Ottobre 2001 - Ordine dei Giornalisti

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Ottobre 2001 - Ordine dei Giornalisti
Anno XXXII
n. 8, settembre-ottobre 2001
Ordine
Direzione e redazione
Via Appiani, 2 - 20121 Milano
Telefono: 02 63 61 171
Telefax: 02 65 54 307
dei
Giornalisti
della
Lombardia
http://www.odg.mi.it
e-mail:[email protected]
Spedizione in a.p. (45%)
Comma 20 (lettera b)
dell’art. 2 della legge n. 662/96
Filiale di Milano
Associazione “Walter Tobagi” per la Formazione al Giornalismo
Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo
Il regolamento relativo alla legge 150/2000 sulla comunicazione pubblica (dopo il sì del Consiglio di Stato) approvato dal Consiglio dei ministri
Il giornalista entra nella Pa
Esonerati Regioni ed Esteri
di Franco Abruzzo
La legge 150/2000, che disciplina le attività
di informazione (con gli uffici stampa) e di
comunicazione (con gli Urp) delle pubbliche
amministrazioni, diventerà operativa appena
il suo regolamento (approvato dal Consiglio
dei ministri il 2 agosto) sarà pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale.
Il regolamento, escludendo le Regioni,
restringe l’area delle pubbliche amministrazioni alle quali si applica la legge 150: l’esclusione è un “omaggio” al principio dell’autogoverno derivante dalla potestà legislativa.
L’articolo 3 del regolamento toglie dalla
portata della legge 150 anche il ministero
degli Esteri, che colloca nel suo ufficio stampa solo diplomatici di carriera.
Al rapporto tra amministrazione e organi di
informazione sarà incaricato, oltre all’ufficio
stampa, anche il portavoce che, per la durata del suo incarico, non potrà esercitare attività professionale nei media. La stessa
incompatibilità varrà per il personale degli
uffici stampa, che dovrà essere iscritto
nell’Albo dei giornalisti (professionisti e
pubblicisti), il cui profilo professionale sarà
definito attraverso una «speciale area di
contrattazione».
I giornalisti conseguono dunque il diritto di
cittadinanza, in maniera ufficiale, negli uffici
stampa della “Pa”. Si avanzano ipotesi mini-
mali di 2.500-3mila nuovi posti di lavoro (200
solo in Sicilia). Il dipartimento della Funzione
pubblica, invece, ha calcolato in circa 40mila
i posti da coprire in tutta Italia tra uffici stampa e Urp.
Si presenta, però, problematica l’applicazione dell’articolo 9 della legge 150/2000. La
legge 150 non parla di concorsi - via costituzionalmente obbligatoria per l’accesso
nell’apparato statale - per l’assegnazione dei
posti eventualmente disponibili, ma specifica
che «negli uffici stampa l’individuazione e la
regolamentazione dei profili professionali
sono affidate alla contrattazione collettiva
nell’ambito di una speciale area di contrattazione, con l’intervento delle organizzazioni
rappresentative della categoria dei giornalisti». Il comma 5, infine, aggiunge che dall’attuazione della legge «non devono derivare
nuovi o maggiori oneri a carico della finanza
pubblica». L’istituzione degli uffici stampa
diventa così una scelta discrezionale.
Il regolamento ha chiarito:
1 che degli uffici stampa potranno far parte
soltanto giornalisti professionisti e pubblicisti;
2 che i giornalisti responsabili degli uffici
stampa dovranno possedere un diploma di
laurea, mentre i redattori dovranno possedere soltanto il requisito minimo dell’iscrizione
nell’Albo dei giornalisti;
3 che il reclutamento dei giornalisti avverrà
secondo l’articolo 7, comma 6 del decreto
legislativo 29/93 (in sintesi, con contratti di
collaborazione coordinata e continuativa);
4 che il conferimento dell’incarico di responsabile dell’Urp e di capo ufficio stampa a
soggetti estranei alla pubblica amministrazione è subordinato al possesso dei requisiti
della laurea e dell’iscrizione nell’Albo dei
giornalisti (per il capo dell’ufficio stampa);
5 che «le amministrazioni possono confermare l’attribuzione delle funzioni di comunicazione e di informazione al personale dei
ruoli organici che già svolgono tali funzioni»
anche se il personale è sfornito dei titoli
specifici e del requisito professionale;
6 che le lauree previste sono quelle in Scienze della comunicazione, in Relazioni pubbliche e in materie assimilate, mentre i laureati
in discipline diverse dovranno aver conseguito il titolo di specializzazione o di perfezionamento post laurea o altri titoli post universitari rilasciati in Scienze della comunicazione o
in Relazioni pubbliche e in materie assimilate da istituti universitari pubblici e privati,
ovvero dovranno aver conseguito master in
Comunicazione presso la Scuola superiore
della pubblica amministrazione se di durata
meno equivalente, presso il Formez, la
Scuola superiore della pubblica amministrazione locale e altre scuole pubbliche nonché
presso strutture private connotate da specifica esperienza e specializzazione nel settore;
Alla selezione per il XIII biennio dell’Ifg hanno partecipato 227 neolaureati
Milano, 18 luglio 2001. I quadri dirigenti dell’Associazione
“Walter Tobagi” per la Formazione al Giornalismo, che gestisce l’Istituto “Carlo De Martino” (la prima scuola di giornalismo voluta dall’Ordine professionale e dalla Regione
Lombardia), sono stati confermati all’unanimità per il triennio
2001-2004: alla presidenza Bruno Ambrosi; vicepresidenti
Emilio Pozzi (vicario) e Gianluigi Falabrino; consigliere segretario Guido Re e tesoriere-economo Angelo Morandi. Guido
Re sostituisce Marco Barbieri (oggi direttore del quotidiano
.com). La riunione del Consiglio d’amministrazione dell’Afg
si è svolto l’altra sera presieduta dal presidente dell’Ordine
della Lombardia, Franco Abruzzo, che ha proposto la riconferma del gruppo dirigente.
Il Comitato ristretto dell’Afg sarà composto da Ambrosi,
Pozzi, Falabrino, Re, Morandi, Maurizio Vitali e Luca Del
Gobbo (rappresentanti nel Consiglio della Regione Lombardia); Gigi Speroni (direttore dell’Ifg).
La Scuola di giornalismo affronta ora il XIII biennio (20012003). Alla selezione, attualmente in corso (l’8 settembre si
sono svolte le prove scritte, nella foto, presso il Politecnico
ORDINE
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2001
7 che le attività formative del personale in
servizio (negli Urp e negli uffici stampa)
dovranno essere portate a compimento dalle
amministrazioni entro 24 mesi dall’entrata in
vigore del regolamento.
Sulle mansioni che negli uffici stampa saranno assegnate al personale iscritto all’Albo
nazionale dei giornalisti si svolgerà la
contrattazione in sede Aran. La contrattazione collettiva punta alla «individuazione e alla
regolamentazione dei profili professionali».
Va detto che, comunque, del Cnlg 20012005 fa parte la figura del collaboratore coordinato e continuativo. Questa novità fa da
interfaccia all’articolo 7 (comma 6) del decreto 29/93, che prevede incarichi individuali a
«esperti di provata competenza» (con
contratto coordinato e continuativo). L’ordinamento giuridico offre, in alternativa, la possibilità di inquadrare i giornalisti con contratti a
tempo indeterminato o determinato (i sindaci
e i presidenti delle Province possono assumere i giornalisti, destinati agli uffici stampa,
per la durata del loro mandato, in base all’articolo 51, comma 5, della legge 142/1990
sugli enti locali). Le amministrazioni pubbliche potrebbero peraltro assumere a tempo
determinato (per un periodo da 2 a 7 anni
rinnovabile) il portavoce e i coordinatori degli
uffici stampa, avvalendosi dell’articolo 19,
comma 2 del decreto 29/93.
(da Il Sole 24 Ore dell’11 agosto 2001)
SOMMARIO
Cronaca e Giustizia
Bruno Ambrosi
confermato
presidente
della Scuola
di Giornalismo
di Milano
pag. 2
Giurisprudenza
pag. 3
Diritto d’autore
pag. 3
Privacy
pagg. 4-8
di Milano) partecipano 227 neolaureati su 302 candidati
ammessi. Al termine della selezione, solo 40 frequenteranno
il corso, che, dopo due anni, si concluderà con l’esame di
Stato per acquisire il titolo di giornalista professionista. Presidente della Commissione è Piero Ostellino; vicepresidente
vicario Emilio Pozzi
(Il servizio alle pagine 22-23).
La Scuola di giornalismo dell’Ordine di Milano e della
Regione Lombardia nei 24 anni di vita ha creato 474 giornalisti: di questi, 24 sono direttori responsabili; 112 sono
vicedirettori o capiredattori; 286 sono redattori ordinari e 9
sono responsabili di uffici stampa, mentre 43 svolgono la
libera professione. Questi numeri dicono che le scelte fatte
nel 1974/1977 dalla Regione Lombardia e dall’Ordine dei
giornalisti della Lombardia sono state accompagnate da un
successo senza eguali e che le finalità (dare occupazione) della legge regionale 95/1980 sulla formazione sono
state raggiunte. Si precisa che 21 (12 a tempo indeterminato e 9 a tempo determinato) dei 40 allievi del XII biennio
sono stati già assunti prima che il corso si concluda nell’ottobre prossimo.
DOSSIER
DI OTTO
PAGINE
AL CENTRO
DEL
GIORNALE
Riflessioni
pagg. 10-13
Deontologia
pag. 14
I nostri lutti
pagg. 15- 21
Cultura
pag. 24, 25 e 27
Professione
in ultima
Usa: manette
sulla stampa
(il caso Leggett)
La pubblicità
ingannevole è slealtà
del giornalista
Diritto d’autore
e servizi
di fotocopiatura
Dati personali
e globalizzazione:
la relazione
del Garante
Fenomenologia
del G8 a Genova
Il giornalista che
pubblica il nome del
minore ferisce la dignità
della professione
Addio Montanelli,
addio Carlo Bo
La libreria
di Tabloid
Laurea in giornalismo
ed esame di giornalista:
decisivo il sì di Castelli
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Usa/Manette sulla stampa
(il caso Vanessa Leggett)
di Franco Abruzzo
Vanessa Leggett. È il nome della giornalista
free lance americana, che sta scontando 18
mesi di carcere per essersi rifiutata di consegnare i suoi taccuini a un giudice di Houston
che indaga su un delitto avvenuto nel mondo
vip del Texas.
Vanessa Leggett ha intervistato un testimone eccellente del delitto prima che lo stesso
ponesse fine alla sua vita ed ha poi deciso
di scrivere un libro sull’assassinio di una
signora, vittima probabilmente di un
“complotto di famiglia”.
Il supertestimone suicida, Roger Angleton, è
il fratello di Robert Angleton, marito della
donna. Un giudice ha ordinato a Vanessa
Leggett di consegnare i suoi taccuini, perché
ritiene che in quei taccuini ci sia la “verità sul
crimine”.
La giornalista free lance ha opposto un netto
rifiuto all’ordine, invocando il primo emendamento alla Costituzione federale. Il giudice
ha respinto il riferimento al primo emendamento, sostenendo per di più che il free
lance “non è un giornalista”.
La vicenda di Vanessa Leggett è diventato
un caso nazionale dopo il commento del
New York Times in cui si sostiene che
“difendere i taccuini di Vanessa significa
tutelare la libertà di stampa” ed anche il
principio che “non può essere un giudice a
stabilire che sia giornalista e chi no”. Il NYT
teme che, dopo i free lance, la stessa sorte
possa toccare ai giornalisti delle testate
minori e poi “agli altri”. “Non contrastare
questa impostazione significa accettare
l’inizio della fine dell’autonomia dei giornalisti”.
È certamente vero che il caso di Vanessa
Laggett pone almeno tre problemi di natura
politico-giuridica: il valore della libertà di
stampa in un Paese - gli Usa - ritenuto
baluardo di quel principio (non a caso il
primo emendamento alla Costituzione afferma che “il Congresso non potrà fare alcuna
legge per limitare la libertà di parola o di
stampa”); il ruolo del giornalista (free lance o
dipendente non importa) di cane da guardia
della democrazia; il segreto professionale del
giornalista negli Usa, in Europa e in Italia alla
luce anche delle convenzioni internazionali
firmate dagli Usa e dai Paesi del Vecchio
Continente.
Il quarto problema riguarda il potere del
giudice di ordinare a un giornalista di tenere
un certo comportamento.
La presenza dei caratteri della subordinazione nel rapporto di lavoro giornalistico, quali
la predeterminazione del contenuto delle
prestazioni da parte del datore di lavoro, l’organizzazione da parte sua degli strumenti
produttivi, il lavoro reso nei suoi locali e l’assenza di rischio economico del lavoratore,
non perde il suo valore indicativo per il solo
fatto che il lavoro venga reso soltanto per
poche ore durante la giornata. Il rapporto di
lavoro subordinato (anche giornalistico) può
coesistere con altre attività di lavoro o di
studio. Questo è in sintesi il contenuto della
sentenza n. 9512/2001 della sezione lavoro
della Corte di Cassazione.
Con ricorso al Pretore di Treviso (27 luglio
1992), una dipendente di un’emittente radiotelevisiva, lamentava di aver lavorato con
mansioni di giornalista dal 1984 al 1989 (a
tempo parziale) e dal 1989 al 1990 (a tempo
pieno). Il rapporto di lavoro era stato illegittimamente qualificato come lavoro autonomo.
La ricorrente chiedeva, quindi, che l’emitten-
2
cittadini e che tale diritto influisce di fatto
anche sulla trasparenza del processo decisionale”.
Il Patto internazionale di New York sui diritti
civili e politici (firmato il 19 dicembre 1966 e
ratificato negli Usa e nei Paesi della Ue)
all’articolo 19 afferma che “ogni individuo ha
il diritto alla libertà di espressione; tale diritto
comprende la libertà di cercare, ricevere e
diffondere informazioni e idee di ogni genere, senza riguardo e frontiere, oralmente, per
iscritto, attraverso la stampa, in forma artistica o attraverso qualsiasi altro mezzo di sua
scelta”. L’esercizio di queste libertà può
essere sottoposto a talune restrizioni che,
però, devono essere espressamente stabilite dalla legge ed essere necessarie: a) al
rispetto dei diritti o della reputazione altrui;
b) alla salvaguardia della sicurezza nazionale, dell’ordine pubblico, della sanità o della
morale pubblica”.
Negli Usa non c’è alcuna legge sulla professione giornalistica e sul segreto professionale dei giornalisti. Le decisioni del giudice del
Texas sul caso Leggett sono, quindi, in
contrasto con il Patto di New York, che obbliga gli Stati Uniti e che riconosce il diritto di
Vanessa Leggett a “cercare, ricevere e
diffondere informazioni di ogni genere...
attraverso la stampa o attraverso qualsiasi
altro mezzo di sua scelta” (anche un libro).
Il Patto di New York vincola anche i Paesi
della Ue. I Paesi della Ue, però, sono tenuti
ad applicare anche la Convenzione europea
dei diritti dell’uomo, che ha un articolo 10
simile all’articolo 19 del Patto di New York.
L’articolo 10 della Convenzione tutela
espressamente le fonti dei giornalisti. Lo ha
stabilito la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo con il caso del giornalista inglese
William Goodwin. Il Consiglio d’Europa ha
emanato la raccomandazione n° R (2000) 7,
adottata l’8 marzo 2000, sulla tutela delle
fonti dei giornalisti (che in Italia sono garantiti dall’articolo 2 della legge n. 69/1963 sulla
professione giornalistica; dall’articolo 13
della legge n. 675/1996 sulla privacy e
dall’articolo 200 del Cpp). Diversi punti della
raccomandazione hanno come retroterra
l’articolo 10 della Convenzione e specifiche
sentenze della Corte europea dei diritti
dell’uomo. Il Parlamento europeo, – in una
risoluzione del 18 gennaio 1994 sulla segretezza delle fonti d’informazione dei giornalisti
- ha dichiarato che “il diritto alla segretezza
delle fonti di informazioni dei giornalisti
contribuisce in modo significativo a una
migliore e più completa informazione dei
Per quanto riguarda l’Italia, un giudice (mai
un Pm) può ordinare a un giornalista professionista, in base all’articolo 200 del Cpp, di
“indicare la fonte delle sue informazioni se le
notizie sono indispensabili ai fini della prova
del reato e la loro veridicità può essere
accertata solo attraverso l’identificazione
della fonte della notizia”. I giornalisti sono
soliti opporre il segreto professionale, quando i giudici decidono di avvalersi dell’articolo
200. Negli ultimi tempi è prevalso l’orientamento secondo il quale il giudice “potrebbe
ordinare al giornalista di indicare la sua
fonte, purché sia l’unico strumento investigativo a disposizione”. I giudici appaiono restii
a uniformarsi alle sentenze di Strasburgo,
che pur sono vincolanti per le autorità italiane (tribunali compresi). Va detto anche che
gli articoli della Convenzione operano e incidono unitamente alle interpretazioni che la
Corte di Strasburgo ne dà attraverso le
sentenze. Le sentenze formano quel diritto
vivente al quale i giudici dei vari Stati
contraenti sono chiamati ad adeguarsi sul
modello della giustizia inglese. Non a caso il
Consiglio d’Europa, nella raccomandazione
R(2000)7 sulla tutela delle fonti dei giornalisti, ha scritto testualmente: “L’articolo 10
della Convenzione, così come interpretato
dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo,
s’impone a tutti gli Stati contraenti”.
Particolarmente interessante è, come riferito, la sentenza nota come il caso “Goodwin”.
William Goodwin, giornalista inglese, ricevette da una fonte fidata ed attendibile, alcune
informazioni su una società di programmi
elettronici (la Tetra Ltd). In particolare il giornalista rivelò che tale società aveva contratto
numerosi debiti e vertiginose perdite. La
società Tetra per evitare i danni che sarebbero potuti derivarle dalla divulgazione di tali
notizie presentò all’alta Corte di Giustizia
inglese un ricorso con il quale non solo chiedeva che fosse vietata la pubblicazione
dell’articolo in questione, ma chiedeva altresì che il giornalista fosse condannato a rivelare la fonte delle informazioni ricevute al fine
di evitare nuove “fughe di notizie”. Le richiesta della Tetra furono accolte sia dall’alta
Corte che dalla corte d’Appello, secondo le
quali il diritto alla protezione delle fonti gior-
La subordinazione compatibile
con altra attività lavorativa
(e con gli impegni di studio)
di Umberto Accomanno
te radiotelevisiva fosse condannata a pagare
le differenze retributive. La vicenda , dopo i
due rituali gradi di giudizio, “approda” avanti
la Corte di Cassazione .
Secondo la giurisprudenza costante della
Corte, il lavoro subordinato alle dipendenze
di un’impresa si concretizza anzitutto per l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione
produttiva e per il conseguente assoggettamento al potere gerarchico dell’imprenditore
che assume il rischio economico della
gestione ed organizza il lavoro altrui, tra l’altro attraverso la fissazione di un orario di
lavoro.
Al potere gerarchico è strettamente collegato quello disciplinare. In particolare, il potere
di organizzare l’azienda si esplica attraverso
la fissazione del contenuto e delle modalità
delle prestazioni rese dai lavoratori e nel
controllo continuo sulla loro esecuzione. Per
tali motivi il rapporto di lavoro subordinato
viene di regola eseguito nei locali del datore
Una giornalista free-lance
di Houston intervista
un testimone eccellente
di un delitto avvenuto
nel mondo Vip del Texas.
Il testimone poco dopo si suicida.
Un giudice ordina a Vanessa
Leggett di consegnare
i suoi taccuini. La giornalista
invoca il primo emendamento
della Costituzione federale
nalistiche ben può essere limitato “nell’interesse della giustizia, della sicurezza nazionale nonché a fini di prevenzione di disordini
o di delitti”. Il giornalista, tuttavia, non eseguì
l’ordine di divulgazione della fonte – posto
che in tale modo la stessa si sarebbe
“bruciata” – e presentò ricorso alla Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo, denunciando la violazione dell’articolo 10 della
Convenzione.
La Corte di Strasburgo, con sentenza in data
27 marzo 1996, muovendo dal principio che
ad ogni giornalista deve essere riconosciuto
il diritto di ricercare le notizie, ha ritenuto che
di tale diritto fosse logico e conseguente
corollario anche il diritto alla protezione delle
fonti giornalistiche, fondando tale assunto sul
presupposto che l’assenza di tale protezione
potrebbe dissuadere le fonti non ufficiali dal
fornire notizie importanti al giornalista, con la
conseguenza che questi correrebbe il rischio
di rimanere del tutto ignaro di informazioni
che potrebbero rivestire un interesse generale per la collettività.
Concludendo, la vicenda Leggett pone a
confronto anche i sistemi giuridici dei Paesi
anglosassoni e dei Paesi romanistici. I primi
fondano le loro decisioni sui precedenti giurisprudenziali, mentre i secondi affidano ai
giudici il compito di prendere decisioni sulla
base di Codici e di norme scritte. In Italia solo
i Consigli dell’Ordine possono dire chi è giornalista e chi no sulla base dell’iscrizione
nell’Albo. Il segreto professionale appare
meglio tutelato in Italia rispetto agli Usa
anche attraverso le sentenze della Corte di
Strasburgo, che può correggere eventuali
storture nazionali. William Goodwin ha ottenuto dalla Corte di Strasburgo un risarcimento di 128 milioni di lire, che il Governo di Sua
Maestà ha dovuto sborsare. In Italia sarebbero stati chiamati i giudici, autori della
sentenza, a risarcire lo Stato.
L’affermazione che “il Congresso non potrà
fare alcuna legge per limitare la libertà di
parola o di stampa” è solenne ed austera,
ma è anche rischiosa se poi un giudice, in
assenza di norme specifiche scritte, è libero
di affermare ciò che vuole e di sbattere una
persona, che non si “adegua”, per 18 mesi in
galera. Il caso Leggett deve far riflettere
anche in casa nostra.
*(.com del 22 agosto 2001)
di lavoro e non comporta alcun rischio
economico per il lavoratore .
Quando i sopra indicati elementi distintivi
sono presenti non importa che l’orario di
lavoro reso durante la giornata sia molto limitato, ben potendo il rapporto alle dipendenze
di un datore di lavoro coesistere con altro
rapporto intercorrente con altra persona.
Insomma, la disponibilità del giornalista
subordinato non implica necessariamente
l’esclusività del vincolo, posto che nessun
principio normativo osta alla conduzione
simultanea di più rapporti di lavoro, sia
subordinato, sia autonomo.
Anche nel lavoro giornalistico è configurabile
un rapporto di lavoro subordinato che non
richieda un impiego totale delle energie e
delle capacità lavorative, ma viceversa sia
circoscritto a segmenti temporali limitati e
compatibili con lo svolgimento di altre attività
(studio, altro rapporto di lavoro subordinato).
“I caratteri della subordinazione valgono
anche se l’attività viene resa per poche ore”.
ORDINE
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2001
hanno avviato un confronto sul nodo delle
rassegne stampa.
La Siae, la Federazione nazionale della
stampa italiana e la Federazione italiana
degli editori di giornali (rappresentate
rispettivamente dal commissario straordinario della Siae, Mauro Masi, dal segretario
della Fnsi, Paolo Serventi Longhi, e dal
direttore generale della Fieg, Sebastiano
Sortino) si sono incontrate allo scopo di
definire un accordo che dia mandato alla
Siae di tutelare il diritto d’autore per la riproduzione degli articoli nelle rassegne stam-
pa giornalistiche. Tutto ciò trova fondamento nella normativa vigente, in particolare
nella legge sul diritto d’autore del 1941 e
successive modificazioni.
L’incontro si è concluso dando mandato
alla Siae di presentare una bozza di
convenzione, che dovrà essere esaminata
dalle parti. Sarà, dunque, la Siae a elaborare questo progetto, tenendo conto di
quanto già avviene nella maggior parte dei
Paesi europei, dove la tutela degli articoli riprodotti nelle rassegne stampa è già
attuata da tempo.
ROMA, 23 aprile 2001. La Siae e l’Aie
(Associazione italiana editori) hanno firmato
con Confcommercio l’accordo che estende
agli esercizi commerciali - anche a quelli non
specializzati nella realizzazione di fotocopie la possibilità di effettuare il servizio di fotocopiatura dei testi nel pieno rispetto del diritto
d’autore.
L’accordo, che segue quello raggiunto recentemente tra Siae e Aie da un lato e le associazioni dei centri di fotocopiatura (Confartigianato e Cna) dall’altro, rientra nella sfera di
applicazione della legge 248/2000, che ha
introdotto un compenso per autori ed editori
delle opere a stampa fotocopiate, e si pone in
linea con quanto già avviene da tempo negli
altri Paesi europei. «Il fenomeno delle fotocopie selvagge - si legge in un comunicato - ha
prodotto nel nostro Paese effetti negativi per
l’intera filiera editoriale».
Secondo l’Associazione italiana editori, solo
nell’anno scorso gli editori hanno subito danni
per oltre 570 miliardi, gli autori per 30, le librerie per 190 e i distributori per 100 miliardi di
lire.
Intanto, il 19 aprile scorso, Siae, Fieg e Fnsi
Nel mirino le rassegne stampa
Accordo sul diritto d’autore
per i servizi di fotocopiatura
La legge sul diritto d’autore,
giornali e giornalisti
L’art. 38 della legge 633/1941 inquadra
l’utilizzazione economica delle opere
collettive (giornali e riviste): “Nell’opera
collettiva, salvo patto in contrario, il diritto
di utilizzazione economica spetta all’editore dell’opera stessa, senza pregiudizio del
diritto derivante dall’applicazione dell’art.
7 (“È considerato autore dell’opera collettiva chi organizza e dirige la creazione
dell’opera stessa”). Ai singoli collaboratori
dell’opera collettiva è riservato il diritto di
utilizzare la propria opera separatamente,
con l’osservanza dei patti convenuti, e in
difetto, delle norme seguenti”.
L’utilizzazione libera
degli articoli e dei discorsi
L’art. 65 della legge n. 633/1941 dice: “Gli
articoli di attualità, di carattere economico,
politico, religioso, pubblicati nelle riviste o
giornali, possono essere liberamente
riprodotti in altre riviste o giornali anche
radiofonici, se la riproduzione non è stata
espressamente riservata, purché si indichino la rivista o il giornale da cui sono
tratti, la data e il numero di detta rivista o
giornale e il nome dell’autore, se l’articolo
è firmato”.
L’art. 66 afferma: “I discorsi sopra argomenti di interesse politico od amministrativo, tenuti in pubbliche assemblee o
comunque in pubblico, possono essere
liberamente riprodotti nelle riviste o giornali anche radiofonici, purché si indichino
la fonte, il nome dell’autore e la data e il
luogo in cui il discorso fu tenuto”.
Confermata la sanzione
disciplinare inflitta dall’Ordine
della Lombardia a una
collaboratrice di “Oggi”
Milano, 17 settembre. Chi pubblica articoli,
che nella sostanza sono pubblicità ingannevole, tiene un comportamento che “viola
quel principio di lealtà nell’informazione cui
(ex artt. 2 e 48 della legge professionale n.
69/1963) devono essere improntati i
comportamenti del giornalista”. Con questa
secca motivazione la quinta sezione del
Tribunale civile di Milano ha confermato la
decisione del Consiglio nazionale che ha
inflitto la sanzione disciplinare dell’avvertimento scritto alla giornalista professionista
Caterina Vezzani, collaboratrice di Oggi.
La stessa ha pubblicato sul numero dell’11
ottobre 1995 di Oggi l’articolo “E lavarsi i
denti è un gioco” nel quale la giornalista “non
si limita a dare consigli per una più corretta
igiene orale dei bambini, eventualmente
segnalando ai lettori le novità presenti sul
mercato dando così un corretto carattere
divulgativo all’articolo, ma reclamizza in
modo indiretto i prodotti della linea Mentadent. L’articolo è stato corredato da una foto
che mette in evidenza in primo piano il dentifricio Mentadent e sullo sfondo tre spazzolini
da denti a forma di ometti che stanno in piedi
ed un ulteriore tubo di dentifricio, il tutto
sempre della Mentadent, pure in posizione
verticale”.
La decisione del Consiglio nazionale a sua
volta aveva confermato quella del Consiglio
dell’Ordine della Lombardia. La sentenza (n.
8010/2001) è stata adottata dal tribunale
integrato da due giornalisti come giudici
ORDINE
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2001
Fotocopie
(art. 68 legge 833/1941)
I diritti d’autore dovranno essere pagati anche per
le fotocopie. E non si potranno più riprodurre interi volumi o fascicoli di periodici, ma solo parti: fino
al 15 per cento, esclusa la pubblicità. Le biblioteche pubbliche pagheranno i diritti d’autore in
modo forfettario. Invece i “copy center”, anche
quelli che mettono a disposizione gratuitamente
le fotocopiatrici all’interno di librerie, biblioteche,
centri studi o altro, dovranno pagare i diritti con
un esborso che non può essere inferiore per
ciascuna pagina copiata al prezzo medio per
pagina, salvo accordi diversi con la stessa Siae.
Niente royalties invece per le rassegne stampa
(definite un “prodotto effimero”).
L’articolo 68 della legge 633/1941 stabilisce:
È libera la riproduzione di singole opere o brani
di opere per uso personale dei lettori, fatta a
mano con mezzi di riproduzione non idonei a
spaccio o diffusione dell’opera nel pubblico.
È libera la fotocopia da opere esistenti nelle
biblioteche, fatta per i servizi della biblioteca o,
nei limiti e con le modalità di cui ai commi quarto
e quinto, per uso personale (13/e).
È vietato lo spaccio di dette copie nel pubblico e,
in genere ogni utilizzazione di concorrenza con i
diritti di utilizzazione economica spettanti all’autore (3/cost).
È consentita, conformemente alla convenzione
di Berna per la protezione delle opere letterarie e
artistiche, ratificata e resa esecutiva ai sensi della
legge 20 giugno 1978, n. 399, nei limiti del quindici per cento di ciascun volume o fascicolo di
periodico, escluse le pagine di pubblicità, la riproduzione per uso personale di opere dell’ingegno
effettuata mediante fotocopia, xerocopia o sistema analogo. I responsabili dei punti o centri di
riproduzione, i quali utilizzino nel proprio ambito o
mettano a disposizione di terzi, anche gratuitamente, apparecchi per fotocopia, xerocopia o
analogo sistema di riproduzione, devono corri-
spondere un compenso agli autori ed agli editori
delle opere dell’ingegno pubblicate per le stampe
che mediante tali apparecchi vengono riprodotte
per gli usi previsti nel primo periodo del presente
comma. La misura di detto compenso e le modalità per la riscossione e la ripartizione sono determinate secondo i criteri posti all’articolo 181-ter
della presente legge. Salvo diverso accordo tra la
Siae e le associazioni delle categorie interessate,
tale compenso non può essere inferiore per
ciascuna pagina riprodotta al prezzo medio a
pagina rilevato annualmente dall’Istat per i libri.
Gli articoli 1 e 2 della legge 22 maggio 1993, n.
159, sono abrogati (13/f).
Le riproduzioni delle opere esistenti nelle biblioteche pubbliche, fatte all’interno delle stesse con i
mezzi di cui al quarto comma, possono essere
effettuate liberamente, nei limiti stabiliti dal medesimo comma, salvo che si tratti di opera rara fuori
dai cataloghi editoriali, con corresponsione di un
compenso in forma forfettaria a favore degli aventi diritto, di cui al comma 2 dell’articolo 181-ter,
determinato ai sensi del secondo periodo del
comma 1 del medesimo articolo 181-ter. Tale
compenso è versato direttamente ogni anno dalle
biblioteche, nei limiti degli introiti riscossi per il
servizio, senza oneri aggiuntivi a carico del bilancio dello Stato o degli enti dai quali le biblioteche
dipendono (13/g).
(13/e) Comma così sostituito dall’art. 2, L. 18
agosto 2000, n. 248.
(3/cost) La Corte costituzionale, con sentenza 23
marzo-6 aprile 1994, n. 108 (Gazz. Uff. 12 aprile
1995, n. 15, serie speciale), ha dichiarato non
fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 19, 61, 68 e 109, sollevata in riferimento agli artt. 3, 9, 41 e 42 della Costituzione.
(13/f) Comma aggiunto dall’art. 2, L. 18 agosto
2000, n. 248.
(13/g) Comma aggiunto dall’art. 2, L. 18 agosto
2000, n. 248.
(14/a) Comma aggiunto dall’art. 3, L. 18 agosto
2000, n. 248.
Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera,
per scopi di critica, di discussione
ed anche di insegnamento, sono
liberi nei limiti giustificati da tali
finalità e purché non costituiscano
concorrenza (articolo 70 della
legge 633/1941)
Dice l’articolo 70 della legge 633/1941: “Il
riassunto, la citazione o la riproduzione di
brani o di parti di opera, per scopi di critica,
di discussione ed anche di insegnamento,
sono liberi nei limiti giustificati da tali finalità
e purché non costituiscano concorrenza alla
utilizzazione economica dell’opera. Nelle
antologie ad uso scolastico la riproduzione
non può superare la misura determinata dal
regolamento il quale fisserà la modalità per
la determinazione dell’equo compenso. Il
riassunto, la citazione o la riproduzione
debbono essere sempre accompagnati
dalla menzione del titolo dell’opera, dei nomi
dell’autore, dell’editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni
figurino sull’opera riprodotta”.
Vietato agire senza consenso quando
l’utilizzazione dell’opera non è a scopo
di critica, discussione o insegnamento.
“L’utilizzazione di parti o brani di opera altrui
in un libro che si autodefinisce dedicato ad
un artista scomparso è illecita e costituisce
violazione del diritto di autore se manca il
consenso del titolare del diritto e se la finalità dell’utilizzazione non rientra tra le ipotesi
di cui all’art. 70 della legge sul diritto di autore (e, cioè, utilizzazione a scopo di critica,
discussione o insegnamento). L’erede
dell’autore può agire a difesa dei diritti patrimoniali d’autore e di quelli relativi allo sfruttamento economico dell’immagine” (Trib.
Napoli, 18 aprile 1997; Parti in causa Troisi
c. Soc. Emme Grafica ind. ed.).
Tribunale di Milano: la pubblicità
ingannevole è slealtà del giornalista
aggregati (Giulio Bianchi presidente; Roberto Portile e Maria Teresa Brena, giudici;
Renzo Magosso e Stefano Donarini, giornalisti giudici aggregati). Il Pm, Ada Rizzi, ha
chiesto la conferma della sanzione. Il Consiglio della Lombardia è stato difeso dall’avvocato Remo Danovi; il Consiglio nazionale
dagli avvocati Antonio Pandiscia e Cesare
Lombrassa. Questi i passaggi centrali della
sentenza:
MOTIVI DELLA DECISIONE
A seguito della sentenza della Corte d’Appello di Milano pronunciata in data 20.10.’00
con la quale veniva dichiarata la nullità della
sentenza. n. 4031 resa dal Tribunale di Milano in data 23.3.00 per carenza del contradditorio, in quanto nel giudizio di primo grado
non avevano partecipato pur essendo litisconsorti necessari il Consiglio Nazionale
dell’Ordine dei giornalisti che ha adottato la
decisione che qui si impugna ed il Consiglio
Regionale per la Lombardia, e veniva contestualmente disposta la rimessione della
causa al giudice di primo grado, le parti
hanno proceduto alla riassunzione nei termini di cui agli artt. 353 e 354 Cpc e si sono
reciprocamente costituite nei due giudizi
riassunti e poi riuniti, pertanto di nessun
pregio sono le osservazioni proposte dalla
difesa della Vezzani in ordine alla carenza di
legittimazione del Consiglio Regionale
dell’Ordine poiché ex art. 156 Cpc terzo
comma non può essere mai pronunciata la
nullità se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è
destinato.
Venendo ora nel merito della decisione e
cioè se debba o meno essere confermata la
delibera del Consiglio nazionale dell’Ordine
che respingendo il ricorso proposto dalla
giornalista Caterina Vezzani ha confermato il
provvedimento disciplinare dell’avvertimento
scritto inflittole dal Consiglio Regionale,
questo Collegio ritiene di dover ribadire la
decisione già presa in primo grado e annullata per motivi meramente processuali,
peraltro confermata invece nei confronti del
direttore del giornale Paolo Occhipinti dalla
sentenza della Corte d’Appello di Milano
emessa in data 20.09.00 n. 24737/00.
Infatti non vi è dubbio che l’articolo redatto
dalla Vezzani “E lavarsi i denti è un gioco”
integri gli estremi della cosiddetta pubblicità
ingannevole ai sensi degli arti. 1, comma 2.2,
lettera b), ed in violazione dell’art. 4 comma
1 del Decreto Legislativo 25 gennaio 1992 n.
74 poiché in detto articolo la giornalista non
si limita a dare consigli per una più corretta
igiene orale dei bambini, eventualmente
segnalando ai lettori le novità presenti sul
mercato dando così un corretto carattere
divulgativo all’articolo, ma reclamizza in
modo indiretto i prodotti della linea Mentadent laddove scrive: .. “poi un bel giorno,
regalategli il SUO spazzolino, e il SUO dentifricio per esempio della linea Mentadent
denti in Crescita studiata per i più piccoli..”.
Detto articolo è stato altresì corredato da un
foto che mette in evidenza in primo piano il
dentifricio Mentadent e sullo sfondo tre spazzolini da denti a forma di ometti che stanno
in piedi ed un ulteriore tubo di dentifricio - il
tutto sempre della Mentadent-pure in posizione verticale.
Con l’articolo in questione dunque si reclamizzano i prodotti della linea Mentadent per
bambini, con un aspetto informativo, ingannando il lettore sulla reale portata promozionale del testo che è inserito nell’ambito di
una pagina dedicata alla “bellezza”, e graficamente circoscritto da un bordo a pallini
che non può essere considerato idoneo ad
attribuire natura pubblicitaria a detto inserto,
poiché la suddetta connotazione grafica
viene utilizzata nella stessa pagina anche
per un altro articolo “C’è anche il dentifricio
alla propoli”.
Tale comportamento viola quel principio di
lealtà nell’informazione cui ex artt. 2 e 48
legge n. 69/1963 devono essere improntati i
comportamenti del giornalista, va quindi
confermata la decisione del Consiglio Nazionale che inflitto la sanzione disciplinare
dell’avvertimento scritto.
P. Q.M. il Tribunale definitivamente pronunciando rigetta il ricorso proposto dalla giornalista Caterina Vezzani, accoglie viceversa
il ricorso proposto dal Consiglio rgionale dei
giornalisti della Lombardia e per l’effetto
conferma la decisione del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti emessa in data
3.11.99.
3
P
R
I
V
A
C
Y
Pubblichiamo il discorso
di presentazione della relazione 2000
pronunciato a Roma
il 17 luglio scorso
dal Garante Stefano Rodotà
La protezione dei dati personali
nell’era della globalizzazione
La relazione di quest’anno coglie il Garante per la protezione dei dati
di Stefano
personali in un momento singolare e stimolante, sia per quanto riguarda
Rodotà
la sua vita interna, sia per quel che si riferisce al complessivo contesto
culturale e istituzionale in cui dobbiamo muoverci. Si è concluso, infatti,
il primo quadrienno della nostra attività, e questa scadenza istituzionale
è stata accompagnata da un parziale rinnovamento del collegio. I componenti del passato Collegio, Giuseppe Santaniello ed io stesso, sono oggi
affiancati da Mauro Paissan e Gaetano Rasi, con i quali l’intesa è stata
immediata ed il cui contributo già incide su materie di particolare rilevanza, come il commercio elettronico e il sistema dei media. Hanno lasciato
il Collegio Ugo De Siervo e Claudio Manganelli, con i quali abbiamo
condiviso la fase difficile della costruzione di questa nuova istituzione,
ed ai quali va un particolarissimo ed affettuoso ringraziamento.
Collocati sul crinale tra passato e futuro, dobbiamo qui proporre elementi di bilancio e cimentarci con ipotesi di programmi a più lunga scadenza.
Riferiamo sul già fatto, e spingiamo lo sguardo verso il molto che dovremo fare.
In tempi di globalizzazione, proprio la questione dei dati personali è stata
tra le primissime a scavalcare ogni frontiera, a liberarsi dalle costrizioni
del tempo e del luogo attraverso le molteplici opportunità offerte da Internet. Parlando oggi di privacy, frequentiamo una dimensione dove s’intrecciano valori fondativi della persona, precondizioni della democrazia,
modalità diverse dell’azione economica.
L’Europa e i diritti dei cittadini
Intanto, però, il quadro dei principi di riferimento si è rafforzato e consolidato. Questo è
avvenuto alla fine dell’anno scorso, quando
a Nizza è stata proclamata la Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, che riconosce la tutela dei dati personali come un
diritto fondamentale della persona, con una
sua specificità ed autonomia, e non soltanto
come un aspetto, magari implicito, di una più
generale tutela della vita privata. Ai dati
personali, infatti, la Carta dedica l’intero articolo 8, anche con un esplicito riferimento alla
necessità di una autorità indipendente di
controllo, che così si configura come un ineliminabile diritto del cittadino, come un
elemento costitutivo del sistema delle garanzie.
Giunge così a compimento un modello europeo che - attraverso convenzioni, direttive,
legislazioni nazionali - è progressivamente
andato oltre un’idea di privacy come puro
scudo protettivo contro invasioni esterne.
Parliamo ormai di un diritto all’autodeterminazione informativa, del potere di governare
il flusso delle proprie informazioni come parte
integrante di quella “costituzionalizzazione”
della persona che rappresenta uno degli
aspetti più significativi delle attuali dinamiche
istituzionali. Non intendo qui discutere la
portata della Carta dei diritti fondamentali,
alla quale non è stato ancora attribuito formal-
mente un valore giuridico vincolante, ma che
tuttavia già costituisce punto di riferimento
per l’azione di corpi politici e amministrativi,
di giudici nazionali e sovranazionali. È certo,
comunque, che quella Carta ha rinnovato il
sistema dei valori fondativi dell’Europa, e che
in questo sistema la protezione dei dati occupa ormai una posizione di rilievo.
Viene così riaffermata e dilatata la legittimazione delle autorità nazionali di garanzia, si
fa più stringente il loro dovere di assicurare
una tutela rigorosa ai diritti dei cittadini. I
governi e i parlamenti, che a quella Carta
hanno dato il loro consenso, devono coerentemente rispettarne i principi e operare bilanciamenti tra gli interessi che non sacrifichino
le garanzie della sfera privata.
Così facendo l’Europa è forse prigioniera di
una illusione? La considerazione della protezione dei dati personali come un diritto
fondamentale può sembrare lontanissima da
una realtà che il presidente di una grande
società americana così brutalmente descrive: “La vostra privacy è zero. Rassegnatevi”.
È davvero questo il destino che ci riserva l’incessante innovazione tecnologica, o in affermazioni come questa si riflettono piuttosto le
pretese di alcuni settori del mondo imprenditoriale, e i caratteri che differenziano il
modello europeo da quello degli Stati Uniti?
Un confronto con gli Stati Uniti
Proprio l’analisi delle dinamiche reali ci impone di non cedere alle semplificazioni. Esaminerò più avanti gli atteggiamenti che emergono tra le imprese. Intanto, però, è necessaria un’attenzione attiva per quel che sta
accadendo negli Stati Uniti. Probabilmente è
eccessivo l’ottimismo di chi parla della legislatura appena cominciata come di un
“privacy Congress”. È certo, tuttavia, che
cresce la pressione per una tutela della
privacy non affidata soltanto all’autoregolamentazione ed alle logiche del mercato.
Trenta proposte di legge sono già state
presentate al Congresso e, tra queste, alcune prevedono l’istituzione di una autorità sul
modello europeo; negli stati, il numero delle
proposte, nel 2001, è arrivato addirittura a
6918. Lo stesso Presidente Bush ha chiesto
una normativa che impedisca l’uso dei dati
genetici a fini discriminatori, in particolare ad
opera di datori di lavoro e assicuratori,
secondo una linea già adottata da un decre-
4
to di Clinton del febbraio dell’anno scorso,
che vietava appunto il ricorso ai dati genetici
per la valutazione dei dipendenti federali.
A queste dinamiche non è estranea l’influenza del modello europeo che, subordinando il
trasferimento dei dati personali fuori dall’Unione europea all’esistenza di una protezione adeguata nei paesi di destinazione,
comincia ad obbligare le imprese americane
a rispettare regole più severe di quelle interne ed offre un punto di riferimento a quanti,
negli Stati Uniti, chiedono appunto livelli più
elevati di protezione. Tutto questo non avviene senza contrasti e resistenze. L’accusa di
violare la sovranità degli Stati Uniti con la
pretesa di imporre regole europee, proposta
in modo particolarmente tagliente in occasione di un recentissimo intervento della
Commissione in tema di concentrazioni, era
già stata ripetutamente formulata proprio in
relazione alle norme sulla circolazione transnazionale delle informazioni personali.
La Dichiarazione di Venezia
e l’iniziativa italiana
Ho insistito sulle questioni internazionali per
una ragione generale e per segnalare subito
un problema concreto, che impegnerà dall’inizio dell’autunno tutta quella parte del sistema imprenditoriale che trasferisce dati
personali fuori dell’Unione europea. Il Garante italiano è certamente quello che, in Europa, ha maggior consapevolezza della dimensione davvero globale della circolazione
delle informazioni, e di ciò abbiamo avuto un
palese riconoscimento con la mia elezione
quale presidente del Gruppo dei Garanti
europei. Organizzando l’anno scorso a Venezia la ventiduesima Conferenza mondiale
sulla protezione dei dati personali, avevamo
scelto come tema “Un mondo, una privacy”
ed avevamo risolutamente operato perché la
conferenza si concludesse con una dichiarazione volta ad indicare una via verso regole
condivise.
La Dichiarazione di Venezia, sottoscritta dai
rappresentanti delle autorità di tutto il mondo,
ribadisce che la privacy è “un diritto fondamentale della persona” e “un elemento
essenziale della libertà dei cittadini”; indica i
principi comuni ai quali già ci si ispira nei più
diversi paesi; impegna ad operare per garantire a tutti elevati e analoghi livelli di protezione. Segnaliamo questa esperienza a Governo e Parlamento perché, se lo riterranno
opportuno, mantengano viva l’iniziativa italiana e si facciano promotori di azioni internazionali che con strumenti diversi e coordinati
tra loro - convenzioni, codici di condotta,
standard tecnici - costruiscano una rete
sempre più larga di riferimenti comuni.
Non sarebbe una iniziativa eccessivamente
ambiziosa, coglierebbe lo spirito del tempo,
sarebbe un buon esempio di quella che ho
chiamato “attenzione attiva” per i nuovi
problemi e le nuove prospettive di tutela. Il
modello europeo di protezione dei dati
personali, infatti, ha ormai superato i confini
dell’Unione e ispira la legislazione dei paesi
più diversi (dal sistema di Hong Kong alle
leggi dei paesi dell’Europa centrale e orientale, a quelle recentissime di Cile e Argentina). Una iniziativa italiana rafforzerebbe
questa tendenza e favorirebbe cosi la diffusione di principi comuni.
Le informazioni fuori dall’Unione
europea: no ai paradisi dei dati
Proprio la crescente legittimazione internazionale di questo modello conferma la
giustezza della scelta del legislatore europeo
e di quello italiano di consentire il trasferimento dei dati personali solo in paesi che
offrano una protezione adeguata, così
evitando la pericolosa nascita di “paradisi dei
dati”, assai più agevoli da costruire degli
stessi paradisi fiscali. Finora la circolazione
internazionale dei dati non è stata sostanzialmente intralciata, per consentire alle
imprese di adeguare le prassi alle nuove
regole; per cominciare ad identificare i paesi
che, fuori dell’Unione europea, già offrono
livelli adeguati di protezione; e, soprattutto,
per risolvere i difficili problemi dei trasferimenti verso il più grande “mercato” delle
informazioni, gli Stati Uniti.
Disponiamo ora degli strumenti necessari, e
il periodo di “grazia” è terminato, ovunque in
Europa. Il Garante indicherà al più tardi a
settembre i criteri che dovranno essere
seguiti da tutti i soggetti che, localizzati in
Italia, trasferiscono o intendono trasferire dati
personali fuori dell’Unione europea. Ma è
opportuno che fin d’ora tutti prendano buona
nota di questa scadenza e facciano le loro
scelte: assai semplici se il trasferimento
riguarda paesi la cui legislazione va considerata adeguata dall’Unione europea (Canada, Svizzera, Ungheria, Slovenia, Hong
Kong) o se si tratta di imprese statunitensi
che hanno aderito all’accordo chiamato
“Safe Harbor”, “Porto sicuro”; scelte che
saranno appena più complesse, se si ricorrerà alle clausole contrattuali uniformi già
approvate dalla Commissione europea sulla
base del lavoro dei garanti europei; e che
diverranno più impegnative se si deciderà di
ricorrere per casi speciali alla procedura
prevista dall’art. 28 della legge 675, dal
momento che si dovrà chiedere per questi
una specifica autorizzazione del Garante.
Un’opportunità,
un valore aggiunto
Non vorrei che, a questo punto, venisse
riproposto lo schema ingannevole che
contrappone alla fluidità dei commerci la rigidità della disciplina dei dati personali. Questa
è una tesi insostenibile in via di principio
perché, con uno scatto d’insofferenza, non
si può semplicisticamente considerare come
un intralcio alla competitività quello che, invece, è un ineludibile diritto fondamentale. Ma,
soprattutto, insistere su quella contrapposizione rivela arretratezza, incapacità di guardare alle dinamiche più avanzate dello stesso mondo imprenditoriale.
Nella Relazione dello scorso anno mettevamo in luce la dipendenza dello sviluppo del
commercio elettronico da politiche imprenditoriali capaci di rispondere alle preoccupazioni della quasi totalità dei consumatori,
poco propensi ad entrare nel mercato elettronico senza adeguate garanzie per la riservatezza e la sicurezza dei loro dati. Avevamo
visto giusto. Nel corso del 2000 il commercio
elettronico ha perduto negli Stati Uniti dodici
milioni di clienti; pochi giorni fa una inchiesta
Gallup ha confermato le preoccupazioni dei
consumatori; e già si manifestano o si
annunciano politiche imprenditoriali che
segnano una radicale modifica degli atteggiamenti verso la protezione dei dati personali.
Grandi imprese, in Europa e in America,
dichiarano la loro volontà di abbandonare le
pratiche di spamming (invio indiscriminato di
messaggi pubblicitari), di preferire l’opt in
(consenso preventivo) all’opt out (richiesta di
cancellazione dalle liste). Fuori dai gerghi,
questo vuol dire che tali imprese adottano in
pieno la logica (già norma in Italia e altrove)
del preventivo consenso dell’interessato al
trattamento dei suoi dati personali. La ragione è squisitamente economica: l’invio di
messaggi indesiderati può provocare reazioni di rigetto nei confronti del mittente molesto, l’insicurezza sulle modalità di raccolta e
ORDINE
8
2001
Garante della privacy:
pubblici i nomi
degli iscritti negli Albi,
ma spetta agli Ordini
stabilire le modalità
di comunicazione
Sono pubblici i nomi dei medici chirurghi iscritti negli Albi, ma
spetta a ciascun Ordine provinciale stabilire le modalità di
comunicazione a chi ne fa richiesta. È quanto ha ribadito il
Garante nella risposta ad un quesito rivolto da un cittadino.
Sulla questione l’Autorità era già intervenuta chiarendo che
la legge sulla privacy non ha modificato la disciplina legislativa relativa al regime di pubblicità degli Albi e non pone,
dunque, alcun ostacolo alla diffusione dei dati personali
contenuti negli Albi, purché limitata alle informazioni che
devono esservi inserite per legge.
L’Autorità ha ricordato che le norme vigenti prevedono che
l’Albo di ciascun Ordine dei medici chirurghi sia stampato e
pubblicato entro il mese di febbraio di ogni anno, con contestuale trasmissione di una copia ad alcune amministrazioni
pubbliche anche allo scopo di una sua affissione nelle prefetture. Tali norme collocano questi Albi tra i documenti pubblici
conoscibili da chiunque, consentendo agli Ordini di comunicare e diffondere a privati ed enti pubblici economici i dati
personali contenuti negli Albi.
di utilizzazione dei dati su Internet allontana
dai siti sospetti. Tutto questo contrasta con
strategie volte a conquistare la fiducia dei
consumatori. In questa prospettiva, la
privacy si presenta come un valore aggiunto,
addirittura come un efficace strumento di
concorrenza tra imprese. I prepotenti della
“Zero privacy” cominciano ad essere abbandonati all’interno del loro stesso mondo.
to la loro copertura a soggetti poi rivelatisi a
dir poco disinvolti nel trattare dati personali.
Si pone così il problema dell’affidabilità dei
certificatori, delle loro responsabilità, anche
patrimoniali, nei confronti del pubblico. Allo
stesso modo, la mancata richiesta d’essere
inseriti in una “lista Robinson” non può mai
essere considerata come un consenso indiretto o presunto a ricevere pubblicità.
Si profila così la possibilità di un’alleanza
“virtuosa” tra difensori della privacy e settori
avanzati del mondo imprenditoriale, con
opportunità crescenti anche per i gruppi che
operano nell’interesse dei consumatori.
Anche in Italia, infatti, cominciano a svilupparsi iniziative tendenti ad offrire alle imprese una “certificazione di qualità” delle loro
politiche di privacy, ad offrire ai cittadini la
possibilità di essere inseriti in “liste Robinson”, costituite dai nomi delle persone che
dichiarano preventivamente di non voler ricevere comunicazioni pubblicitarie.
Da parte nostra stiamo completando l’analisi
delle politiche dei siti italiani, non fermandoci
alla superficie, che può rivelarsi ingannevole,
delle modalità di raccolta dei consensi. Si
fanno sempre più sottili e sofisticate le forme
di trattamento “invisibile” delle informazioni,
che sono comunque illegali, come ha ribadito in una sua Raccomandazione il Gruppo
dei Garanti europei. Su questo interverremo
con modalità concordate con le autorità degli
altri paesi, sollecitando anche l’adozione di
più puntuali regole deontologiche, sostenendo l’azione di quanti insistono per l’introduzione di più adeguati standard tecnici (l’industria del sofware ha mostrato attenzione per
alcuni suggerimenti avanzati dalla comunità
di Internet), mettendo in evidenza le relazioni di fiducia indispensabili per attribuire credibilità alle attività di certificazione.
Seguiamo con attenzione queste iniziative,
consapevoli anche dei problemi che possono
porre. Di nuovo può soccorrerci l’esperienza
degli Stati Uniti, dove grandi “certificatori”
sono incappati in gravi infortuni, avendo offer-
I “decaloghi” sulla propaganda
elettorale e la videosorveglianza,
l’attenzione per gli interessi
del cittadino “comune”
Nell’ultimo anno le modalità di intervento del
Garante si sono articolate, cogliendo le
esigenze di una realtà che chiede anche
interventi generali e preventivi. Richiamo in
particolare l’attenzione sui provvedimenti in
materia elettorale e di videosorveglianza,
strutturati in modo da offrire a tutti gli interessati prescrizioni chiare, per punti, agevolmente comprensibili ed applicabili.
Si tratta di provvedimenti che, da una parte,
sintetizzano decisioni già assunte dal Garante e, dall’altra, colgono esigenze variamente
manifestate. Così, il “decalogo” elettorale ha
consentito di risolvere centinaia di questioni
con un semplice rinvio al suo testo, disponibile sul nostro sito web, dove erano e sono
anche presenti sintetici schemi per richiedere notizie sulla fonte dei dati utilizzati per l’invio di messaggi elettorali, e per ottenere la
cancellazione dagli elenchi predisposti. Si è
manifestata, infatti, una vivissima sensibilità
dei cittadini, che tendono a rifiutare la propaganda elettorale non gradita. E il “decalogo”
sarà presto aggiornato proprio per tener
conto di queste preoccupazioni, e per chiarire le modalità di trattamento dei dati raccolti
da partiti e singoli politici.
Più difficile e controversa si presenta l’applicazione delle indicazioni sulla videosorveglianza, spesso eluse e per le quali è già
stato avviato un programma di ispezioni, che
in alcuni casi, come per le web camera sulle
spiagge, hanno consentito di risolvere immediatamente i problemi. A proposito di videosorveglianza, tuttavia, è bene dire alcune
parole chiare, per evitare il perpetuarsi di
equivoci interessati o determinati da scarsa
conoscenza dei dati reali.
Anche qui si tende spesso a prospettare un
conflitto, questa volta tra esigenze di sicurezza e tutela della sfera privata. E anche
questa volta bisogna ribadire che è inaccettabile la pretesa di sacrificare la tutela dei
dati, diritto fondamentale della persona.
È possibile, anzitutto, trovare punti di equilibrio tra i diversi interessi in gioco, come
dimostra, ad esempio, la collaborazione tra
ORDINE
8
2001
ministero dell’Interno e Garante per il
programma di videosorveglianza sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Qui il trattamento delle informazioni rispetta i principi di
finalità, pertinenza, proporzionalità, in particolare per quanto riguarda il tempo di
conservazione dei dati raccolti: questo rispetto dei diritti dei cittadini non ha limitato l’efficacia delle misure di sicurezza: le rapine
sono diminuite del 40%. E lo stesso si può
dire per i sistemi di videosorveglianza su
mezzi pubblici, sui varchi d’accesso ai centri
storici, su aree particolarmente a rischio.
Ma si racconta spesso che, posti di fronte
all’alternativa tra sicurezza e riservatezza, i
cittadini scelgono sempre la prima. La nostra
esperienza ci dice che non è così. Il bisogno
di intimità, ad esempio sulle spiagge, porta a
rifiutare ogni occhio indiscreto. L’identificazione, sia pure casuale, dei pazienti che entrano in uno studio medico, in una strada videosorvegliata, provoca forti e giustificate
reazioni di rigetto. Potrei proseguire in questa
casistica che, comunque, dovrebbe mettere
in guardia contro le semplificazioni. Se
davvero si vogliono conoscere le opinioni dei
cittadini in una materia tanto delicata, bisogna articolare le domande, identificando i
reali interessi implicati in situazioni che si
presentano assai diverse l’una dall’altra.
Proprio questa ricchezza di interessi si riflette nella gran massa dell’attività del Garante,
che incontra i bisogni minuti, quotidiani delle
persone. I diritti sul luogo di lavoro, nella
scuola, nel comune; le questioni della salute;
le relazioni con istituti bancari ed assicurativi, con centrali rischi private, con gestori dei
servizi telefonici; la qualità dell’informazione
commerciale; i rapporti condominiali: qui, e
in altre materie, gli interventi del Garante
sono intensissimi e confermano la sua collocazione dalla parte dei cittadini. Una linea,
questa, lungo la quale si svilupperanno, tra
gli altri, gli interventi imminenti sull’uso delle
e-mail e di Internet nei luoghi di lavoro,
questione sulla quale si pronuncerà all’inizio
di settembre il Gruppo dei Garanti europei.
Ma una nuova questione si è aperta, legata
Tali disposizioni, tuttavia, non disciplinano né le forme di
consultazione dell’Albo né l’invio di copia ad altri soggetti
pubblici o privati. Spetta a ciascun Ordine valutare l’eventuale praticabilità di alcune specifiche modalità di comunicazione dei dati, diverse dalla messa a disposizione dell’Albo per
la sua consultazione, che sempre più vengono sollecitate
nella prassi quotidiana. In alcuni casi viene, ad esempio,
richiesta la trasposizione su supporto informatico, oppure la
selezione di taluni professionisti in base alla specializzazione
riportata nell’Albo ecc.. Si tratta di situazioni che, anche su
iniziativa degli Ordini interessati, potrebbero essere oggetto
di un opportuno aggiornamento normativo che dovrebbe,
peraltro, operare una eventuale distinzione tra i casi in cui
viene richiesto all’Ordine di un fornire un ausilio per la ricerca dei nominativi (ad esempio, soggetti specializzati in un
determinata disciplina) da quelli per i quali si chiede una più
articolata attività di suddivisione e classificazione di categorie di specialisti, che comporta un “facere” attualmente non
previsto dalla normativa (Newsletter, 23-29 luglio 2001).
all’impetuoso sviluppo della ricerca genetica,
che tocca nel profondo l’identità stessa delle
persone. Le informazioni genetiche si
presentano ormai come i più sensibili tra i
dati sensibili, per il loro carattere strutturale,
per le loro attitudini predittive, per la loro riferibilità a tutti i componenti di un gruppo biologico. Fin dall’inizio della sua attività il Garante ha colto questa novità, adottando regole
particolarmente severe per evitare in particolare utilizzazioni discriminatorie dei dati
genetici. La recente ratifica, con la legge n.
145 del 2001, della Convenzione europea
sulla biomedicina rafforza in maniera decisiva il divieto di utilizzare i dati genetici per
finalità diverse da quelle di tutela della salute
dell’interessato e di ricerca scientifica,
dunque escludendo la possibilità di ricorrere
ad essi in relazione ad atti a contenuto
economico, come i contratti di lavoro e di
assicurazione. Opereremo per il rafforzamento di queste garanzie, vegliando anche
sulle modalità delle ricerche svolte sul patrimonio genetico di piccole comunità, per
evitarne utilizzazioni lesive della sfera privata
dei soggetti ai quali si riferiscono.
I nuovi codici deontologici
L’articolazione degli strumenti regolativi
conosce anche altri modelli. La nostra esperienza ci porta a sottolineare l’importanza dei
codici deontologici che possiamo definire “di
nuova generazione”, perché non sono il frutto della sola iniziativa dei settori interessati,
ma della collaborazione tra questi e l’autorità
garante, a livello nazionale ed europeo. In
Italia sono già vigenti il codice per l’attività
giornalistica e per la ricerca storica; sta per
essere pubblicato quello sulla ricerca statistica pubblica, al quale seguiranno quelli sulla
statistica e la ricerca scientifica privata, sulle
investigazioni private e l’attività forense
(particolarmente importante anche per le
indagini difensive nel quadro del nuovo
processo penale), mentre si lavora al codice
dell’attività bancaria.
Non neghiamo che ciò ponga problema delicati sul terreno delle fonti del diritto. I codici
di comportamento, tuttavia, si stanno diffondendo dappertutto nel mondo e nelle materie più diverse, grazie alla loro flessibilità e
adattabilità, che ne fanno strumenti capaci di
seguire una realtà in continuo e spesso
tumultuoso mutamento, dove le tradizionali
forme di disciplina legislativa possono rivelarsi inadeguate.
Ed essi costituiscono anche un terreno sperimentale, per saggiare la validità di soluzioni
nuove, da trasferire poi eventualmente sul
terreno legislativo. Naturalmente, condizione
perché questi codici possano avere piena
legittimazione è l’esistenza di un chiaro
quadro di principi di riferimento, fissato dalla
legislazione.
La delega al Governo
Proprio il chiarimento e il completamento del
quadro legislativo è il compito affidato oggi a
Governo e Parlamento da una delega che
prevede l’emanazione, entro l’anno, di nuovi
decreti delegati e, entro il 2001, di un testo
unico che riordini complessivamente l’intero
settore. Per i tempi, e per l’ampiezza delle
materie da trattare, si tratta di un compito
assai impegnativo, al quale il Garante è pronto a dare la massima sua collaborazione,
anche oltre il compito istituzionale di esprimere specifici pareri.
Bisognerà affrontare, infatti, questioni
complesse come quelle relative ai dati per
finalità di giustizia e di polizia, ad Internet,
alle diverse forme di sorveglianza, al direct
marketing.
Bisognerà risolvere questioni lasciate aperte
da inadeguatezze dell’attuale legge, ad
esempio nel settore bancario. Bisognerà
puntare a garanzie sostanziali, semplifican-
do ulteriormente là dove gli adempimenti
burocratici non rispondano a nessuna reale
funzione di garanzia (come nella materia
delle notificazioni).
Suggeriamo fin d’ora a Governo e Parlamento di affrontare due questioni. È opportuno
rivedere il sistema delle sanzioni penali
previsto dalla legge n. 675, per chiarire
meglio alcune fattispecie e per sostituire la
sanzione penale con una amministrativa o
interdittiva, là dove queste ultime si rivelano
più adeguate ed efficienti, anche per la loro
più rapida applicazione (ad esempio, in relazione alle omesse notificazioni). Inoltre, dopo
la conclusione dei lavori della Commissione
del Parlamento europeo sul caso Echelon,
sono necessarie iniziative concrete per
garantire cittadini e imprese italiane contro
forme di raccolta delle informazioni che violano tutte le regole dell’Unione europea in
materia di dati personali.
L’ufficio del Garante:
attività e struttura
Il Garante sta adeguando la sua struttura alla
complessa realtà nella quale lavora. Solo
all’inizio di quest’anno è stata possibile la
sistemazione in ruolo del personale e la
nomina dei dirigenti. Selezioni e concorsi
pubblici sono stati avviati per un nuovo reclutamento, indispensabile per assicurare la
funzionalità dell’ufficio: l’imponente lavoro di
questi anni è stato svolto da un organico
ristrettissimo, che oggi comprende solo 51
persone. Una nuova figura organizzativa
sarà introdotta per migliorare la gestione e
adeguarla alle complesse esigenze della
nuova organizzazione dell’ufficio.
