ANNO 2017 Notizie dal 16 gennaio al 23 gennaio

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ANNO 2017 Notizie dal 16 gennaio al 23 gennaio
HDIG ONLUS
HUMANITARIAN DEMINING ITALIAN GROUP
Gruppo Italiano di Sminamento Umanitario
C.F.97191910583
ANNO 2017
Notizie dal 16 gennaio al 23 gennaio
notizie e informazioni SULL’africa e, in particoLare,
SULLa SomaLia e paeSi deL corno d’africa,
raccolte da agenzie, gruppi, istituzioni,
comMENTATE CON considerazioni ed osservazioni
SOMMARIO
Pag. 02 - 16 gen. Somalia: basta matrimoni sfarzosi. Imposto limite di spesa a Beled Hawo
Pag. 02 - 16 gen. Somalia, la fragile “stabilità” minacciata da Al-Shabaab e dalle lotte intestine
Pag. 03 - 17 gen. Eritrea: in migliaia in fuga da crisi alimentare e persecuzioni
Pag. 04 - 17 gen. Eutm Somalia, prontezza operativa per la prima Light Infantry Coy
Pag. 05 - 17 gen. Stipendi non pagati, Burundi avvia ritiro militari da missione Amisom
Pag. 05 - 18 gen. Somalia, proseguono i self-defence strike Usa contro al-Shabaab
Pag. 06 - 18 gen. Etiopia e Kenya i mercati più interessanti per l’export
Pag. 07 - 18 gen. Etiopia: petrolio, nuove licenze esplorative nell’Ogaden
Pag. 07 - 19 gen. Cooperazione: Somalia, Aics pubblica avviso selezione collaboratore per
monitoraggio e valutazione dei progetti
Pag. 07 - 19 gen. Angola, dagli Usa 4 milioni di dollari per operazioni di sminamento
Pag. 07 - 20 gen. Le conseguenze locali e internazionali nella disputa elettorale in Somalia
Pag. 09 - 21 gen. Somalia: segretario generale Onu Guterres “allarmato” per utilizzo bambini soldato
da parte di al Shabaab
Pag. 09 - 22 gen. Open Doors: in aumento la persecuzione anticristiana
Humanitarian Demining Italian Group - HDIG Sede centrale, Largo della Cecchignola 4, 00143 RM; Sede operat., Via degli Avieri, 00143 RM
Per segnalazioni ed informazioni: tel.+39.348.6924401; tel.+39.339.2940560, fax 178.2708503,
website: www.hdig.org ; e-mail: [email protected], [email protected] ; facebook: hdig.ong
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16 gen. Somalia: basta matrimoni sfarzosi. Imposto limite di spesa a Beled Hawo
Beled Havo, una grande città nella
provincia di Gedo, nel sud-ovest della
Somalia, ha messo il veto a matrimoni
troppo sfarzosi. Da oggi non sono più
permessi ricevimenti in alberghi, agli
invitati può essere servito solamente carne
di capra. Cancellati dal menu manicaretti
prelibati e costosi.
Anche per regali è stato messo un limite:
per l’arredamento della casa dei novelli
sposi non si possono spendere più di
seicento dollari, mentre il prezzo massimo
per la sposa è stato fissato a
centocinquanta dollari.
Generalmente la famiglia dello sposo è
disposta (quando è ricca) a sborsare
cinquemila dollari e più. Una cifra
esagerata, anche se nel prezzo è compreso
il ricevimento, il costo della sposa, l’abbigliamento, gioielli e l’arredamento.
Le autorità della città somala hanno deciso di imporre un limite di spesa per una festa nuziale, perchè
recentemente alcuni impiegati comunali hanno scoperto che oltre centocinquanta bambini erano nati al di
fuori dal vincolo matrimoniale, perché le famiglie non disponevano dei fondi necessari per celebrarlo. Molti
giovani hanno lasciato la provincia, che confina con il Kenya, per cercare lavoro altrove, per poter sostenere
i costi delle nozze. Spesso le giovani donne si rifiutano di sposarsi, se non viene spesa una fortuna per il
ricevimento e la futura casa.
“Ma ora i tempi sono difficili a causa della siccità e della disoccupazione”, ha fatto sapere il commissario
della città, Mohamud Hayd Osman, ai reporter della BBC. Infine Osman ha aggiunto: “E’ giusto aiutare la
giovane sposa, ma la cifra che abbiamo stabilito dovrebbe essere più che sufficiente per acquistare un letto
matrimoniale, un tavolo, sedie e gli utensili da cucina. Inoltre la dottrina islamica ci insegna che per sposarsi
si dovrebbe spendere poco”. Non bisogna comunque dimenticare che i festeggiamenti di un matrimonio
tradizionale somalo durano ben sette giorni.
16 gen. Somalia, la fragile “stabilità” minacciata da Al-Shabaab e dalle lotte intestine
Parlando di Somalia, è difficile che vengano alla mente bei ricordi: legata storicamente all’Italia in quanto
sua ex colonia nella minuscola storia del nostrano “Impero”, tormentata dalla dittatura militare di Siad Barre
dal 1969 al 1991 e successivamente da una guerra civile che ha messo in fuga perfino gli Stati Uniti.
