La solitudine e citazioni con le quali apro questo capitolo

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La solitudine e citazioni con le quali apro questo capitolo
La solitudine
“Poco per volta comincio a vedere chiaro sul più universale difetto
del nostro genere di formazione e di educazione: nessuno impara,
nessuno tende, nessuno insegna − a sopportare la solitudine”.
(Friedrich Nietzsche)
I due più grandi doni che il Cielo possa fare a un’anima:
silenzio e solitudine.
(Marcel Jouhandeau)
e citazioni con le quali apro questo capitolo,
rappresentano due differenti modi di guardare alla solitudine. Nella prima, il verbo
sopportare lascia intendere che la solitudine è un male
incurabile (e concordo sul fatto che nella nostra cultura non esiste un’educazione atta a comprenderne gli aspetti più profondi).
Nella seconda, questo particolare stato d’animo è
presentato come una benedizione. Avvicinandolo al si-
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lenzio, l’autore ne sottende l’aspetto contemplativo ed elevante per lo spirito umano. Due modi di vedere le cose apparentemente inconciliabili ma che, in realtà, esprimono in entrambi i casi realtà concrete; perché se è vero
che esiste una solitudine consapevole e mistica è altrettanto vero che esiste una solitudine disperata e subita.
Questo secondo aspetto della solitudine è una delle cose più tristi che esistano, anche perché è in diretta opposizione con la natura reale delle cose: noi non siamo
mai soli.
Credo che nemmeno chiusi in una grotta, a seimila metri di altitudine, sia possibile sperimentare una solitudine vera. Se ascoltiamo, se tendiamo l’orecchio interiore, percepiamo chiaramente il brulicare di una vita
in fermento, tutt’attorno a noi.
Ma poi... solito inganno linguistico, cosa significa essere soli? Si può sentirsi tali anche se fisicamente si è
sempre in compagnia; per contro, alcune persone vivono una sensazione di profonda unità e condivisione,
pur essendo fisicamente isolate dal mondo esterno.
La solitudine è sostanzialmente uno stato di coscienza e non un fatto tangibile e soppesabile. Come
la paura, è una sensazione antica, comune a tutto il genere umano. L’uomo cerca di combattere la solitudine
prima ancora di comprenderne le origini e ritengo che
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queste origini siano invece l’elemento più importante per trasformare la paura di restare soli. Si teme così tanto la solitudine proprio perché, inconsciamente,
si percepisce l’esistenza di qualcosa di cui si è parte; come un immenso utero da cui l’uomo è nato, del quale
non riesce più ad avere chiara memoria e al quale non
sa consapevolmente ricongiungersi.
Ma questa vaga percezione è proprio la matrice della Possibilità. La paura di essere soli dimostra l’istintiva conoscenza dell’esistenza di una stato opposto di comunione.
Dall’unità primordiale alla separazione, sperimentando l’illusoria percezione della divisione. D’altro canto, questo percorso è simbolicamente vissuto da ognuno anche nel modo di venire al mondo: un lungo periodo di completa simbiosi con la madre, per poi separarsi da essa e sviluppare nel tempo la percezione della
propria individualità.
L’essere umano non sembra fatto per restare solo. Non
ritengo che questo dipenda dalla necessità istintiva di
proteggersi dall’ambiente; penso invece che sia l’effetto
dell’inconscia percezione di un’unità profonda e invisibile che lega fra loro tutti i fenomeni e le vite esistenti.
Si usa dire che noi nasciamo e moriamo soli; forse l’ho affermato anch’io, in alcune circostanze, ma esclusivamente per richiamare l’attenzione sulla necessi99
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tà di un’indipendente responsabilità nei confronti di se
stessi, perché penso in realtà che veniamo al mondo (al
buio e non alla luce, come si è abituati a dire) in compagnia e torniamo alla luce ancora in compagnia.
Non ho mai creduto nella solitudine se non come fattore psicologico e soggettivo.
Però, anche se questo può sembrare contraddittorio, sono convinto che per comprendere la natura
dell’unità e della condivisione sia utile passare dall’esperienza consapevole della solitudine.
Arthur Schopenhauer ha affermato che le persone
che non sanno amare la solitudine non amano nemmeno la libertà, perché solo quando si è soli si è veramente liberi.
