Vivere il morire - Associazione Maria Bianchi
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Vivere il morire - Associazione Maria Bianchi
ACCANTO A CHI SOFFRE: percorso di avvicinamento al malato inguaribile Nicola Ferrari, Associazione Maria Bianchi 1- Così lontano, così vicino I malati inguaribili, la fase terminale della vita, il dolore cronico, la sofferenza fisicaaffettiva-sociale-mentale: tutte realtà che, oltre a provocare ansia e allontanamento, sembrano bloccare qualunque pensiero, attività, iniziativa. Per queste persone - ma facilmente, se si eccettuano le morti violente ed improvvise, anche noi vivremo questo periodo-, intorno alla loro vita, spesso un’unica realtà: il deserto. Deserto d’istituzioni e servizi (quanta strada deve ancora fare l’assistenza domiciliare), deserto d’affetti e amicizie, deserto di riflessioni. S’intersecano problemi organizzativi-economici, politici, culturali, formativi che vanno a formare il vuoto intorno a migliaia di famiglie ogni anno in Italia e in qualunque parte del mondo -basti pensare ai nuclei famigliari che hanno un malato di tumore o di Aids; ma soprattutto è la paura che c’impedisce di avvicinare queste situazioni. Non sapere cosa dire, che fare, preoccupati di incontrare situazioni fuori dal nostro concetto di vita, in ansia per il senso d’inadeguatezza che la situazione nuova comporta, timorosi di non sapere controllare il flusso d’emozioni che tutto questo può scatenare in noi, impreparati a considerare il dolore, il lutto, la morte come cammino di vita. Diventa allora necessario conoscere, conoscerci: cercare di capire come vive e cosa sente una persona che percorre l’ultimo tratto del cammino su questa terra e allo stesso tempo pensare, o meglio, ripensare a noi stessi, le fondamenta, la sorgente, il senso. Proviamo a ricordarci di quando siamo stati malati di una malattia non grave, ‘normale’ ma che ha interrotto bruscamente il nostro lavoro, i progetti, la possibilità di uscire, andare al cinema, dedicarci alle persone che amiamo; in quei momenti, se abbiamo avuto la fortuna di “restare dentro” a quella situazione senza aspettare noiosamente la guarigione (leggendo, ascoltando la radio...) forse siamo riusciti ad intuire. Un’intuizione magari confusa, discontinua ma penetrante, un’intuizione che ci suggeriva che forse potremmo vivere dignitosamente senza tante delle cose che riteniamo importanti: gli hobbies, i viaggi, la televisione...ma di qualcosa d’altro non possiamo farne a meno, pena la vertiginosa caduta qualitativa e di senso della nostra stessa vita. E, forse, questo nocciolo essenziale è costituito dall’immenso mondo degli affetti e dalla preoccupazione di non aver stabilito una giusta gerarchia di valori (con le conseguenti scelte concrete) nel tran-tran della vita quotidiana. Tutto questo per una prima indicazione: chi vuole restare accanto a chi muore deve, prima di tutto, considerare queste persone non come altro da sé, immerse in altri mondi e 1 altre storie. Essere disponibili invece ad entrare in contatto con la vita che pulsa e con tanto di ciò che spesso lasciamo ai margini nelle nostre giornate: il significato delle azioni, il valore delle scelte, le relazioni, gli amori, l’amicizia, il dono di noi agli altri, il bisogno di sentirsi amati, la voglia di dare senso e spessore alla quotidianità, ciò che ci sovrasta, dentro o fuori di noi. Quasi a dire che il primo, fondamentale modo di aiutare chi ci sta lasciando non va cercato in chissà quali regole e formule magiche da applicare scientificamente ma nella nostra capacità di entrare in contatto con noi stessi, la nostra vita interiore, i nostri pensieri. E non solo: impegnarsi a vivere ‘bene’ cioè pienamente, in coerenza con ciò che riteniamo importante, cercando di fare quello che ci realizza, coltivando la vita che vorremmo; questo allarga come uno spazio interno e permette ad ognuno di noi di fare entrare anche il dolore, la sofferenza, l’impotenza. Perché è vero, è così vero che è impossibile da dimostrare: una vita piena, intensa, facilita, non risolve, la convivenza tra amore e morte, gioia e disperazione. Così lontano - così vicino è paradossalmente l’impegno iniziale che possiamo attuare nei confronti di chi soffre: vivere come crediamo debba essere per noi una vita vera lontano dal dolore, per poter essere poi vicini, quando sarà il momento, accanto a chi ha bisogno in maniera lucida, consapevole, autentica. 