Valutando il flusso delle richieste rivolte al
Garante nel 2000, queste sono state 19.571,
confermando la tendenza del periodo precedente e portando il loro numero complessivo
nel quadriennio a circa 120.000.
Si è confermata anche l’efficienza nella trattazione dei ricorsi, tutti risolti (e sono
complessivamente 354) nel brevissimo
termine prima di venti e ora di trenta giorni,
con un buon esempio di giustizia rapida e
quasi per nulla costosa. Le risposte a segnalazioni e reclami sono passate, tra il 1999 e il
2000, da 130 a 687.
La qualità di questo lavoro è testimoniata dal
bassissimo numero di impugnazioni dei
nostri provvedimenti, soltanto otto (2.2% sul
totale dei ricorsi decisi), accolte dai giudici
ordinari in tre casi soltanto. Merita, invece,
d’essere particolarmente sottolineata la
prima e recentissima sentenza della Corte di
Cassazione (n° 2783 del 30 giugno 2001
della Prima sezione civile) con la quale,
respingendo pericolose interpretazioni
5
P
R
I
V
A
C
Y
restrittive, è stata accolta l’impostazione del
Garante per quanto riguarda l’identificazione
dei dati personali e la nozione di banca dati.
Permane un arretrato, già segnalato lo scorso anno: non è stata ancora data specifica
risposta a 3454 tra segnalazioni e richieste.
Questo problema può essere ora affrontato
in modo più adeguato grazie alla costituzione di un apposito ufficio, al quale verrà destinata gran parte del nuovo personale, per
rendere possibile l’eliminazione di questo
arretrato in tempi brevi. È bene tener presente, ad ogni modo, che si tratta di un arretrato
che riguarda l’intero quadriennio passato, sì
che la sua incidenza sul numero complessivo di ricorsi, segnalazioni, reclami e richieste
ammonta al 2.8%.
Un ritardo si è manifestato anche nell’inserimento delle notificazioni nel Registro generale dei trattamenti. Delle 297.500 notificazioni ricevute, 270.000 sono state già inserite nel Registro e sono consultabili. Per quanto riguarda le altre, è stato stipulato un
contratto che consentirà di eliminare l’arretrato entro settanta giorni e, quindi, di inserire le nuove notificazioni nel registro dei trattamenti lo stesso giorno in cui verranno ricevute.
Dal prossimo autunno cominceranno a
funzionare la biblioteca ed il centro di documentazione. Queste strutture, che raccoglieranno il più ricco materiale esistente in Italia
per lo studio dei rapporti tra tecnologie e diritti, saranno aperte al pubblico.
Alcune questioni aperte
Il lavoro complessivamente svolto dal Garante suggerisce anche una serie di valutazioni
qualitative, dalle quali trarre indicazioni per
l’attività futura, per offrire al Parlamento
elementi di valutazione e per segnalare al
Governo “l’opportunità di provvedimenti
normativi richiesti dall’evoluzione del settore”, come prevede l’art. 31 della legge.
Abbiamo in più occasioni segnalato l’omessa consultazione del Garante in casi esplicitamente previsti dalla legge, e lo abbiamo
ripetutamente fatto presente alla Presidenza
del Consiglio. Ci auguriamo che la Presidenza voglia richiamare i ministeri al rispetto di
tale norma, anche per evitare l’invalidità degli
atti emanati.
Non sottolineiamo questo fatto lamentando la
violazione del prestigio del Garante. La nostra
consultazione serve ad assicurare che in
procedimenti che incidono - lo ripeto - su un
diritto fondamentale del cittadino possa trovare espressione il punto di vista dell’organo al
quale è istituzionalmente affidata la cura di
tale interesse. Peraltro, nella grandissima
maggioranza dei casi in cui è stata richiesta,
anche informalmente, la collaborazione del
Garante, questa si è svolta in un clima che
ha consentito un miglioramento, talvolta decisivo, dei provvedimenti in questione.
Mi limito a ricordare i casi del “registro nazionale” dello stato civile e della proposta di
costituzione di un’anagrafe unica degli italiani, del processo civile telematico, della
centrale rischi della Banca d’Italia. In altri
casi, l’aver trascurato i suggerimenti del
Garante ha provocato conseguenze negative, com’è avvenuto per la tessera elettorale.
Segnaliamo al Governo alcune questioni
aperte, mantenendo piena, come in passato, la nostra offerta di collaborazione:
rimane negativo il quadro delle garanzie per
alcune banche dati riguardanti il Welfare, in
particolare per quanto riguarda il riccometro,
il sanitometro, il Sistema Informativo Lavoro;
Diritto di cronaca
e diritto alla privacy:
gli interventi del Garante nel 2000
Attività giornalistica e risp
In diverse circostanze, il Garante ha dovuto ribadire la necessità di applicare la normativa – in ampia parte di carattere
speciale – dettata con riguardo ai trattamenti di dati personali svolti nell’ambito dell’attività giornalistica. Così, ad esempio, nel dichiarare infondato un ricorso presentato contro
alcune importanti testate nazionali da parte di una testimone
all’interno di un procedimento penale per gravi reati
(Provv.del 3 luglio 2000), l’Autorità ha chiarito che il trattamento doveva essere valutato alla luce di quanto disposto
dall’art. 25 della legge n. 675/1996 e dal codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio
dell’attività giornalistica (Provv. del 29 luglio 1998, in G.U. del
3 agosto 1998).
Pertanto, quando gli articoli o i servizi pubblicati costituisco-
no una legittima espressione del diritto di cronaca, magari
in relazione – come nel caso di specie – a delicate indagini
volte ad appurare l’attendibilità di una testimone (l’interessata) e di sue rilevanti dichiarazioni ai fini processuali, e il trattamento è finalizzato ad informare l’opinione pubblica sugli
sviluppi di una vicenda che ha richiamato l’attenzione a livello nazionale, nel rispetto dell’essenzialità dell’informazione
e della pertinenza dei dati riferiti, lo stesso trattamento deve
considerarsi legittimo.
In tal caso, quindi, non può invocarsi il mancato conferimento, da parte dell’interessata, del preventivo consenso al trattamento dei dati, essendo questo esplicitamente escluso
dalle disposizioni appena richiamate. Ciò, anche quando
attraverso gli articoli e le trasmissioni vengano diffusi dati di
Sentenza
della
Cassazione
La legge sulla tutela dei dati
personali non si applica solo
agli archivi elettronici, ma
anche all’informazione giornalistica, E, pertanto, il
Garante per la protezione
dei dati personali può ordinare al direttore di un giornale la rettifica di informazioni lesive dell’identità di una
persona. È questo il filo conduttore della sentenza
8889/2001 con la quale la
prima sezione civile della
Cassazione
(presidente
Carnevale) ha annullata una
sentenza del tribunale di
Milano.
L’intervento del Garante, avvenuto nell’aprile ‘99, era
stato provocato dal ricorso
della signora Maria Teresa
Valoti, vedova Olcese, la
quale aveva chiesto che negli articoli di cronaca pubblicati sul Corriere della Sera
la definizione di “signora
6
carattere sensibile, essendo anche in questa ipotesi consentito prescindere dal consenso, naturalmente ove sia rispettato il limite posto al diritto di cronaca dall’essenzialità
dell’informazione e si evitino riferimenti a congiunti o ad altri
soggetti non interessati ai fatti (art. 5 del citato codice deontologico).
Argomentazioni analoghe hanno fondato la decisione originata da un ricorso – poi dichiarato infondato – presentato da
alcuni consiglieri di amministrazione, dirigenti e giornalisti di
una delle principali aziende radiotelevisive nazionali che
lamentavano l’avvenuta pubblicazione su un quotidiano di
una serie di articoli in cui venivano evidenziate asserite
appartenenze politiche degli stessi, nonché rapporti e relazioni personali (amichevoli od ostili) esistenti all’interno dell’a-
Rodotà può ordinare a de Bortoli:
“Correggi quella notizia sbagliata”
Olcese” venisse attribuita a
lei e non anche alla prima
moglie di Vittorio Olcese,
Giuliana De Cesare.
Il Garante aveva, successivamente, imposto all’editore
e al direttore del Corriere
della Sera di cessare il
“comportamento illegittimo”
rettificando la registrazione
o, comunque, la trattazione
dei dati personali della ricorrente in modo tale da “individuare correttamente con l’espressione signora Olcese
soltanto la ricorrente Maria
Teresa Valoti anziché la signora Giuliana De Cesare”,
nonché di divulgare la rettifica con la pubblicazione di
un comunicato sul quotidiano.
Il Tribunale di Milano, con
decisione del 14 ottobre
1999, ha accolto l’opposizione, annullando il provvedimento
emesso
dal
Garante. Nella motivazione
della decisione il Tribunale,
ha osservato, tra l’altro, che
la direttiva della Commissione Europea 95/46/CE, in
base alla quale è stata approvata dal nostro Parlamento la legge 675/96, circoscrive in modo inequivocabile il proprio ambito di
applicazione al trattamento
dei dati personali comunque
destinati all’archiviazione e
pertanto non concerne le
informazioni diffuse dai giornali: ciò deve indurre, secondo il Tribunale ad interpretare in senso restrittivo la portata della legge n. 675/96,
anche per evitare che la sua
applicazione si ponga in
contrasto con l’articolo 21
della Costituzione, che tutela la libertà di informazione.
Il Tribunale, inoltre, ha ritenuto che la diffusione di tali
notizie rientri nell’esercizio
del diritto di cronaca e che il
provvedimento del Garante
si sia posto in contrasto con
l’articolo
21
della
Costituzione, che “pone alla pubblica autorità il divieto
assoluto di adottare provvedimenti diretti ad esercitare
controlli o assensi preventivi
sul contenuto delle pubblicazioni”.
La portata della legge n.
675/1996 – ha affermato la
Corte di Cassazione – non
è limitata all’archiviazione
delle informazioni nelle banche dati; l’attenzione che la
legge dedica a tali banche,
e dunque a quel particolare
trattamento che consiste
nella elaborazione ai fini di
archiviazione per un successivo uso, si giustifica con
la considerazione di comune esperienza della rapidità
di tale uso da parte di chi
accede all’archivio. “Il van-
taggio dell’archiviazione –
ha osservato la Corte – è
per l’appunto di consentire
la disponibilità immediata,
all’occorrenza, di un dato
da adoperare ai più svariati
fini; pertanto l’attenzione
della legge all’archiviazione
non può essere considerata
fine a se stessa, bensì ad
impedire la diffusione delle
informazioni scorrette. Di
conseguenza – ha affermato la Corte – qualunque trattamento, anche quello giornalistico, dell’informazione,
e non soltanto quello diretto
alla conservazione in archivio, deve avvenire nel rispetto dei principi stabiliti
dall’articolo 1 della legge n.
675 del 1996, che tutela i diritti fondamentali e la dignità
delle persone, con particolare riferimento alla riservatezza ed all’identità personale”.
Il potere, attribuito dalla legge al Garante, di disporre la
rettifica di informazioni giornalistiche – ha affermato la
Corte – non si pone in contrasto con l’articolo 21 della
Costituzione, “che vieta ogni
intervento censorio”: altro è,
infatti, un ordine o un potere
di inibitoria alla pubblicazione, da ritenersi contrario alla
Costituzione, altro è un ordine di rettifica. “L’attività giornalistica – ha osservato la
Corte – legittima di per sé al
trattamento dei dati, anche
personali, ma ciò deve avvenire nei limiti di cui all’articolo 1 della legge: pertanto
neppure l’essenziale esercizio dell’informazione può
sovrapporre al dato esclusivo di una persona fisica
(quale il nome) l’eventuale
uso di tale dato da parte di
terzi”.
(Fr. Ab.)
ORDINE
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2001
permangono ritardi gravi nei decreti attuativi
riguardanti la materia delicatissima del trattamento dei dati sensibili, sì che risultano illeciti i comportamenti di numerose amministrazioni pubbliche;
le moltissime lamentele dei cittadini sollecitano l’intervento del ministro della Sanità in
materia di ricette mediche;
ai ministri dell’Interno e della Sanità chiediamo interventi per uniformare le diverse prassi presso comuni ed aziende sanitarie locali,
spesso inutilmente burocratiche e che non
tutelano, invece, la privacy dei pazienti;
chiediamo al ministro dell’Interno di coinvolgere il
Garante nelle sperimentazioni della carta d’identità elettronica e dei servizi ai cittadini attraverso
le reti civiche, come già era stato assicurato;
segnaliamo alla Presidenza del Consiglio la
necessità di dare risposte alle nostre segnalazioni riguardanti i servizi di sicurezza e di
polizia;
al ministro della Giustizia segnaliamo le
questioni, da noi ripetutamente sollevate,
delle diverse garanzie di riservatezza nei
giudizi civili e penali, nonchè delle modalità delle notificazioni degli atti giudiziari,
spesso effettuate in forme che ledono,
prima ancora che la riservatezza, la
dignità stessa delle persone alle quali
sono indirizzate.
al ministro per l’Innovazione e le Tecnologie
chiediamo di considerare con particolare
attenzione i problemi derivanti dall’interconnessione tra le diverse banche dati pubbliche.
Diritti e nuove tecnologie
Ma la crescente disponibiltà di una gamma
sempre più estesa di tecnologie determina
problemi qualitativi sui quali, in conclusione,
vogliamo richiamare l’attenzione, perché
siamo di fronte a possibili, radicali mutamenti delle nostre organizzazioni sociali.
In uno dei primi provvedimenti del Governo,
ad esempio, si è opportunamente stabilito
che il regime di conoscibilità delle aliquote
dell’addizionale Irpef non sia più affidato alla
pubblicazione nell’albo pretorio, ma sul web.
Ma non in tutti i casi il passaggio dai tradizionali regimi di pubblicità a quelli elettronici
appare accettabile. Il Garante ha dovuto
affrontare un caso in cui un ufficio giudiziario, dovendo effettuare le notificazioni alle
molte parti di un processo, aveva appunto
deciso di farlo attraverso un sito web. Ma
questo ha comportato la conoscibilità da
parte di una platea indeterminata di soggetti
del fatto che le parti lese, indicate con tutte
le generalità, erano state contagiate ed
erano ammalate di epatire virale o di Aids,
violando la dignità di queste persone. Abbiamo ritenuto questo “slittamento” dalle
vecchie alle nuove forme di notificazione una
violazione delle norme sul trattamento dei
dati, scorgendo in ciò anche una violazione
del diritto costituzionale a far valere in giudizio i propri diritti. Chi, infatti, ricorrerà al giudice se questo avrà come contropartita un
inammissibile obbligo di denudarsi davanti
all’intera collettività?
Il rischio di derive tecnologiche è nelle cose,
e nelle cifre che rappresentano la realtà in
turbinoso cambiamento. In Italia si inviano 30
milioni di messaggi Sms al giorno. I dati di
traffico conservati dalle società telefoniche
sono ben oltre i cento miliardi, e consentono
di ricostruire l’intera rete delle relazioni perso-
nali, sociali, economiche di ciascuno di noi
nei passati cinque anni. Si stanno sperimentando software che consentiranno entro
breve tempo di inviare cento milioni di e-mail
al giorno, con il rischio che ciascuno di noi ne
riceva da trenta a cinquanta in una giornata,
con conseguenti costi in termini di tempo e di
connessione alla rete. Centinaia di migliaia di
sistemi di controllo a distanza sono già
operanti. Cresce in maniera esponenziale il
ricorso ai test genetici, e crescono le pretese
di assicuratori e datori di lavoro per utilizzarli
nel valutare chi chiede un’assicurazione o
un’assunzione: negli Stati Uniti sono già stati
censiti centinaia di casi di discriminazione su
questa base, e questa è la ragione dell’intervento di Bush ricordato all’inizio.
Questo non è allarmismo, è realismo. Se non
si prenderà coscienza del significato
complessivo di questo fenomeno, e si sacrificherà tutto sull’altare di una efficienza tutta
delegata alla tecnologia, non si produrrà
soltanto uno scarto tra proclamazione del
diritto fondamentale alla protezione dei dati
e realtà delle sue quotidiane violazioni. Si
restringeranno gli spazi vitali delle persone,
continuamente esposte a sguardi e messaggi indesiderati, ormai incapaci di godere di
intimità, obbligate a modellare la loro stessa
personalità da questo obbligo di vivere continuamente “in pubblico”, sottoposti ad una
implacabile registrazione d’ogni atto anche
quando si fa una passeggiata o si fa un
acquisto in un supermercato.
Si dice che questa non è più soltanto una
condizione tecnologicamente determinata,
ma socialmente gradita. Si invoca l’autorità
delle mille trasmissioni televisive dove volontariamente si espone la propria intimità all’occhio di milioni di spettatori. Si ridefisce lo stesso concetto di base della nostra materia ricorrendo ad un ossimoro: la privacy “condivisa”.
Un aspetto
della cittadinanza democratica
Ma noi dobbiamo qui ripetere la testimonianza già proposta negli anni passati, fondata su
una esperienza che fa riferimento ad una
sterminata serie di casi in cui la richiesta di
una forte tutela della sfera privata esprime,
insieme, un bisogno di intimità, il rifiuto d’ogni
possibile discriminazione, l’esigenza di
compiere le proprie scelte personali, sociali,
politiche fuori d’ogni rischio di stigmatizzazione sociale. La privacy rompe gli angusti steccati nei quali ancora vorrebbe chiuderla una
sua arcaica lettura. La protezione dei dati
personali è ormai componente essenziale
della cittadinanza democratica nella società
dell’informazione. E pure del diritto di ciascuno di costruire liberamente la propria personalità, anche manifestando un io diviso in cui
convivono esibizionismo e riservatezza.
Su questo sfondo si muove l’azione del
Garante, che ha come bussola quel riferimento alla dignità della persona che oggi apre la
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ma che, con significativa anticipazione,
compare nell’art. 1 della nostra legge.
Ma, proprio perché siamo di fronte a mutamenti della società che coinvolgono il destino medesimo delle persone e della democrazia, ripetiamo qui che non può bastare
l’impegno volonteroso di un’autorità. Spetta
al Parlamento, luogo massimo della rappresentanza, discutere e decidere del ruolo
delle tecnologie nelle nostre società. Lo
diciamo non per omaggio al luogo che ci
ospita, ma per comune e convinta convinzione democratica.
Stefano Rodotà
etto dei principi della legge n. 675/1996
zienda televisiva medesima (Provv. del 31 maggio 2000).
Anche in tal caso l’Autorità, applicando la disciplina sopra
richiamata, ha ritenuto che gli articoli fossero espressione di
una legittima modalità di esercizio del diritto di cronaca – per
quanto opinabili potessero essere i toni utilizzati – con riferimento alla personalità, alle esperienze professionali ed agli
incarichi ricoperti dalle persone su indicate, le quali occupavano appunto posti di rilievo in un’azienda di primaria rilevanza sociale.
Nel caso di specie, non sussistevano gli estremi per censurare il diritto dei mezzi di informazione di esprimere valutazioni, anche critiche, riferite alle singole persone, atteso che,
peraltro, le notizie riportate potevano essere acquisite correttamente dai giornalisti attraverso la consultazione di giornali,
interviste, colloqui, dichiarazioni o attingendo alle consuete
fonti lecitamente utilizzate nella cronaca giornalistica.
Tale pronuncia del Garante, come altre analoghe, non era
ovviamente preclusiva per gli interessati della possibilità di
adire il giudice ordinario per rivolgere eventuali diverse istanze in sede civile o penale che esulano dall’ambito di competenza del Garante.
In questo contesto, merita infine di essere ricordata la decisione con la quale l’Autorità ha dichiarato non fondato un
ricorso presentato dal titolare di una ditta artigiana. Questi
aveva infatti lamentato l’avvenuta pubblicazione su un quotidiano locale della notizia secondo la quale alcuni consiglieri
comunali avevano segnalato alla Corte dei conti il comportamento di un comune concernente una transazione con il ricorrente, relativamente al versamento di una penale contrattuale
legata a “gravi motivi di salute” del ricorrente medesimo
(Provv. del 22 gennaio 2001, in Bollettino n. 16, p. 8).
In tale circostanza il Garante ha constatato che l’articolo
riguardava una contestata vicenda amministrativo-erariale
che traeva spunto da atti e documenti accessibili al pubblico.
La vicenda era quindi riferita ad un fatto di interesse generale relativo al corretto svolgimento dell’attività amministrativa
comunale e, nel caso di specie, non era stata descritta ricorrendo a particolari o dettagli non pertinenti; il generico riferimento ai “motivi di salute” del ricorrente (origine della controversa riduzione della penale, contestata dai consiglieri comunali) non è stato reputato, proprio in ragione della sua genericità, tale da recare lesione alla dignità dell’interessato: in
virtù di ciò l’Autorità ha considerato lecita la pubblicazione
dell’articolo, dichiarando pertanto infondato il ricorso. L’applicazione della normativa ai trattamenti svolti in ambito giornalistico, alle fotografie pubblicate dai giornali ed alle riprese
televisive.
In altre circostanze l’Autorità ha applicato la normativa a trattamenti di dati personali, realizzati nell’ambito della professione giornalistica, sotto forma di fotografie o di immagini
diffuse attraverso i mezzi di informazione.
Anche in tali eventualità all’autore delle fotografie (o delle
riprese) si applica la previsione dell’art. 25, comma 4, della
legge n. 675/1996; quest’ultima disposizione, infatti, estende
le norme relative all’esercizio della professione di giornalista
ai “trattamenti temporanei finalizzati esclusivamente alla
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2001
pubblicazione di articoli, saggi o altre manifestazioni del
pensiero” e fra queste, possono essere appunto inserite
anche le attività dirette a realizzare un servizio fotografico,
atteso che anche le fotografie che ritraggono persone sono
trattate dalla legge alla stregua di documenti contenenti dati
personali (art. 1, comma 2, lett. c), l. n. 675/1996).
Per tale ragione, colui che scatta fotografie, al pari di chi
raccoglie notizie, è tenuto a rendere note la propria identità,
la propria professione e le finalità della raccolta, senza ricorrere ad “artifici o pressioni indebite” (art. 2 del codice deontologico dei giornalisti).
Al riguardo, con particolare riferimento all’informativa semplificata prevista per i trattamenti svolti nell’ambito dell’attività
giornalistica, il Garante ha chiarito che questa trova applicazione anche nelle ipotesi in cui i dati sono raccolti presso un
soggetto diverso dall’interessato (Provv. del 21 febbraio
2000).
Nel caso di specie, il Garante era stato investito dell’esame
di una vicenda che aveva visto la pubblicazione, da parte di
un organo di stampa, delle copie di alcune fotografie relative
ad un noto personaggio dello spettacolo conservate presso
l’abitazione dei genitori di questo. Poiché, dunque, le fotografie ritraevano una persona diversa rispetto a coloro che vivevano nella casa in cui erano conservate, esse non potevano
considerarsi raccolte presso l’interessato, con conseguente
inoperatività dell’obbligo di informativa ai sensi dell’art. 10,
comma 1, della legge n. 675/1996.
La disciplina sulla riservatezza
per i personaggi pubblici e le persone note
Analogamente a quanto accade in altri ordinamenti, anche
nel nostro la sfera privata delle persone che ricoprono determinate cariche pubbliche o che hanno acquisito una particolare notorietà risulta essere per certi aspetti più ridotta rispetto a quella delle persone la cui vita privata è protetta
maggiormente.
Tenendo conto di tale principio, il codice deontologico dei
giornalisti ha però previsto che la sfera privata delle persone
note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se la notizia o di dati non hanno alcun rilievo sul ruolo o
sulla loro vita pubblica (art. 6).
Nel corso del 2000 il Garante si è trovato più volte ad applicare tale disposizione, a fronte di reclami presentati da alcuni personaggi pubblici che denunciavano una lesione della
propria vita privata. È questo, ad esempio, il caso di un quesito sottoposto all’Autorità da un noto parlamentare che aveva
preso parte ad una cerimonia in cui erano presenti altri
personaggi pubblici, e che aveva visto il suo nome riprodotto,
insieme a quello di altri, in un articolo di giornale che riferiva
della cerimonia medesima.
In tale occasione, il Garante ha constatato che non vi era
stata alcuna violazione delle disposizioni del codice deontologico appena richiamate e che una parte dell’articolo
sembrava anzi scaturire da una precisazione fornita direttamente dall’interessato. Più in generale, l’Autorità ha ricordato
che, con riguardo al principio dell’essenzialità dell’informazione, può considerarsi lecita anche un’informazione molto
dettagliata, qualora ricorrano determinati presupposti, tra i
quali rileva la qualificazione dei protagonisti come personaggi pubblici (Provv. del 21 febbraio 2000 e, per un caso analogo, Provv. del 20 ottobre 2000).
Fatti resi noti direttamente dagli interessati
o attraverso i loro comportamenti in pubblico
Con riguardo alla diffusione operata dai mezzi di informazione, nell’ipotesi in cui gli stessi interessati abbiano in qualche
modo reso pubbliche le notizie che li riguardano, viene
precluso in alcuni casi un intervento dell’Autorità diretto a
ridurre la diffusione delle informazioni medesime (v., in
proposito, il comunicato n. 5 del 17 gennaio 2000, in Bollettino n. 11-12, p. 83).
La legge n. 675/1996, mentre ha previsto in generale che i
giornalisti devono rispettare i limiti del diritto di cronaca, con
particolare riferimento a quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse generale, ha lasciato ferma
la possibilità di trattare i dati relativi a circostanze e fatti resi
noti direttamente dall’interessato o attraverso i suoi comportamenti in pubblico (art. 25, comma 1). Tale ipotesi ha trovato
anche riscontro nel codice di deontologia dei giornalisti che
ha fatto salvo il diritto di addurre successivamente motivi
legittimi di tutela, ma non ha ribadito il limite dell’essenzialità
dell’informazione, richiamato invece con particolare pregnanza per quanto attiene ai dati sensibili (art. 5 del codice di
deontologia).
A questo riguardo, si può ricordare un ricorso riguardante le
dichiarazioni fatte dal padre naturale di un minore durante
alcuni programmi televisivi. Chiarito che in tale ipotesi non
sarebbe stato in ogni caso applicabile l’art. 3 della legge n.
675/1996 (in tema di trattamento di dati per fini esclusivamente personali), l’Autorità ha constatato che la vicenda alla
quale era stata fatta menzione durante la trasmissione era
notoria, in quanto già oggetto di cronaca giornalistica, anche
a seguito di dichiarazioni dei relativi protagonisti (v. Provv. del
28 febbraio 2000). Di qui l’impossibilità di accogliere la richiesta di opposizione al trattamento formulata dalla ricorrente
(in quanto trovava applicazione il già citato art. 5, comma 2,
del codice deontologico), che lascia però impregiudicata
l’esigenza che giornalisti e conduttori delle trasmissioni televisive operino in modo da evitare o ridurre il rischio di trattare i dati riferiti ai minori in modo da non incidere sul corretto
sviluppo della personalità degli stessi (ciò, in particolare, con
riferimento all’art. 7 del codice dei giornalisti, sul quale si
tornerà fra breve).
Un altro caso che merita di essere menzionato è quello in
cui il Garante è stato chiamato a decidere sul ricorso presentato da una madre nei confronti di una televisione a diffusione nazionale, in relazione ad un servizio relativo al rimpatrio
in Italia della propria figlia minore a seguito della decisione di
una Corte distrettuale statunitense. Anche in tale frangente
l’Autorità ha dichiarato infondato il ricorso in quanto, sebbene
7
LA TUTELA DEI MINORI
P R I V A C Y I minori restano tra i soggetti più esposti e indifesi
rispetto al rischio di lesione dei propri diritti fondamentali
(ed in particolare del diritto alla riservatezza)
da parte dei mezzi di informazione
le fotografie riprodotte nel filmato trasmesso riguardassero
un minore, erano state mostrate da uno dei genitori, per di
più in un contesto di sentita prospettazione di una complessa vicenda familiare che aveva destato in più occasioni il
pubblico interesse (Provv. del 23 novembre 2000).
Pubblicazione a mezzo stampa dei provvedimenti
disciplinari assunti dagli Ordini professionali
Come il Garante ha avuto modo di chiarire altre volte, non
sempre l’applicazione della normativa sulla tutela dei dati
personali porta ad una minore conoscibilità delle informazioni. In alcune circostanze, infatti, quando devono essere tutelati altri diritti e valori, la disciplina sulla riservatezza può farsi
veicolo di una maggiore trasparenza. E ciò può riguardare
Indebite ingerenze nella
vita privata dei minori
possono comportare danni
irreparabili nella relativa vita
di relazione e nello sviluppo
della personalità, derivanti
a volte dalla tendenza a
spettacolarizzare vicende
che meriterebbero invece
maggiori cautele da parte
dei media. Per tale ragione,
anche nel corso del 2000 il
Garante si è visto più volte
obbligato a richiamare al
rispetto dei precisi limiti alla
diffusione dei dati personali
sui minori (si veda, in particolare, il Provv. del 22 aprile 2000). Come è noto,
infatti, al fine di tutelarne la
personalità, i giornalisti non
devono pubblicare i nomi
dei minori coinvolti in fatti di
cronaca, né fornire particolari in grado di condurre alla
loro identificazione.
Questo, nella consapevolezza che la tutela della
personalità del minore si
estende anche ai fatti che
Attività giornalistica e rispetto
dei principi della legge n. 675/1996
anche trattamenti particolarmente delicati per la protezione
dei dati, quali la diffusione attraverso i mezzi di informazione.
Al riguardo, si può ricordare il caso in cui l’Autorità è stata
chiamata a decidere sul ricorso presentato da un avvocato
per lamentare l’avvenuta pubblicazione – su una rivista
dell’ordine di appartenenza – del provvedimento di sospensione dalla professione adottato nei suoi confronti. In tale
occasione, il Garante ha avuto modo di ribadire che la legge
n. 675/1996 non ha modificato la disciplina legislativa relativa
al regime di pubblicità degli albi professionali ed alla conoscibilità degli atti connessi. Per tale ragione, deve ancora ritenersi che tali Albi siano destinati per loro natura e funzione
ad un regime di piena pubblicità, anche della tutela dei diritti
di coloro che a vario titolo hanno rapporti con gli iscritti agli
albi (Provv. del 29 marzo 2001).
Molte delle disposizioni che regolano tale forma di pubblicità
sono spesso risalenti nel tempo e necessitano pertanto di
essere aggiornate anche al fine di individuare in modo più
preciso le diverse forme di diffusione consentite, secondo la
logica sottesa alla legislazione in materia di riservatezza (art.
27, comma 3, l. n. 675/1996). Ciò, tuttavia, non fa venir meno
la qualificazione degli Albi professionali come atti pubblici non
solamente conoscibili da chiunque, ma anche oggetto di
doverosa pubblicità. Più specificamente, il Garante ha chiarito
che la ratio sottesa alla pubblicità degli Albi e dei periodici
aggiornamenti relativi a nuove iscrizioni e cancellazioni ricorre anche per i provvedimenti che comportano la sospensione
o l’interruzione dell’esercizio della professione. Sebbene l’ordinamento preveda al riguardo specifiche forme di pubblicità
(es. comunicazione a tutti i consigli dell’Ordine degli avvocati
ed alle autorità giudiziarie del distretto al quale il professionista appartiene: art. 46, commi 1 e 3, r.d.l. n. 1578/1933), è
chiaro che le stesse consentono a chiunque di venire lecitamente a conoscenza di determinati provvedimenti e di darne
legittimamente ulteriore notizia. Il Garante ha potuto così affermare che i provvedimenti disciplinari dei consigli dell’Ordine e
del Consiglio nazionale forense devono essere considerati
quali atti pubblici soggetti ad un regime di conoscibilità. Ciò,
pur in assenza di disposizioni più analitiche di legge o di regolamento in cui siano previste particolari modalità di diffusione
a favore di determinati soggetti, ulteriori rispetto a quelli specificamente indicati come destinatari dalle norme vigenti.
L’interesse alla riservatezza del professionista destinatario di
una misura disciplinare non può ritenersi quindi prevalente
rispetto all’interesse generale alla conoscenza del provvedimento medesimo ed è pertanto lecita la divulgazione della
notizia del provvedimento stesso attraverso riviste, notiziario
altre pubblicazioni curate anche dagli ordini interessati. Ciò,
ovviamente, nel presupposto che la diffusione del provvedimento avvenga in modo corretto ed in termini esatti e
completi, secondo quanto disposto dall’art. 9 della legge n.
675/1996.