Insomma, l’epiteto di “Stato fallito” che qualcuno gli ha attribuito non è così distante dalla realtà.
Negli ultimi anni, però, si è assistito a un lieve miglioramento della situazione nell’estremo lembo del Corno
d’Africa, merito soprattutto dell’intervento militare dell’Unione Africana denominato AMISOM (African
Mission to Somalia), partito nel 2007 per contrastare l’avanzata dei fondamentalisti islamici raggruppati
nell’Unione delle Corti Islamiche (UCI), a sua volta facente capo ad Al-Qaeda. Obiettivo su cui conversero i
diversi Signori della guerra che fino ad allora si erano combattuti per il controllo del Paese, tanto da mettere
in crisi l’ONU che, nel 1994, decise di ritirarsi.
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Era la celebre missione Restore Hope, in cui gli americani persero due aerei Sikorsky UH-60 Black Hawk (da
cui il celebre libro e poi film Black Hawk Down) e che noi italiani ricordiamo per la “battaglia del
pastificio” del luglio ‘93: a Mogadiscio, durante un’operazione per il disarmo delle fazioni in lotta, alcuni
miliziani tesero un’imboscata ai militari, sparandogli contro dall’alto e usando i civili come scudi umani.
Quel giorno morirono in tre e altri venti rimasero feriti, contribuendo ad alimentare un clima di pessimismo
verso quella missione che non stava portando da nessuna parte.
Oggi la situazione è diversa, dicevamo: nel 2012 è nata l’ennesima realtà
statuale ufficialmente riconosciuta a livello internazionale, dopo la lunga e
agognata esistenza del Governo Federale di Transizione (GFT), sorto nel 2004 e
composto dagli stessi Signori della Guerra contro cui l’Occidente aveva
combattuto fino a poco tempo prima. La presenza militare straniera è però
sempre presente, perché adesso il nemico si chiama Al-Shabaab, è nato dalle
ceneri dell’UCI e dal 2015 è entrato nel “franchising” dell’ISIS, rinunciando
all’alleanza con Al-Qaeda – comunque una delle forze terroristiche più presenti nel Continente Nero.
Alla guida del Paese oggi sono il Primo Ministro Omar Abdirashid Ali Sharmarke e il Presidente della
Repubblica Hassan Sheikh Mohamud, figure con profondi legami con la comunità internazionale, avendo
entrambi lavorato per le Nazioni Unite. Inoltre, il primo è figlio dell’ex Presidente somalo Ali Scarmarke
Abdirashid, assassinato nel ‘69 alla vigilia del colpo di Stato contro Barre; il secondo è stato inserito dal
TIME tra le 100 persone più influenti al mondo nel 2013 ed è membro del clan Hauia, uno dei più potenti
della Somalia, oltre ad essere molto vicino ai Fratelli Musulmani.
Guardare però l’identikit dei vertici politici non aiuta appieno a capire lo stato reale della situazione: a
controllare il Parlamento sono i clan, che gestiscono tra di loro anche le elezioni, come dimostra il complesso
e arzigogolato sistema con cui a fine 2016 appena lo 0,2% della popolazione è stato chiamato alle urne. A
decidere chi potrà votare sono infatti 135 anziani dei clan tradizionali, che hanno dato a 14.025 persone il
vero e proprio privilegio di esprimere la propria preferenza.
Ma le cose non devono essere andate come sperato: dopo numerosi rinvii, infatti, le elezioni attese dal 2012
sono iniziate il 23 ottobre e non sono ancora concluse, nonostante 283 parlamentari, 41 senatori e 242
deputati, abbiano già ufficialmente giurato a fine dicembre (AfricaNews). Sarebbero stati aggiunti, infatti,
altri 18 seggi alla Camera – il Parlamento somalo è bicamerale – portando così a 72 il numero di deputati.
Una mossa che ha messo in allarme la comunità internazionale, ma che molto probabilmente è stata dettata
dalle esigenze di qualcuno di trovare una solida maggioranza, dato che poi i parlamentari eleggeranno il
Presidente: in lizza ci sono l’attuale capo dello Stato Hassan, il Primo Ministro Abdirashid, l’ex ambasciatore
in Kenya Mohamed Ali Nur e l’ex primo ministro Abdullahi Farmajo.
Alla vigilia di quest’ennesima crisi politica esplosa nell’ex colonia italiana, le truppe etiopi presenti dal 2006
nel Paese si sono ritirate nel giro di 24 ore, dando così modo ai terroristi di Al-Shabaab di avanzare poiché né
Mogadiscio né l’AMISOM erano state avvisate (L’Indro). Ufficialmente, Addis Abeba ha spiegato la
decisione accusando problemi finanziari, ma il motivo reale sarebbe fronteggiare una crisi interna; non è da
escludere che tutto ciò sia solo una prova di forza contro il governo somalo ma, nell’attesa di capire le mosse
future, gli altri attori della regione (in primis Kenya e Uganda) non staranno certo ad aspettare.