2-Esserci Si diceva della paura, di questo meccanismo che ci allontana molto più di altri dalle case e dai letti di chi è gravemente malato. E’ infatti ciò che non conosciamo che spesso ci spaventa: diventa allora prioritario iniziare a conoscere il vissuto interiore di queste persone per un primo tentativo di ‘comprensione’. Molti studi sono stati fatti a proposito: il più famoso è di Elizabeth Kubler-Ross, una dottoressa che rappresenta l’autentico passaggio obbligato per chi si interessa dell’aiuto relazionale ai malati terminali. La sua ricerca, realizzata in un piccolo ospedale inglese, ha fatto il giro del mondo: è a lei infatti che si deve la scoperta e l’analisi di una serie di meccanismi di difesa che la persona umana, indipendentemente dalla religione, età, sesso, cultura... attraversa quando va verso la fine della vita. E, si badi bene, sono meccanismi non elaborati a tavolino ma desunti da centinaia di contatti avuti con pazienti morenti: interviste, colloqui diretti, questionari, domande, richieste..., un immenso patrimonio di rapporti avuti dalla Kubler-Ross e da una piccola équipe di neo-laureandi in medicina. Si tratta quindi non di una teoria ma della sistemazione organica e compiuta di un’esperienza reale. Addirittura la dottoressa, una volta pubblicata la sua ricerca, neanche pensava che i risultati potessero valere per malati d’altri continenti, di diverse religioni e culture; fu invece il clamore suscitato dai dati emersi che stimolò moltissimi operatori socio-sanitari, parenti, volontari a confrontarsi con la sua proposta. La conferma della 2 validità del suo lavoro, pur con gli inevitabili perfezionamenti e approfondimenti che sempre si susseguono, fu pressoché unanime. Il centro della proposta della Kubler-Ross risiede nell’avere individuato diversi meccanismi di difesa che la mente umana possiede come in dotazione e che servono, se adeguatamente elaborati, per arrivare a potere affrontare la realtà del morire in maniera consapevole (il che non significa necessariamente serena). E’ importante qui cogliere il senso complessivo di quest’indagine: non è certo un desiderio speculativo-culturale ma l’avere scoperto, perché di questo si è trattato, che si può aiutare una persona a ‘vivere il morire’ senza dovere dare vuoti incoraggiamenti, speranze per il futuro, verità calate dall’alto, utopistiche e presuntuose indicazioni comportamentali, per quanto rettamente intesi e onestamente proposte. E’ certamente un traguardo complesso ma possibile, un impegno che solo per paura si etichetta come irraggiungibile, forse proprio per autogiustificarsi e convincersi così che neanche vale la pena impegnarsi. VIVERE IL MORIRE: i 5 stadi di Elisabeth Kubler-Ross La psichiatra Elisabeth Kubler-Ross rappresenta dunque il punto di riferimento praticamente obbligato per chi s’interessa, a qualunque livello, del processo del morire. I suoi pluridecennali contatti con persone al termine della vita, l’hanno portata ad elaborare uno studio (pubblicato nel famosissimo libro ‘La morte e il morire’) che consiste nell’avere individuato 5 famosi meccanismi di difesa che l’essere umano ha ‘in dotazione’ quando si affronta la possibilità della morte imminente: shock-rifiuto-isolamento, collera, patteggiamento, depressione, accettazione. Un primo tentativo di ‘avvicinamento al mondo del malato non può che iniziare