Pubblicazione a mezzo stampa
dei dati relativi ai redditi dichiarati
Nel corso del 2000 (nonché nei primi mesi del 2001), il
Garante è stato chiamato ad occuparsi della diffusione, ad
opera dell’Amministrazione finanziaria, dei dati relativi al
reddito delle persone fisiche anche con riguardo alla loro
pubblicazione da parte degli organi di informazione. Tale
tema è stato già affrontato dall’Autorità in diverse occasioni,
chiarendo che la disciplina vigente prevede espressamente
la pubblicazione di determinati elenchi di taluni contribuenti e
del relativo reddito. La stessa normativa dispone inoltre la
formazione, da parte di ciascun comune, degli elenchi nominativi di tutti i contribuenti che hanno presentato la dichiarazione dei redditi o che esercitano imprese commerciali, arti e
professioni (v. par. 13 della presente Relazione), elenchi,
questi, che devono essere depositati per un anno presso gli
uffici delle imposte e i comuni interessati ai fini della consultazione da parte di chiunque (art. 69 d.P.R. n. 600/1973 come
successivamente modificato in particolare dall’art. 19 l. n.
413/1991).
8
L’esistenza di siffatte disposizioni – espressione di una scelta
normativa volta ad un’ampia conoscibilità di determinati datiintegra gli estremi richiesti dall’art. 27, comma 3, della legge
n. 675/1996 e rende quindi allo stato lecita, salve eventuali
modifiche normative, la comunicazione degli elenchi da parte
dell’amministrazione finanziaria, anche dal punto di vista
della normativa in materia di riservatezza (v. lettera del 13
ottobre 2000, in Bollettino, n. 14-15, p. 9).
Sulla base di tali presupposti, l’Autorità ha pertanto dichiarato infondato un ricorso presentato da un imprenditore che
aveva chiesto il blocco dei dati relativi al proprio reddito diffusi da un quotidiano locale sulla base di quanto pubblicato
dall’amministrazione finanziaria (Provv. 17 gennaio 2001, in
Bollettino n. 16, p. 5).
Il Garante ha infatti affermato che, essendo le informazioni
rese accessibili dall’amministrazione finanziaria destinate ad
un’ampia pubblicità, la successiva pubblicazione di dati
estratti lecitamente da elenchi accessibili a chiunque è da
ritenersi lecita anche senza il consenso degli interessati e
senza che sia necessario per la testata che li riproduce dimostrare la sussistenza del requisito dell’essenzialità dell’informazione rispetto a fatti di interesse pubblico (art. 20, comma
1, lett. d), l. n. 675/1996).
Decisioni di carattere procedurale
e limiti alle competenze del Garante
Non di rado il Garante è stato investito di istanze di tutela
che eccedevano le proprie specifiche competenze: si pensi
alle ipotesi in cui il suo intervento è stato invocato in relazione alla diffusione di informazioni denigratorie o diffamatorie,
oppure al fine di ottenere dall’Autorità il risarcimento di un
danno subito in ragione della diffusione di dati personali attraverso i mezzi di informazione (si veda, per tutti, il Provv. del
20 ottobre 2000).
In questi casi l’Autorità ha chiarito ancora una volta l’ambito
delle proprie competenze e della tutela amministrativa accordata in relazione al trattamento dei dati personali, ricordando
comunque la possibilità di far valere i propri diritti di fronte ad
altre autorità (nella specie il giudice ordinario).
non sono specificamente
reati, tenuto conto della
qualità della notizia e delle
sue componenti. Inoltre, per
espressa previsione normativa, il diritto del minore alla
riservatezza deve essere
sempre considerato come
primario rispetto al diritto di
critica e di cronaca. Quando, tuttavia, per motivi di
rilevante interesse pubblico
e fermi restando i limiti di
legge, il giornalista decide
di diffondere notizie o
immagini riguardanti minori,
deve farsi carico della
responsabilità di valutare se
la pubblicazione sia davvero nell’interesse oggettivo
del minore, secondo i principi ed i limiti stabiliti anche
dalla cosiddetta “Carta di
Treviso” (art. 7 del codice di
deontologia sul trattamento
dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica).
In applicazione di questi
principi, l’Autorità ha disposto il blocco dei dati relativi
alle molestie subite da una
minore ad opera dei suoi
rapitori nei confronti di una
serie di testate giornalistiche (Provv. 20 giugno
2000). Alcuni organi di
stampa a diffusione nazionale avevano reso note, nei
titoli e nel corpo degli articoli, talune circostanze relative alle molestie sessuali
che apparivano perpetrate
dai rapitori di una minore. Il
Garante ha disposto il blocco muovendo dalla considerazione che la possibile
ed ulteriore divulgazione
dei dati relativi alle molestie,
a prescindere dalla loro
eventuale rilevanza sotto il
profilo penale (profilo per il
quale è stata investita la
competente autorità giudiziaria in relazione all’art.
734-bis c.p.),avrebbe comportato il concreto rischio di
un pregiudizio rilevante per
l’interessata.
Un provvedimento, dunque,
da cui derivava per gli editori titolari del trattamento e
per i responsabili del medesimo, un preciso obbligo di
sospendere ogni ulteriore
operazione di trattamento
diversa dalla mera conservazione delle informazioni
già raccolte e, in particolare, di astenersi dal diffondere ulteriormente i medesimi
dati anche in modo indiretto, attraverso la pubblicazione delle corrispondenti parti
dello stesso provvedimento
del Garante.
In questo contesto merita
di essere infine ricordata
an-che una decisione
assunta dall’Autorità nell’agosto 2000, con riguardo
all’av-venuta pubblicazione
su taluni organi di informazione di liste di soggetti
responsabili di gravi atti di
violenza a danno di minori.
In merito a tali vicende, il
Garante era intervenuto
con un comunicato stampa
per ricordare che la diffusione indiscriminata di
informazioni non trova
fondamento nel nostro
ordinamento.
Tali notizie, infatti, a
prescindere dalla loro reale
efficacia sul piano della
prevenzione e dalla circostanza che i dati possano
essere desunti anche da
fonti accessibili (quali, ad
es. pronunce giudiziarie),
sono suscettibili di valutazione critica e fonte di
contenzioso potendo anche, a seconda dei casi,
oltre che determinare
danni agli stessi minori
indirettamente identificabili, com-portare responsabilità per eventuali inesattezze dei dati, oppure per
giudizi indifferenziati su
situazioni in realtà difformi
o per la lesione del diritto
all’oblio di persone interessate rispetto a fatti talvolta
assai risalenti nel tempo
(comunicato stampa del 23
agosto 2000).
In altre circostanze, sono giunte all’Autorità richieste di provvedimenti (ad esempio di blocco della diffusione di talune
informazioni) che non potevano essere emanati a causa
della mancanza di presupposti procedurali a tal fine necessari (si possono vedere, per tutti, i Provv. adottati il 5, il 22
aprile e il 21 settembre 2000; nel terzo di questi casi, l’interessato lamentava di essere stato ripreso durante una
trasmissione televisiva a sua insaputa; un altro ricorso è stato
dichiarato inammissibile il 30 ottobre 2000, relativamente ad
un’intervista dell’ex moglie del ricorrente, mandata in onda
durante una nota trasmissione televisiva, nella quale l’intervistata faceva menzione di fatti e circostanze tali da permettere l’identificazione del ricorrente stesso e di suo figlio). Altre
volte, invece, sono risultati insufficienti gli elementi di valutazione forniti (Provv. 21 febbraio 2000).
In molte di tali ipotesi il Garante, oltre ad indicare le procedure di volta in volta necessarie per ottenere il provvedimento
richiesto, ha cercato, ove le circostanze lo consentivano e la
questione sottoposta lo richiedeva, di offrire comunque una
tutela agli interessati, ad esempio considerando anche alla
stregua di segnalazioni i ricorsi proposti in maniera non
conforme all’art. 29 della legge e al d.P.R. n. 501/1998. In
ogni caso, quando ciò era possibile, il Garante ha sempre
tenuto a chiarire che il pronunciamento dell’Autorità, magari
riferito ad un particolare aspetto della vicenda, non precludeva a coloro che avessero avuto interesse di instaurare, anche
dinanzi alla competente autorità giudiziaria, specifiche
controversie dirette ad ottenere giudizi di cui il Garante non
poteva farsi carico anche a causa dell’insufficienza degli
elementi di valutazione sottoposti al suo vaglio (si veda, per
tutti, il Provv. del 21 febbraio 2000).
In alcuni casi, infine, l’Autorità ha avviato autonomamente
procedimenti distinti da quello aperto su istanza degli interessati, al fine di accertare il rispetto della normativa sulla
riservatezza con riguardo a profili in parte diversi da quelli
segnalati o che comunque richiedevano di essere autonomamente valutati (si veda, per tutti, la decisione adottata il
27 agosto 2000 su un ricorso presentato dai genitori di una
minore, in relazione ad alcuni articoli dedicati ad un procedimento giudiziario, pubblicati da un quotidiano locale).
ORDINE
8
2001
DOPO L’INCARICO DI CURARE LA RUBRICA DELLE LETTERE DEL “CORRIERE DELLA SERA”
Mieli successore di Indro Montanelli
si autosospende da direttore editoriale
ABRUZZO: “GIUDICE SULLE INCOMPATIBILITÀ È SOLTANTO IL CONSIGLIO DELL’ORDINE”
Milano, 11 settembre.
Il presidente
dell’Ordine
dei giornalisti
della Lombardia
ha ricevuto
il comunicato
che il Cdr del
“Corriere della Sera”
ha diffuso ieri sera
alle 20.15 all’interno
della redazione.
Questo il testo:
Oggetto: MIELI SI AUTOSOSPENDE.
Paolo Mieli si è autosospeso da direttore
editoriale del Corriere della Sera a far data
da oggi. Questa decisione è stata presa in
relazione all’incarico ricevuto da Mieli di
rispondere ogni giorno a una lettera dei
lettori. La notizia dell’autosospensione è
stata comunicata al Cdr dal direttore
Ferruccio de Bortoli nel corso di un incontro avvenuto oggi alle 17. Nei giorni scorsi
gli Ordini dei giornalisti di Milano e Roma e
la Fnsi, sollecitati dal Cdr, avevano espresso un giudizio di non compatibilità tra l’incarico affidato a Paolo Mieli come successore di Indro Montanelli nel rispondere ai
lettori e la sua carica di manager (come
direttore editoriale risponde all’editore
Rcs).
Commento
di Franco Abruzzo
Ecco il testo completo della comunicazione
del direttore: «Fatte salve tutte le prerogative della redazione, Paolo Mieli risponde da
oggi ogni giorno a una lettera. Mieli si è
autosospeso da direttore editoriale del
Corriere da far data da oggi. L’editore si è
riservato di accettare la decisione di Mieli
investendo la Fieg del quesito se esista o
no incompatibilità tra la carica di direttore
editoriale e l’incarico giornalistico che gli è
stato affidato». È un primo, parziale risultato
dell’azione voluta dal Cdr fin dall’inizio della
vicenda. Tuttavia Mieli mantiene l’incarico di
direttore editoriale della Rcs (Corriere della
Sera escluso) e quindi l’autosospensione
lascia irrisolta la sostanza del problema: un
manager aziendale risponderà ai lettori del
Corriere della Sera.
Tengo a sottolineare che il giudice esclusivo delle compatibilità professionali è
soltanto il Consiglio dell’Ordine. Non
certamente la Fieg o la Fnsi. Il Cdr all’interno delle aziende deva far rispettare
anche la legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalista. È un
compito fissato nell’articolo 34 del Cnlg.
Non spetta, credo, ai direttori responsabili
accettare o meno le dimissioni di chicchessia da incarichi manageriali. Sulla
vicenda ho espresso, su richiesta del Cdr
del Corriere della Sera, un parere non
vincolante.
Il testo del parere
Il direttore del giornale. L’articolo 3 della
legge 633/1941 sul diritto d’autore enumera
tra le opere collettive dell’ingegno anche le
riviste e i giornali (e alle riviste e ai giornali è
poi dedicato la sezione II del Capo IV della
legge). Il successivo articolo 7 afferma che
“è considerato autore dell’opera collettiva chi
organizza e dirige la creazione dell’opera
stessa”. Il direttore responsabile - alla luce
anche dell’articolo 6 del Cnlg e dell’articolo
57 del Cp - è pertanto l’autore dell’opera
collettiva dell’ingegno denominata “giornale”
o “rivista”.
I poteri del direttore fissati dal contratto.
Dice l’articolo 6 del Contratto: “La nomina
del direttore di un quotidiano, periodico o
agenzia di informazioni per la stampa è
comunicata dall’editore al comitato o fiduciario di redazione con priorità rispetto a
qualunque comunicazione a terzi, almeno
48 ore prima che il nuovo direttore assuma
la carica.
Le facoltà del direttore sono determinate da
accordi da stipularsi tra editore e direttore,
tali, in ogni caso, da non risultare in contrasto con le norme sull’ordinamento della
professione giornalistica e con quanto stabilito dal presente contratto. Questi accordi,
con particolare riguardo alla linea politica,
all’organizzazione e allo sviluppo del giornale, del periodico o dell’agenzia di informazioni per la stampa sono integralmente comunicati dall’editore al corpo redazionale tramite il comitato o fiduciario di redazione,
contemporaneamente alla comunicazione
della nomina del direttore.
Quale primo atto del suo insediamento il
direttore illustra all’assemblea dei redattori
gli accordi di cui al comma precedente e il
programma politico-editoriale concordato
con l’editore.
È il direttore che propone le assunzioni e,
per motivi tecnico-professionali i licenziamenti dei giornalisti.
Tenute presenti le norme dell’art. 34, è
competenza specifica ed esclusiva del direttore fissare ed impartire le direttive politiche
e tecnico-professionali del lavoro redazionale, stabilire le mansioni di ogni giornalista,
adottare le decisioni necessarie per garantire l’autonomia della testata, nei contenuti del
giornale e di quanto può essere diffuso con
il medesimo, dare le disposizioni necessarie
al regolare andamento del servizio e stabilire gli orari secondo quanto disposto dal
successivo articolo 7.
Accordo con il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia
Osservazioni Dall’insieme delle norme
citate e alla lettura dell’articolo 6 del Contratto emerge l’anomalia italiana per quanto
riguarda il ruolo del direttore: gli organi societari non possono mettere il dito nella struttura della redazione e nella fattura del giornale
una volta concordati con il direttore linea politica, organizzazione e sviluppo del quotidiano. Gli accordi editore-direttore devono essere “tali, in ogni caso, da non risultare in
contrasto con le norme dell’ordinamento
della professione giornalistica e con quanto
stabilito dal Contratto”. Negli accordi editoredirettore evidentemente non possono essere
contenute clausole in contrasto con tali
princìpi. Il direttore in conclusione attua la
linea politica concordata con l’editore, garantisce l’autonomia della testata (e dei redattori) e anche la qualità dell’informazione (articolo 44 del Cnlg). Una volta che l’editore ha
provveduto a nominare il direttore gli rimane
in tasca soltanto la lettera di licenziamento.
IIl direttore editoriale. È una figura non
disciplinata dalla legge o dal Contratto. Si
può dire che esercita i poteri dell’imprenditore, che ne è lo stratega e che ne controlla i
“prodotti”, suggerisce le decisioni sia per
quanto riguarda gli uomini-guida delle testate e sia i programmi operativi.
Conclusioni Direttore responsabile e
direttore editoriale sono figure antitetiche nel
corpo dell’impresa. L’uno, il direttore, è come
gli ammiragli in mare (hanno solo Dio sopra
di loro); l’altro, il direttore editoriale, è l’azienda editrice del “prodotto” pensato e realizzato dal direttore responsabile. Non ci può
essere subordinazione dell’uno all’altro o
viceversa. Il direttore responsabile, alla luce
dell’articolo 57 del Cp, risponde penalmente
di tutto quello che viene pubblicato sul giornale, quindi non solo gli articoli, ma anche la
rubrica delle lettere, le inserzioni e i testi
pubblicitari.
L’articolo 57 (letto in maniera coordinata con
l’articolo 7 della legge 633/1941 e con l’articolo 6 del Cnlg), quindi, dà al direttore il potere di controllare articoli, rubrica delle lettere,
inserzioni e testi pubblicitari e dall’altro lato
obbliga gli articolisti, i curatori delle lettere,
delle inserzioni e dei testi pubblicitari a ubbidire. L’ultima parola spetta sempre al direttore responsabile (anche nei riguardi del
rappresentante dell’editore). È indubbio che
la presenza dell’uomo dell’editore in redazione crea squilibri e potenziali “diarchie”, che
non giovano alla serenità della vita redazionale e al rispetto del ruolo del direttore”.
Franco Abruzzo, presidente OgL
Presidenti degli Ordini regionali dei giornalisti riuniti nella Consulta
Paolo Panerai ha rinunciato
“Irrituale
alle cariche di amministratore la richiesta
delle società del Gruppo Class di danni tra colleghi”
Prevale il principio
dell’esclusiva
professionale fissato
dalla legge 69/1963
ORDINE
8
2001
Milano, 10 settembre. Su richiesta del Consiglio
dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, istituzionalmente impegnato nella tutela dell’integrità e della
dignità della professione, il giornalista professionista
dott. Paolo Panerai ha concordato con lo stesso Consiglio sul dovere che i giornalisti, in base alla legge
professionale e a tutte le regolamentazioni volontarie
assunte, non abbiano a essere o ad apparire mai in
posizione tale che l’esclusività dell’attività giornalistica
possa essere confusa con altre attività, inclusa quella
della responsabilità gestionale societaria, se non per le
attività editoriali.
Per questo Panerai ha volontariamente rinunciato a
tutte le cariche di Amministratore unico che ricopriva
nelle varie società del gruppo Class Editori, passando
ad altri l’incarico e assumendo la presidenza delle stesse. Ha ribadito in tal modo il primato dell’attività giornalistica come garanzia dell’autonomia e della trasparenza dell’informazione.
------Conseguentemente Paolo Panerai rimane iscritto nell’elenco professionisti dell’Albo di Milano e mantiene la
direzione responsabile dei quotidiani e dei settimanali
del Gruppo Class.
Roma, 14 settembre. È irrituale che un giornalista chieda un risarcimento danni ad
un altro giornalista “con gli
stessi sistemi che si contestano a livello di categoria’’.
Così la Consulta dei
Presidenti e Vice Presidenti
dell’Ordini dei giornalisti si è
espressa in relazione alla citazione in giudizio civile con
la richiesta di un miliardo
avanzata da un collega di
Repubblica ai danni del
Presidente dell’Ordine dei
giornalisti della Sicilia.
“La Consulta dei Presidenti
e dei Vice Presidenti riunita
a Roma il 13 settembre
2001 - spiega una nota
dell’Ordine - sottolinea che,
nel momento in cui gli organismi rappresentativi della
categoria, Ordini in prima li-
nea, sono impegnati nel
tentativo di porre un argine
alle innumerevoli richieste di
risarcimento danni nei confronti di colleghi colpiti nell’esercizio della loro attività
professionale, appare irrituale che un giornalista colpisca un altro giornalista con
gli stessi sistemi che si contestano a livello di categoria.
La Consulta ritiene che altre
possano essere le procedure per far valere le proprie
ragioni, al di là del merito del
giudizio’’.
La pronuncia della consulta
degli Ordini è stata adottata
in relazione alla richiesta di
un miliardo di lire avanzata
dall’inviato di Repubblica,
Attilio Bolzoni, nei confronti
del presidente dell’ Ordine
dei giornalisti di Sicilia Bent
Parodi. La prima udienza è
stata fissata davanti al
Tribunale Civile di Agrigento
per il prossimo 26 novembre.
Ad un convegno sull’ abusivismo nella Valle dei Templi,
Parodi aveva definito Bolzoni
ed altri due colleghi, uno della Rai, l’ altro dell’Espresso
“colleghi che dimenticano la
sacralità della professione e
accettano il ruolo di killer su
commissione’’.
Successivamente aveva aggiunto: “Sono sempre i soliti
noti, che fanno informazione
pilotata e spregiudicante,
sono urtanti, antipatici, prevaricatori e camorristi’’.
Secondo l’atto di citazione le
parole di Parodi, oltre a ledere l’onorabilità di Bolzoni,
che lavorava ad Agrigento
sotto scorta della Digos, lo
hanno ulteriormente esposto alla rappresaglia degli
abusivi che lo individuarono
“come uno degli avversari
da combattere con ogni
mezzo, soltanto per essersi
schierato in difesa della legalità, mettendone a rischio
l’incolumità personale’’.
(ANSA)
9
di Paola Pastacaldi
consigliere dell’Ordine dei giornalisti
della Lombardia
Questo intervento
è stato letto il 13
luglio a Genova,
alla Berc,
Biennale
delle riviste
europee,
all’interno
della giornata
“Sistemi
informativi
e comunicazioni
di massa”
e poi aggiornato
con i drammatici
avvenimenti
delle settimane
successive
sino alla morte
di Carlo Giuliani.
I media sono la globalità. La globalizzazione
senza i media non sarebbe esistita o sarebbe stata tutt’altra cosa. È la parola stessa,
diffusa in chiave globale, che rende globali
oggetti, atti e pensieri.
E non è un concetto tautologico. Il meccanismo mediatico è una sorta di arcana creatrice e insieme di icona della globalizzazione.
Assistiamo stupefatti al suo affermarsi.
Cercando di non diventare vittime delle sue
illusioni. Nell’offrire il tema della riflessione
su media e globalizzazione, desideravo
mettere in luce le modalità con cui è stato
presentato il G8 al cittadino comune, a colui
che per informarsi legge i giornali.
Fenomenologia
del G8 a Genova
Non comprende
dunque
le inchieste
successive,
e in particolare
quella sui
media, della
polizia
Cosa raccontano
i giornali?
I media sono idealmente la struttura nervosa
di una società, anzi il suo riflettere civile.
Dunque al di là delle posizioni dei partiti,
delle correnti di pensiero, delle sue frange
estreme, pacifiste e non, cattoliche e laiche,
analizzare i media, la carta stampa a cui è
affidato il compito di informare, significa
andare a vedere quale “realtà G8” i media
hanno creato per i cittadini, per la società
civile.
Spettacolarizzare
ad ogni costo
Il tragico gioco della spettacolarizzazione
che affligge l’informazione da quando la tv
ha raggiunto l’età adulta ha inghiottito anche
la questione G8. La massa di articoli, che ha
riempito i giornali, si è trasformata sin dai
primi giorni in una guerriglia in modo lento e
inesorabile. La guerriglia informativa è stata
intrapresa dal potere globale dei media, da
tempo disinteressati a raccogliere e a
trasmettere il sapere nella sua interezza,
dunque nella sua positiva globalità.
Disinteressato a indagare e a farsi testimone
di ciò che accade.
È per questo che non c’è vera libertà di stampa senza che vi sia una sapiente lettura. È
importante, cioè, che chi legge capisca, riconosca i moralismi, le spaccature, le adulazioni interessate. Le bugie, i giochi. Ma apriamo
i giornali. E leggiamo alcuni titoli. “G8 a difesa
dell’aeroporto, batterie terra aria contro eventuali attentati a Genova. Allarme irriducibili,
pronti a tutto, l’ultimo rapporto del Viminale.
L’ira delle tute bianche: il governo ci provoca.
I boicottatori made in Italy. Da un podere in
Toscana la sfida alle multinazionali”. I titoli
che dovrebbero fare da battistrada ai contenuti sono essi stessi il contenuto: contengono l’allarme, la paura, l’insicurezza. Sin dall’inizio il messaggio è: andare a Genova è
pericoloso. Oppure, aggiungiamo noi a
posteriori, andare a Genova è diventato
l’eterno gioco delle parti.
“L’armata dei sognatori e le ragioni dei Grandi”. Raramente siamo in presenza di titoli non
inneggianti al conflitto. Ma quando ci sono,
introducono ad una visione fortemente moralistica e pietistica del mondo.
Eccone alcuni. “La miseria, l’esercito dei
poveri, i paesi dell’abbondanza. Il grido di chi
soffre, arriverà ai potenti? Ascoltate il grido
dei più deboli”. Sino al lacrimoso appello “Io
suora durante il vertice marcerò e digiunerò
per i poveri”.
Anche i titoli che hanno come pretesto gli
interventi di Ciampi rimangono prigionieri di
una visione basata sul pietismo emotivo:
“Iniziativa per i paesi in via di sviluppo. Il
nostro impegno per i poveri.” E l’occhiello
involontariamente cade in un paradosso: “A
difesa dei Grandi 2700 soldati”.
La foto è la notizia
Decine di foto di poliziotti schierati e armati
di scudi ed elmetti accompagnano gli articoli
come fossero il logo dell’informazione stessa. La spettacolarizzazione dell’antiglobale
Giornalisti a confronto prima del vertice di Genova
La globalizzazione
e le contraddizioni
dell’informazione
di Fausta Speranza
Un esame di coscienza sulla comunicazione
in relazione al G8 prima ancora che il summit
si tenesse. È stato anche questo il senso
dell’incontro che ha riunito studiosi della
comunicazione e giornalisti, a Genova, la
settimana prima del fatidico vertice. L’incontro
si inseriva nel ciclo di conferenze, dedicate ai
vari aspetti della globalizzazione, promosse
nell’ambito della Biennale Europea delle Riviste Culturali, che dal ‘99 offre l’occasione di
un confronto sulle diverse proposte culturali,
perché l’Europa unita non sia solo economica. Nelle varie giornate si è parlato di globalizzazione e cooperazione con i paesi poveri
del mondo, di frontiere nazionali e conflitti, di
diritti alla cultura e modelli di sviluppo. Un’intera giornata, poi, è stata dedicata ai sistemi
informativi e di comunicazione di massa.
L’esame di coscienza ha riguardato il clima di
10
alta tensione che si era creato alla vigilia
dell’appuntamento, prima ancora dell’inizio
delle manifestazioni e del triste epilogo della
prima giornata, chiusasi con la morte del
giovane Carlo Giuliani. Diversi i contributi alla
riflessione. Il professor Anthony Delano, che
è stato inviato di importanti quotidiani anglosassoni e che ora è ricercatore e insegnante
della School of Media di Londra, ha parlato di
un’esasperazione dei toni che tradisce i principi di oggettività e professionalità del buon
giornalismo, mentre giornalisti sul campo
come Paola Pastacaldi, Gianni Minà e chi
scrive hanno denunciato soprattutto il rischio
che si perdessero di vista i contenuti.
Allargando lo sguardo oltre l’evento, Delano
ha messo in luce alcuni rischi dell’informazione globalizzata, che fa rima con digitalizzata.
È innegabile che la tecnologia abbia rivoluzionato il modo di fare giornalismo, basta
pensare alla quantità di siti web a disposizione che fa impallidire la rosa dei quotidiani
esistenti al mondo. Fin qui pochi rischi. Il
punto – ha spiegato Delano – è che la globalizzazione delle agenzie di informazione fa sì
che sempre meno giornalisti “producano” la
notizia e sempre di più la “lavorino” semplicemente. Da autorevole veterano, Delano
avverte la necessità di raccomandare ai
giovani di conservare la curiosità e la grinta
per andare a caccia di notizie, ma si rende
anche ben conto che la necessità di cercare
un lavoro, in un campo che non offre neanche in Gran Bretagna larghi spazi, catalizza
le energie dei novelli giornalisti. L’obiettivo
diventa un posto al desk che faccia guadagnare qualche cosa e che inserisca in una
struttura. Con buona pace delle notizie da
andare a scovare, ci si dedica a quelle già a
disposizione sullo schermo, ricco di lanci di
agenzie e di tutto il ben di Dio offerto da Internet. Ma – sottolinea provocatoriamente Delano – si trova non ciò che si cerca ma quello
che c’è. Su questo ha voluto esprimere il suo
punto di vista Michele Mezza, giornalista Rai
che ha curato l’avvio di Rainews24, esperimento pilota della Rai in tema di nuovi media.
“Non era sempre verde la mia valle” ha tenuto a ribadire, perché “la concentrazione nella
produzione di notizie non è cosa di oggi”.
Secondo Mezza non si ricorda abbastanza
che trent’anni fa il 93 per cento delle news
passava attraverso la caporedazione della
Reuters, autorevole e più antica agenzia di
stampa. Mezza ha poi contribuito alla riflessione, e direi anche ai momenti più accesi di
dibattito, rispondendo idealmente ad alcune
affermazioni attribuite al cosiddetto popolo di
Seattle. Naturalmente, anche di loro si è
parlato o meglio di quello che avevano comu-
nicato fino alla vigilia del vertice: molta confusione e inesattezze ma sicuramente la voglia
di “disturbare” il lavoro dei compunti rappresentanti delle potenze più industrializzate. Il
G8 – ha spiegato Mezza – non è la celebrazione del potere assoluto dell’economia, che
sicuramente produce anche situazioni più
che discutibili nel mondo, ma al contrario è
una sorta di democratica pubblicizzazione di
quanto avviene nelle stanze dei bottoni. L’ipotesi alternativa – fa presente Mezza - è che
le decisioni vengano prese “al 124esimo
piano di un grattacielo finanziario”. Sicuramente senza foto di gruppo. È chiaro il
messaggio: il potere della finanza e dell’economia non si può demolire impedendo un
vertice, che nel regno delle decisioni resta il
momento forse più democratico di “partecipazione” ai popoli. Sono le decisioni cui non
“assistiamo”, di cui l’informazione non rende
conto, come per gli appuntamenti ufficiali,
quelle che dovrebbero inquietarci e, semmai,
far scendere in piazza. Mantenendo forte il
senso dell’autocritica, si dovrebbe dire, però,
che si avverte quantomeno il rischio che
questa democratica pubblicizzazione dei
contenuti diventi il resoconto del menu, delle
aree shopping frequentate più o meno dalle
varie lady, quando non si debba discutere
sull’eventuale assenza della consorte proprio
del primo ministro del paese ospitante.
D’altra parte, non si sta parlando di globalizzazione? E allora il discorso non può che
essere sempre allargato a trecentosessanta
gradi sui vari livelli della società e spalmato a
livello mondiale. È l’ottica che, seriamente, ha
ispirato la relazione del professor Jo Groebel,
direttore dell’European Institute for the Media,
ORDINE
8
2001
Tutte
le foto
di questo
servizio
sono
dell’agenzia
Olympia.
richiede un sofisticato restyling dell’idea
stessa.
L’antiglobalizzazione ha un guardaroba che
merita anche tre quattro colonne e che va
dai guanti al casco, al giubbotto sino al
modaiolissimo kit del manifestante. La guerriglia è un gioco. Le richieste di Berlusconi
per il summit occupano quasi una pagina e
si riassumono in un favoloso riquadro illustrato su addobbi verdi degli spazi dedicati
ai potenti del G8, sull’illuminazione, sul decoro più frivolo. Di questa fatua descrizione del
contesto (estetico ambientale) è arduo
immaginare l’interesse, l’utilità. Se non quella di fare bella figura, rappezzare le magagne un po’ come si faceva in Africa, quando
in occasione delle visite di personalità internazionali ad Addis Abeba Menelik faceva
tirare su strade e palazzi nel giro di pochi
giorni, ordinando ai miserabili della città di
non farsi vedere durante le parate. A Genova i palazzi e la piazza del G8 erano lustrati,
sapevano di pittura fresca, mentre nei budelli a pochi metri correvano i topi e i rifiuti si
accumulavano malsani.
I media hanno perduto anche un’altra grande occasione per fare divulgazione scientifica. I lettori che non hanno voluto rinunciare
a “saperne di più” sono stati costretti a fare
un generoso affondo nelle librerie o nelle
biblioteche . I più tecnologici hanno navigato
in Internet dove c’era tutto e di tutto. Vero o
falso che fosse, certo molto di più che sulla
carta stampata. L’informazione ha girato alla
larga dai giornali già dalle prime battute del
famigerato incontro.
Nella miriade di copertine che ci sbattono in
faccia le figlie di Chaplin, le Ferilli urlanti per
la vittoria della Roma, i servizi “veri” sul G8
erano quasi inesistenti e quando c’erano
avevano un taglio da avanspettacolo, dove i
protagonisti diventano soubrette. Vista la
tendenza maniacale della stampa di perso-
nalizzare qualsiasi fenomeno anche i più
atroci. Ricordo che durante la guerra in
Bosnia persino la notizia dei primi stupri
aveva trovato spazio in prima pagina grazie
ad un fondo che raccontava la storia di una
singola stuprata, aprendo la porta a tutte le
altre migliaia di donne violate.
Come ben sanno i giornalisti i media sanno
operare il miracolo: anche il singolo sconosciuto può essere trasformato in personaggio. Manu Chao era in un certo senso l’unico
vero personaggio giudicato dai media
raccontabile nel contesto mediatico del G8.