17 gen. Eritrea: in migliaia in fuga da crisi alimentare e persecuzioni
In Eritrea quasi due milioni di persone vivono nell’insicurezza alimentare: oltre la metà sono bambini.
L’allarme è lanciato dall’Unicef che riferisce di scarsi raccolti e avverse condizioni meteo dovute al El Nino.
Una crisi umanitaria e sociale acuita dalla chiusura del regime eritreo e dalla fuga di migliaia di giovani che
cercano di raggiungere l’Europa.
La siccità e i conseguenti scarsi raccolti hanno portato due milioni di eritrei all’insicurezza alimentare. Di
questi, il 60% sono minori. In pratica, nel Paese del Corno d’Africa su una popolazione di sei milioni e
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mezzo di persone quasi un cittadino su tre ha difficoltà di accesso a una nutrizione adeguata. Non è facile
tuttavia avere contezza di questo dramma poiché Asmara nega qualsiasi problema, limitando il movimento
delle associazioni umanitarie.
La situazione veramente disastrosa! Una nostra collaboratrice sul posto ci dice: “Qui manca tutto! C’è fame,
c’è miseria, c’è mancanza degli alimenti necessari. Mancano la luce, il petrolio, il carbone. Il costo della vita
galoppa in modo impressionante ed inaccettabile! Quello che trovi, è a un prezzo molto alto e molte persone
non hanno la possibilità di comprarlo”.
I problemi più impellenti sono soprattutto di carattere alimentare e sono proprio quotidiani. Ecco qualche
esempio: un tempo i pomodori costavano 10-15 nacfa (la moneta locale), invece ora costano 80 nacfa al kg; e
così anche le patate… Per lunghi periodi manca del tutto l’energia elettrica. La situazione economica e
sociale è molto critica. E' indescrivibile.
La situazione è aggravata da una crisi migratoria senza precedenti che solo negli ultimi due anni ha visto 60
mila giovani lasciare il Paese alla volta dell’Europa. Si tratta di uno dei più ingenti gruppi di profughi dopo i
siriani. Una fuga da fame e miseria ma anche dal regime di Isaias Afewerki. Certamente occorre da tenere
presente che ci sono delle carestie climatiche cicliche. E poi al momento l’Eritrea è purtroppo una nazione
chiusa: non ha rapporti con le altre nazioni. Come si può pensare ad uno sviluppo economico in un Paese
dove scappano i giovani, dove le forze lavoro non ci sono più? Non c’è possibilità di sviluppo. Non possono
parlare, non possono studiare liberalmente. E’ una prigione a cielo aperto"!
E in Eritrea preoccupa anche la recrudescenza della persecuzione anti-cristiana. Secondo il Rapporto 2017
dell'organizzazione internazionale "Porte Aperte", fondata nel 1955 dal missionario olandese "fratello
Andrea", l’Eritrea è tra i 10 Paesi dove i cristiani sono maggiormente oppressi:
"Fino agli anni Settanta-Ottanta non c’era differenza tra cristiani e islamici: era un Paese veramente libero
dal punto di vista religioso. Ora, invece, il regime eritreo è sostenuto dagli arabi. Dopo l’indipendenza,
l’Eritrea si è trovata per forza a fare una scelta, perché è stata abbandonata. E quelli che l'hanno
maggiormente sostenuta e la sostengono sono i Paesi arabi. Questo pericolo di una arabizzazione dell’Eritrea
è anche un tentativo da parte degli islamici di penetrare in Etiopia, che rimane ancora spiritualmente
cristiana".
17 gen. Eutm Somalia, prontezza operativa per la prima Light Infantry Coy
Presso il General Dhagabadan Training Camp (Gdtc) si è svolta la cerimonia di chiusura dei corsi Combat
Engineers, Administration e Pilot Light Infantry Coy (Plic) condotti dall’European Union Training Mission –
Somalia (Eutm-S) a favore del Somali National Army (Sna). Dopo quattro mesi di addestramento (nove mesi
per i frequentatori dell’Administration Course), 172 militari dell’Esercito Somalo si apprestano a mettere in
pratica le capacità acquisite, proiettati verso nuove responsabilità e sfide. Gli uomini della prima Compagnia
integrata di fanteria leggera (Plic) del Sna, infatti, assimilati gli insegnamenti dei trainer europei di Eutm-S,
saranno sin da subito dispiegati per combattere l’insorgenza e l’instabilità nel Paese. Nel corso della
cerimonia, il generale di brigata Maurizio Morena – comandante della missione Eutm-S, insieme al
comandante della missione dell’Unione africana in Somalia (Amisom) il generale di corpo d'armata Osman
Noor Soubagleh e al vicecomandante delle Forze di Difesa del Sna, il generale di divisione Mohamed Ali
Bashe, hanno assistito ad una esercitazione tattica della compagnia di fanteria e consegnato gli attestati ai
frequentatori dei corsi.