dall’analisi di questi meccanismi di difesa. PRIMA FASE: RIFIUTO E ISOLAMENTO La prima reazione del malato di fronte alla consapevolezza di avere una malattia mortale può essere un temporaneo stato di shock, dal quale egli esce a poco a poco. Quando il suo iniziale senso di torpore comincia a svanire ed egli può ritrovare le sue energie, la consueta risposta è: “ No, non posso essere io”. .Un rifiuto più o meno ansioso sarà determinato dal modo in cui il malato viene informato, dal tempo che ha a disposizione 3 per riconoscere gradualmente l’inevitabile evento e da come si è preparato durante la vita ad affrontare le situazioni dolorose e difficili. Il rifiuto è una difesa temporanea e ha la funzione di “paracolpi”: permette al malato di ritrovare coraggio e, col tempo, di mobilitare altre difese. Viene presto sostituito da una parziale accettazione, pur ripresentandosi di tanto in tanto, anche durante le fasi avanzate della malattia. Questi malati, infatti, possono considerare la possibilità della propria morte per un po’ di tempo, ma poi devono accantonare questa considerazione per poter continuare a vivere. Secondo Elisabeth Kubler-Ross, è più opportuno parlare della morte e del morire con i malati - se mostrano di desiderarlo - molto prima che la cosa stia realmente avvenendo. Un individuo sano e forte può affrontare meglio e con maggior coraggio quest’argomento ed anche per la famiglia è più facile discuterne in tempi di relativo benessere. Rimandare tali conversazioni molto spesso non va a beneficio del malato, ma serve ai nostri meccanismi di difesa. Occorrono sensibilità e intuizione per riconoscere i momenti in cui il malato assume la realtà della situazione e i momenti in cui preferisce guardare a qualcosa di più vivace e piacevole: in tal caso permettiamogli di fantasticare su cose più felici, anche se improbabili, senza fargli notare le contraddizioni. In questo modo gli consentiremo di guardare in faccia la morte pur conservando la speranza. Passando le settimane, al rifiuto subentra spesso l’isolamento dal mondo circostante, vissuto come ostacolo alla realizzazione dei desideri di guarigione e di salute. SECONDA FASE: LA COLLERA Quando la prima fase di rifiuto non può più durare, è sostituita da sentimenti di rabbia, invidia, risentimento. Il malato si chiede: “Perché proprio io?”. Questa fase è molto difficile da affrontare dal punto di vista della famiglia e del personale, in quanto la collera è proiettata in tutte le direzioni e sull’ambiente, spesso in maniera indistinta. I familiari che vanno a far visita al malato sono ricevuti con freddezza, con indifferenza, il che rende l’incontro penoso; allora essi reagiscono con sensi di colpa, lacrime, dolore, oppure evitano di tornare, aumentando lo sconforto del malato. Il problema è che poche persone si mettono nei panni del malato e si domandano l’origine del suo risentimento. Egli vede attorno a sé la vita che continua, mentre la sua vita sta per finire prematuramente e tutto ciò per cui ha lavorato gli è negato. Vuole inoltre rassicurarsi che non sarà dimenticato: alza la voce, reclama, pretende maggiore attenzione. Un malato rispettato e compreso, cui si dedica attenzione e tempo, abbasserà presto la voce e diminuirà i suoi rabbiosi reclami. Saprà di essere una persona preziosa, curata, cui si permette d’essere attivo al massimo grado possibile, finché può. Dobbiamo imparare ad ascoltare i malati ed anche ad accettare qualche collera irrazionale sapendo che il sollievo 4 che ne deriverà per loro li aiuterà a sopportare meglio le ultime ore; ma questo lo possiamo fare solo se prima avremo affrontato la nostra paura della morte, i nostri desideri distruttivi e avremo preso coscienza delle nostre difese, che molto possono interferire sul modo in cui trattiamo il malato. TERZA FASE: VENIRE A PATTI La terza fase, quella del compromesso, è meno nota ma egualmente