Con folclore e consueta bonomia. Eccolo
comparire come un guru. Uno dei maggiori
magazine italiani lo proponeva in copertina
(“Il ritorno del clandestino”). Ma con quali
contenuti, quale storia? Il linguaggio e le
modalità di esposizione, le foto stesse lasciavano intravedere un personaggio che appartiene al fenomeno labile delle mode. Chi
amava Manu Chao era meglio si comperasse un disco e stesse a casa.
Questa società della comunicazione ama la
banalità (cito il sociologo Jean Baudrillard).
La comunicazione è la più grande superstizione della nostra era (cito Ignatio Ramonet,
direttore di Le Monde Diplomatique). E il
giornalismo si fa ambiguo. Gioca su più piani.
Manu Chao è una bandiera. Ma che bandiera? La bandiera del so già tutto, la bandiera
della banalità, la bandiera del circolo vizioso
del ripetere sempre gli stessi concetti, così
Manu Chao diventa ciò che la stampa decide che lui sia. Il suo nome viaggia a fianco
della parola droga, Seattle, Marcos e G8, un
trionfo di Logo.
Un altro settimanale si prende la briga di
descrivere “quelli del G8” come una nuova
razza. I ragazzi del no-global sarebbero quelli con le Nike, contro i Mc Donald’s, con il
preservativo in tasca e il matrimonio in chiesa (ma è così strano avere una fede?) e che
sognano figli (il numero di figli è ritornato ad
essere patrimonio dei partiti e degli opinionisti?). Erba, birra e Internet, idee e look di una
generazione. Pensare che tutti fossero così
era un tentativo evidente di manipolazione
mass mediatica.
del fatto che non c’è energia elettrica. Ma è
sbagliato pensare che resti l’Africa il fanalino
di coda perché situazioni altrettanto difficili si
trovano nelle regioni più povere d’Europa,
della Russia, delle zone dell’ex Unione sovietica. Per non parlare, poi degli squilibri di casa
nostra: in Italia Internet ha raddoppiato negli
ultimi due anni il numero di utenti, ha conquistato un italiano su quattro raggiungendo
quasi i progrediti livelli della Francia, ma se si
individua l’identikit del 95% degli internauti si
scopre che ha meno di quarantaquattro anni,
è giovane, maschio e del nord. A uno sguardo globale, inoltre, non sfugge che l’88%
degli utenti Internet vive nei paesi industrializzati che rappresentano, però, solo il 17%
della popolazione mondiale. Non si tratta di
mettere in dubbio la positività di Internet, che
rappresenta la chiave di accesso al terzo
millennio. Resta da chiarire, però, che la
magia attraverso la quale lo spazio si restringe, il tempo si contrae, le frontiere scompaiono è affidata a una rete che connette sempre
di più chi è connesso ma rischia di escludere
sempre di più chi è escluso. Rischia di diventare una conversazione dai toni alti che tacita
chi ha poca voce, un discorso compattato che
fa a meno di tutti gli spazi per inserirsi, proprio
come il sistema digitale che compatta i dati.
Tutto ciò va tenuto presente insieme con la
consapevolezza che le forze del mercato da
sole non correggeranno squilibri e disuguaglianze. L’illusione che il processo di globalizzazione potesse funzionare secondo il principio dei vasi comunicanti, livellando miracolosamente le differenze nella qualità di vita dei
popoli, è ormai superata. All’inizio del secolo
scorso la proporzione della ricchezza tra
Nord e Sud del mondo era in rapporto di 8 :1,
oggi è di 70-80 : 1.
D’altra parte, è ormai un concetto acquisito
quello per cui si deve seguire e gestire la
globalizzazione e non lasciarla a se stessa.
Proprio in occasione del G8 questo è stato
ribadito da autorevoli pulpiti. Resta un esame
di coscienza sempre valido: l’informazione dà
conto abbastanza di questi dati e soprattutto
delle possibili vie di fuga da un mondo
sempre più sbilanciato tra chi ha il problema
di come mantenere la linea, dosando o
dissolvendo calorie, e chi ha ancora l’incubo
di come riempire la pancia? È sempre difficile raccontarli nelle stesse pagine.
Infine, visto che ci permettiamo un esame di
coscienza, ci concediamo anche una raccomandazione: lasciamo aperta la comunicazione e vigile l’informazione sulle ragioni,
anche confuse o mescolate, del cosiddetto
popolo di Seattle, nonchè popolo di Genova.
E questo sia che i vertici si tengano in Italia
sia che siano ospitati in altri paesi con spazi
più o meno aperti. Ci dovremmo chiedere
cosa avrebbe fatto Carlo Giuliani, nel dopo
Genova, se la scena dell’estintore non fosse
stata girata, cosa fanno o non fanno tanti suoi
compagni di piazza all’interno o ai margini
della società civile.
E c’è ancora da domandarsi chi organizza in
vista degli eventi i black block, o da indagare
le ragioni dei missionari che, come suor
Patrizia Pasini o Frei Betto, non hanno esitato ad esserci a Genova, nonostante il tam
tam informativo sui rischi del vertice, sul
rischio annunciato che tutto venisse comunicato in secondo piano rispetto alla voce della
violenza.
I personaggi tollerati:
Manu Chao
istituto di ricerca no profit fondato dall’ex direttore del Corriere della Sera, Alberto Cavallari. Jo Groebel ha voluto mettere in luce importanti potenzialità dell’informazione nel villaggio globale e digitale in relazione al singolo
cittadino. La prospettiva più significativa sarà
quella di personalizzare sempre di più il suo
sempre più attivo rapporto con tutti i mezzi di
comunicazione, che, peraltro, vanno verso la
convergenza in un unico medium, annunciata da tempo da Negroponte. Significa, ad
esempio, che con la televisione on the
demand potrà scegliere programma e orario,
con il proprio telefonino potrà navigare in rete
e seguire la Borsa. Inoltre, la realtà del singolo utente si fa metafora di una condizione
soggettiva da salvaguardare in uno scenario
sempre più virtuale. La scommessa – afferma Groebel – resta quella, se vogliamo antica, di rispettare l’umanesimo e la cultura. Una
scommessa che in particolare deve vivere
l’Europa Unita. Altrimenti la logica del profitto,
che regna nel mondo dell’economia, avrà
campo di azione in qualunque ambito del
villaggio della comunicazione globale in
tempo reale. Più umanesimo – pensiamo significa allora, senza tante implicazioni filosofiche, vita reale dei popoli: affetti e sentimenti, dignità e lavoro. Certamente qualcuno
all’interno del popolo di Seattle approverebbe
ma non è detto che ci si metta d’accordo sul
come mettere in pratica tutto questo. Anche
al convegno l’atmosfera si è scaldata quando
Gianni Minà, giornalista ben noto che ha
assunto recentemente la direzione di una rivista che si chiama Latinoamerica, ha parlato
di “lobby economiche”, “poteri più o meno
occulti”, “dittature moderne” che affamano
ORDINE
8
2001
interi popoli “con l’autorizzazione della comunità internazionale e di un’informazione a
caccia di tette famose”. È tornato il problema
spettacolarizzazione, davanti al quale non ci
tiriamo mai indietro se l’ambito di discussione
gira intorno ai sistemi informativi perché, altrimenti, certi temi invocano analisi geopolitiche
ben più complesse. Resta il fatto che di informazione si è parlato non solo come comunicazione di notizie ma anche come trasmissione di dati, in relazione all’informatica che
non a caso condivide la stessa radice linguistica. Internet, dunque, può essere considerata non solo come uno dei media ma anche
come metafora della comunicazione di oggi:
globale e in tempo reale. La globalizzazione
è anche copertura globale dell’informazione.
E qui, conservando la lezione sui rischi di un
eccesso di tecnologia ma anche sulle potenzialità nuove, vale la pena di chiedersi quale
sia la reale diffusione della World Wide Web
nel mondo. Va detto che rappresenta lo strumento di comunicazione a crescita più rapida
della storia: il telefono per raggiungere il 30%
della popolazione ha impiegato trentotto anni
e la televisione diciassette, mentre internet lo
ha fatto in soli sette anni. Si può trionfalmente
affermare che ha cambiato il concetto di
spazio e di tempo ma non si può dimenticare
che il mondo resta diviso tra ricchi e poveri,
tra istruiti e analfabeti, tra informatizzati e non.
Nel concreto, un computer costa all’abitante
medio del Bangladesh una cifra pari a otto
anni del suo reddito, mentre l’americano
medio lo acquista con lo stipendio di un
mese. In Kenya occorrerebbero dodici anni e
in Sud Sudan non si riesce a calcolare
perché c’è ancora il baratto, per non parlare
11
Fenomenologia
del G8 a Genova
Sfogliamo ancora i giornali. “Una volta
c’erano le vacanze intelligenti, oggi c’è il
G8. Turismo militante, i pellegrini della politica. La sera andavamo alla Sorbona.
Rassegna su chi andava da turista nella
Parigi del ‘68. Il porto delle spie, chi offre
soldi per avere i nomi dei contestatori”.
Dentro la poltiglia mediatica che sono stati
gli articoli sul G8 è finito triturato per l’ennesima volta anche il rivoluzionario Che
Guevara. Negli ultimi anni il Che è stato
vampirizzato dai più svariati fenomeni
nazional popolari. Nelle foto delle perquisizioni di Matteo Jade, leader genovese del
popolo di Seattle, salta fuori anche un manifesto del Che. Il rivoluzionario cubano è
stato ucciso da tempo dai media e non da
quelli sul G8 dalle vacanze a Cuba e dalle
magliette sulla rivoluzione. Un delitto
annunciato da Andy Wharol che ne riprodusse il volto come fosse una lattina di
Coca Cola.
E la divulgazione che fine ha fatto? Il titolo “Il
libro nero dell’ambiente” che compare in uno
dei maggiori magazine apre qualche speranza. Ma sono solo illusioni. Il libro nero abbraccia tristemente la via dell’allarmismo, fratello
di primo letto della spettacolarizzazione.
Cosa c’è di meglio per allontanare i lettori
dall’argomento che dirgli che saranno
sommersi dalle inondazioni e dai maremoti.
Che Venezia non ci sarà più. Che le steppe si
divorerranno tutto. Che uragani e tifoni, inquinamento atmosferico, temeprature record,
malaria e malattie tropicali ci distruggeranno.
È vero che sono gli stessi rapporti mondiali
sull’ambiente a denunciare una realtà asso-
lutamente estrema e drammatica.
Ma noi aggiungiamo che l’impatto di queste
notizie, come di ogni altra notizia, può essere alzato o abbassato anche solo con diminuendo o aumentando i centimetri di una
foto. Anche solo estrapolando concetti limiti
e facendone dei titoli come se rappresentassero tutto il contenuto dell’articolo.
Anche usando foto di vecchi avvenimenti
per rappresentare una realtà che non è
ancora accaduta, ma che i media suggeriscono a chi legge, sinuando la paura che
potrebbe accadere.
La comunicazione
è la nuova
superstizione
Come dice Ignatio Ramonet la comunicazione è la principale superstizione di questa
era. Si offre come ultima panacea per risolvere i conflitti dentro la famiglia, la scuola, lo
stato, l’ambiente. Ma c’è il sospetto che
questa stragrande e variegata abbondanza
stia portando nuove forme di alienazione.
Anziché liberare gli spiriti i suoi eccessi li
imprigionino.
Credo che i lettori che possiamo definire
sapienti si sentano globalmente rassegnati.
Tutto quello che è accaduto nel mondo è
stato documentato. Forse non tutto, tutto. Ma
quello che conta e che più penalizza i lettori
è che questo tutto non viene più contestua-
Il ritrovato orgoglio dei giornalisti durante i tragici fatti di Genova
Indagare
per informare
di Marina Cosi
vicesegretario nazionale Fnsi
All’improvviso, Genova. E l’imporsi dei fatti e
del dovere d’informare spazza via le beghe
di categoria o almeno ne dimostra tutta la
strumentalità, facendo vedere, anche a chi
se l’era scordato, il senso vero di questo
nostro mestiere. Come un richiamo della
foresta per ogni giornalista. Chi ha fatto
cronaca, chi ha raccolto testimonianze, chi
ha investigato, chi ha selezionato fra l’enorme messe di materiale rovesciata in rete e
nelle redazioni dalle telecamerine amatoriali,
chi infine senza lavorarci direttamente ha
però condiviso il principio deontologico di
cercare la verità dei fatti senza pregiudizi e
senza timori. Praticamente tutti i professionisti dell’informazione si sono riconosciuti
nell’anonimo collega che alla conferenza
stampa di domenica mattina, 22 luglio, in
questura, urlava: “Siamo al di là delle parti,
noi, e abbiamo il diritto, il di-rit-to!, di ottenere
delle risposte”.
12
precari) di radio, televisioni minori, testate
web, pubblicazioni del volontariato sociale.
Loro sono la prova provata di come il mestiere sia vivo pur nel ricambio generazionale e
le sue regole deontologiche fortemente
condivise e di come, quindi, a noi sindacato
tocchi solo di portare a tutti i costi, sotto il
tetto del riconoscimento ordinistico e contrattuale, queste migliaia di giornalisti di fatto.
(Parentesi: ciò, nel sindacato, alla maggioranza di noi era già chiaro, sin dalle priorità
nella strategia contrattuale: non lo è stato nè
sembra ancora esserlo per chi più o meno
strumentalmente ha preferito inseguire
vecchi tromboni o nuovi equilibristi trasversali in nome di polemicuzze precongressuali. Chiusa parentesi).
Due cose però sono apparse subito chiarissime, due cose con cui bisognerà fare i conti
se si è seri.
La seconda cosa è il recuperato rapporto
con la società. L’orgoglio di mestiere che ha
condotto istintivamente i giornalisti a “fare la
cosa giusta” - a cercare, rischiare, indagare
per informare - è stata un’iniezione di fiducia
ed autorevolezza, non intaccata nella
sostanza dalle fisiologiche polemiche e critiche sia interne sia dei lettori/utenti. Eppoi per
la prima volta in maniera massiccia è stata
sperimentata, per lo meno in Italia, la capienza, la tempestività e la capillarità delle Reti.
Con la dimostrazione che le opportunità e le
quantità di materiali prodotti dalla diffusione
tecnologica di massa (telefoni e computer
portatili, apparecchi digitali tele-fotografici,
internet, il tutto usato da cittadini e associazioni durante e dopo Genova) non si sostituiscono all’informazione fornita dagli operatori
professionisti, ossia da noi, come certuni
sostengono, ma le si aggiungono, fungendo
da enorme archivio della memoria e da
tessuto comunicativo, insomma da superipertesto d’un lavoro giornalistico compiuto
nel rispetto delle regole qualitative e deontologiche.
Una, il determinante e coraggioso contributo
di cronaca fornito dai freelance e dalla moltitudine di giovani colleghi (in maggioranza
Regole che alla fin fine hanno presieduto
anche alla stesura del pezzo che state
leggendo, se avete la compiacenza di
Anche per chi, giornalista, ha la delega pro
tempore di rappresentare i diritti del lavoro
dei colleghi, il senso del proprio impegno
sindacale è apparso immediatamente chiaro. Tutelare l’agibilità e l’incolumità dei colleghi al lavoro in piazza, per cominciare (di
fronte ai dinieghi degli accrediti, ai discrimini
verso le testate e al sospetto verso i freelance), quindi intervenire per ottenerne scarcerazione e referti medici, infine raccogliere
tutta la documentazione sulle violazioni alla
libertà di stampa e organizzare la denuncia.
Il sindacato territoriale e quello nazionale
(l’Associazione stampa ligure, assieme
all’Ordine ligure, e la Fnsi) si sono mobilitati,
ma ancora prima che partisse l’appello ai
colleghi a fornire indicazioni, una gran mole
di documentazioni scritte e per immagini è
cominciata ad arrivare (www.fnsi.it).
leggermi, del che vi ringrazio. Nel senso che
intendevo raccontare alcuni risultati sindacali, in questo articolo, ma la gerarchia degli
eventi, com’è giusto, è stata decisa dalla
cronaca e Genova è balzata in apertura.
Connessa con un altro evento, la morte di
Indro Montanelli, il Grande Cronista, che
molti di noi hanno sentito, oltre che come un
lutto doloroso, anche come una simbolica
concomitanza. È significativo che tutto si sia
tenuto anche sul piano degli eventi. Mi spiego (e così intanto rendo conto di che uso
faccio del mandato che mi avete conferito
delegandomi alla vicesegreteria federale):
dopo un paio di settimane di vertenze, peraltro fortunatamente riuscite - come la conclusione del piano tecnologico in Rcs e le
corrette reimpostazioni dei piani di Famiglia
Cristiana e di Quadratum, l’accordo col liquidatore del quotidiano on line E-Day, la ratificazione dei contratti trasformati in Mediaset
da tempo determinato a tempo indeterminato -, nonché dopo un certo numero di riunioni, direttivi e giunte, più lo sbroglio-matasse
(definizione casalinga in cui metto sia la
gestione tecnica dei problemi diciamo nazionali, dal diritto d’autore agli uffici stampa, sia
la consulenza operativa su questioni statutarie, contrattuali o d’accordi a cdr e singoli
colleghi), insomma dopo di ciò, era in
programma una settimana di fine luglio
imperniata su tre eventi.
Prima la consegna del Libro bianco sul lavoro nero, messo assieme dalla Fnsi, alla categoria e alle presidenze di Camera e Senato,
poi la presentazione del libro di Orlando
Fucilate Montanelli!, infine l’incontro col
nuovo presidente Fieg. L’avvicinarsi del G-8
ci aveva già dato del filo da torcere, per il
rifiuto di alcuni pass e la vicenda delle pettorine Fnsi clonate, ma una serie di iniziative e
di dichiarazioni del segretario nazionale,
Paolo Serventi Longhi, e del presidente della
Ligure, Marcello Zinola, nonché della magistratura genovese (che ha dato d’autorità a
un collega il pass negato) facevano ritenere
la situazione sotto controllo.
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2001
A N A L I S I
Dal convegno di Stresa
è emersa l’urgenza
di adeguare il diritto
all’economia digitale
Una battaglia
a colpi
di copyright
lizzato. Il contesto della questione globalizzazione non può essere quello rappresentato dai quotidiani nazionali: la megafoto a due
colonne e mezza pagina del militare del
battaglione San Marco, armato sino ai denti
compreso il cellulare e gli occhiali scuri
apparso su un quotidiano. Né il volto che spia
dal buco di uno dei blocchi di ferro della zona
rossa. Né il passamontagna nero del blocco
nero trionfante sull’auto incenerita. Né l’artificiere che smonta la bici dinamitarda. Né la
zona rossa zeppa di divise che pare la cittadella del milite.
Perché il contesto è divenuto la metafora di
una desertificazione ideologica e morale, in
cui la verità di una rivoluzione si avvia alla
definitiva sconfitta a vantaggio di un potere
mostruoso che mette tutto e tutti insieme.
Intesse tutto. Assimila tutto. Anche l’opposizione, anche la contestazione.
Dapprima la città blindata ha prodotto un
terrore virtuale. Poi il terrore virtuale si è materializzato con pacchi bomba. E poi anche un
morto, ripreso e visto dalle tv e dalle migliaia
di foto. Un morto - e questo è un segno mediatico agghiacciante - quasi in diretta.
Un trionfo dei media, una sconfitta per tutti.
Quel corpo adagiato a terra nel sangue e
inquadrato da un operatore ha incendiato
definitivamente la guerra delle parti. Come
ha visto Le Monde in una magistrale vignetta - il quotidiano francese che ha scelto di
non usare le foto è stato alla fine il più chiaro
- faceva vedere come su di lui fioccassero
decine di flash per le prime pagine. Dietro un
muro i potenti banchettavano avidi e gli ossi
del loro pasto volavano alti sino a raggiunge-
re i poveri, assiepati dietro il filo spinato. E i
contenuti del G8, gli argomenti dell’incontro
finivano in coda ai servizi.
C’è un modo di dire popolare che Sofri ha
ricordato in una delle sue opinioni da prima
pagina, prima che il fatto accadesse, “si
respira la paura che ci scappi il morto a
Genova”, aggiungiamo noi nella città “meticciata dalla globalizzazione antiglobale” e da
un’operazione di ordine pubblico tra le più
grandi del secolo.
Percorrendo, ora che il G8 è concluso, un
cammino a ritroso dentro la stampa, dentro
le prime pagine, i titoli, le foto, le immagini, i
passamontagna, i volti, i militari, le parole
utilizzate, le didascalie, appare come in un
racconto già scritta la tragica conclusione, il
sangue, le botte senza motivo, le aggressioni, la violenza dei pestaggi, anche il morto.
La stampa ha raccontato consapevole o
meno una trama già scritta. Bisogna saper
leggere i giornali, cambiare la nostra relazione con l’informazione. Capire che questo è il
potere della mediatizzazione.
Questa è la nuova realtà della globalizzazione che nasce dai media.
Chiudo dicendo che è necessario avere
sempre presente un fatto positivo: un giornale è un’astrazione. Ci sono diversi giornali e
ogni giornale è fatto da mille firme, mille teste
che cambiano ogni giorno. Un giornale è un
sondaggio al giorno, un tentativo al giorno,
un ballon d’essai al giorno e una scommessa. Perché la stampa non sia cialtrona e non
generi mostri reali o virtuali è necessario
imparare e insegnare ai giovani la sapienza
della lettura.
Paola Pastacaldi
Poi è successo quel che è successo e l’ordinata processione degli eventi previsti è saltata. Venerdì son cominciate a piovere telefonate di denuncia dai colleghi impegnati a
seguire le manifestazioni, in un crescendo
affannoso sabato e poi domenica, per cercare i giornalisti non solo italiani feriti, arrestati,
“scomparsi”. L’alba della nuova settimana,
che sarebbe dovuta essere l’ultima prima
della breve interruzione festiva federale, s’è
aperta con le polemiche internazionali sul
crescendo di violenze a Genova, con la
camera ardente di Montanelli a Milano, con
l’esigenza di allestire con basi a Roma (Fnsi)
e Bruxelles (Ifj) una raccolta di testimonianze e documenti visivi sulle lesioni alla libertà
di stampa. È il bello della diretta, anche nel
lavoro sindacale.
ad esprimere anche collettivamente le
proprie opinioni.
A qualcuno la nostra iniziativa non è piaciuta, ma anche questo è un diritto rispettabile.
Arriviamo così a mercoledì 25 luglio, giornata densissima perché prima della presentazione del libro bianco ed in qualche modo
intrecciando gli argomenti, si trasforma volutamente l’affollatissima assemblea in un
dibattito su Genova e i diritti dell’informazione. Parlano i colleghi che per tre giorni e per
tre notti hanno seguito gli eventi, che hanno
filmato chilometri di pellicola, scritto decine
di pezzi, ma anche preso manganellate, che
hanno avuto le macchine rotte ed i rullini
sequestrati, che molto spesso si sono posti
coraggiosamente come “forze d’interposizione” fra manifestanti e polizia e fra manifestanti pacifici e frange violente, che hanno
collaborato con la magistratura, che vogliono
che la verità o almeno quanta più verità
possibile sia ristabilita. In aula ci sono anche
diversi parlamentari e lo stesso ministro della
comunicazione Gasparri, intervenuto per
discutere di precariato, ma che non si sottrae
alla discussione su Genova. Nel pomeriggio
la presentazione del libro su Montanelli è
un’importante occasione per riflettere, anche
questa volta a sala piena, sia pure d’un
pubblico differente, sul senso della nostra
professione, sul dovere di essere prima di
tutto e in maniera prevalente cronisti. Genova entra di prepotenza anche in questa
discussione, soprattutto per ricordare che i
giudizi, scrivendo, lo diceva Indro, debbono
venire dopo che sulla carta sono stati scritti
fatti e poi fatti e poi ancora fatti. L’indomani,
venerdì, la settimana si chiude con l’incontro
fra la segreteria Fnsi ed il vertice Fieg guidato da Luca Cordero di Montezemolo: si stende un elenco di argomenti da trattare e se ne
discute subito uno, la normativa sulla diffamazione, cercando e trovando una linea
comune. Linea che un’ora dopo il presidente
Fieg avanzerà nell’incontro, anch’esso già
previsto da tempo, al ministero. Il lavoro
sindacale continua.
Mentre una delegazione di Giunta Fnsi
rendeva omaggio alla salma di Indro, come
segreteria federale lunedì siamo andati dal
presidente della Camera per denunciare il
lavoro nero nel giornalismo e consegnare la
documentazione raccolta nel “libro bianco”,
com’era preordinato, ma ovviamente siamo
intervenuti con Pierferdinando Casini anche
sui fatti di Genova. L’indomani si sono tenute
nelle città dimostrazioni pacifiche contro le
violenze, ed il segretario ed io abbiamo
partecipato al corteo di Roma, peraltro
assieme a molti colleghi italiani e stranieri
che erano lì sia per lavoro sia per testimoniare l’intangibilità del diritto costituzionale
Invito i colleghi ad inviare
materiale su “libertà
di stampa e Genova”
al sito federale già citato
(www.fnsi.it), come pure
alla Federazione
internazionale (www.ifj.org)
e all’Associazione ligure
dei giornalisti (via Fieschi
3/26 -16121 Genova).
ORDINE
8
2001
di Laura Turini
Le imprese, ormai da tempo, hanno preso
coscienza di quanto Internet sia un potente
mezzo di comunicazione sul quale possono
svilupparsi importanti relazioni commerciali
internazionali e che consente, a chi fornisce
prodotti o servizi, di disporre di un mercato
sconfinato e in continua e rapida espansione. Questo aspetto, di indiscusso interesse
economico, ha determinato l’insorgere non
solo di liti per l’acquisto di importanti spazi di
visibilità in Rete, legate principalmente all’utilizzo di nomi a dominio significativi, ma
anche l’acuirsi di rivalse legali per impedire
a terzi di utilizzare tecniche e contenuti fino
a oggi monopolio di pochi. Una tale prospettiva è particolarmente preoccupante in una
società come la nostra, in cui si tende alla
“standardizzazione” dei prodotti, che se da
un lato consente una maggiore interazione
tra culture di tutto il mondo, dall’altro conferisce a chi produce gli standard un potere
eccessivo e ingiustificato.
Se chi possiede materialmente i cavi telefonici potesse decidere anche cosa possono
dirsi le persone che li utilizzano, sarebbe
davvero drammatico, così come c’è da
augurarsi che non si avveri la previsione di
Lawrence Lessig che vede nell’introduzione
delle trasmissioni su banda larga un pericolo
concreto per la libertà di parola. In questa
importante fase della storia dell’umanità il
giurista è chiamato a conoscere la tecnica
per comprenderne le conseguenze non
evidenti, ma al tempo stesso è chiamato a
ponderare le proprie decisioni, con lo sguardo diretto al futuro. Valori fondamentali quali
la libertà di parola, la libertà di impresa e la
concorrenza paritaria tra le imprese non
possono venire meno, neanche online.
Questo è quanto è emerso anche recentemente al convegno tenutosi a Stresa il 4 e 5
maggio, organizzato dal Centro nazionale di
Prevenzione e difesa sociale, nel corso del
quale si è discusso del rapporto tra diritto ed
economia, evidenziando come spesso l’utilizzo di certi strumenti giuridici giuochi un
ruolo fondamentale nell’evoluzione della vita
sociale.
Diritto d’autore
Il caso Napster ne è un esempio. La legge
sul copyright, varata per ricompensare gli
artisti dello sforzo creativo, consente ai
produttori di guadagnare rilevanti somme dal
pagamento dei diritti da parte dei consumatori, dei quali solo una minima parte va poi
materialmente a finire nelle tasche degli
autori. Napster, al di là della violazione o
meno del diritto di copyright, ha dimostrato
come sia possibile diffondere, e anche
vendere, musica in un modo nuovo, eventualmente anche facendo a meno dei
produttori e dei distributori tradizionali,
consentendo agli autori di guadagnare di più
e ai consumatori di ottenere lo stesso
prodotto a un prezzo più basso. Una tale
possibilità non può non fare paura e per
questo le major, che attualmente detengono
l’80% del mercato, sono intenzionate più a
fare chiudere i siti scambia-files che a crearne di propri e concorrenziali, proprio per
evitare che si diffonda la consapevolezza di
un mercato che potrebbe gravemente
nuocere i propri interessi. “Cosa impossibile
- ha ribadito David Boies, avvocato del
governo degli Stati Uniti nel caso Microsoft e
difensore di Napster e di altre società del
settore della musica online - per quanto si
tenti di fermare sistemi come Napster, ormai
si tratta di un processo irreversibile con il
quale le società della old economy devono
inevitabilmente fare i conti”. A conferma di
questa affermazione basti pensare che in
questi giorni MP3.com ha iniziato a vendere
Cd “compressi”, che gli utenti possono scaricare direttamente tramite Internet sul proprio
computer.
Vecchio contro nuovo
Utilizzare gli strumenti tradizionali, quali la
legge sul copyright, per impedire il diffondersi di nuove forme di comunicazione e di
mercato è indubbiamente un errore. Ciò non
significa, e ormai è indiscutibile, che su Internet tutto sia permesso, ma solo che occorre
ridimensionare certe posizioni estremistiche.
La proprietà intellettuale è destinata a giocare un ruolo fondamentale, ma deve essere
reinterpretata. Non a caso a Stresa si è
parlato della teoria degli “Essential Facilities”,
presentata da Gustavo Ghidini, professore
di diritto industriale alla Luiss di Roma, in
base alla quale è importante che i mezzi
essenziali per fornire beni o servizi siano a
disposizione di tutti, mentre non è ragionevole che, attraverso il copyright o altri diritti
di proprietà intellettuale, si possa impedire a
qualcuno, ingiustificatamente, di utilizzare
qualcosa che non potrebbe procurarsi altrimenti. Se così fosse si determinerebbero
posizioni di monopolio gravi e insostenibili.
La proprietà intellettuale deve essere salvaguardata e remunerata, ma non può essere
uno strumento per tagliare la strada al
progresso. È un sentimento collettivo, che si
avverte sia tra i consumatori sia tra i giuristi,
che non si possa continuare solo a reprimere e che in certi casi lo si stia facendo in
modo eccessivo. La tecnologia consente di
ostacolare il diffondersi dei dati ben oltre
quanto sia concesso. Basti solo considerare
che i filtri o i meccanismi che impediscono il
downloading di certi file, crea un monopolio
di fatto, indipendentemente dal fatto che quei
contenuti siano coperti o meno da diritto
d’autore.
Ripensare il copyright
In questo clima di ripensamento della legge
sul diritto d’autore è intervenuta la Danimarca nella persona del ministro della Cultura
Elsebeth Nielsen, che ha varato una proposta di legge in base alla quale sarà consentito non solo duplicare i cd, ma anche scaricare musica e copiarla sul proprio computer
per uso personale. Si tratta di una presa di
posizione che ha suscitato le ire delle società
musicali e della quale è difficile prevedere gli
sviluppi ma che dimostra ancora una volta,
se ce ne fosse bisogno, che la società reclama una svolta che il diritto, e chi lo applica,
non può evitare che avvenga.
da Il Sole 24 Ore del 18 maggio 2001
I gruppi Usa temono Internet
“Il diritto
d’autore
scomparirà”
Fra le aziende multimediali americane è ormai allarme per il
diffondersi dei sistemi peer to peer, che permettono lo scambio di dati tra computer via Internet. A descrivere i timori
dell’industria Usa è stato ieri l’economista del Mit, Lester
Thurow. Il fenomeno è iniziato con Napster, il sito utilizzato
fino a poco fa da milioni di appassionati per scambiarsi i brani
musicali gratuitamente. E con la “banda larga”, entro breve,
potranno essere scambiati anche i film. In violazione del
copyright. Senza che le imprese abbiano trovato una soluzione.
dal Corriere della Sera dell’8 settembre 2001
13
D
Il Tribunale civile
di Milano
conferma la
sanzione inflitta
dal Consiglio
della Lombardia
al direttore
e a un inviato
di “Oggi”
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Milano, 18 settembre. “Con la pubblicazione delle generalità e dell’immagine di un minore, il comportamento in concreto tenuto dal giornalista estensore dell’articolo e dal giornalista direttore della testata è idoneo a violare le
norme di legge dettate a tutela della personalità altrui (sub specie di lesione
della normativa a tutela dei minori, come approvata dalla Convenzione di
New York e recepita nel nostro ordinamento con legge 176/1991) nonché ad
essere valutato come non conforme al decoro ed alla dignità professionali
così da compromettere anche la dignità dell’Ordine (sub specie di violazione
di precisi intendimenti fatti propri dalla categoria con la sottoscrizione delle
Carte di Treviso e dei doveri)”.