Pretendere di capire il pensiero di un uomo sulla base di una singola affermazione è presuntuoso e superficiale, mi limito quindi a fare una considerazione
sulla frase in sé: credo che nel momento in cui si raggiunge la vera libertà si cessa di essere soli.
La solitudine rende liberi solo quando la interpretiamo come una forma di emancipazione dalle costrizioni dei pensieri e dei sentimenti altrui.
Questo è un aspetto molto importante, secondo la
mia opinione. L’uomo cerca la condivisione, l’accettazione e la compagnia, per non sentirsi solo e spaventato dalla vita; nel farlo, spesso rinuncia alla possibilità di
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sperimentare liberamente sentimenti e pensieri davvero
propri, perché li baratta con quelli di coloro a cui chiede protezione e accettazione.
Quindi è vero ciò che Schopenhauer afferma solo
se lo interpretiamo in termini di consapevolezza e non
sotto il profilo della solitudine fisica. Per essere liberi
non dobbiamo temere la solitudine.
La solitudine in sé, però, non genera libertà (e non
è segno di libertà raggiunta); ma la paura di rimanere
soli produce sicuramente schiavitù. Per non rimanere
sole le persone sono disposte a perdere loro stesse o... a
non trovarsi mai.
Ogni essere umano è un mondo a sé e quando tale
mondo non riesce o non può comunicare con gli altri
sperimenta la solitudine. Quest’ultima non è un fatto
concreto e oggettivo ma piuttosto un limite comunicativo e, quindi, soggettivo.
Noi siamo antenne aperte al finito e puntate in direzione dell’infinito. Siamo fatti per comunicare ma ridurre la comunicazione ad un fattore puramente sensoriale è un grave errore. Esistono spazi interiori sconfinati, tramite i quali possiamo comunicare con chi amiamo ed entrare in contatto con realtà ancora sconosciute.
Però, non possiamo sperimentare questi spazi se
continuiamo a credere di essere separati da tutto ciò
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che non possiamo toccare con mano. Per me, che sin
da giovane ho accostato il misticismo e la Meditazione,
solitudine è una parola dal suono dolce e caldo.
È sempre esistita una grande differenza tra il mio
modo di vivere e quello dei miei coetanei e questo mi
ha portato spesso a sperimentare una sensazione di isolamento (non perché gli altri mi evitassero ma per una
difficoltà nel comunicare il mio modo di sentire la vita
e nell’essere compreso). Questa leggera “distanza” dagli
altri, però, non mi ha mai portato a sperimentare una
vera solitudine, ed esiste una ragione molto precisa per
questo.
In un film del 1987, Predator, Arnold Schwarzenegger
recita una battuta che io ho sempre trovato esilarante.
Si è appena conclusa una battaglia concitata e un suo
compagno d’armi, avvicinandosi a lui e notando una
ferita abbastanza profonda sulla spalla, gli dice: «Stai
sanguinando». In tutta risposta il mitico Arnold gli risponde: «Non ho tempo per sanguinare!».
Beh... posso dire di aver vissuto qualcosa di simile e
da questa similitudine nella mia vita deriva la mancata
sperimentazione della solitudine come sentimento cupo e negativo.
In effetti... non ho mai avuto il tempo per sentirmi solo, incompreso, non accettato e via dicendo.
Benché ritenga di aver vissuto fino ad oggi un’esisten102
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za fortunata e privilegiata, ho logicamente sperimentato anch’io (come tutti) la sensazione di essere estraneo
a qualcosa oppure di non essere accettato perché enunciavo un pensiero diverso dalla “norma”.
Eppure non avevo tempo per sanguinare; ero troppo
impegnato a cercare di capire me stesso, gli altri e la vita.
Detto così, suona un po’ autocelebrativo, ma il fatto è che l’ironica battuta di Schwarzenegger corrisponde concretamente alla mia esperienza e ne parlo perché
voglio sia chiaro che non enuncio concetti basati su
teo­rie intellettuali, ma forti dell’esperienza personale.
Si tratta di qualcosa che ho conquistato sul campo; ne vado abbastanza fiero e so di poterlo insegnare
a mia volta.
La solitudine derivata dalla sensazione di non trovare
“corrispondenza” da parte degli altri può essere combattuta dall’impegno nel capire perché questo accade.