importante per il malato. Il malato senza speranza s’illude di poter fare una specie d’accordo che possa rimandare l’inevitabile evento: “Se Dio ha deciso di togliermi da questo mondo e non risponde alle mie arrabbiate suppliche, forse sarà meglio disposto se glielo chiedo con delicatezza”. Il malato sa in ogni modo, attraverso sue precedenti esperienze, di avere una piccolissima probabilità di essere ricompensato per buona condotta e di avere concessioni per “servizi speciali”. Il suo desiderio è quasi sempre il prolungamento della vita, seguito da quello di essere per alcuni giorni liberato dal dolore o dal disagio fisico. Il venire a patti è un tentativo di dilazionare: include un premio offerto “per buona condotta”, pone anche un determinato limite di tempo che gli consenta di fare una cosa che gli sta particolarmente a cuore e include una promessa implicita che non chiederà di più se gli sarà concessa questa dilazione (anche se, in fondo, la promessa non verrà mai mantenuta). I patti sono generalmente fatti con Dio e per lo più tenuti segreti, menzionati tra le righe o confidati ad un sacerdote. Gran parte dei malati promette “una vita dedicata a Dio”, oppure il “dono del proprio corpo alla scienza” in cambio di un po’ di tempo in più da vivere. Psicologicamente le promesse si possono collegare con qualche senso di colpa nascosto e sarebbe quindi utile che i commenti fatti dai malati non fossero sottovalutati, per capire se ci sono dei desideri inconsci che gli impediscono di acquisire una certa serenità. QUARTA FASE: LA DEPRESSIONE Quando il malato incurabile non può più negare la sua malattia, quando è costretto a subire altri interventi o il ricovero, quando comincia ad avere sintomi o diviene più debole o più magro, non può più essere disinvolto o sorridente. In primo luogo prende coscienza della grave perdita che subisce: una donna con un cancro al seno può reagire al fatto che la sua figura rimanga danneggiata, una con un cancro all’utero può sentire di non essere più donna. Inoltre si aggiungono spesso altri motivi di depressione: il peso finanziario delle cure e del ricovero che può costringere il malato a vendere tutto ciò che possiede, la perdita del lavoro, la separazione dai familiari. 5 Tuttavia, una volta intuita la causa della depressione, è possibile mitigare parzialmente il senso irrealistico di colpa o di vergogna che nasce nel malato. Ad esempio, nel caso di una donna che si preoccupa di non essere più ‘donna’, si possono fare dei delicati e semplici complimenti per qualche tratto particolarmente femminile, parlare dei suoi problemi col marito in modo che l’aiuti a conservare la stima di sé, occuparsi dei bisogni della sua famiglia per aiutarla ad essere più serena. Ma non dobbiamo dimenticare un secondo tipo di depressione causata dal dolore che il malato vicino alla morte deve affrontare per prepararsi alla sua ultima separazione da questo mondo. Questo tipo di depressione è molto diverso dal precedente e va trattato in modo diverso: non si presenta come il risultato di una perdita subita, ma prende in considerazione le perdite che stanno per accadere. La nostra reazione iniziale verso le persone tristi è generalmente quella di cercare di incoraggiarle dicendo loro di guardare il lato gioioso della vita, le cose vivaci, positive che sono intorno a loro. Questa è spesso l’espressione dei nostri bisogni, della nostra incapacità a tollerare un viso “lungo” per un periodo di tempo prolungato e può essere un modo utile di accostare il malato solo quando si tratta del primo tipo di depressione. Al contrario, quando la depressione è un modo per prepararsi all’imminente perdita di tutti gli oggetti del proprio amore, forse non occorre più tanto incoraggiare e rassicurare. Non si dovrebbe incoraggiare il malato a guardare il lato gioioso delle cose, poiché questo significherebbe per lui non contemplare la morte