È questo il filo conduttore della sentenza n. 8009/2001 con la quale la quinta
sezione civile del Tribunale di Milano (Francesco Malaspina, presidente;
Maria Iole Fontanella e Caterina Apostolati, giudici; Renzo Magosso e Maria
Grazia Marzatico, giornalisti giudici aggregati) ha ritenuto “meritevole di
conferma il provvedimento del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti
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e ciò anche in relazione alla diversità di sanzioni inflitte ai ricorrenti medesimi
(censura al direttore della testata e avvertimento all’estensore dell’articolo)
stante la diversità di ruolo degli stessi, adeguatamente valorizzata nel citato
provvedimento”.
I ricorrenti sono Paolo Occhipinti e Massimo Laganà (nelle rispettive qualità
di direttore del settimanale Oggi e di autore dell’articolo).
Il Consiglio nazionale aveva confermato la decisione del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia.
Il Pm ha chiesto la conferma delle delibere sanzionatorie del Consiglio nazionale e del Consiglio dell’Ordine di Milano.
Il procedimento riguarda la pubblicazione di un articolo relativo alla vicenda
della minore Serena Cruz, della quale veniva pubblicato su Oggi del 14
giugno 1995 il nuovo nome e cognome nonché il luogo di abitazione della
famiglia adottiva unitamente ad immagini fotografiche riproducenti la minore
stessa.
Il giornalista che pubblica
il nome del minore ferisce
la dignità della professione
MOTIVI DELLA DECISIONE. Deve, preliminarmente, osservarsi come il dott. Occhipinti ed il dott. Laganà non contestino le circostanze di fatto poste alla base dell’irrogazione delle
rispettive sanzioni disciplinari (quanto all’avvenuta pubblicazione dei dati anagrafici della minore nonché delle riproduzioni fotografiche della stessa) bensì la qualificazione e l’incidenza dal punto di vista deontologico dei fatti stessi, così
come riportati dai Consigli regionale e nazionale nei rispettivi
provvedimenti.
In particolare, i ricorrenti sottolineano come l’articolo avesse
lo scopo di rendere edotta l’opinione pubblica dell’esito di
una vicenda che alcuni anni prima aveva formato oggetto di
ampio dibattito anche giornalistico, come la stesura dell’articolo non avesse in concreto comportato alcun effetto pregiudizievole per la minore stessa, come la pubblicazione fosse
avvenuta con il consenso dei genitori e come, infine, la redazione dell’articolo dovesse essere ritenuta quale legittima
estrinsecazione del diritto di cronaca.
Detti rilievi, peraltro, non appaiono - a parere del Collegio meritevoli di positiva considerazione, onde deve farsi luogo
alla conferma della impugnata decisione, siccome esente da
censure e congruamente motivata.
Ed infatti, l’articolo oggetto di contestazione si incentra sulle
dichiarazioni rese nel corso di un’intervista dai genitori adottivi di una bambina che - conosciuta con il nome di fantasia
di Serena Cruz - era diventata protagonista di un fatto di
cronaca circa cinque anni prima della pubblicazione dell’articolo per cui è causa, per essere stata allontanata - con provvedimento del Tribunale per i minorenni di Torino - dalla
propria famiglia adottiva e per essere stata affidata ad una
diversa famiglia (che è quella con la quale tuttora vive ed in
favore della quale si è perfezionato il procedimento di adozione definitiva).
Su questa vicenda, quindi, si era aperto agli inizi degli anni
‘90 un acceso dibattito che aveva coinvolto tutta l’opinione
pubblica, anche in relazione alle scelte effettuate dal legislatore nella regolamentazione delle adozioni nazionali ed internazionali.
Proprio in connessione con questa ed altre vicende che nel
medesimo periodo avevano avuto come protagonisti dei
minori, l’Ordine dei giornalisti aveva avvertito la necessità di
regolamentare in modo più puntuale i limiti e le modalità di
intervento dei propri iscritti nella presentazione al pubblico di
tali casi, onde erano state assunte delle precise indicazioni
in materia sia nell’ambito della cosiddetta Carta di Treviso sia
nella Carta dei Doveri del Giornalista.
In particolare, la carta di Treviso - sin dalla sua prima formulazione del 5.10.90 ed in modo ancora più evidente nella sua
nuova formulazione del novembre 1995 - prevede espressamente “il rispetto per la persona del minore, sia come
soggetto agente, sia come vittima di un reato, richiede il
mantenimento dell’anonimato nei suoi confronti, il che implica la rinuncia a pubblicare elementi che anche indirettamente possano comunque portare alla sua identificazione; la
tutela della personalità del minore si estende a fatti che non
siano specificamente reati”.
Ed ancora, la Carta dei Doveri del Giornalista prevede che il
giornalista: “non pubblica il nome o qualsiasi elemento che
possa condurre all’identificazione dei minori coinvolti in casi
di cronaca; evita possibili strumentalizzazioni da parte degli
adulti portati a rappresentare e a far prevalere esclusivamente il proprio interesse; valuta, comunque, se la diffusione
della notizia relativa al minore giovi effettivamente all’interesse del minore stesso”.
La richiamata Carta dei Doveri, poi, prevede espressamente
che la violazione delle summenzionate disposizioni costituisce violazione dell’art. 2 L. 69/63 e comporta l’applicazione
delle conseguenti sanzioni disciplinari.
Tutte le prescrizioni sopra richiamate, quindi, devono essere
ritenute idonee a costituire una esemplificazione del contenuto “in bianco” delle norme regolamentari di cui al citato art.
2 nonché all’art. 48 della legge 69/1963.
Ed infatti, recita l’art. 2 della legge 69/1963: “È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica,
limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela
della personalità altrui”; ed ancora recita l’art. 48 della legge
citata: “Gli iscritti nell’albo, negli elenchi o nel registro, che si
rendano colpevoli di fatti non conformi al decoro e alla dignità
professionali, o di fatti che compromettano la propria reputazione o la dignità dell’ordine, sono sottoposti a procedimento
disciplinare”.
Orbene, letto l’articolo per cui è contestazione, non può non
ritenersi - conformemente a quanto sul punto assunto dai
Consigli regionale e nazionale - che il comportamento in
concreto tenuto dal giornalista estensore dell’articolo e dal
giornalista direttore della testata sia idoneo a violare le
norme di legge dettate a tutela della personalità altrui (sub
specie di lesione della normativa a tutela dei minori, come
approvata dalla Convenzione di New York e recepita nel
nostro ordinamento con L. 176/91) nonché ad essere valutato come non conforme al decoro ed alla dignità professionali
così da compromettere anche la dignità dell’Ordine (sub
specie di violazione di precisi intendimenti fatti propri dalla
categoria con la sottoscrizione delle richiamate Carte di autoregolamentazione).
Ciò in quanto l’articolo in esame si apre con il titolo principale del seguente testuale tenore: “Ora Serena si chiama
Camilla Nigro ed è felice”, prosegue con l’espressa enunciazione dei dati anagrafici completi dei genitori e delle sorelle
della minore (precedentemente nota al pubblico solo con un
nome di fantasia), indica il luogo di residenza e si correda di
fotografie della minore da sola ed unitamente al proprio
nucleo familiare.
Non può, dunque, esservi dubbio sul fatto che il citato articolo sia idoneo ad integrare tutti gli estremi oggettivi della
contestazione effettuata mentre la gravità di tale comportamento, contrario ai dettami deontologici, non risulta neppure,
attenuata da una concreta esigenza connessa al diritto di
cronaca, posto che - al momento in cui l’articolo è apparso la vicenda non costituiva più oggetto di interesse attuale e
concreto (risalendo le vicende dei provvedimenti giudiziari di
modifica dell’affidamento a ben cinque anni prima e non
essendo intervenuto, nelle more, alcun avvenimento concreto, ulteriore e nuovo, nella vicenda medesima).
A maggior gravità dell’addebito contestato, poi, deve ulteriormente rilevarsi come la pubblicazione dell’articolo - anche di
analogo tenore - ben avrebbe potuto avere luogo omettendo
la pubblicazione delle fotografie e dei dati anagrafici della
minore, che poteva agevolmente essere individuata con il
nome di fantasia di “Serena Cruz” (nome con cui, tra l’altro,
era nota al pubblico).
Né, infine, tali oggettive considerazioni possono essere
contraddette dal tenore delle difese di parte ricorrente (in
base alle quali la pubblicazione dell’articolo sarebbe avvenuto con il consenso dei genitori e senza che la minore ne
subisse alcun pregiudizio psicologico).
Ed infatti, l’allegata circostanza della mancanza di conseguenze pregiudizievoli per la minore all’esito della pubblicazione (su cui i ricorrenti hanno chiesto darsi ingresso a prova
testimoniale) appare del tutto ultronea, posto che l’evitare il
pericolo di tali danni psichici per i minori costituiva la ratio
dell’adozione della norma comportamentale cui hanno aderito i giornalisti, ma non costituisce certo elemento costitutivo
dell’illecito contestato.
Parimenti risulta irrilevante l’assenso espresso dai genitori
alla pubblicazione, posto che tutte le norme come sopra
riportate vengono dettate nell’esclusivo interesse del minore
stesso e ciò anche contro possibili strumentalizzazioni da
parte degli adulti (conf. Carta di Treviso sopra citata)
E che nella fattispecie i genitori della minore, nel consentire
e rilasciare l’intervista, avessero avuto di mira più il loro interesse personale che quello della minore si ricava proprio dal
tenore delle dichiarazioni riportate nell’articolo in oggetto
laddove gli stessi testualmente dichiarano: “Abbiamo ascoltato in silenzio ogni genere di sciocchezze, senza mai reagire, perché nostro dovere primario era quello di proteggere la
privacy della bambina e, dunque, non volevamo alimentare
ulteriori polemiche. Adesso, pero, è giunta l’ora di liberare i
nostri sentimenti”.
Orbene, proprio dal tenore di tali dichiarazioni si evince come
le motivazioni che hanno indotto i genitori della minore a rilasciare l’intervista fossero state esclusivamente di carattere
personale e non certo finalizzate alla realizzazione uno
specifico interesse della minore, né i ricorrenti hanno spinto
le proprie difese fino ad allegare che la pubblicazione dell’articolo in questione fosse stata realizzata, appunto, nell’interesse della minore stessa (conf. Carta dei Doveri sopra citata).
Da tutto quanto sopra consegue, quindi, la valutazione di
fondatezza dell’addebito disciplinare contestato agli odierni
ricorrenti, ritenendosi, pertanto, meritevole di conferma il
censurato provvedimento del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei giornalisti e ciò anche in relazione alla diversità di
sanzioni inflitte ai ricorrenti medesimi (censura al direttore
della testata e avvertimento all’estensore dell’articolo) stante
la diversità di ruolo degli stessi, adeguatamente valorizzata
nel citato provvedimento.
P.Q.M.Il Tribunale, pronunciando in camera di consiglio, così
provvede:
rigetta il ricorso ex art. 63 L. 69/63 proposto dai ricorrenti
avverso il provvedimento assunto dal Consiglio Nazionale
dell’Ordine dei giornalisti in data 12.12.2000.
Corte d’Appello
La Rai dovrà
reintegrare
Furio Focolari
14
Roma, 21 luglio 2001. La Rai dovrà reintegrare nel suo posto di lavoro il giornalista
Furio Focolari, licenziato nell’ottobre del ‘96
con l’accusa di aver commesso irregolarità
relative alla fornitura di capi di abbigliamento
ai giornalisti dell’ azienda per le Olimpiadi di
Atlanta.
Lo ha reso noto l’avvocato del giornalista
Domenico D’Amati secondo il quale la sezione lavoro e previdenza della Corte d’Appello
di Roma ha anche condannato l’azienda di
viale Mazzini a versare a Focolari gli stipendi
arretrati. I giudici di primo grado avevano
dichiarato illegittimo il licenziamento, ma non
avevano accolto la richiesta di reintegro nel
posto di lavoro.
La Corte, presieduta da Silvio Sorace, ha
infine disposto che la causa prosegua per
l’esame della domanda di risarcimento
danni, alla salute e all’immagine avanzata
nei confronti della Rai.
Nel ‘96 Focolari fu incaricato dall’azienda di
trattare con una società di abbigliamento
l’acquisto delle divise Rai per le Olimpiadi. Il
giornalista fu accusato di aver consentito alla
ditta di apporre sulla divisa anche il proprio
marchio in modo che fosse ripreso dalle telecamere durante le Olimpiadi. ‘’I giudici - ha
detto l’avvocato D’Amati - hanno visionato
ore di filmati televisivi e non hanno mai visto
quel marchio constatando che si è trattato di
una montatura indegna e indecorosa nei
suoi confronti’’.
(ANSA)
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8
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Pam, un “cuciniere” di talento che
lavorava con rigore (ma senza ansia)
di Sandro Rizzi
Alla fine del 1993, prima di andare a
Cremona per fare nascere un nuovo quotidiano, Pier Augusto Macchi mi lasciò un foglietto con una ventina di righe: “Così - aggiunse sorridendo - non dovrai fare fatica in
archivio se un giorno dovrai ricordarti del
Pam...”. Lo presi in giro per l’auto-coccodrillo.
C’era tutto “il Pam” (la sua sigla era divenuta
il suo soprannome) in quel gesto da giornalista previdente: l’ironia anche su se stesso, il
gusto per la battuta e il paradosso, la capacità di sdrammatizzare, di sciogliere le tensioni, di lavorare con rigore ma senza ansia.
Ho ritrovato quella biografia domenica 2 settembre, quando la figlia Adriana chiamò dall’ospedale di Belluno per dirmi che papà era
morto. A 73 anni (e ha voluto rimanere tra le
montagne, nel piccolo cimitero di Vinigo di
Cadore, poco distante da Cortina, dove s’era
innamorato d’una vecchia osteria dell’800 e
l’aveva trasformata facendone la sua casa
delle vacanze).
Scriveva il Pam: “Quarant’anni nei giornali,
quasi tutti nei quotidiani, quasi sempre in “cucina”, in quasi tutti i ruoli. Comincia nel 1950
a Torino, alla Gazzetta del Popolo. Poi al
Corriere della Sera, dieci anni di cui gli ultimi
come segretario di redazione: direttori
Missiroli, Russo, Spadolini. Due anni a
Genova, redattore capo, per rivoluzionare
con Piero Ottone il vecchio Secolo XIX. Da lì
a Roma, redattore capo “in prima” al
Messaggero di Sandro Perrone. Una parentesi di 2 anni, sempre a Roma, come direttore dell’Aga, agenzia di servizi per i quotidiani
locali. Nel ‘77 Caracciolo lo incarica di far rivivere Il Tirreno di Livorno, innovativo “tabloid”
di provincia che diventerà capofila di una solida catena. Nel ‘78 torna a Milano, responsabile del progetto quotidiani locali del gruppo
Rizzoli. Dirige il Corriere d’Informazione puntando sul “giornale di servizio”. Dirige anche
L’Occhio, con un disperato ma vano tentativo
di salvare il primo popolare italiano dagli errori di origine. Poi due anni alla Mondadori, come redattore capo centrale di Panorama.
Infine ancora al Corriere per occuparsi dell’introduzione delle nuove tecnologie. Nel
1993 gli è affidata la direzione del nuovo quotidiano di Cremona Cronaca Padana che
esce il...”. Si chiudono con i puntini gli appunti
di Macchi. Posso andare avanti io, un po’ colpevole di averlo indotto a tuffarsi in quella che
doveva essere la sua ultima avventura al timone d’un nuovo giornale di provincia, in con-
Pier Augusto Macchi in una foto
conservata nell’archivio dell’Ordine.
ro. Macchi vi trasfuse le esperienze di
Livorno, dove aveva introdotto la fotocomposizione, e di Padova (L’Eco di Padova): qualche redattore gli sarà certo ancora grato per
gli insegnamenti. Al Corriere i più vecchi lo ricordano come l’esempio di segretario di redazione, regista attento e sicuro della macchina logistica: dai corrispondenti all’archivio
ai fotografi agli stenografi agli autisti. Alberto
Cavallari ne magnificava le capacità organizzative, i tabelloni con le “posizioni” degli inviati (ora quel ruolo ha subìto una profonda evoluzione). Era sempre pronto a sperimentare
le novità tecnologiche, intuendo che avrebbero facilitato molti compiti della redazione.
Incapace di staccare, alla fine degli anni ‘80
quando arrivarono i primi videoterminali del
sistema Atex, lui tornò come consulente e ci
aiutò a dimenticare la macchina per scrivere
“meccanica”, insegnandoci a ripetere sul video le manovre che eravamo abituati a fare
sulla carta. Bell’uomo, tre figli da due mogli,
un po’ bohémien, come sapevano esserlo
quelli della sua generazione, ma sempre in
“stile Corriere”, pensò soprattutto al lavoro, la
vera grande passione, più che al resto. Non
meritava le ultime amarezze, perché ha sempre creduto nei giornali che ha fatto. Forse
più di certi editori.
correnza con lo storico quotidiano cittadino:
una sfida che gli era congeniale.
Se fossi stato preveggente avrei dovuto suggerirgli di godersi la pensione tra le montagne
che amava. Lui aveva accettato con il solito
entusiasmo. S’era messo a disegnare menabò, a studiare la foliazione e la diffusione,
aveva scelto una buona squadra, puntando
anche su una pattuglia di ragazzi della Scuola
di giornalismo della Rizzoli, di cui era stato insegnante severo e nel contempo paterno. Ma
con un gruppo editoriale improvvisato e raccogliticcio, in un ambiente dai complessi equilibri di potere, la navigazione fu subito tempestosa per un direttore abituato a dare sempre
le notizie chiunque ne fosse il protagonista.
Dopo pochi mesi Macchi si rifiutò di decimare
la redazione e fu estromesso senza tanti
complimenti.
Presto seguì il fallimento e un gruppetto di
giornalisti superstiti riuscì ad ottenere la testata per dare vita a un bisettimanale che, dalla
fine del 2000, è ridiventato quotidiano.
Nonostante una sentenza favorevole, Pam
non ebbe una lira e Cremona per lui rimase
soltanto un cattivo ricordo, reso ancor più
amaro dai suoi malanni che si acuirono.
Al di là dell’epilogo, Cronaca Padana fu un
esempio di giornale locale vivace e battaglie-
Con Antonio Terzi finisce il grande
artigianato del giornalismo colto
Chi ha avuto la fortuna e il privilegio di lavorare con lui, di averlo come direttore (di ABC,
di Gente, della Domenica del Corriere, di
Club 3) o come vicedirettore (del Corriere
della Sera), ha potuto concepire il giornalismo - quantomeno negli anni trascorsi
accanto a lui - come una delle professioni più
belle, più gratificanti, più nobili del mondo.
Poi le cose passano. Si smette di sognare.
Si torna con i piedi per terra. Si torna a capire che il giornalismo è una professione. E
basta. Non ci si illude più. Il tempo delle
crociate è finito.
Forse è finito con lui, con Antonio Terzi, giornalista, nato a Bergamo, vissuto e morto a
Milano l’8 settembre 2001. Otto settembre:
data della morte di qualcosa. Antonio Terzi
aveva 76 anni, una moglie, due figli, un nipotino, un grande amore: la penna. Intendo la
penna stilografica, ma anche quella con il
pennino che s’intinge nell'inchiostro. Con
quel tipo di strumento scrisse cinque romanzi che chi li ha letti non riuscirà a dimenticare
mai. Ricordiamoli: La sedia scomoda, Morte
di un cattolico, La fuga delle api, L’assoluto
sentimentale, La moglie estatica. Hanno
vinto premi importanti, uno è arrivato in finale al Campiello. Sono romanzi, ma anche
cronache. Terzi lavorava sulle storie, sulle
persone, sulla loro psicologia, gli veniva
bene studiare l’uomo e i suoi sentimenti, le
sue stranezze e i suoi moventi, e poi descriverli con quella stupefacente semplicità che
è dei grandi scrittori.
Marisa Fumagalli ha scritto un bellissimo
ricordo di lui sul Corriere della Sera. «Il direttore Terzi», ha scritto, «con una punta di cinismo e di vanto, diceva: “Solo i giornalisti colti
sono in grado di confezionare un buon popolare”.
Detestava i gadget, convinto che i lettori si
conquistassero con le copertine azzeccate e
i buoni articoli. Terzi era un autentico maestro
di giornalismo, aveva un gusto tutto artigianale del mestiere». Difficile, impossibile dire
meglio. Dobbiamo tutti ringraziare Marisa
Fumagalli.
Terzi, negli anni Settanta, seppe trasformare
un settimanale popolare in uno dei settimanali più incisivi e autorevoli anche dal punto
di vista politico, pur non perdendo un solo
lettore tradizionale, anzi acquisendone di
continuo, fino a superare il mezzo milione di
copie vendute. I terroristi se ne accorsero.
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L’ECO della STAMPA è tra i più importanti operatori
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(media monitoring, software, web press release,
media analysis, directories…) ogni giorno migliaia
di nostri Clienti accrescono l’efficacia delle loro
Direzioni Marketing e Comunicazione, disponendo
di maggiori risorse interne da dedicare alle attività
con più alto valore aggiunto.
Un giorno il generale Dalla Chiesa lo mandò
a chiamare. «Vuole la scorta?». «Non ci
penso nemmeno».
Come vicedirettore aveva voluto Gilberto
Forti, un altro cervello prestato al giornalismo: parlava sette lingue; aveva tradotto in
italiano i romanzi di Karen Blixen; aveva scritto, in endecasillabi rimati, Il piccolo almanacco di Radetzky.
Che coppia! Che giornalismo! Chi ha avuto il
privilegio di lavorare con quei due ha conosciuto qualcosa che non si può descrivere:
la felicità della professione.
Chiusa la Domenica del Corriere, Piero
Ostellino chiamò Antonio Terzi al Corriere
come suo vice. I «vecchi», e anche quelli che
allora erano ragazzini e adesso sono di
mezza età, lo amano ancora. Non ha lasciato nemici. Solo rimpianto.
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Cap/Città
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Telefono/Fax
E-mail
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OG
di Luciano Garibaldi
ECOSTAMPA MEDIA MONITOR SpA
15 (23)
I
N
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T
R
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L
U
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T
I
Le avventure,
i reportages,
i commenti,
i libri:
la lunga
“cavalcata
del secolo”
di un maestro
del giornalismo
internazionale
Dal nostro
di Pilade del Buono
“È un incontro con me stesso. Mi immagino
in viaggio verso la mia casa in Toscana, lì
dove c’è il mio passato, quel mondo che
sento di avere in qualche modo tradito. Non
è cambiato nulla. Suono, grido il mio nome,
ma nessuno mi apre. Dietro il cancello chiuso c’è l’altro me stesso, quello fedele a un
mondo lontano: non mi lascia entrare. Non
ho mai trovato il coraggio di farla fino in fondo
questa confessione. Non ho mai trovato il
tempo di scriverlo questo racconto. Che
muoia con me”. Ora Indro è tornato a casa,
e i due Montanelli rivelati tanti anni fa a
Bruno Manfellotto, riappacificati, riposano
insieme.
La storia di Montanelli, - “un carattere felicemente insopportabile”, chioserà qualcuno -,
è un libro già scritto, riversato in cento titoli e
in migliaia di articoli, frutto dell’attaccamento
al lettore, sentimento prioritario a ogni ambizione, e della conseguente curiosità di chi, di
generazione in generazione, con pari sentimento l’ha ripagato, pretendendo esclusiva
attenzione dal proprio campione. La perfetta
simbiosi è consacrata dal suo ultimo atto
pubblico, il necrologio che comparirà sul
Corriere del 23 luglio (scompare, Indro,
mentre viene celebrata una messa in
suffraggio di sua madre), dettato alla nipote
Letizia Moizzi all’1.40 del mattino del 18
luglio, presenti la compagna Marisa Rivolta
e il factotum Enzo Maimone, qualche ora
prima di entrare in camera operatoria: “Giunto al termine della sua lunga e tormentata
esistenza Indro Montanelli - giornalista,
Fucecchio 1909, Milano 2001 - prende
congedo dai suoi lettori ringraziandoli dell’affetto e della fedeltà con cui lo hanno seguito...”.
“Sono nato nel 1909, il 22 aprile, a Fucecchio, 20mila abitanti tra Firenze e Pisa aveva scritto -. La mia prima avvertenza è
stata scegliermi bene i genitori. Tutti e due
hanno superato i novant’anni in buonissimo
stato, lucidissimi fino in fondo. La cosa bella
è che non sono mai morti: si sono estinti”.
Famiglia fucecchiese del 1200, un bisnonno
che costruiva navicelle per i renaioli, un
nonno, Emilio, vecchio liberale e massone a
dominare il nucleo familiare; un padre, interventista alla stregua dei fratelli, babbo Sestilio, ateo come Indro e preside di liceo che lo
rimandava a ottobre, ufficialmente per la
condotta ma sotto sotto per ragioni di principio; e una madre, Maddalena, buona e pia
che, al momento giusto, avrebbe dimostrato
la veridicità del vecchio detto sull’unicità del
genere.
I tempi erano i tempi, e in contemporanea
16 (24)
con quella di Roma, il tredicenne
Indro Montanelli escogitò, insieme a un amico, una personalissima marcia mignon, la marcia
su Rieti, dove il padre al tempo
era stato trasferito. Se l’obiettivo
era la cattura dei genitori, narrano
le cronache familiari, l’esito non fu
particolarmente brillante. I tempi
volevano dire anche divisa da balilla,
tamburo e fucilino, tendopoli al mare e
in montagna, e una overdose di patriottismo, patriottismo che lo avrebbe portato
al cospetto del duce (d maiuscola allora
strettamente di rigore) quale baby-redattore o giù di lì dell’ Universale, un giornaletto
fascista che al fascismo si prendeva talvolta
il lusso di fare la fronda. E il Mussolini seduttore di consensi venne catalogato con una
parola, datata, che dice tutto, “affascinante”,
mai rinnegata.
Della laurea in Legge e Scienze sociali
Montanelli si ricorda solo per ribadire il suo
unico interesse verso la Storia, e questa
volta la maiuscola non è sprecata (al suo attivo, con diversi partner, da Gervaso a Cervi,
sarebbero state catalogate una quarantina di
opere, regolarmente in classifica). Inizia la
sua avventura di curioso giramondo, i corsi
di Grenoble e Parigi, il viaggio in Canada,
amministratore di una fattoria, non essendo
sufficienti i magri proventi di Paris Soir, la
prima testata, per soddisfare le quotidiane
necessità. E poi l’Abissinia, 1935, volontario
prima che giornalista, con la vicenda della
quasi-moglie, una ragazza di nome Destà
che gli costò decenni dopo una denuncia per
pedofilia e stupro (“da parte di un imbecille,
laggiù, a 14 anni, una donna non sposata è
una zitella).
Quel che seguì, il trovarsi là dove puntualmente accadeva qualcosa di molto, molto
caldo, Montanelli lo ascrive pudicamente al
caso. Come nell’amatissima Spagna per il
Messaggero, dov’era scoppiata la guerra
civile, una serie di corrispondenze controcorrente che gli costarono la sospensione
dall’Albo e dal partito, quest’ultimo congedo
per lui definitivo e al tempo stesso liberatorio. O in Germania, da collaboratore per il
Corriere diretto da Aldo Borelli, con il divieto di trattare argomenti politici. Il suo grande sponsor Ugo Ojetti, che aveva apprezzato Ventesimo battaglione eritreo, un
libretto sull’esperienza abissina, gli avrebbe proposto di stendere a quattro mani una
traduzione riveduta dei nostri Codici. Già,
ma quel giorno d’agosto a Berlino venne
firmato il patto Ribbentrop-Molotov,
nessuno ne sapeva nulla e i corrispondenti stranieri latitavano per ferie. I servizi sull’invasione della Polonia non entu-
Indro Montanelli
in una delle ultime fotografie
(foto Olympia).
La foto piccola in alto è quella
che Montanelli consegnò
al momento dell’iscrizione
nell’Albo.
ORDINE
8
2001
Indro
Montanelli
1909 - 2001
La prima pagina
del Corriere della Sera
del 23 luglio 2001
con il necrologio dettato
dallo stesso
Montanelli poche ore
prima della morte.
inviato nel Novecento
siasmarono i tedeschi e il fucecchiese invitato a trovarsi sedi di corrispondenza più
paciose. Tappa successiva la Lituania, appena in tempo per riferire l’annessione alla
Russia delle tre repubbliche baltiche, con la
rituale coda personale: il non gradimento dei
padroni. E sempre il caso, c’è da giurarlo, lo
indirizzò in Finlandia, per godersi la guerra
con la Russia, e a Oslo, meta delle truppe
aviotrasportate d’occupazione tedesche,
trasferta scandita dalla classica espulsione
finale. Morale: “In dieci mesi di ‘ferie’ avevo
assistito in presa diretta al crollo della
vecchia Europa”. Mentre Mussolini, dallo
storico balcone, si apprestava ad annunziare
l’intervento.
L’8 settembre del ‘43, espulso dal partito e
radiato dall’Albo, se pure formalmente ufficiale in servizio di inviato di guerra per il
Corriere della Sera, Montanelli era ricercato
dai fascisti, incavolatissimi per un articolo
non firmato sugli amori extra-coniugali di
Mussolini, scritto da altri e a lui attribuito, e
quasi non bastasse, dai tedeschi, non meno
pericolosi. Aveva simpatizzato per il partito
d’Azione di La Malfa, Parri e Valiani, e si era
fatto crescere la barba. Inutilmente. I tedeschi lo catturarono in Val d’Ossola e il tribunale di guerra, riunito a Gallarate, lo
condannò a morte. Accusa principale: aver
criticato il fascismo, a Milano, negli incontri
con la principessa Maria Josè di Savoia,
secondo i rapporti di zelanti camerieri-spia.
Con lui era stata arrestata la prima moglie
Maggie de Colins de Tarsienne, sposata un
anno prima, celebrante l’arcivescovo di Milano. Apparteneva a un’antica casata asburgica. Non ebbe tentennamenti, dalla sua
bocca non uscì l’abiura. Trasferito a San
Vittore, apprezzò i comportamenti di un
giovane scopino, figlio di un’americana, che
faceva di tutto per essere d’aiuto: Michael
Montanelli
con
l’inseparabile Lettera
22.
La foto
è di Roby
Schirer
(dal
Corriere
della Sera
del 23
luglio).
ORDINE
8
2001
Nicolas Bongiorno, l’invitto Mike. Se la
condanna fu, prima rinviata, e poi non
eseguita per la materiale irreperibilità del
maggiore protagonista, lo si deve all’intervento di diverse persone: il cardinale Schuster, al quale era riuscito a far pervenire un
Sos, il maresciallo Mannerheim eroe della
guerra finlandese, la madre, l’ingegner
Greco Naccarato; e di un personaggio misterioso, Luca Osteria, agente del servizio informazioni militari che lo fece evadere sfruttando un falso ordine di trasferimento.
Rientrato dalla Svizzera dove s’era rifugiato
alla fine dell’estate ‘44, si trovava in piazza
San Babila, a Milano, quando venne travolto
“da uno sciame di persone in bicicletta che,
agitando la bandiera rossa, gridavano: ‘L’hanno preso! È a piazza Loreto!’. Lo scempio di
quei corpi, e fra quelli di un compagno d’armi in Abissinia fedele a Mussolini sino al
tragico epilogo, lo avrebbe indotto a sottolineare: “Quello spettacolo, che mi ha lasciato
addosso un vago senso di vergogna, m’insegnò cos’è la piazza, quando si ubriaca di
qualche passione, e mi ispirò un odio profondo verso tutti coloro che cercano di ubriacarla”. E ancora: “La Resistenza, fenomeno che
diventò ‘di massa’ soltanto gli ultimi giorni,
quando i tedeschi se n’erano andati o se ne
stavano andando dall’Italia, ha avuto degli
episodi luminosi che avrebbero potuto diventare materia di una saga popolare se i suoi
esaltatori non avessero posto il veto a
qualunque ricostruzione veramente storica”.
Vita di tutti i giorni che riprese, mentre le rotative del Corriere, in quei primi mesi del ‘45,
restavano silenziose. Angelo Rizzoli senior,
piazza Carlo Erba, gli prestò 100mila lire
sulla parola, cercando di coinvolgerlo in un
grande progetto che si sarebbe chiamato
Oggi. Ma al richiamo del Corriere, direzione
Emanuel, come il cummenda ben immaginava, Indro non poteva resistere. Accreditato,
fra i pochissimi giornalisti italiani, al Tribunale
di Norimberga, avrebbe sottolineato che “se
Norimberga non raggiunse l’effetto che si
proponeva - quello di suscitare una esecrazione adeguata agli orrori che rivelava - fu
perché venne recepita non come Giustizia
ma come castigo del vincitore sul vinto”. Nel
‘46 voterà monarchia e due anni dopo per il
partito di De Gasperi. “Guardavo il nascere
della repubblica antifascista con scetticismo”.
