Eliana Adler Segre Imparare a dirsi addio: Quando una vita volge al

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Eliana Adler Segre Imparare a dirsi addio: Quando una vita volge al
Per amore del mondo 4 (2005) ISSN 2384-8944 http://www.diotimafilosofe.it
Elena Urgnani
Eliana Adler Segre Imparare a dirsi addio.
Quando una vita volge al termine: guida per familiari, operatori,
sanitari, volontari
(Milano: Proedi editore, 2005)
Di quanto si è innalzata la vita media nella civiltà europea? Non so quanto ne siamo
consapevoli, ma: se nel 1901 l’aspettativa media di vita in Italia era di circa 43 anni, ora si aggira
sugli 80. Si può dire che sia raddoppiata. Una volta gli ottantenni erano davvero pochi, ma oggi, con
le terapie a disposizione, un reddito medio consente tutte le prevenzioni necessarie a prolungare la
vita, anche se non sempre in buona salute. Come è cambiato nel frattempo il nostro rapporto con la
morte? Con il simbolico della morte? Con la consapevolezza della morte e della finitudine?
Allontanare la morte nel tempo non serve a scongiurarla, e infatti in fondo sappiamo bene che
questa sorte ci è riservata. Nascita e morte sono i due grandi eventi limite della vita, da quando
nasciamo abbiamo una sola certezza: dobbiamo morire, tutto il resto non ha lo stesso grado di
certezza; possiamo per esempio andare a scuola o no, decidere di studiare o no, sposarci o no,
mettere al mondo figli oppure no, ma sicuramente prima o poi il solo fatto di essere nati ci porterà a
morire. Eppure… è come se questo evento ci cogliesse sempre impreparati, come fosse sempre un
fatto eccezionale. Questo è un problema culturale, e di questo si occupa il libro di Eliana Adler
Segre, psicoanalista e psicoterapeuta. La morte è l’ultimo grande tabù della nostra civiltà. Parlare di
sesso oggi è infatti quasi sempre ammesso da un punto di vista sociale, ma parlare di morte no:
imbarazza l’interlocutore, “non sta bene”.
La morte, ma soprattutto il percorso di malattia che spesso l’accompagna, è invece l’oggetto
di questo libro, che studia in modo prioritario il caso estremo dei malati di AIDS, per i quali il
percorso di vita si trova improvvisamente accorciato, con tutti i problemi di rifiuto e di esclusione
sociale che questo comporta all’interno del “contesto civile”, e tuttavia il saggio si pone anche come
una riflessione più generale sul significato della morte e soprattutto sui suoi effetti relazionali nella
vita dei viventi.
Prima di arrivare alla morte esiste infatti un percorso, che oggi è sempre più lungo, fatto di
malattie più o meno gravi, ma con una caratteristica comune: sono infatti malattie irreversibili, che
non prevedono la guarigione completa, ma soltanto la possibilità di convivere con esse. Esiste
inoltre un contesto familiare all’interno del quale si sviluppa la malattia, e che spesso non è
attrezzato culturalmente per far fronte a questo evento, sempre considerato e vissuto come
eccedente la “normalità” del vissuto quotidiano.
Quasi sempre sono le donne di famiglia a farsi carico dell’accompagnamento del malato
terminale o del moribondo, o dell’handicappato irreversibile, oppure tradizionalmente la nostra
cultura ha appaltato ai religiosi il conforto e la salute psichica del malato terminale. Si pensi
soltanto all’obbligo che hanno per legge tutti gli ospedali pubblici italiani di accogliere al loro
interno una chiesa cattolica, con il risultato spesso di far sentire ancora più spaesato chi non si
avvale del conforto di questa particolare confessione. È capitato anche a me di essere ricoverata per
un intervento chirurgico, e il giorno successivo di ricevere la “visita di conforto” non richiesta del
prete nel reparto, rivolta indifferentemente a tutti, ne sono rimasta piuttosto infastidita. All’interno
degli ospedali il religioso cattolico viene in corsia, magari con il camice bianco per confondersi con
i medici, e chiede a tutti (cattolici e no), come stanno e se hanno bisogno di qualcosa. Ma oggi si
sente francamente l’esigenza di un approccio più laico, che senza negare il conforto religioso a chi
lo desidera, offra la possibilità di un punto di vista differente, più laico ma anche più mirato, rispetto
al dolore, ai bisogni e alle dinamiche psicologiche di chi sta morendo e/o di chi lo assiste: operatori
sanitari, volontari o no, dovrebbero avere familiarità con le dinamiche psicologiche dei morenti,
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quindi parlarne non è inutile.