imminente. Sarebbe controindicato dirgli di non essere triste, poiché tutti noi siamo tremendamente tristi quando perdiamo una persona cara. Il malato è in procinto di perdere tutte le cose e le persone che ama. Permettendogli di esprimere il suo dolore, troverà alla fine meno difficile accettare e sarà grato a coloro che sapranno stare con lui durante la fase depressiva, senza dirgli costantemente di non essere triste. Il secondo tipo di depressione è generalmente di carattere silenzioso, in contrasto con il primo tipo durante il quale il malato ha tanto da comunicare e richiede molte interazioni verbali. Nel dolore che prepara la morte c’è bisogno di poche parole o addirittura di nessuna: questo è il momento in cui troppa interferenza da parte di visitatori che cerchino di rallegrarlo ostacola la sua preparazione emotiva invece di intensificarla. QUINTA FASE: L’ ACCETTAZIONE Se un malato ha il tempo sufficiente (cioè non una morte improvvisa) e viene aiutato a superare le fasi precedenti, può raggiungere uno stadio nel quale non sarà né depresso né arrabbiato per il suo “destino” e può contemplare la sua prossima fine. Sarà stanco e molto debole, si assopirà spesso, ma ciò non significa che egli abbandonerà del tutto la speranza. L’accettazione non deve essere scambiata con una fase felice: è quasi un vuoto di sentimenti. 6 “E’ come se il dolore se ne sia andato, la lotta sia finita e venga il tempo per il riposo finale prima del lungo viaggio”. Questo è il tempo in cui generalmente la famiglia ha bisogno d’aiuto e di comprensione più del malato stesso. Il malato ha trovato un po’ di pace, desidera essere lasciato solo o per lo meno non essere agitato da notizie e problemi del mondo esterno. Le visite spesso non sono desiderate e, se vengono, il malato non ha più voglia di parlare. Tuttavia è importante che egli senta che può contare su di noi, che non ci pesa stare in silenzio o stringergli la mano: deve sapere che gli saremo vicini sino alla fine. Ci sono alcuni malati che lottano fino all’ultimo e conservano una speranza che rende loro quasi impossibile raggiungere questo stadio di accettazione. La maggioranza invece smette di lottare e accetta la morte senza disperazione, senza paura. E’ importante saper distinguere due casi diversi: 1) il caso in cui il malato rinuncia prematuramente a lottare quando avrebbe ancora la possibilità di prolungare la propria vita e quindi va incoraggiato a sperare, a non lasciarsi andare; 2) il caso in cui il malato è arrivato ad accettare la fine ed il suo unico desiderio è riposare e morire in pace. In questo momento così delicato per lui è molto importante l’atteggiamento che assumono le persone che gli stanno accanto: molto spesso i familiari interpretano l’ ”accettazione” del malato come una rinuncia codarda o peggio ancora come un rifiuto nei confronti di coloro che desiderano la sua salute e reagiscono drammaticamente a questo normale e sano distacco. Si rende un gran servizio ai familiari se si aiutano a comprendere l’immenso impegno che è richiesto per raggiungere questa fase d’accettazione e il fatto che il progressivo distacco porterà il malato ad una morte più serena. In genere le persone anziane raggiungono questo traguardo con maggiore facilità e con poco aiuto da parte dell’ambiente. Si sentono alla fine della vita, hanno lavorato, allevato i figli, sofferto e provano un senso di soddisfazione quando ripensano agli anni di lavoro. Altri possono raggiungere questo stato quando hanno il tempo sufficiente per prepararsi alla morte ma avranno bisogno di maggiore aiuto e comprensione da parte dell’ambiente per superare tutte le fasi descritte. LA SPERANZA L’unica costante che permane attraverso tutte le fasi è la speranza. Ogni malato, anche quello meglio disposto ad accettare, lascia aperta la possibilità per qualche cura, per la scoperta di una nuova medicina o s’illude, a volte, che tutto sia un incubo dal quale un giorno si sveglierà. E’ un modo per conservare il coraggio, per superare i periodi più difficili. 