Il progetto della Plic, definito modello da seguire nello sviluppo dell’Esercito somalo, va avanti con successo
e vedrà da subito una nuova sinergia tra Eutm-Somalia e Amisom – come confermato dal Generale Morena e
dal Generale Soubagleh – che permetterà di addestrare contemporaneamente circa 300 uomini suddivisi in 2
Compagnie. A tal proposito, il generale Ali Bashe ha ringraziato Eutm-Somalia per il supporto che dal 2010
fornisce al Sna e, rivolgendosi agli uomini della Plic, li ha esortati a sentirsi fieri di appartenere alla migliore
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unità dell’Esercito somalo e a concentrarsi con spirito unitario sulle grandi sfide che dovranno affrontare per
il bene della comunità.
17 gen. Stipendi non pagati, Burundi avvia ritiro militari da missione Amisom
La presidenza del Burundi ha chiesto ufficialmente ai ministeri della Difesa e degli Esteri di avviare il
processo di ritiro delle truppe del paese dalla Missione di pace dell’Unione africana in Somalia (Amisom).
“Abbiamo deciso di avviare la procedura di ritiro, come annunciato tempo fa, perché i nostri militari
impegnati non possono continuare ad operare senza essere pagati", ha dichiarato Gaston Sindimwo, alto
funzionario del governo di Bujumbura, citato dall’emittente britannica “Bbc”. Nel marzo 2016 l’Unione
europea ha fatto sapere al governo del Burundi di voler garantire soltanto il finanziamento diretto ai soldati e
di interrompere invece la quota di cui beneficiava lo stato, per colpa delle gravi violazioni dei diritti umani
da parte del governo. La risposta del paese africano è arrivata con l’annuncio del suo ritiro dalla Somalia.
“Abbiamo deciso di richiamare in patria le nostre truppe, come avevamo promesso, perché i nostri soldati
non possono continuare a combattere senza essere pagati”, ha detto ieri il vicepresidente del Burundi, Gaston
Sindimwo, che ha accusato l’Ue di non pagare i militari da un anno. Molti osservatori hanno notato come
l’unico interesse da parte del Burundi nel prendere parte alla guerra in Somalia, che è un paese piuttosto
distante dai suoi confini, è quello economico. Una volta sparita la fetta di aiuti finanziari promessa da
Bruxelles, per Nkurunziza è venuto meno anche l’interesse a combattere contro gli estremisti islamici. La
decisione è stata assai criticata dall'Unione africana, che ha avvertito Bruxelles del suo possibile impatto
negativo sulla missione. Con 5.400 militari impegnati, il Burundi è il secondo contributore della missione
Amisom, istituita nel 2007 per contrastare il gruppo jihadista al Shabaab. A fine gennaio ad Addis Abeba si
terrà un vertice dei paesi dell’Unione africana ed è probabile che in quella occasione il governo del Burundi
tenterà di ottenere da loro i soldi che Bruxelles non intende più concedere.
18 gen. Somalia, proseguono i self-defence strike Usa contro al-Shabaab
Continuano gli attacchi Usa in Somalia per “autodifesa”. Nei giorni scorsi, è stato lanciato un altro raid aereo
contro al-Shabaab, branca locale di al Qaeda. AFRICOM, il comando militare americano per l’Africa, ha
ribadito che si è trattato di un attacco per “autodifesa”, come ha già fatto in altre 9 occasioni nel 2016.
Consiglieri statunitensi, infatti, il 7 gennaio accompagnavano truppe dell’Unione Africana e locali in
un’operazione anti-terrorismo. In particolare, durante un raid a Gaduud, una città a nord di Kismayo (sud).
L’area è considerata ad elevata presenza di jihadisti. “Durante un’operazione anti-terrorismo per
neutralizzare al-Shabaab – si legge nel testo di AFRICOM – i partner hanno rilevato che alcuni miliziani
minacciavano la loro sicurezza. Di conseguenza, è partito un attacco di auto-difesa per bloccare la minaccia”.
Come ricorda il Long War Journal, in Somalia sono stati diversi gli episodi di questo genere. Le missioni
essenzialmente sono di 3 tipi: distruzioni di istallazioni, raid preventivi e “fuoco difensivo”. Nel 2016, tra i 9
attacchi ad al-Shabaab ci sono stati quello a Raso il 5 marzo, per distruggere campi di addestramento.
Oppure l’ultimo ufficiale, il 28 settembre, per smantellare una fabbrica di ordigni improvvisati (IED) vicino
a Galcayo. Non volano solo gli aerei. Anche le navi lanciano missili. Dal 2006, quando è cominciata la
guerra contro il terrorismo. Prima contro l’Unione delle Coorti Islamiche, con il supporto all’operazione
militare dell’Etiopia che pose fine al gruppo jihadista. Poi, contro al-Shabaab.
In tutto ci sono state 30 operazioni Usa ufficiali in Somalia, ricorda il Long War Journal. Queste, però,
potrebbero essere state di più. È difficile, infatti, capire chi sia l’attaccante, in quanto nella campagna vi sono
numerosi attori coinvolti. Dalle forze kenyote a quelle etiopi, passando per le somale. La fu a gennaio del
2007 in cui i bersagli erano Abu Taha al-Sudani (alias Tariq Abdullah), il leader di al Qaeda e Africa
Orientale, Fazul Abdullah Mohammed e Saleh Ali Saleh Nabhan: i capi delle operazioni della formazione
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nella regione. Sembra che nell’attacco fu ucciso Sudani. Sempre lo stesso anno, a giugno, fu colpito Saleh ali
Nabhan, leader di al Qaeda e di al-Shabaab, coinvolto negli attentati in Kenya e Tanzania. Altre 3 operazioni
avvennero nel 2008, una nel 2009 e un’altra nel 2012. Nel 2013 ci furono 2 azioni Usa e l’anno successivo 3.