Superare il tabù, riuscire a immaginarsi il percorso, e soprattutto riuscire a parlarne, è
importantissimo, sia per il malato, sia per chi lo assiste, al contrario rimuovere il discorso, come
tendiamo tutti a fare, significa ritrovarsi impreparati di fronte ad un evento normalissimo, che prima
o poi ci coinvolgerà, sia in quanto mortali, sia in quanto accompagnatori di mortali.
Alcune persone hanno una particolare serenità nell’affrontare malattia, vecchiaia, morte, altre
ne sono angosciate. Ricordo che uno dei motivi per cui ho sempre ammirato mia nonna Carla era
proprio l’assoluta naturalezza e la serenità con cui riusciva a parlare della propria morte. Cominciò
a parlarne, senza drammi, almeno trent’anni prima di morire. Invecchiare, diceva lei, è solo l’arte di
adattarsi: se volessi continuare a fare ora quello che facevo vent’anni fa, se volessi paragonarmi a
voi, fare quello che fate voi giovani, sarei una persona infelice, invece se mi pongo obiettivi
possibili, e provo ad attrezzarmi in vista di questi, sono ancora una persona felice, che può godere di
quanto la vita le può ancora offrire. Con questa filosofia ha tenuto in vita mio nonno fino a 92 anni,
e lei si è spenta abbastanza serenamente a 90 anni. Nessuno dei due aveva mai preso un farmaco
antidepressivo. Forse perché quella donna era riuscita a passare apparentemente indenne attraverso
la spagnola prima (si era ammalata ma era riuscita a guarire) e due guerre mondiali dopo (era nata
nel 1900), aveva sviluppato una forza d’animo che mi ha sempre colpito.
Oggi noi siamo molto più fragili, la nostra capacità di invecchiare è minima, i modelli
pubblicitari sono imperanti e ci parlano di un’umanità perfetta, di famiglie stile “mulino bianco”, di
figli attenti che arrivano subito, non appena il “salvavita Beghelli” risuona all’orecchio, la malattia e
la morte sono tabù sociali dei quali è più elegante non parlare.
Il libro della Dottoressa Segre mette a fuoco gli aspetti comunicazionali
dell’accompagnamento alla morte, i diversi linguaggi agiti dal malato e dalla famiglia o dagli
operatori sociali nei suoi confronti, una comunicazione che non è soltanto verbale, ma spesso anche
empatica, fatta magari sempre meno di ragionamenti, e sempre più di gesti, di rassicurazioni,
magari di abbracci.
I malati sembrano guidati da un “sesto senso” a scegliere la persona che sarà per loro
l’accompagnatore, e non è un ruolo da poco: l’accompagnatore deve farsi carico dei bisogni del
malato, pur senza soccombere ad essi, e ciò significa condividerli, senza identificarsi
completamente con lui. “Bisogna superare la colpa della propria impotenza di fronte alla morte e
alla paura dei malati, per poter aiutare. Meccanismi di proiezione e di identificazione bloccano
l’aiuto” (pp. 48-49). Spesso un malato grave o terminale è invece schivato da vecchi amici o da
parenti anche stretti, ma dietro questo comportamento esistono motivazioni che è troppo riduttivo
definire egoiste o meschine, dietro questi comportamenti esiste infatti una vera e propria ansia di
inadeguatezza; come scrive la Segre, “il malato procura dolore e ansia anche a chi lo circonda, per
cui nella maggior parte dei casi viene distanziato per autodifesa: il processo del morire non è
accettato come un evento della vita” (p. 83).
Oltre ad avanzare questo genere di considerazioni, il libro tenta di analizzare e spiegare in
modo concreto le dinamiche psicologiche niente affatto semplici del malato e dei suoi familiari:
“quando gli animi sono esasperati dal peso e dalla gravità della malattia, emergono giochi familiari,
codici e regole che affondano le radici nella storia della famiglia. (…) inevitabilmente si creano
contrasti e giochi di potere” fondati sulla storia e sui miti di quella particolare famiglia. Il personale
medico deve inserirsi in questa dinamica, che li chiama in causa come persone.
Particolarmente interessante il concetto di “mito familiare”, uno strumento concettuale che
consente alla famiglia di sopravvivere al dolore: i miti familiari “possono assumere forma di storie
riguardanti i membri della famiglia e i loro rapporti, di convinzioni condivise e accettate, anche se
false e illusorie. I miti familiari devono infatti negare o nascondere relazioni passate e presenti,
servono ad assolvere funzione di difesa all'interno della famiglia e funzione di protezione verso il
giudizio del mondo esterno. I familiari, insieme, travisano la loro realtà e per evitare dolore e
conflitti, negano, razionalizzano o nascondono il male che si sono causati l’un l’altro. Le funzioni di
protezione subentrano nelle relazioni con gli estranei e, attraverso la negazione e l’occultamento,
fissano l’ambito entro cui è consentito al pubblico percepire e giudicare la famiglia” (p. 94).