Sempre e solo nel lavoro, che era genuina
passione e hobby insieme (“non capisco
perché mai mi pagano...”), si sarebbe sentito
realizzato.
Il 23 ottobre del ‘56, sull’avvisaglia dei primi
disordini, eccolo in viaggio (senza visto) da
Vienna a Budapest “per assistere a una rivolta comunista, contro il comunismo reale”,
interpretazione della verità disattesa dai
17 (25)
Indro Montanelli
fotografato nel 1999
con un gruppo di
giornalisti della
redazione del
Corriere della Sera
all’interno della Sala
Albertini.
La foto è stata
scattata in occasione
dei festeggiamenti
per i novant’anni
del giornalista.
Indro Montanelli
era tornato in via
Solferino nel 1995,
un ritorno
fortemente voluto
e ottenuto dall’allora
direttore del
Corriere, Paolo Mieli
“L’intervista filmata”
Presentazione a Roma
“Un ricordo di Indro Montanelli” è il titolo
della serata organizzata a Roma dal ministero per i Beni e le Attività culturali e
presieduta dal ministro Giuliano Urbani,
alla presenza del Presidente della Repubblica, per rendere omaggio al grande
giornalista (Biblioteca Nazionale Centrale, via Castro Pretorio 105, mercoledì 3
ottobre, ore 18,30).
In programma la presentazione di Ferruccio de Bortoli del video “L’intervista filmata” e l’intervento di Arrigo Levi “Ritratto
di Montanelli”. “L’Intervista filmata” è una
produzione Rai Sat in collaborazione con
il Comune di Milano.
“borghesi benpensanti”: “Questa è la storia
della battaglia di Budapest e il lettore ci
perdoni se la riferiamo con tanto ritardo...”.
Legge Merlin del ‘58, chiudevano le “case”
“delle quali ho un ottimo ricordo”, “atmosfere
di volti, di arredamenti, di discorsi e sensazioni”, e incombeva il Sessantotto, “con una
borghesia radical-chic che, comodamente
adagiata su eleganti divani, vezzeggiava
l’eversione”. Lo stesso Corriere avrebbe
respirato quell’atmosfera, irrimediabilmente
tramontati i tempi di Aldo Borelli che, prima
di ogni decisione importante, soleva consultare il suo king maker o direttore-ombra che
dir si voglia. Gli interventi da padrona di
Giulia Maria Crespi, il licenziamento di
Spadolini preannunciato alla redazione e il
sentirsi isolato con altri colleghi, lo indussero
al doloroso distacco. Le interviste al Mondo
e a Panorama fornirono il pretesto al licenziamento. Non era più il suo Corriere, il
Corriere fondato da Eugenio Torelli-Viollier
divenuto carismatico con Luigi Albertini,
direttore e comproprietario disarcionato per
l’essersi pronunciato contro il regime dopo il
delitto Matteotti.
La nascita del Giornale, giugno ‘74, con “l’argenteria del Corriere, come avrebbe felicemente tratteggiato più tardi un eccellente
direttore di via Solferino, Franco Di Bella,
fece clamore e non solo clamore. Il solo
acquistare all’edicola la nuova testata
rappresentava un atto di coraggio e un
rischio, perché chi vi lavorava era da tanti
considerato un pericoloso reazionario (il solo
sfogliare la raccolta dei giornali, di numerosi
giornali almeno, è sufficiente per fissare il
clima che si respirava). Poco o nulla contava
il fatto che Montanelli, Bettiza e Piovene,
nella sua facoltà di presidente della società
dei redattori, fossero andati a pescare (fra le
altre) intelligenze purissime calibro Aron,
Fejto, Furet, Ionesco, Revel, e, a casa nostra,
Matteucci, Renato Mieli, De Felice, Romeo e
Settembrini.
Montanelli rammenterà il silenzio e il gelo di
certi incontri, colleghi che al suo passare si
voltavano, amicizie rinnegate, sino alla
“gambizzazione” del 1977, ai giardini meta di
quotidiane, ben note passeggiate. “Bisogna
che resti in piedi, che non gli dia la soddisfazione di morire per terra”, e in quel suo
aggrapparsi alla cancellata c’è la salvezza
“perché l’ultimo colpo, mentre mi giravo e
stavo per cadere, mi è arrivato proprio all’altezza dell’inguine”. Nei titoli della Stampa e
del Corriere diretto da Piero Ottone, il nome
di Montanelli non compare. Compare invece,
nel registro delle firme in suo ricordo, il nome
di Franco Bonisoli: “Grazie Indro, Grazie di
cuore, di tutto. Con affetto”. Bonisoli è il br
che lo gambizzò e che nell’87 Montanelli
aveva perdonato: “Il mio conto con loro è
chiuso. Li rispetto perché oggi rifiutano il loro
passato».
Il ‘74 è un anno importante: a Cortina sposa
in seconde nozze la giornalista Colette
Rosselli, la deliziosa Donna Letizia che
scomparirà nel ‘96. La sua battaglia è ormai
vinta, il Controcorrente (di poche righe e
talvolta di poche parole) suggeritogli da Bettiza è la rubrica-cult più gettonata d’Italia,
come lo era stata sull’ Unità quella di Fortebraccio-Melloni ex Popolo, lo slogan “votare
Dc turandosi il naso” passerà ai posteri:
buona parte dei media concordano ormai
con le tesi montanelliane e forse per questo
le tirature del Giornale in un qualche modo
ne risentiranno.
Il Giornale è ufficialmente dei giornalisti, ma i
giornalisti, si sa, non navigano nell’oro, con
le debite, rarissime eccezioni del caso: benedetto dunque Silvio Berlusconi che rilancia
la nave corsara garantendo la tranquillità
economica e scucendo preziosi milioncini
alla redazione, assai più ai fondatori. “Non
posso dimenticare - si può leggere in una
intervista - che fu lui a salvare me e il Giornale. Due anni dopo l’inizio della mia avven-
18 (26)
tura non sapevo nemmeno come pagare gli
stipendi, avevo bisogno di soldi. Milano mi
aveva chiuso tutte le porte in faccia”. Nel
1991 prendono consistenza le voci di un
Montanelli senatore a vita ma Indro una volta
di più gioca d’anticipo, ringrazia il presidente
della Repubblica Cossiga e rinuncia, “perché
allergico alla politica, e non per fare la
mammoletta”. Nessuno, nemmeno gli avversari più ostinati, oseranno malignarci sopra
(ma ne aveva ancora?).
Detestava feste e celebrazioni, medaglie e
onori, ed era allergico, per la verità, anche ai
premi, pur collezionandone un’infinità: ne
ricorderà con piacere soprattutto due, quello
di “Eroe della Libertà di Stampa” conferitogli
prima da World Press e poi da Press International, e quello delle “Asturie” che, per la
prima volta, veniva assegnato a uno scrittore
non di estrazione e lingua ispanica. Un terzo,
gradito, sarà consegnato in Spagna in sua
vece al giovane direttore del Corriere Ferruccio de Bortoli quando ormai il declino fisico
lo obbligava a risparmiare quel poco di energia che ancora gli restava.
Cronaca e politica si aggiornano. L’entrata di
Berlusconi, “perché da quando è scomparso
Craxi - parole a lui rivolte dall’imprenditore di
Segrate - io non ho più nessuno che mi
difenda”, lo porrà in rotta di collisione con
l’editore sino all’inevitabile divorzio, dopo l’infelice tentativo di catturare la simpatia dei
giornalisti senza l’avallo del direttore: un
contrasto sempre più acuto, dalle iniziali
intenzioni di riserbo, in vista delle elezioni
degli anni ‘90 e del 2001, che lo spingerà a
votare centrosinistra, indurrà Scalfari a
cercare di traghettarlo a Repubblica e lo
renderà oggetto di convinti applausi alla festa
dell’ Unità. L’ultimo capoverso di un fondo
pubblicato dal Corriere il 15 febbraio di
quest’anno, è a dir poco al vetriolo: “Eppoi
perché dobbiamo avere la modestia di rico-
Sempre con la mitica Olivetti Lettera 22 (foto Olympia).
noscere che noi, come venditori, non leghiamo nemmeno le scarpe a un piazzista che
se un giorno si mettesse a produrre vasi da
notte, farebbe scappare la voglia di urinare a
tutta l’Italia..”. Un contrasto neppure mitigato
dal fatto che direttore del Giornale, e dunque
sull’altra sponda, sia proprio quel Mario
Cervi suo fedelissimo partner nella costruzione di tanti libri capaci di raccontare la
storia con parole comprensibili, “e non come
fanno troppi storici”. L’ultimo giorno di
maggio, a larga vittoria elettorale del centrodestra consumata, comunque noterà: “Mi
aspettavo una esplosione di trionfalismo, con
annessi e connessi annunci di “immancabili
destini”. E invece ci sono stati, sì, dei compiacimenti d’altronde legittimi perché la vittoria,
piaccia o non piaccia, c’è stata, ma espressi
con una sobrietà di linguaggio che, dato il
tipo e il suo abituale stile, mi ha gradevolmente sorpreso...”. Da Berlusconi, mai,
nessuna parola vagamente ostile e il
rimpianto per l’amico di un tempo.
La nascita della Voce - omaggio a Prezzolini, costante punto di riferimento - creerà
speranze, ma sarà una voce fievole, dopo
l’iniziale fiammata e la ristampa del primo
numero, e priva di mezzi, che si spengerà
dopo una breve stagione lasciando in difficoltà più di un collega al suo seguito. “Il mio
disinganno? Quando fondai La Voce ero
convinto di portarmi dietro i tre quarti dei miei
lettori. Invece mi seguì un terzo di loro. Di
150mila che erano i veri acquirenti del Giornale me ne tirai 50mila. Allora capii che la
destra italiana è fatta di una piccola frangia
di liberali veri che vanno da Giolitti a Gobetti.
Il grosso è fondato dai Salandra e dai Sonnino che non sono liberali ma forcaioli. Non per
niente furono accanto a Mussolini”.
Non è stagione di illusioni: “Il muro di Berlino
non è stato una tragedia soltanto per i comunisti ma anche per noi. Prima avevamo un
nemico. Sapevamo chi era. Ora chi è il nostro
avversario? Non conoscendolo non riusciamo a identificare neanche l’amico”. E ancora, ribattendo sul tasto oggetto di tante riflessioni: “L’italiano è un animale flessibile.
S’adatta a tutto. Diciamolo fra noi. Qual è la
spinta freudiana (non confessata) che spinge a tutti i costi a volere entrare in Europa?
È la speranza che l’Europa venga a governarci. Che avremo dei vigili urbani tedeschi i
quali, a calci in culo, ci facciano fare quello
che da soli non sappiamo eseguire. Che
l’Europa ci affranchi dal retaggio di secoli di
servitù». Italiani ieri e oggi nel suo mirino:
“Ma tutti ci dimentichiamo che i buffoni, in
questo Paese, sono una larga maggioranza”.
E chissà se, in cuor suo, sotto sotto, Indro
condivideva al centouno per cento simile
catastrofico, più che pessimistico identikit.
Inevitabile il “ritorno a casa” in via Solferino
dopo che Paolo Mieli gli aveva generosamente offerto (e non già di facciata) lo scranno direttoriale, e la ripresa del dialogo con la
sua gente e con chi, pur avversandolo, a
volte fieramente, non può fare a meno di
leggere quelle righe, nel privatissimo spazio
de La Stanza, già suo feudo per anni e anni
nell’amata Domenica del Corriere, assistito
da Iside Frigerio che l’ha seguito dal Giornale, e dalla sua mai in disuso Lettera 22, allergici tutti e due alle lusinghe di pc, Internet e
diavolerie del genere. Per il Corriere il rientro
della sua più illustre firma rappresenta il fiore
all’occhiello.
C’è il Montanelli privato e il Montanelli, che,
pur aborrendo la politica, è perentoriamente
invitato a dire la sua sui maggiori temi d’attualità e sui grandi personaggi. Se il dialogo
con il lettore, nel Giornale talvolta assumeva
i connotati di un “mattinale”, cose di bottega
che dovevano essere recepite all’esterno, e
non infrequentemente dallo stesso redattore
(esempio tipico: le ragioni per cui un giornalista famoso come Enzo Bettiza, suo secondo
di bordo, se ne era polemicamente andato
da via Negri - un gelo che sbollirà fatalmente
ORDINE
8
2001
2 luglio 2001, l’ultima “Stanza”
Sopra,
Montanelli
mentre
lascia
la sede del
Corriere.
(dal Corriere
della Sera
del 23
luglio).
A fianco,
l’ultima
“stanza” sul
giornalismo,
2 luglio
2001.
dopo due lustri ricomponendo una fraterna
amicizia -, o perché era stata assunta una
certa posizione a prima vista contraddittoria),
sul Corriere - trecento lettere al giorno - lievita a navigazione a mare aperto. “Dal nostro
inviato speciale nel Novecento”, titola felicemente la Stampa: Indro è davvero l’autentico
testimone del secolo che viene sollecitato ad
esprimersi sui temi epocali, e dovrà per forza
di cose violentare la sfera personale di riserbo per concedersi a chi lo ha adottato.
La fede: “Io non ce l’ho. Riconosco che lo stoicismo è il rifugio dei disperati, ma non
ammetto interferenze di estranei, anche i
meglio intenzionati, in questa mia disperazione”. La famiglia: “La mia fortuna è di non
avere figli, sono convinto che non sarei stato
un buon padre, anzitutto a causa del mio
mestiere”.
Le vicende sentimentali: “Non me ne sono
mancate ma sono sempre state condizionate
da questa mia vocazione alla vita randagia”,
oppure: “Rimpiango l’interesse che portavo
verso l’altro sesso. Lo guardo con compiacimento ma non mi sento felice di dovervi
rinunciare...”). Il diritto, in casi precisi e delimitati - accettando il contraddittorio della Chiesa ma rifiutando ogni compromesso - all’eutanasia (“ciò che non feci con Donna Letizia”),
che non è la paura della morte ma di un certo
modo di morire (“È possibile che a un certo
momento ti debbano accompagnare al
cesso?”). Il poter cambiare opinione a ragion
veduta, e la depressione, un nemico subdolo
sempre in agguato.
Ogni giorno uno spunto: l’epitaffio del “mio
amico Fortebraccio”, Curzio Malaparte insofferente di non potergli sopravvivere, l’ostinata difesa della memoria di Ignazio Silone
checché dibattano gli storici, le esperienze
cinematografiche, I sogni muoiono all’alba e
la vera storia del generale Della Rovere alias
Giovanni Bertone, traditore ed eroe (paternità del film amaramente disconosciuta per
ORDINE
8
2001
talune omissioni), o le ragioni per cui, nei
primi 37 anni di Corriere, non firmò un fondo
che fosse uno.
Alla curiosità pubblica deve persino aprire il
portafoglio d’antan firmato Cartier, Paris.
Contenuto: la tessera dell’Ordine regionale
dei giornalisti datata 1 giugno ‘41, un biglietto da visita di Henry Kamm del New Yok
Times, un biglietto scritto in ideogrammi cinesi, un biglietto da visita del Giornale, tessere
Alitalia e Ferrovie dello Stato.
Il suo lettore, che nessuno si meraviglierà di
veder assurgere a ruolo di protagonista sul
settimanale allegato ogni giovedì, Sette,
costantemente lo incalza: c’è il fan incavolatissimo, che ha fatto l’esperimento, inviandogli inutilmente sette lettere in un sol giorno,
nessuna delle quali onorata dalla pubblicazione, c’è chi lo consiglia a strutturare altrimenti La Stanza (“Grazie, ma continuo
così”), e c’è chi lo contesta (risposta cordiale
nella prima parte, postilla fulminante: “Lei
sarà anche un bravissimo ingegnere.
Come interlocutore è solo un gran villano”),
o, in alternativa, “che tristezza scrivere per
lettori come lei”; e c’è chi cerca una parola
consolatoria di fronte ai classici vizi italici,
automobilisti incivili, treni anticipo del Purgatorio, burocrazia nefasta, ecc. ecc.
Affiora, non poteva essere altrimenti, la
presenza del misterioso “arredatore” della
Stanza, il collega che, quotidianamente,
legge in anteprima la risposta premiata e la
stilizza con arguzia, in un piccolissimo, garbato quadrato di spazio. Chi è mai?, “...ma dopo
due anni che lavoriamo insieme - darà conto
nel ‘97 al curioso di turno - non solo nello
stesso giornale ma nella stessa pagina, e lui
come illustratore di ciò che io scrivo ancora
non so, e ormai dispero di saperlo un giorno,
com’è fatto fisicamente, Guarino: se è alto o
basso, se è bruno o biondo, se è giovane o
vecchio. Sono due anni che gli mando, per
interposta persona, dei messaggi d’invito
almeno a mostrarsi e darmi così il destro di
ringraziarlo per la preziosa collaborazione
che mi fornisce. Nulla...”.
Non mancano le civetterie delle “doverose
rettifiche”, l’ammissione di “una scena di gelosia” nei confronti di Anthony Burgess che si
era allontanato dal Giornale per vil danaro
dopo avergli giurato eterna fedeltà, e la categorica, ammiccante precisazione: “No, caro
amico, proprio no. Lei può dubitare di me
come giornalista, come storico, come scrittore, come contribuente. Ma come balbuziente
sono genuino, a 18 carati, anche se di carattere intermittente”. Non renderà mai pubblica
la piccola vicenda di quel giovane giornalista
del Giornale che, avendo imprudentemente
prestato una bella sommetta a un anziano
collega, non vedendosela restituire cominciò
a blaterare nei corridoi. “Quanto recrimini? gli intimò nel suo ufficio il burbero Indro staccando un assegno di un paio di milioni -, vuol
dire che mi farai lo sconto almeno delle
migliaia di lire eccedenti.
E adesso fuori di qui e non provarti a fare
ancora casino...”. La galleria dei personaggi,
in parte retaggio dei celebri Incontri sollecitati
decenni prima da Gaetanino Afeltra, è imponente: all’appello mancheranno in definitiva
solo Stalin e Mao, e se talvolta è costretto a
precisare che non può soddisfare la curiosità
perché quello statista, quel politicante, quel
grand’uomo o quella larva di individuo non ha
fatto in tempo a conoscerlo o è defunto anzitempo, però, però è pur in grado di riferire
che...
Qualche lettore di primissima fascia resta
perplesso, se non allarmato, dalla lunghezza
delle ferie estive 2001 che Montanelli ha l’arbitrio di prendersi, così privando il popolo
degli Indro-dipendenti della lettura preferita,
quella destinata a sovvertire l’ordine cronologico delle pagine: “Arrivederci al primo
settembre, cari lettori...”. È il 4 luglio, per l’ultima volta in calce a un pezzo d’attualità
compare la sua firma sul Corrierone, anche
se, nella rubrica delle lettere al giornale, de
Bortoli continuerà ad alimentare - non ci
sovvengono precedenti - la staffetta della
solidarietà di chi desidera testimoniargli affetto.
Nel Corriere del 23 luglio compare il riquadro, bianco, della Stanza.
L’omaggio della grande stampa internazionale è unanime: “La sua penna fieramente indipendente era coraggiosa e diretta”, Financial
Times; “Caparbiamente indipendente, polemico, intrepido e incorruttibile”, The Indipendent; “Scagliava le sue frecce ironiche contro
molte icone del presente e del passato”, The
Guardian; “Estate horribilis. Era membro di
quella ridotte stirpe di giganti ormai estinta”,
El Mundo. Sul Corriere undici colonne di
partecipazioni solo il primo giorno, in appena
tre giorni approdano sul sito di via Solferino
11mila e-mail.
“Ho avuto per anni Indro davanti ai miei occhi.
Osservandolo mi accorgevo che scrivere, per
lui, equivaleva a una funzione terapeutica.
Scrivere significa esistere, fuggire le angosce
che lo incalzavano, ritrovare nella veglia
operosa la vitalità e la salute che l’inerte
insonnia notturna gli sottraeva.
Il successo, il plauso non lo interessavano in
quanto tali: erano, più che altro, terapie di vita,
di radicamento nella realtà, da cui i mostri
atoni e melanconici della ciclotimia minacciavano continuamente di estraniarlo...”. Rispondendo a un lettore della sua rubrica, Montanelli annoterà: “Non immaginavo che, seduto
all’altro capo della stanza direttoriale del Giornale, Bettiza [il brano riportato è tratto da La
cavalcata del secolo, Mondadori] mi tenesse
sotto un controllo così assiduo e spietato...
Come abbia fatto lui a scoprire che la mia
ansia di lavoro e il furioso impegno che ci
mettevo erano soltanto una fuga dalle mie
notti insonni e dai fantasmi che le turbavano
(e le turbano), non lo so. Ma fatto sta che alla
sua diagnosi non ho nulla da eccepire”.
19 (27)
I
N O S T R I
Carlo Bo
1911
- 2001
L U T T I
Carlo Bo giornalista,
di Emilio Pozzi
Carlo Bo giornalista: ecco un aspetto marginale ma non minore della sua personalità. È
in questo contesto che lo voglio ricordare, sul
filo della memoria mia e di quella di Enrico
Mascilli Migliorini, che ha vissuto, accanto al
Duca di Montefeltro, un bel gruzzolo di anni.
Su questo tema, accantonando quelli specificamente legati alla letteratura e all’Università, i nostri ricordi si sono incrociati, sovrapposti, completati, in una lunga conversazione telefonica fra Milano e Napoli, costruendo, tra fatti, impressioni, battute, sensazioni,
un ritratto, in dimensione giornalistica, di uno
tra i più significativi personaggi della società
italiana degli ultimi sessant’anni. Carlo Bo
era iscritto all’Albo professionale, come
pubblicista dal 1° ottobre 1946.
Con Mascilli ci siamo trovati d’accordo subito su una premessa deontologica: la tolleranza.
Concettualmente era un cattolico liberale,
diceva di sé “sono un aspirante cristiano”. E
subito dopo la tolleranza, l’umiltà, per quanto
riguardava gli articoli per i giornali. Peculiarità che consideriamo sempre, oltre la curiosità, il senso dell’attualità e l’attenzione per
l’individuo, tra le doti principali di un buon
giornalista. Era anche un divoratore di giornali. La mattina per Bo, a Urbino, cominciava
con il barbiere e la mazzetta dei giornali che
il buon Paolo Bigonzi, per anni, non gli ha
mai fatto mancare.
Ovviamente al giornalismo, come professione, preferiva l’Università.
Ricorda Mascilli: “Quando dalla direzione
della Sede Rai di Ancona fui trasferito a quella di Firenze, andai a trovarlo per comunicargli che ritenevo di dover lasciare l’incarico
universitario al quale ero stato chiamato tre
anni prima. Mi guardò con severità e,
puntandomi minacciosamente il sigaro diritto
addosso, sentenziò: ‘Un incarico universitario non si lascia mai’. E così fu che, qualche
anno dopo lasciai la Rai e misi solide radici
a Urbino”. E a tal proposito Mascilli Migliorini
tiene a sottolineare come nei lunghi anni
durante i quali ebbe la ventura di collaborare
con Carlo Bo, anche nelle specifiche funzioni di preside della facoltà di Sociologia e di
direttore delle Scuole di giornalismo ‘non
ebbi mai da lui un minimo accenno di richiesta volto a conoscere quale fosse l’orientamento politico di un qualsiasi candidato per
l’insegnamento a Urbino bensì soltanto
domande precise e rigorose che esigevano
altrettanto precise, rigorose e documentate
risposte sulle effettive capacità culturali,
professionali e didattiche. Per me che provenivo dalla Rai, fu come vivere un’esperienza
viva e vitale che si configurò tra i motivi che
mi legarono, per oltre trent’anni all’Uomo,
alla sua eccezionale personalità e di conseguenza alla istituzione universitaria urbinate.
Bo non aveva però una visione corporativa
del mondo universitario. Chi volesse ripercorrere in modo analitico la storia del giornalismo italiano in due iniziative significative lo
troverà protagonista.
La prima: la nascita del primo Istituto superiore di studi giornalistici, nell’ambito degli
indirizzi professionali attivati nella sede
universitaria.
Dell’idea erano appassionati promotori il
professor Aldo Testa, autorevole docente a
Urbino, il segretario del sindacato giornalisti
interregionale Emilia-Romagna Marche
Angiolo Berti, il generosissimo collega
Giuseppe Zeccaroni e l’allora presidente
della Federazione della Stampa Leonardo
Azzarita.
Il progetto era ambizioso: creare un corso
regolare di studi superiori rivolto a chi volesse intraprendere la professione giornalistica.
Sulla formazione culturale e professionale
dei giornalisti si era discusso animatamente
anche in sede di Commissione per la stesura della nuova legge sulla stampa, il dibattito
era rimbalzato nell’aula di Montecitorio, in
sede di Costituente, quando si era affrontato
20 (28)
l’articolo 21 della Costituzione, entrata in
vigore il 1 gennaio 1948. Il dibattito era poi
proseguito, anche in campo sindacale o sulle
pagine dei giornali, nel confronto degli
opinionisti. C’era chi era contrario alle scuole, perché sosteneva l’idea che giornalisti si
diventa sul campo, con la pratica, allevati nei
giornali dai colleghi più anziani, altri temevano il ripetersi dell’infelice esperimento della
scuola di Giornalismo, realizzata a Perugia,
per breve tempo attorno agli anni Trenta, in
pieno fascismo da Ermanno Amicucci (e che
ebbe come motore un eccellente professionista come Carlo Barbieri), con la nascita di
‘fabbriche’ di giornalisti indottrinati, tutta
teoria e niente pratica; altri ancora ritenevano che avrebbero messo in pericolo un libero mercato. Erano momenti difficili per la
professione. Soffiavano venti da ogni punto
cardinale.
Quella scuola con percorso parauniversitario
però si fece, la Convenzione fra Università e
Carlo Bo
è morto
in una
clinica
di Genova il
21 luglio
scorso.
Era nato
a Sestri
Levante
il 2 gennaio
1911.
(Foto
Olympia
di Giovanni
Giovannetti)
Federazione della stampa fu firmata nel
1949, e rimase in piedi (e lo è tuttora,
frequentata, in particolare da studenti greci)
ma senza sbocchi ufficiali. Con la nascita
dell’Ordine dei giornalisti nel 1963 e con la
creazione delle Scuole biennali, a numero
chiuso, riconosciute dall’Ordine, ed una è
proprio a Urbino - e anche in questo caso
anticipando i tempi della attuale riforma,
l’università fu tra gli enti promotori, con la
possibilità dell’accesso dopo il praticantato
all’esame di Stato, quell’Istituto rimane come
un fiore all’occhiello, testimonianza di una
felice intuizione.
La seconda. Sul piano delle iniziative giornalistiche, tuttavia, Carlo Bo, diede ancora una
volta il segno di intelligente conoscenza dei
problemi professionali, allorché alla fine degli
anni Settanta, accolse di buon grado la
promozione di stages, brevi ma intensi, per i
giovani colleghi che stavano per affrontare
l’esame a Roma. Avevano sì completato
ORDINE
8
2001
Un ricordo
nel segno
della didattica
anche
A 40 giorni dalla morte, giovedì 30 agosto, alla
facoltà di Sociologia di Urbino, durante il corso
estivo tenuto dal professor Vittorio Paolucci
(docente di storia del giornalismo) si è tenuto un
affollatissimo seminario durante il quale è stata
passata in rassegna la stampa italiana dei giorni
immediatamente successivi alla scomparsa di
Carlo Bo per esaminare che cosa, quanto e
come era stato scritto su di lui. Il seminario è
diventato così una utile esercitazione didattica.
La verità della letteratura
di Matteo Collura
formalmente i rituali diciotto mesi di pratica
nei giornali, ma, quasi sempre, senza la rotazione nei previsti tre settori di lavoro e senza
un minimo di preparazione in alcune materie
previste dall’esame.
All’idea lavorammo sul piano progettuale e
organizzativo, il Presidente dell’Ordine
Barbati e il direttore Viali, il professor Mascilli
Migliorini e il direttore amministrativo dell’Università Rossi e io. Al primo stage, svoltosi
nelle aule universitarie per una settimana,
con prova finale simulata, parteciparono
aspiranti professionisti in parecchie centinaia: erano ospiti nei collegi universitari, in
periodi meno occupati dagli studenti, in una
cornice ambientale e paesaggistica, almeno
serena. L’esperienza fu altamente positiva e
servì da esempio per iniziative simili, oggi, a
vent’anni, entrate nella routine e gestite sia
direttamente dall’Ordine nazionale che da
taluni Ordini interregionali e regionali.
Come collaboratore di quotidiani (La Stampa
prima e il Corriere della Sera poi) i suoi articoli sia quelli destinati alle pagine letterarie
(ah, la nostalgia per gli elzeviri della terza
pagina) sia quelli a commento di fatti di
bruciante attualità, di solito in corsivo, in
prima pagina, erano esemplari. Nell’umiltà
artigianale. Lo posso testimoniare in prima
persona. Un grande avvenimento, tra i più
palpitanti della società, suggerisce alla direzione del Corriere di chiedergli un commento. Bo accetta. Deposta la cornetta del telefono, tira qualche boccata di sigaro e si mette a
scrivere. A mano, su quei blocchi che una
volta venivano usati dagli stenografi. Una
grafia minuscola, ma chiara. Poche le cancellature, pochissime le correzioni. Riecco il
telefono. Dall’altra parte c’è il dimafonista.
Carlo Bo detta personalmente, la voce è
meno esile del solito, rigoroso nella punteggiatura, improvvisando, del caso, qualche
piccola correzione al manoscritto, una parola, un aggettivo. Il testo è appoggiato sulle
ginocchia perché in una mano c’è la cornetta, nell’altra l’inseparabile sigaro. Mormora
un saluto, impercettibile, alla fine. E riprende
la conversazione con l’interlocutore che ha
di fronte, scusandosi per l’interruzione.
La parentesi giornalistica è chiusa. L’indomani le sue riflessioni, sempre limpide, illuminanti e coraggiose, faranno discutere. Gli
altri. Così come negli anni furono gli scritti
corsari di Pierpaolo Pasolini, di Giovanni
Testori.
Fino a poche ore prima della morte Bo ha
seguito, guardando la tv, nella stanza della
clinica genovese, quello che stava succedendo, a pochi passi da lui. Il suo commento
su Genova non ci sarà nel volume che raccoglierà i suoi articoli di prima pagina.
Ecco, quasi un’idea, per ricordarlo come
giornalista, al di là di tutte le iniziative che
saranno prese per onorarlo a Urbino, a Milano, a Sestri Levante, a Genova, a Roma, e
dei volumi, già pubblicati (Sergio Pautasso è
stato il curatore di una Antologia critica
preziosa) o in progetto.
Una volta, mentre lo intervistavo nel decimo
anniversario della morte di un caro amico,
suo e mio, Diego Fabbri, per una pubblicazione che si stava preparando per l’occasione, mi disse: “Solo se di una persona, scrittore o no, ci si ricorda dieci anni dopo la
morte, vuol dire che ha contato qualcosa”.
Sono convinto che, nel 2011, Carlo Bo sarà
ricordato per almeno uno dei suoi meriti. Ad
esempio essere stato, in pieno fascismo, il
primo traduttore in italiano di Federico Garcia
Lorca, “voce eterna che si spegne al di là dei
nostri confini”.
P.S. - Ogni volta che ripenso a Bo non riesco
ad immaginarlo senza il suo sigaro. Non
sembri irriverente questo piccolo, affettuoso
pensiero: prima di entrare in Paradiso si sarà
garantito che l’avrebbero lasciato fumare,
per ricompensarlo di tutte le volte che, in
certe circostanze umane, era stato costretto
a spegnerlo?
ORDINE
8
2001
“Letteratura come vita”: così Carlo Bo, allora ventisettenne, nel 1938 definì la sua idea
di letteratura; un’idea alla quale sarebbe
rimasto sempre fedele. E dunque: non una
sorta di slogan per lanciare, allora, la nuova
poetica dell’ermetismo, ma l’affermazione
di una condizione, di un modo di essere
scrittore nella società. Non è soltanto una
questione di etica, che in uno studioso dalla
religiosità dichiarata e conclamata come Bo
è persino ovvia; è un modo di intendere la scrittura, l’atto
stesso dello scrivere, come atto morale.