Negli ultimi anni, inoltre, le operazioni militari Usa in Somalia hanno visto un’accelerazione. Nel 2015,
infatti, sono state 3 e l’anno scorso 13, di cui 9 ufficiali. La maggior parte, peraltro, è avvenuta a maggio (6
raid, di cui 4 per auto-difesa). Successivamente, c’è stato un impiego intenso delle forze speciali americane,
che hanno ucciso diversi jihadisti di al-Shabaab, durante raid in fabbriche di IED e campi di addestramento
della formazione. In un caso, il 21 giugno 2016, è stato lanciato un’offensiva preventiva per neutralizzare un
gruppo di jihadisti che pianificava un imminente attacco terroristico contro le forze Usa. In altri casi, con
buona probabilità, i militari americani hanno fornito Close Air Support (CAS) alle truppe miste in difficoltà
o sotto attacco dai miliziani.
18 gen. Etiopia e Kenya i mercati più interessanti per l’export
I mercati più interessanti e in rapida crescita per le esportazioni dai Paesi cosiddetti occidentali nei prossimi
cinque anni saranno Etiopia e Kenya. A sostenerlo è un’analisi realizzata dall’istituto bancario italiano
Unicredit e riportato dall’autorevole quotidiano economico ‘Financial Times’.
“Etiopia e Kenya stanno registrando una crescita economica molto rapida e sostenuta – ha detto al quotidiano
londinese Fadi Hassan, professore di economia al Trinity College di Dublino e consulente di Unicredit –
sono Paesi che non dipendono dal petrolio o da altre materie prime e stanno attraversando un periodo di
industrializzazione e imprenditorialità che è piuttosto notevole”.
L’analisi ha studiato il potenziale di crescita delle importazioni in 12 Paesi considerati tra le principali
economie emergenti al mondo: oltre a Etiopia e Kenya, anche Brasile, Cina, Filippine, India, Indonesia,
Messico, Russia, Sudafrica, Thailandia e Vietnam.
In base ai risultati della ricerca, entro il 2021, in Sudafrica le previsioni vedono una crescita delle
importazioni compresa tra il 20 e il 70 per cento, con l’unica eccezione del settore dell’abbigliamento che è
previsto possa registrare un incremento del 130% nei prossimi cinque anni.
Il mercato delle importazioni in Etiopia, seppur molto inferiore in termini assoluti rispetto a quello
sudafricano, è previsto registrerà una crescita compresa tra il 40 e il 90% in tutti e sei i settori produttivi presi
in considerazione: automobili, macchinari, cibo, abbigliamento, mobili e servizi.
Leggermente inferiore, invece, il potenziale di crescita in Kenya, che secondo quel che viene riportato
potrebbe registrare entro il 2021 un incremento compreso tra il 20 e il 50%.
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18 gen. Etiopia: petrolio, nuove licenze esplorative nell’Ogaden
Una compagnia petrolifera britannica, la Delonex Energy Limited, ha acquisito dal governo di Addis Abeba
la licenza per attività esplorative in tre blocchi nel bacino dell’Ogaden, situato nella regione sud-orientale del
paese.
Ne danno notizia i media etiopi, specificando che i tre blocchi sono il 18, il 19 e il 21, situati nell’area di
Abred-Ferfer che si estende complessivamente per 29.865 chilometri quadrati. Le licenze consentono un
periodo esplorativo iniziale di tre anni, con la possibilità di richiedere per due volte un’estensione di due anni
per volta.
I tre blocchi erano già stati assegnati in precedenza alla malese Pexco Explorations (East Africa), le cui
licenze erano però scadute a luglio dello scorso anno. Pur se la Pexco aveva presentato richiesta a ottobre per
un rinnovo delle proprie licenze, il ministero delle risorse minerarie etiope ha preferito riassegnare i tre
blocchi alla britannica Delonex.
La Delonex è una compagnia fondata nel 2013 e ha proprie filiali, oltre che a Londra, anche in India e in
Kenya: al momento partecipa ad attività esplorative in Asia (Indonesia, Thailandia, Sri Lanka Malesia,
India), in Gabon e in Canada.