Ritirarsi in un angolo, piagnucolando perché siamo incompresi nella vita, è un atteggiamento debole e poco
produttivo.
Occorre invece una buona dose di ottimismo e allegria perché tutta l’esistenza è un insieme di cause ed
effetti da studiare (con qualche spruzzata di casualità,
che non guasta mai). Se ci sentiamo soli esistono delle
motivazioni. Se siamo soli davvero... anche. È meglio
allora concentrarsi per capire le ragioni di queste con103
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dizioni, piuttosto che chiudersi sempre più nelle proprie convinzioni.
“Questa sera mi sento solo come un cane! Lo sono di fatto... vivo da solo. Oltre ad essere un single incallito, ho pure litigato malamente con chi di solito mi
riem­piva la vita. Povero me!”.
Ok! Prendi ed esci di casa! Chiacchiera con il benzinaio, col barista, col vicino di casa! Ma attenzione...
non importunarli, non gettargli addosso i tuoi pesi,
non lamentarti! Cerca piuttosto di conoscerli, ascoltarli, divertirli.
La miglior cura per la solitudine è: essere simpatici, leggeri e divertenti. Chi vuole trascinarsi dietro un
mattone da ottanta chili?
È questo ciò che intendo per non avere il tempo di
sanguinare: non piangerti addosso, non attendere che
gli altri ti cerchino, ti desiderino, ti amino, ma piuttosto muoviti tu stesso verso la vita.
Sono consigli semplici? Troppo semplici? Per nulla filosofici? È vero. È assolutamente vero! Nel tempo ho
compreso che, alla fine di un lungo percorso di indagine, si scopre che la semplicità nasconde spesso (anche
se non sempre) le soluzioni più efficaci e vicine alla verità delle cose.
La solitudine, o meglio il senso di solitudine, è sempre accompagnato da una montagna di considerazioni,
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pensieri, rimpianti, timori, giudizi. Tutte cose inutili:
un fardello pesantissimo da cui liberarsi il prima possibile.
Quando siamo impegnati a cercare di comprendere il perché delle cose ci rimane davvero poco tempo da
dedicare ai rimpianti, al giudizio e all’autocommiserazione. La lapidazione degli altri e l’autolapidazione, sono occupazioni per chi ha molto tempo a disposizione.
Ma... la solitudine come aspetto positivo? Come cura
per l’anima? Come esercizio per la contemplazione della Verità? Benché io non abbia mai creduto nella ricerca del vero in termini di isolamento dal mondo, quella
solitudine e quel silenzio di cui parla Marcel Jouhandeau (come dono del cielo), sono certamente una benedizione per chi è capace di sperimentarne la dolcezza lenitiva.
Ho imparato questa lezione da ragazzo, perché ho
avuto la fortuna di nascere in una famiglia con una
modesta disponibilità economica; questo mi ha impedito di vivere alcune esperienze che avrei desiderato invece fare.
Con questa affermazione non voglio essere frainteso; non sono fra coloro che ritengono che la privazione
renda più uomini. Credo invece che i bambini dovrebbero essere il più possibile liberi di navigare verso le acque che spontaneamente li attirano.
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Nel mio caso, desideravo tantissimo poter seguire
quello che all’epoca era il mio maestro di Zen, il quale si recava spesso a Parigi per praticare dei ritiri di meditazione con Taisen Deshimaru; purtroppo, la mia disponibilità economica mi concesse di fare questa esperienza una sola volta.
Prima di quell’occasione, rimasi ripetutamente a
casa, riempiendo la mia mente con l’immaginazione
di come sarebbe stato bello e interessante essere in quei
luoghi.
Posso ben capire che, in qualità di esempio sulla solitudine, possa apparire per lo meno bizzarro; ma si deve tener presente che per me, da giovane, la pratica della Meditazione e la ricerca interiore erano la cosa più importante in assoluto.
Naturalmente non ero un “santo” (fortunatamente
non lo sono diventato nemmeno in seguito) e quindi esistevano altre cose che mi attiravano, ad esempio il sesso
e la pizza (anche se l’associazione non credo sia condivisibile su larga scala).