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Diventa evidente a questo punto la necessità vitale per l’operatore sanitario di sviluppare una
consapevolezza di questi miti, che sono appunto diversi da famiglia a famiglia, ma che agiscono sia
nei rapporti dei familiari fra loro, che nei rapporti fra familiari e operatori sanitari, e diventano
particolarmente attivi nel momento dello stress provocato dalla malattia. Non sempre infatti la
malattia rappresenta l’occasione per superare le recriminazioni e le accuse reciproche fra il malato e
la sua famiglia, soprattutto quando anni di conflitto e non comunicazione hanno minato i rapporti.
Soltanto se la famiglia riesce a far affiorare progressivamente, sino a renderla dominante, la “parte
buona”, legata a ricordi positivi, barriere ritenute insormontabili cadono, cedono il posto a rapporti
di comprensione, di perdono e di affetto (p. 97). Del resto non vi è solo l’eventualità che il malato
sia ritenuto “colpevole” o quanto meno “responsabile” della propria malattia, esiste infatti anche il
rischio opposto: l’iperprotettività uccide, è il caso di quei parenti che si oppongano a una franca
spiegazione della malattia, lasciando l’ammalato in preda ad ansia e condannandolo a morire
emotivamente solo, con il dolore e la paura della propria morte, pur essendo parte di una famiglia
che l’ama molto, e curato da un’équipe professionalmente preparata e disponibile. La negazione, il
silenzio, l’omertà generano infatti in tutti paura e frustrazione.
Nel libro della Segre appare sempre evidente la necessità di mettere a fuoco non solo i bisogni
psicologici dei morenti o di coloro che vivono la fase terminale di una malattia irreversibile, ma
anche quelle dei loro familiari. “La malattia grave crea nei familiari del morente un profondo
disorientamento, un senso d’insicurezza che li porta ad “usare” la malattia del paziente loro
congiunto soprattutto per aver risposta ai loro personali malanni e bisogni e per non venire
abbandonati. Vorrebbero insomma che il medico diventasse il “guaritore” di tutta la famiglia. E
d’altra parte, per quanto estrema e ingiustificata sia questa richiesta, non si può escludere la
famiglia dal quadro terapeutico: le risposte della famiglia alla malattia terminale influenzano
l’andamento terapeutico del malato. “I familiari riescono ad accettare con fatica, non solo la
decadenza fisica del paziente, ma soprattutto il decadimento delle sue capacità mentali, gli stati
confusionali o deliranti” (p. 115), e questo nel massimo rispetto e nella massima consapevolezza di
quanto i sentimenti dei familiari non possano e non debbano essere giudicati. Nel capitolo rivolto
agli assistenti sanitari, si legge infatti: “Nei familiari, i sentimenti che accompagnano la fine di un
percorso di accompagnamento sono molto complessi e legati ai rapporti che intercorrevano
all’interno della famiglia, a volte alla perdita di sicurezza, al risentimento di dover restare soli, a
un’ambivalenza di sentimenti che sono propri e che nessun assistente o curante ha diritto di
sindacare e tanto meno di giudicare” (p. 137). La consapevolezza dell’esistenza dei sentimenti non
implica perciò un giudizio da parte dell’operatore sanitario. Più grave ancora il caso in cui la
famiglia non esista o non sia disponibile a farsi carico dell’accompagnamento: in questo caso
l’operatore sanitario ne diventa volente o nolente il sostituto, e non sempre è attrezzato per fare
fronte a un’eventualità così pesante.
Per concludere, direi dunque che il saggio della dottoressa Segre costituisce un utile spunto di
riflessione sul problema dell’accompagnamento alla morte, dove l’esistenza delle classiche fasi di
accettazione del dolore: negazione, ribellione, patteggiamento o mercanteggiamento, depressione e
isolamento, e quindi accettazione della propria morte (o della morte del familiare che si
“accompagna”), vengono esaminate attraverso casi concreti, e dai diversi punti di vista dei soggetti
coinvolti in questo processo: il malato/la malata, i familiari, il personale medico. Le diverse
funzioni e relazioni fra questi soggetti, la loro comunicazione più o meno limpida, le loro
aspettative reciproche, costituiscono parte integrante del il processo di accompagnamento verso
l’accettazione del dolore e la consapevolezza della morte. È un libro per familiari, malati, e
operatori, che non potrà risolvere tutti i problemi legati a una pratica medica e relazionale fra le più
delicate, ma che certo costituisce una preziosa fonte di suggerimento per i soggetti coinvolti.
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