19 gen. Cooperazione: Somalia, Aics pubblica avviso selezione collaboratore per
monitoraggio e valutazione dei progetti
La sede dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) di Mogadiscio, in Somalia, ha
pubblicato un avviso di selezione per l’assunzione di un collaboratore per il monitoraggio e la valutazione
dei Programmi nell’ambito del progetto “Coordinamento, assistenza tecnica e monitoraggio delle iniziative
di cooperazione con la Somalia – Fase II”. Il collaboratore – si legge sul sito web del’Aics – dovrà assistere
il titolare di sede nel coordinamento delle attività in Somalia, nelle mansioni di supporto tecnicoprogrammatico. La scadenza dell’avviso è fissata al prossimo 24 febbraio
19 gen. Angola, dagli Usa 4 milioni di dollari per operazioni di sminamento
L'ambasciata degli Stati Uniti a Luanda ha effettuato una donazione di 4 milioni di dollari all'Angola per
contribuire al progetto di liberare il paese dalle mine terrestri entro il 2025. Lo riferisce la testata "Rede
Angola" ricordando che secondo recenti statistiche, i contributi internazionali per le operazioni sul terreno
sono calati dell'89 per cento dal 2008 al 2015. Due dei quattro milioni stanziati da Washington sono stati
donati all'organizzazione non governativa (ong) Halo Trust, dal 1994 impegnata in operazioni di sminamento
del terreno in Angola. Gli altri fondi verranno utilizzati dalle ong Mines Advisory Group e Norwegian
People’s Aid, impegnate rispettivamente nelle province di Moxico e Malanje. Secondo la nota
dell'ambasciata, dal 1995 gli Usa hanno investito oltre 125 milioni di dollari per operazioni di sminamento in
Angola.
20 gen. Le conseguenze locali e internazionali nella disputa elettorale in Somalia
Il 22 gennaio il parlamento somalo dovrebbe riunirsi per eleggere il prossimo presidente della Repubblica
federale di Somalia. Al netto dei dubbi sulla possibilità che questa scadenza possa essere rispettata, le
vicende delle ultime settimane mostrano chiaramente i limiti di un impianto istituzionale che avrebbe dovuto
garantire il maggior consenso possibile al futuro governo della Somalia, ma che appare già pericolosamente
delegittimato. L'insediamento di uno dei due rami del Parlamento e la riconferma di Mohamed Osman Jawari
nel ruolo chiave di speaker hanno segnato il raggiungimento di due traguardi importanti, ma hanno al
contempo riacceso lo scontro politico tra l'entourage del presidente federale uscente Sheikh Mohamud e gli
altri candidati alla presidenza.
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Mohamed Osman Jawari si è infatti fatto portavoce del malcontento di questi ultimi, denunciando
l'incostituzionalità del comitato di coordinamento diretto da Sheikh Mohamud - il National Leadership
Forum (Nlf) - e, conseguentemente, la legittimità dei provvedimenti adottati nelle ultime settimane, alcuni
dei quali modificano in corsa le regole per l'elezione alla presidenza federale.
Mentre a Mogadiscio viene messo in discussione l'impianto giuridico della road map elettorale, nella
Somalia centrale le tensioni tra circolo presidenziale e opposizioni sono tracimate in un aperto conflitto che
rischia di travolgere il neo-nato stato regionale del Galmudug. Il presidente del Galmudug, Husain Guled stretto alleato del presidente federale Mohamud, è stato infatti rimosso dalla carica il 10 gennaio con un blitz
dell'assemblea regionale che, approfittando della sua assenza dal capoluogo, ha approvato a grande
maggioranza una mozione di sfiducia. Guled non si è fatto da parte, ma ha controbattuto rigettando la
delibera come illegale e sostituendo il ministro degli interni regionale. Dalle schermaglie verbali alle armi il
passo è stato breve: il parlamento del Galmudug è in queste ore circondato dalle forze di polizia agli ordini
del ministro regionale licenziato e dagli uomini della National Intelligence Agency, fedeli al presidente
federale in pectore, coi primi che tentano di impedire ai secondi di prendere possesso dell'edificio dove sono
in corso le votazioni per eleggere un nuovo presidente al posto di Guled.
Se la dimensione locale del conflitto per il controllo del prossimo governo federale è manifesta, non meno
importante è la seppur silenziosa competizione tra le potenze regionali che in questi anni hanno investito,
economicamente e politicamente, nel processo di pace in Somalia.
La Turchia ha presumibilmente molto da perdere da un'eventuale sconfitta del presidente in carica: i capitali
turchi già gestiscono in regime di monopolio il porto e l'aeroporto di Mogadiscio, ma la riconferma di Sheikh
Mohamud consentirebbe loro di giocare un ruolo ancor più incisivo nella futura ricostruzione della capitale.
L'alter ego della Turchia sono gli Emirati Arabi Uniti, entrati a gamba tesa nell'arena politica somala alcuni
mesi or sono quando la compagnia di bandiera Dp World - colosso della logistica marittima – ha stipulato un
accordo trentennale per la costruzione e gestione dello scalo portuale di Berbera con il governo del
Somaliland, ignorando le vibranti proteste della presidenza federale. Dubai non ha intrapreso un
investimento di tale rischio e proporzioni, in un Paese privo di riconoscimento internazionale e reclamato da
Mogadiscio come parte integrante del proprio territorio, senza prendere le dovute contromisure.
Ai primi di novembre l'emirato ha ospitato un incontro con i capi delle cinque amministrazioni regionali
somale, dimenticando però di estendere l'invito al presidente federale in pectore: da quel momento,
l'ambasciatore degli emirati a Mogadiscio ha abbandonato la propria residenza per trasferirsi a Nairobi, da
dove ha continuato a intessere relazioni con altri candidati come l'ex presidente Sheikh Sharif Ahmed.