Devo dire però che il sesso non mi mancava e la pizza... beh, forse non ne ero così passionalmente innamorato, perché l’astinenza da questa superba e semplice
manifestazione di arte culinaria partenopea non mi ha
mai prodotto un pronunciato senso di solitudine (forse una lieve ma recuperabile disperazione emotiva). Comunque, fu in una delle volte in cui rimasi a casa, una in
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cui il mio desiderio di andare era davvero forte, che sperimentai – a mio ricordo per la prima volta – la trasformazione della solitudine e dell’abbandono in qualcosa di
straordinariamente e intensamente dolce.
Per questo ritengo di esser stato fortunato nel non aver avuto la disponibilità economica per fare quell’esperienza; se fossi partito mi sarei privato di ciò che ancora
oggi ricordo con vivida emozione.
Avevo acceso un incenso e mi ero seduto a gambe incrociate per praticare zazen. Come sempre, dedicai alcuni minuti per centrare la posizione e prendere coscienza
della respirazione naturale. Dopo qualche tempo, iniziai
a focalizzarmi sulla corretta tecnica respiratoria.
Tragedia: non riuscivo a concentrarmi. Volevo collegarmi interiormente al mio insegnante e al luogo in cui
si trovava ma ero a mala pena in grado di mantenere la
mente ferma, attenta al respiro e alla posizione.
Dopo circa quindici minuti decisi di smettere (non
che fossi molto eroico nella pratica). Mi sedetti più comodamente e cominciai a guardare il fumo dell’incenso, immerso in pensieri poco edificanti, dovuti al fatto
che non ero potuto partire. Rimasi così per circa dieci o
quindici minuti e poi... accadde.
Un raggio di sole penetrò la finestra della mia stanza e il fumo dell’incenso, salendo lentamente, si trasformò in una poesia di pacati riflessi.
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Osservai sorridendo e il sorriso sorse da sé. Dimenticai il ritiro a cui non ero potuto andare, la tensione e
il senso di isolamento che avevo provato e fu come se
le volute di fumo mi assorbissero in uno spazio di luce delicata, in cui un profondo inspiro mi aprì il torace e il cuore.
Inaspettatamente sentii esplodere internamente
un’illogica felicità. La mia mente si mise in moto, chiedendosi cosa stesse accadendo. Lo fece in modo calmo,
curioso, indagatore. Non erano pensieri inopportuni.
La felicità immotivata andava crescendo e con essa
una stranissima e forte sensazione di amore e unità. Unità con cosa? Con Chi? Non saprei proprio dirlo.
Non esisteva nulla e nessuno a cui sentirmi unito,
se non l’intero universo. Capisco bene che queste parole suonano uguali a migliaia di altre che si possono leggere in tanti libri; eppure questo è esattamente ciò che
provai. Quella fu “la mia prima volta” e la sensazione
divenne tanto intensa da sfociare in un pianto di gioia.
In seguito sperimentai molte altre volte tale vasto
stato di unità. La Meditazione è la via più diretta per
ottenere questa esperienza.
Sentirsi soli, quando tutta la vita attorno si sviluppa
nella ricerca del rumore, del movimento e della compagnia, attuati per fuggire la sensazione della solitudine, non è una cosa gradevole. Non lo è per nessuno.
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Siamo troppo abituati a correre e produrre suoni (non
sempre armonici) per amare il silenzio e l’immobilità.
Non condivido le parole di Nietzsche, il quale afferma che dovrebbe esistere un’educazione mirante ad
insegnare come sopportare la solitudine.
Ritengo invece che dovrebbe esistere un’educazione che insegni ad amare la solitudine come un aspetto della vita.
In alcuni momenti possiamo essere soli, in altri no;
ma il concetto stesso di solitudine fa parte dell’esistenza. In fondo, ogni volta che operiamo una scelta personale, in maniera consapevole e non influenzati o sospinti da pareri esterni, sperimentiamo un aspetto positivo della solitudine.
La solitudine non è solo negativa; anzi, a dire il vero,
non dovremmo considerarla negativa o positiva, ma
semplicemente un’espressione pura della vita; come lo
sono il giorno e la notte, il freddo e il caldo, il riposo e
l’attività.
Se impariamo a non criticare e rifiutare ciò che sperimentiamo nel corso di un’esistenza possiamo arrivare
a comprendere e amare le ragioni di molti stati d’animo che la cultura popolare considera negativi, ma che
sono semplici sfumature della realtà.
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