7 Ecco perché in genere i malati mostrano la massima fiducia nei medici che permettono loro tale speranza. Questo non significa che i medici devono mentire ai malati, significa semplicemente condividere con loro la speranza. Anche nei momenti più critici, in cui sembra che non ci sia più nulla da fare, il malato non deve mai sentirsi abbandonato dal medico, deve essere certo di continuare a ricevere le cure più efficaci, sentirsi appoggiato e confortato. E’ fondamentale che anche il personale ospedaliero e la famiglia trasmettano fiducia al malato quando ne ha ancora bisogno. Quando invece un malato cessa di esprimere una speranza, di solito è segno di morte imminente. In tal caso non bisogna incoraggiarlo a sperare: il malato è pronto a morire e non deve essere turbato dalla nostra incapacità ad accettare questo fatto. L’analisi della Kubler-Ross ha letteralmente fatto il giro del mondo ed è stata in maniera pressoché unanime riconosciuta come reale e valida da medici, infermieri, volontari, parenti e da chi, a qualunque livello, ha avuto e ha a che fare con persone che si avvicinano alla fine della loro vita. Naturalmente, come spesso succede in questi casi, altri studi e ricerche si sono susseguite, arrivando a specificare e mettere in evidenza con sempre maggiore sensibilità e precisione la proposta della dottoressa svizzera: l’analisi complessivo di questo periodo della vita e le relative implicazioni relazionali restano in ogni caso sempre di grandissima utilità e valore. In seguito la Kubler-Ross si è dedicata, ed era forse inevitabile, ad altre dimensioni del morire: le esperienze di morte apparente, i contatti con i defunti, la premorte...lasciando sovente un pò perplessi (vd. ‘La vita dopo la morte’ o l’autobiografico ‘L’anello della vita’, ed. Frassinelli). Ma un dato emerge prepotentemente dalla sua analisi e, in fin dei conti, da tutta la sua vita: in qualunque momento, la capacità di stabilire rapporti umani sinceri e profondi con la persona gravemente malata costituisce il vero nucleo dell’aiuto. Non importa che ruolo possiamo avere: familiari e parenti, operatori sociali e sanitari, volontari, amici, colleghi di lavor… La qualità dei nostri rapporti ‘accanto’ al malato terminale influisce (e c’è chi afferma che determina) la qualità della vita che ancora si può vivere. Credo però che non ci sia niente di più efficace del leggere parte del testamento di questa straordinaria dottoressa, ormai in fin di vita: ‘La morte in se stessa è una meravigliosa e positiva esperienza, ma il processo del morire, quando si prolunga come nel mio caso, è un incubo. Esaurisce tutte le facoltà, soprattutto la pazienza, la perseveranza e l’obiettività. Per tutto il 1996 ho lottato con il costante dolore e le limitazioni delle mie paralisi. Ho bisogno di assistenza ventiquattrore su ventiquattro Se suonano alla porta di casa, non posso andare ad aprire. E la privacy? E’ ormai cosa del passato. Dopo tanti anni di assoluta indipendenza, è una lezione difficile da imparare. La gente entra, esce. Certe volte casa mia sembra la Grand Central Station, altre volte è troppo silenziosa. Che razza di vita è questa? Una vita miserabile. Nel gennaio del 1997, data di stesura di questo testo, posso dire in tutta onestà che sono 8 ansiosa di ‘laurearmi’. Mi sento debolissima, sono in preda a dolori incessanti, e totalmente indipendente. Stando alla mia coscienza cosmica, so che smettessi di essere amara, arrabbiata e risentita per il mio stato e dicessi solo sì a questa sorta di “fine della mia vita”, allora potrei partire e vivere in un posto migliore e vivere una miglior vita. Ma dato che sono terribilmente cocciuta e insolente, devo imparare a caro prezzo le mie ultime lezioni. Proprio come chiunque altro’. 9