Il Paese che più ha investito in Somalia in termini diplomatici e militari negli ultimi anni è stato però il
Kenya, protagonista della campagna che ha portato alla formazione dell'amministrazione regionale del
Jubbaland. Nairobi ha intrattenuto un rapporto piuttosto ostile con il presidente federale uscente: Sheikh
Mohamud ha inizialmente sostenuto un signore della guerra alternativo al candidato del Kenya per la
presidenza del Jubbaland, accusando a più riprese il vicino di violare la sovranità territoriale della Somalia.
Soprattutto, il governo somalo ha sfidato Nairobi dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia sulla
delimitazione delle rispettive acque territoriali: un tema caldo, poiché il Kenya ha già assegnato concessioni
d'esplorazione petrolifera sulle acque contese, a investitori nazionali e esteri, forte del Memorandum of
Understanding siglato nel 2009 con l'allora presidente federale somalo Sheikh Sharif Ahmed, il Primo
Ministro Abdirashid Sharmake e il ministro per la pianificazione e cooperazione internazionale Abdirahman
Abdishakur.
Questi tre pesi massimi della politica somala, oggi tutti in corsa per la presidenza, sono ospiti frequenti dei
centri congressi nella capitale keniota, da dove hanno ripetutamente denunciato le manovre evasive del
presidente federale uscente.
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21 gen. Somalia: segretario generale Onu Guterres “allarmato” per utilizzo bambini
soldato da parte di al Shabaab
Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, si è detto “allarmato” dalle notizie circa il
crescente utilizzo di bambini soldato da parte del gruppo jihadista al Shabaab. In un rapporto indirizzato al
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e diffuso oggi Guterres ha fatto sapere che i minori costituiscono
circa il 60 per cento dei militanti di al Shabaab catturati nella regione semi-autonoma del Puntland dal marzo
2016. I bambini, ha aggiunto Guterres, sono stati utilizzati anche in operazioni con ordigni esplosivi, come
spie, per il trasporto di munizioni e per l'esecuzione di lavori domestici. Il rapporto mette in luce anche casi
di reclutamento di bambini soldato da parte dell’esercito somalo.
22 gen. Open Doors: in aumento la persecuzione anticristiana
Martedì 11 gennaio l’ong ‘Open Doors’ ha pubblicato la ‘World Watch List 2017’, la nuova lista dei primi
50 paesi dove più si perseguitano i cristiani al mondo. Dal rapporto è emerso che nello scorso anno è
cresciuta ancora la persecuzione anticristiana nel mondo: sono oltre 215.000.000 i cristiani perseguitati e
l’oppressione islamica costituisce ancora la fonte principale di persecuzione anticristiana, non solo per i
fenomeni radicali di gruppi estremisti come Boko Haram (Nigeria, Niger, Chad, Camerun), Al Shabaab
(Somalia, Kenya, Uganda) o lo stesso ISIS, ma per il fatto che in ben 35 dei 50 paesi della lista la generale
oppressione esercitata dall’islam sulle minoranze fa crescere esponenzialmente l’intolleranza anticristiana a
tutti i livelli. Particolarmente in ascesa in termini di fonte di persecuzione è il nazionalismo religioso, che di
fatto infiamma alcune nazioni dell’Asia (India in testa, salita addirittura al 15° posto a causa dell’influenza
del nazionalismo induista). A tal proposito Laos, Bangladesh, Vietnam e Bhutan hanno visto un
deterioramento della situazione dei cristiani, e il nazionalismo buddista ha riportato lo Sri Lanka fra i 50
paesi della WWList.
Per il quindicesimo anno consecutivo la Corea del Nord del dittatore Kim Jong-un è il peggior paese al
mondo dove può vivere un cristiano (anche il solo possedere una Bibbia può portare al carcere, alla tortura o
alla pena di morte), tantoché il rapporto ha definito il regime una ‘paranoia dittatoriale’ e la Chiesa è
interamente clandestina. . I cittadini sono tenuti a essere devoti alla famiglia leader Kim, e a nessun altro,
non lasciando spazio per eventuali deviazioni. Tutte le sfere della vita mostrano livelli di pressione estrema,
con punteggi massimi nel privato, nella chiesa e nella sfera pubblica. Mentre la pressione sulle sfere della
chiesa e pubblica è tipica nei paesi comunisti (che, in teoria, vale anche per la Corea del Nord), la pressione
sulle restanti sfere dimostra che nessun tipo di religione è tollerato in questo sistema di paranoia dittatoriale
totalitaria.
