
tempo lontano?
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