Intanto nella ‘top ten’ della classifica al secondo posto si è posizionata la Somalia a causa del carattere
intrinsecamente tribale della società: ogni convertito dall’islam al cristianesimo, quando scoperto, affronta la
morte. La Chiesa è pressoché totalmente clandestina: “La pressione generale sui cristiani rimane
praticamente allo stesso livello estremo indicato nella WWL 2016
9 su 10 nazioni erano già presenti nella WWL dell’anno scorso: oltre alla Corea del Nord e Somalia, ci sono
Afghanistan, Pakistan, Sudan, Siria, Iraq, Iran ed Eritrea. Inoltre si sono registrati molti meno casi di
incidenti contro cristiani in Siria e Iraq, poiché la gran parte di essi è fuggita dall’ISIS. Per chi è rimasto
(anche sfollato in altre aree), la pressione è ancora molto alta. Lo Yemen sale al 9° posto, scalzando la Libia
(11°): i cristiani yemeniti sono presi nel mezzo della guerra civile tra fazioni sunnite leali alla corona saudita
e ribelli Huthi supportati dall’Iran (sciiti). Inoltre la pressione anticristiana cresce rapidamente nelle regioni
del Sud-Est Asiatico e dell’Asia Meridionale. La forte influenza del partito Bharatiya Janata in India ha
scatenato un pericoloso fervore nazionalista-religioso (la religione maggioritaria come elemento
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fondamentale di appartenenza al paese). 5 delle 6 nazioni che hanno visto un peggioramento notevole della
condizione dei cristiani provengono da queste regioni: India, Bangladesh, Laos, Bhutan e Vietnam.
Lo Sri Lanka, poi, rientra nella WWL a causa del nazionalismo buddista. Quello del nazionalismo religioso è
un fenomeno in ascesa sin dagli anni ’90, tuttavia nell’anno appena trascorso l’ascesa è stata allarmante.
Preoccupa il processo di induizzazione latente (‘L’India agli indù’) acceleratosi da quando Modi è primo
Ministro in India (ogni settimana circa 15 cristiani vengono attaccati in questo paese). Le nazioni vicine (a
maggioranza induista o buddista) usano il nazionalismo religioso come formula per rafforzare le posizioni di
potere nelle zone rurali.
Anche l’oppressione islamica, con la violenta sfaccettatura dell’estremismo, rimane la fonte di persecuzione
anticristiana dominante. Medio Oriente, Nord Africa e Africa Sub-Sahariana sono le regioni dove si registra
maggiore persecuzione di matrice islamica. L’instabilità politica e la violenza causata da movimenti
estremisti come Al-Shabaab e Boko Haram sono ormai sulle prime pagine di tutti i giornali. Una delle più
gravi emergenze umanitarie, ha denunciato l’ONU, è causata dai Boko Haram in Nigeria, con 8.000.000 di
persone in pericolo di fame.
Tuttavia anche nazioni esterne a queste aree geografiche mostrano lo stesso fenomeno. Il Pakistan, per
esempio, sale al 4° posto, con una crescita della violenza e della pressione sociale anticristiana
impressionanti: in ben 14 dei primi 20 paesi della lista, così come in 35 tra i primi 50, l’oppressione islamica
deforma e devasta la vita quotidiana dei cristiani. La tendenza a focalizzarsi sul numero di morti distoglie
l’attenzione sull’aggravamento di tutte le aree delle libertà individuali dei cristiani in questi paesi.
Anche in Africa i Paesi continuano ad essere scenario di odio anticristiano: ben 16 paesi della WWL sono
africani. Tra i trend che influenzano la persecuzione dei cristiani l’ong segnale la radicalizzazione islamica
dell’Africa Sub-Sahariana come tendenza dominante; la polarizzazione tra regimi radicali e autocratici del
Medio Oriente. Generalmente i trend possono essere internazionali, nazionali o locali, e sebbene la sfera
locale sia spesso sottovalutata, è proprio nell’ambito locale che si innestano le principali dinamiche di
persecuzione.
Le new entry della WWList di quest’anno sono Sri Lanka e Mauritania. Infine nello scorso anno sono stati
registrati 1.207 cristiani uccisi per motivi legati alla fede, e 1.329 chiese attaccate. Tali dati sono in
diminuzione rispetto al 2015 per alcune ragioni specifiche:
- “Primo, è sempre più difficile ottenere dati completi in situazioni di conflitto civile. Ne sono un
esempio le zone di guerra civile in Myanmar, Iraq e Siria; ma anche i monti Nuba in Sudan e gli stati
nella Middle Belt e nord della Nigeria (Ciad e Camerun compresi).
- Secondo, la reazione militare del governo nigeriano (e degli alleati) contro i Boko Haram in Nigeria
ha limitato le devastanti azioni di sterminio contro villaggi cristiani avvenute con più frequenza nel
2015.
- Terzo, l’avanzata dell’ISIS è stata fermata, anzi ampie aree sono state liberate dal suo dominio; si
aggiunga a ciò che la gran parte dei cristiani minacciati era fuggita nel corso del 2015 quando il
Califfato si espandeva, e si comprende come si sia ridotto anche in quest’area il numero di cristiani
uccisi.
Concludendo la presentazione del rapporto il direttore di ‘Porte Aperte’, Cristian Nani, ha affermato:
“Nell’epoca delle immagini fa più eco un assassinio ripreso con un cellulare che un milione di persone
trattate come animali. 1 cristiano ogni 3 subisce una grave forma di persecuzione nei 50 stati della nostra
ricerca. C’è molto di più delle morti e degli attentati alle chiese: in fondo stiamo parlando di milioni di vite
vessate e oppresse a causa di una scelta di fede”.
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