Per questo, all’indomani della sua morte, Carlo Bo può
apparire un reperto, ancorché illustre e autorevole, di un’epoca lontanissima e alle nuove generazioni assolutamente
estraneo. Del resto, lui ne aveva piena consapevolezza. “La
letteratura è diventata una sorta di spettacolo, come la politica”, aveva detto in una delle sue ultime confessioni in
pubblico. E non aveva perso l’occasione per criticare ancora
una volta la superficialità del dibattito culturale cui gli era
dato assistere nella fase conclusiva della sua vita; un dibattito in cui le idee – l’espressione non è sua, ma credo egli
l’avrebbe condivisa – vengono usate come si fa per i trasferibili o nella compilazione degli slogan. “Siamo ormai abituati a dire tutto subito. Il diario potrebbe essere un rifugio, un
deposito per lo scrittore. È un’ipotesi, una speranza”, aveva
aggiunto, per poi spiegare: “Il diario come antidoto alla dissipazione, per dare un maggior risalto di verità a ciò che uno
è e pensa, per opporsi a questo andazzo di pubblicizzare
tutto e immediatamente e alla fine insensatamente, perché
non resta nulla”.
Proprio per questo, per combattere contro la superficialità
del pensiero e contro la dissipazione delle intelligenze, Carlo
Bo, da giovane, tenne un diario che pubblicò nel 1945.
Diario aperto e chiuso, s’intitola ed è lì a testimoniare della
“dissipazione” cui neanche lui umanamente seppe sottrarsi;
è lì, a dare conto del suo contraddittorio (essendo egli un
intellettuale cattolico) scetticismo, del suo credere sempre
meno nella “religione delle lettere” e tuttavia restarne legato
come all’unico nutrimento possibile.
Umano, troppo umano, verrebbe da dire, ripercorrendo la
sua straordinaria opera di critico letterario, la quale, nella
sua interezza, si può considerare un’opera letteraria di per
sé, autonoma e sotto l’aspetto creativo, originale, rappresentativa di un’epoca, chiarificatrice dal punto di vista culturale e anche politico (per il ruolo che, nella società, gli intellettuali hanno avuto nell’arco di tempo compreso tra gli anni
Trenta del secolo scorso e quelli immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale).
Tanta attenzione per l’uomo, inteso nella sua spiritualità,
colto nella sua panica ricerca di un segno divino (da qui la
sua ammirata adesione al pensiero di Blaise Pascal, considerato il suo maestro assieme a Sainte-Beuve), in pieno
Novecento ne aveva fatto un pensatore già superato,
“vecchio”, anche se monumentalizzato mentre era ancora
in vita. E se ne può approfittare per dire che questo costruire monumenti anzitempo è pratica diffusa nel mondo delle
lettere per tenere a distanza coloro i quali con le loro opere,
la loro presenza, il loro esempio rappresentano un modello
difficilmente raggiungibile, ma con il quale inevitabilmente
confrontarsi. (Per la verità, con Bo la monumentalizzazione
in vita riuscì a metà, e per il semplice fatto che l’uomo, intelligente come pochi altri in una terra di furbi tutto sommato
sprovveduti, palesemente servendosi del monumento, tolse
ad esso gran parte della sacralità, sottraendosi alla mummificazione).
Circondato da uno spesso alone di “ufficialità” tanto da
apparire una sorta di istituzione nazionale (Magnifico Rettore dell’Università di Urbino, senatore a vita per i suoi alti
meriti culturali, presidente onorario, o a tutti gli effetti, di una
serie di fondazioni e premi…), egli tuttavia se ne stava
appartato, centellinando i suoi interventi
spontanei miranti a illuminare i punti oscuri
del vivere civile, ad orientare il pensiero di
coloro i quali riteneva non avessero del tutto
smarrito la capacità di agire da creature
umane.
Tutto questo è testimoniato dalla sua vasta
produzione giornalistica che Giovanni
Raboni sul Corriere della Sera, ha definito
di “un’agilità espressiva prodigiosa, capace
di ospitare abissi di allusività e suggestione
dentro formulari ritmico-lessicali di quasi provocatoria
nonchalance”. E a questo va aggiunto tutto quello che Carlo
Bo ha, di fatto, suggerito ai giornalisti nelle innumerevoli
interviste. Burbero, austero, di poche parole, tuttavia egli
non ha mai negato di “partecipare” al lavoro del più giovane
dei cronisti culturali.
Avendo avuto l’opportunità di intervistarlo più volte, posso
qui dire che Bo era uno di quegli interlocutori che ai giornalisti fanno fare buona figura. Interrogato su un determinato
aspetto della letteratura italiana contemporanea o del
passato, o di quella francese o spagnola o di qualsivoglia
altra area geografico-culturale, dettava (letteralmente dettava) le risposte, complete della punteggiatura. E mai che
consultasse un libro, un appunto. Del resto, chi lo ha conosciuto, chi ha avuto modo di ascoltarlo in alcune delle sue
tante apparizioni in pubblico, sa bene che Bo era capace di
tenere una conferenza – gli occhi bassi, il mozzicone di
sigaro spento in un angolo della bocca – senza mai servirsi
di una scaletta, di una qualsiasi annotazione.
Questa dimestichezza con i temi della cultura e della letteratura in particolare, gli veniva da un apprendistato che
possiamo definire straordinario. Uno “scrutatore di libri”, Bo,
un metodico e affamato frequentatore di biblioteche (anche
se spesso e soprattutto nell’ultima fase della sua vita, tutto
quanto delle biblioteche poteva servirgli gli giungeva in
casa).
“L’ultimo testimone della letteratura” è stato definito dopo la
sua morte. E sono stati in tanti, disorientati dalla sua scomparsa, a domandarsi cosa rimane, cosa rimarrà del critico
letterario, cattolico liberale, Carlo Bo. Per scrivere questa
nota ho radunato alcuni suoi scritti da – andando a ritroso –
Solitudine e carità del 1985 allo Scandalo della speranza
del 1957; da Letteratura come vita del 1938 (con questo titolo, nel 1994, la Rizzoli ha pubblicato un’antologia critica
dell’opera di Carlo Bo, a cura di Sergio Pautasso e con testi
di Jean Starobinski e Giancarlo Vigorelli) al saggio d’esordio su Jacques Rivière.
E già da questi titoli si può comprendere quali siano stati i
temi e le emozioni umane e intellettuali alla base del suo
vasto lavoro critico. In tutta la sua vita, Bo sviluppò un incessante esercizio di lettura e di rilettura sui
testi classici e moderni di autori italiani,
francesi, spagnoli, rintracciandone ed esaltandone le diverse radici e ragioni, ma
anche le loro comuni aspirazioni ed ispirazioni europee.
Da questo lavoro nacque la sua importante
riflessione critica e spirituale, condotta con
arte di scrittore, sotto forma di saggi di
ampio respiro, recensioni e interventi occasionali, note diaristiche, scritti, questi ultimi,
che testimoniano la sua affinità con la letteratura francese di cui fu uno dei massimi conoscitori.
Alludendo alla sterminata produzione critica di Bo, Giancarlo Vigorelli, uno dei suoi più convinti sostenitori (e qui
aggiungiamo dei suoi amici più cari) ha scritto (e ci sembra
sia questo un modo degno per ricordarlo): “…Non è ad ogni
modo la quantità, ma è la totalità dei libri letti a fare di Bo,
direbbe oggi un cronista letterario da rotocalco, il ‘fenomeno
Bo’. È la qualità delle sue letture, ed è più ancora quel suo
incessante invito alla lettura di libri di qualità che fa di lui,
direttamente o indirettamente, l’anticipatore e il promotore
della ‘nuova critica’ italiana.
Non per assegnare titoli, primati e primogeniture, ma con
quella sua idea elitaria di lettura e il suo esempio, è incontestabile che Bo abbia determinato un sommovimento di terre
e di cieli nell’orbita obbligata della critica. No, non ha dato
vita ad un metodo, ad un sistema di critica; al contrario ha
violato parecchie metodologie correnti, dimostrando al vivo
che non esistono tecniche prefabbricate di indagine e,
peggio, di giudizio. La critica non è che un atto di conoscenza, di doppia conoscenza disvelata tra chi ha scritto il libro e
chi leggendolo ne individua e condivide le verità, l’assoluta
verità…”.
La verità della letteratura, quella che illumina le opere di
Manzoni, di Borges, di Sciascia. E di Bo. E voglio ricordarlo
in quella fredda giornata di gennaio in cui andai a trovarlo
nella sua casa di Urbino, in occasione del suo novantesimo
compleanno. “Non è un merito arrivare a questa età”, mi
disse. E indicandomi una ordinata pila di scatole di sigari,
aggiunse: “Quelle sono le uniche cose che restano della mia
vita. Tutto quello che avevo da dire l’ho detto in un arco di
tempo che arriva al 1945. Quel che è venuto dopo è stanchezza, delusione, erosione della fede nella letteratura”.
Feci il calcolo.
Nel 1945, Bo aveva trentaquattro anni, e dato che per sua
stessa ammissione il periodo più fertile e più bello della sua
vita era stato quello tra il 1934 e il 1938, ne ricavai che la
gran parte di coloro che avrebbero letto il mio articolo sui
novant’anni di Carlo Bo, quando egli viveva i suoi anni più
intensi, non erano ancora venuti al mondo. E allora, mi sono
detto, se si riflette su questo dato, tutto apparirà più naturale e lo scetticismo di Bo si scioglierà in buon senso, e si
comprenderà appieno l’umiltà del suo rammarico estremo:
“Non ho studiato abbastanza”. In quelle ore che per lui dovevano essere di festa, mentre a Urbino, a Roma, a Milano,
nella sua Sestri Levante, gli amici e le autorità si preparavano a rendergli omaggio, lui aveva trovato per sé questa
formula, sconcertante e per certi versi inquietante: “Sono un
aspirante cattolico”.
21 (29)
TEMI SORTEGGIATI (busta C)
Si sono svolte
l’8 settembre
le prove scritte
di selezione
per l’ammissione
XIII biennio
dell’Ifg
POLITICA INTERNAZIONALE
Israele-Palestina: perché il conflitto dura ancora oggi?
POLITICA INTERNA
Come i media hanno raccontato i fatti di Genova
CRONACA
Novità in farmacia: i farmaci generici
ECONOMIA
Borsa: ascesa e crollo dei mercati negli anni della new
economy
CULTURA
A Mantova per la cultura si fa la coda e si paga per partecipare agli incontri con gli scrittori. Le sorprese del Festivaletteratura
COSTUME
Miss Italia: un sogno che non tramonta
SPETTACOLI
Bilancio dell’anno verdiano per il centenario: in Italia e
nel mondo
SPORT
Di fronte al calcio miliardario in Italia si prospettano nuovi
scenari: il miracolo Chievo, la decadenza delle squadre
meridionali, la preponderanza di calciatori stranieri
La carica dei 227
QUESTIONARIO SORTEGGIATO (busta C)
Un momento
della prova scritta
di selezione
per l’ammissione
al XIII biennio dell’Ifg,
svoltasi l’8 settembre
al Politecnico di Milano.
Sabato 8 settembre, presso la sede del Politecnico si sono tenute le prove scritte di selezione per l’ammissione al XIII biennio dell’Ifg.
Dei 302 candidati ammessi – per questa
tornata uno dei requisiti era la laurea - se ne
sono presentati 227, 130 femmine e 97
maschi. Rappresentano tutte le Regioni,
eccetto Valle d’Aosta, Molise e Basilicata. I
candidati più numerosi provengono dalle
facoltà di Lettere, Scienze politiche e Giurisprudenza, ma non mancano i laureti in
medicina, ingegneria, chimica e biotecnologie.
Le operazioni di registrazione sono iniziate
alle 9 e si sono concluse attorno alle 10. Un
breve intervento del presidente dell’Ordine
della Lombardia, Franco Abruzzo (“da
questa selezione devono uscire 40 numeri
uno”) e subito dopo il vicepresidente vicario
della Commissione, Emilio Pozzi (il presidente è Piero Ostellino) ha fatto scegliere ad una
22 (30)
1) Chi presiede il Consiglio Superiore
della Magistratura (CSM)?
a) il Presidente della Repubblica
b) Il Presidente del Consiglio
c) Il ministro di Grazia e Giustizia
2) Le cronache riparlano di Pacciani, dei compagni di
a) 1968
merenda e degli omicidi avvenuti nella zona di Firenze. b) 1975
In che anno il primo dei 17 omicidi?
c) 1980
candidata una delle tre buste contenenti le
tracce degli elaborati, la fotocopia degli articoli pubblicati su giornali dell’8 settembre, dai
quali ricavare un riassunto di 20 righe e un
questionario con 20 quiz su argomenti di
attualità e cultura - che pubblichiamo qui
accanto. Il “via” è stato dato alle 11,10, tempo
massimo per la consegna, sei ore.
La correzione degli elaborati, tutti rigorosamente anonimi, è cominciata l’11 settembre
e si protrarrà fino al 19. Vengono selezionati
90 candidati che dall’11 al 22 ottobre sosterranno la prova orale. La proclamazione dei
vincitori avverrà il 23 ottobre. I punteggi
massimi per le prove sono espressi in
sessantesimi (il tema) e in ventesimi (sintesi
e quiz). I primi 40 classificati vengono
ammessi all’Ifg, dove svolgeranno il praticantato. L’inizio delle lezioni è previsto per il 5
novembre. La frequenza è obbligatoria e a
tempo pieno.
3) Il Governo Berlusconi ha istituito la carica
di vice-ministro. Quanti sono?
a) 4
b) 6
c) 8
4) In quale città italiana è stato denunciato il primo caso
di morte causata dalla medicina anticolesterolo
prodotta dalla Bayer?
a) Napoli
b) Firenze
c) Bologna
5) Come si chiama il cardinale presidente della CEI?
a) Camillo Ruini
b) Angelo Sodano
c) Joseph Ratzinger
6) Quale tipo di arma è stata messa al bando
dopo il trattato di Ottawa del 1° marzo 1999?
a) mine antiuomo
b) euromissili
c) armi strategiche
7) Quando è entrata in vigore la Costituzione italiana?
a) 2 giugno 1946
b) 22 dicembre 1947
c) 1° gennaio 1948
8) Quale organo è competente a giudicare il Presidente
della Repubblica per i reati di alto tradimento?
a) Corte Costituzionale
b) Corte d’Assiste d’Appello
c) Tribunale speciale
9) Quale uomo politico pronunciò il discorso di Fulton
nel 1946 usando per la prima volta l’espressione
“cortina di ferro”?
a) Eden
b) De Gaulle
c) Churchill
10) Da chi è stata fondata la CNN,
rete televisiva che trasmette 24 ore su 24?
c) Churchill
b) Bill Gates
c) Steve Case
11) Un grande giornalista polacco, Ryszard Kapuscinski
ha scritto uno dei più acuti libri sull’Africa.
Qual è il titolo?
a) Oro nero
b) Ebano
c) Equatore
12) Chi è l’autore della beat generation
divenuto famoso nel 1957 con il libro On the road?
a) Allan Ginsberg
b) Jack Keruac
c) William Burroughs
13) Il Vernacolo è:
a) arredo sacro
b) dialetto
c) animale
14) Il famoso quadro “Olympia”
che ritrae una donna nuda sdraiata è di:
a) Goya
b) Manet
c) Modigliani
15) Teo Teocoli ha abbandonato all’improvviso
il programma di Canale 5 “Italiani” condotto
da Paolo Bonolis. Motivazione?
a) “torno alla Rai”
b) “mi pagano troppo poco”
c) “non sono ancora pronto”
16) Nel film Eden dell’israeliano Gitai recita
lo scrittore autore della storia. Chi è?
a) John Le Carrè
b) Ismail Kadarè
c) Arthur Miller
17) Qual è il fiume italiano più lungo dopo il Po?
a) Tevere
b) Arno
c) Adige
18) Con quale parola inglese fu definita la politica
economica neoliberista applicata negli anni Ottanta
da Reagan e dalla Thatcher?
a) devolution
b) deregulation
c) dumping
19) In quale specialità Fiona May ha vinto la medaglia
d’oro agli ultimi campionati del mondo?
a) salto in alto
b) salto in lungo
c) salto triplo
20) Dove si svolgeranno le Olimpiadi invernali del 2002?
a) Italia (Piemonte)
b) Stati Uniti (Salt Lake)
c) Svizzera (Vallese)
ORDINE
8
2001
TEMI NON SORTEGGIATI (busta A)
POLITICA INTERNAZIONALE
Tutti dicono di essere contro il razzismo: allora, perché a
Durban il mondo si è diviso?
POLITICA INTERNA
Il federalismo nelle diverse anime del Governo
ECONOMIA
Si prospetta un autunno molto caldo. Il candidato illustri i
punti di contrasto tra le parti sociali
CRONACA
Cenerentola con bambino a Palazzo reale. Le nozze fra
il principe di Norvegia Haakon e la signorina Mette-Marit
CULTURA
No logo di Naomi Klein: il libro cult degli anti global
COSTUME
Miss Italia: un sogno che non tramonta
SPETTACOLI
Manu Chao: mito vero o falso?
SPORT
Il doping è ormai un fenomeno trasversale a tutti gli sport.
Che cosa si è fatto e che cosa si può fare per contrastarlo
QUESTIONARIO NON SORTEGGIATO (busta A)
TEMI NON SORTEGGIATI (busta B)
POLITICA INTERNAZIONALE
Luci e ombre della politica estera di Bush
POLITICA INTERNA
Polemiche e commenti sulle diverse candidature alla
segreteria dei Democratici di sinistra
CRONACA
Mostro di Firenze: perché Pacciani è di nuovo in prima pagina
ECONOMIA
Arriva l’Euro: opportunità, timori, rischi, problemi pratici
CULTURA
Paolo Coelho e Carlos Castaneda due scrittori che
hanno venduto milioni di copie. Che cosa li accomuna?
COSTUME
Gli abiti sottoveste, di chiffon, trasparenti, vengono proposti
per 365 giorni all’anno. Per assecondare nuove voglie di
seduzione o per semplificare i costi e aumentare i profitti?
SPETTACOLI
Si parla tanto del giovane cinema italiano. Tendenze, titoli, autori, interpreti
SPORT
Calcio: cosa manca alla Nazionale di Trapattoni per arrivare competitiva ai mondiali del 2002?
QUESTIONARIO NON SORTEGGIATO (busta B)
1) In quale palazzo romano
ha sede il ministero degli Interni?
a) Farnesina
b) Viminale
c) Palazzo Chigi
1) In una sola regione italiana
c’è una minoranza linguistica croata. Quale?
a) Marche
b) Molise
c) Puglia
2) Christian Barnard, padre dei trapianti
di cuore è morto a Cipro. Quale la causa?
a) Leucemia
b) Incidente d’auto
c) Infarto
2) Vent’anni fa a New York, il 12 agosto 1981
veniva presentato il primo personal computer.
Fu chiamato con un numero. Quale?
a) 420
b) 5150
c) 9001
3) Quanti milioni sono gli infetti da Hiv nel mondo?
a) fra i 30 e i 40 milioni
b) fra i 40 e i 50 milioni
c) fra i 50 e i 60 milioni
3) Chi presiede la giuria di Miss Italia 2001?
a) Gina Lollobrigida
b) Ornella Muti
c) Sofia Loren
4) In quale anno sono cominciate le trasmissioni
regolari della Tv in Italia?
a) 1952
b) 1954
c) 1957
4) Marshall McLuhan divideva i media in caldi e freddi.
Uno solo di questi è freddo. Quale?
b) Radio
c) Tv
d) Cinema
5) Quale di questi Paesi non fa parte dell’Unione Europea? a) Portogallo
b) Irlanda
c) Svizzera
5) In quale anno è stata fondata la Fao
(organizzazione dell’Onu
per l’alimentazione e l’agricoltura)?
a) 1945
b) 1950
c) 1955
6) Cosa significa letteralmente la parola “intifada”?
a) lancio di sassi
b) assalto
c) funerale
6) Nel 1972 un commando palestinese compì
un sanguinoso raid in un villaggio olimpico. Dove?
a) a Barcellona
b) a Città del Messico
c) a Monaco di Baviera
7) In quale città ha sede
la Corte Internazionale di Giustizia?
a) Strasburgo
b) L’Aja
c) Bruxelles
7) Quale organo decide in primo grado sulle controversie a) Tar
tra cittadini e pubblica amministrazione?
b) Consiglio di Stato
c) Corte dei Conti
8) Quante sono in Italia le regioni a statuto ordinario?
a) 12
b) 15
c) 18
8) Con quale provvedimento del Presidente
della Repubblica su delega delle due Camere,
lo Stato rinuncia a punire determinati reati?
a) amnistia
b) condono
c) indulto
9) Quale di questi tre personaggi succedette
a Mussolini nel luglio 1943 alla guida del Governo?
a) Pietro Badoglio
b) Ivanoe Bonomi
c) Ferruccio Parri
9) Chi fu nel 1988 la prima donna diventata
primo ministro in un Paese islamico?
a) Benazir Bhutto
b) Indira Gandhi
c) Golda Meir
10) Chi, fra questi giornalisti non è stato direttore
del Corriere della Sera
a) Indro Montanelli
b) Giovanni Spadolini
c) Mario Missiroli
10) In media quanti quotidiani sono venduti
ogni giorno in Italia?
a) fra 4 e 5 milioni
b) fra 5 e 6 milioni
c) fra 6 e 7 milioni
11) Chi è il reponsabile dei servizi giornalistici di La7?
a) Sandro Curzi
b) Giuliano Ferrara
c) Gad Lerner
11) Nel gennaio 2002 ricorre il 30° anniversario della morte di
a) Europeo
Dino Buzzati. Il grande scrittore ha avuto un ruolo fondamentale b) Epoca
per molti anni in un settimanale di Milano. Quale?
c) Domenica del Corriere
12) Di che nazionalità è il premio Nobel
per la letteratura (anno 2000) Gao Xinjian?
a) giapponese
b) coreana
c) cinese
12) Di che nazionalità era il famoso scrittore Jorge Amado? a) Argentina
b) Colombiana
c) Brasiliana
13) Quale termine indica l’accostamento nella medesima a) Ossimoro
locuzione di parole che esprimono concetti contrari? b) Sineddoche
c) Metafora
13) Qual è la parola corretta?
a) Metereologico
b) Meterologico
c) Meteorologico
14) Quale di questi attori americani non è stato
doppiato da Ferruccio Amendola?
a) Al Pacino
b) Robert De Niro
c) Robert Redford
14) Uno dei più importanti restauri degli ultimi anni ha
riguardato La leggenda della vera Croce di Piero della
Francesca. In quale città si trova l’importante dipinto?
a) Firenze
b) Siena
c) Arezzo
15) Il Divisionismo è
a) Una ideologia politica
b) Un comportamento delle cellule
c) Un movimento artistico
15) Di che nazionalità è il cantautore Manu Chao?
a) Ecuadoregna
b) Spagnola
c) Francese
16) Quanti sono i registi che si sono impegnati
a Genova a filmare le giornate del G8?
a) 11
b) 18
c) 33
16) Al Festival di Locarno il Pardo d’oro è stato vinto dal film italiano Alla a) Stefania Sandrelli
rivoluzione su due cavalli regista Maurizio Sciarra.Un’attrice italiana b) Laura Morante
che faceva parte della giuria ha contestato in pubblico la scelta. Chi? c) Laura Betti
17) Come si chiama oggi lo stato africano
che fino al 1960 si chiamava Alto Volta?
a) Dahomey
b) Burkina Faso
c) Burundi
17) In quale sezione delle Alpi si trova il Monte Bianco?
a) Graie
b) Pennine
c) Retiche
18) Che cosa è il Pil?
a) Partita iva locale
b) Prodotto interno lordo
c) Partito italiano liberale
18) Come viene chiamato l’indice
dei titoli azionari tecnologici?
a) Nasdaq
b) Napster
c) Seat
19) In quale città si svolgeranno le Olimpiadi del 2008?
a) Tokyo
b) Pechino
c) Oslo
19) Quante volte l’Italia ha vinto i mondiali di calcio?
a) due
b) tre
c) cinque
20) Quale di queste tre squadre di calcio
non si è qualificata per i mondiali del 2002?
a) Olanda
b) Spagna
c) Argentina
20) Quale squadra ha eliminato
l’Italia dai campionati europei di basket?
a) Russia
b) Croazia
c) Grecia
ORDINE
8
2001
23 (31)
“Corriere della Sera” dell’8 settembre 2001
L I B R E R I A
La Resistenza
di Murialdi
Mario Costa Cardol
Ultimo zar –
primo olocausto
di Gigi Speroni
La prima guerra mondiale ci
ha lasciato saggi, ricordi,
memoriali di generali (ognuno a difendere la propria verità) testimonianze di scrittori, come Lussu, Hemingway,
Remarque. A questa pubblicistica enorme che racconta
e analizza l’insensato sacrificio di una intera generazione sui vari fronti di battaglia
s’aggiunge, ora, questo libro
di Mario Costa Cardol dedicato a uno sterminio avvenuto nelle retrovie, e dimenticato: tra il 1914 e il 1916 circa due milioni di ebrei trovarono la morte durante le deportazioni volute dallo stato
maggiore russo col pretesto
che i villaggi giudei erano
centrali spionistiche a favore
del nemico tedesco. Due milioni! E i più deboli: donne,
vecchi, bambini, perché gli
uomini validi erano al fronte
o disertori.
Il titolo del libro, Ultimo zar –
primo olocausto, ne sintetizza il contenuto.
L’ultimo zar era Nicola II, che
il 17 luglio 1918 verrà ucciso,
con tutta la famiglia, dai bolscevichi, per ordine del
Soviet degli Urali, a Ekaterin-burg, in Siberia, e la
tragedia del popolo della diaspora può essere ben definita come il “primo olocausto”.
Oltretutto a opera di una
Russia che accusava le vittime di essere al servizio proprio dei futuri nazisti che, in
modo più scientifico, programmeranno la soluzione
finale del popolo d’Israele.
Nel 1916, mentre i soldati
dello zar perseguitavano gli
ebrei, un giovanotto di 27
anni, Adolf Hitler, in un ospedale da campo tedesco, per
via degli occhi ustionati dall’iprite. maturava i suoi folli
propositi di distruzione.
E Mario Costa Cardol cita
come “prezioso e importantissimo punto di riferimento”,
Jacob L. Talmon, professore
di storia moderna alla
Università di Gerusalemme,
che, di fronte alla strage russa, si era accorto “con sgomento di trovarsi di fronte a
una sorta di prefigurazione
dell’ecatombe attuata dai
nazisti”.
L’autore cerca di inquadrare
la tragedia in campo largo,
ovvero in un ampio scenario
geopolitico, con veloci pennellate sui protagonisti dell’epoca, nell’intento di comporre un quadro d’insieme.
Compito non facile.
Il suo vero merito rimane
quello di aver riportato alla
luce un dramma, e che
dramma, rimosso dalla memoria e dalla coscienza degli uomini. E rivissuto con
una partecipazione personale: “Grazie all’intelligenza
e alla sensibilità di mia moglie Doris Sarina, ho avuto
dell’animo e del mondo
ebraici la comprensione necessaria per scrivere questo
libro, che dedico alla memoria di Lei e alla vita di nostro
nipote Carlo Yehuda”.
Mario Costa Cardol,
Ultimo zar –
primo olocausto,
Lulav editrice,
Milano 2001,
pagine 269, lire 29.800
(euro 15,39)
di Corrado Stajano
Deve aver forzato la propria
natura riservata, Paolo
Murialdi, per scrivere, più di
50 anni dopo, una cronaca
della sua guerra partigiana
in una brigata garibaldina
dell’Oltrepò pavese. Il libretto, pubblicato da Il Mulino, si
intitola La traversata. Settembre
1943-dicembre
1945. È una memoria secca,
priva di retorica e di compiacimenti, dove l’emozione ha
poco spazio. Si svela soltanto, ma con misura, nella pagina dove Murialdi racconta
l’arrivo a Milano, il 27 aprile
‘45, dei partigiani dell’Oltrepò, i primi che giunsero in
città: “Le vie dell’ingresso sono quelle abituali di quando
non c’era l’autostrada: Conchetta, san Gottardo. Tra le
case incontriamo il tripudio.
Dai marciapiedi e dalle macerie uomini e donne applaudono e urlano evviva.
Qualcuno grida welcome,
welcome e noi rispondiamo
che siamo italiani, non americani o inglesi. Ricordo una
donna che si sbracciava tanto che un seno le uscì dallo
scollo del vestito”. (Una bella
soddisfazione, indimenticabile, per un giovane di 25 anni, liberare Milano dal nazifascismo. Capace di ripagare
di tante fatiche, ansie, dolori,
ricordi di morte). In cima al
suo libro, Murialdi ha posto
due citazioni, la prima di
Josif Brodskij, “L’animo precede la penna e non permette alla penna di tradirlo”. La
seconda di Italo Calvino:
“Siamo tutti uguali davanti
alla morte, non davanti alla
storia”. Questa di Murialdi,
storico del giornalismo, giornalista per tanti anni, è una
memoria nel segno indicato
da Claudio Pavone, l’autore
di Una guerra civile, fondamentale saggio storico sulla
moralità della Resistenza.
Murialdi è ritornato nei posti
della sua giovinezza partigiana, ha rivisto i paesi di
pianura, i villaggi di collina a
ridosso della via Emilia,
Voghera, Stradella, la terra
lombarda sotto il Po, i prati e
i boschi dei rastrellamenti, le
strade degli agguati, i luoghi
della guerriglia, le cascine
Quando vestivamo
alla garibaldina
dell’ospitalità contadina. È
andato, inutilmente, alla ricerca della buca lunga un
po’ più di tre metri, larga
quasi due, di terra e di tavole
di legno, dove con tre compagni visse per 35 giorni dopo il feroce rastrellamento
dei mongoli del novembre
‘44.
Murialdi non ha reticenze,
racconta tutto quel che ricorda, è salito in montagna con
un impermeabile stinto, i calzoni alla zuava, un sacco in
spalla.
La Resistenza, allora e oggi,
è per lui portatrice di libertà.
È un duro tirocinio, il suo, impara la politica, impara a conoscere gli uomini. Spesso
non sono facili i rapporti tra i
partigiani delle diverse formazioni, i comunisti, i socialisti,
gli
autonomi,
i
Garibaldini, i Matteottini,
quelli di Giustizia e libertà,
Mario Arduino e Oscar Di Prata
Fu breve la giornata
di Massimo Cobelli
Mario Arduino, classe 1939,
sindaco di Sirmione del
Garda per una decina d’anni, dal 1990, e autore di libri
di poesia e di saggi sul suo
illustre concittadino di duemila anni fa, Catullo; Oscar
Di Prata, nato a Brescia nel
1910, pittore, critico e docente, per molti anni collabo-
24 (32)
ratore di giornali e riviste:
due esperienze diverse, due
diverse generazioni, ma un
unico modo di “sentire” l’avventura umana, con le sue
gioie e i suoi dolori, con il fardello del passato e con le
speranze del futuro.
La giornata è appena cominciata e già volge al tramonto,
ma nonostante la “stagione”
sia perduta per sempre ri-
mane la gioia di aver vissuto
e di vivere alla ricerca di una
libertà interiore che è poi il
segreto della vita. È la gioia
dei semplici, dei puri di cuore, che non si lasciano mai
abbattere dalla disperazione.
Dal sodalizio tra il poeta e il
pittore è nato il volume Fu
breve la giornata, parole ed
immagini sulla stagione per-
duta, raccolta di poesie di
Arduino e di disegni di Di
Prata, dalla quale affiora un
duplice e personalissimo
percorso umano e spirituale,
intrapreso alla ricerca di un
rigore morale che non ha
nulla a che fare con il circo
delle vanità impostoci da
una società alla deriva.
Arduino e Di Prata, poeti di
strada innamorati della vita,
allora tenuti in sospetto dai
comunisti, adesso da chi vede i comunisti in ogni cantone.
Il libro di Murialdi, garibaldino non comunista, come
tanti altri, è familiare, spiega
con naturalezza, fuori del
mito, la quotidianità della vita
partigiana. Spiega anche gli
orrori e la pietà. Non tace le
atrocità della guerra civile,
non nasconde la violenza
partigiana. Ma il seme della
vendetta, commenta, l’avevano seminato i neri. Nell’ultimo periodo del fascismo
poi, quello di Salò, poi normali persone di fede fascista
si trasformarono in efferati
torturatori, come gli uomini
che operarono nell’Oltrepò,
italiani feroci di una formazione che si chiamava
“Sicherheits Abteilung”.
I compagni del partigiano
Paolo sono l’Americano,
intercalano disegni e poesie
come in un libro di filastrocche per bambini, confondendo le une con gli altri.
“Entrambi ‘giocano’ con se
stessi e con il mondo, ebbri
di gioia orgogliosa e conscia”, osserva nella presentazione del volume Amanzio
Possenti: “ambedue raccontano che la vita è un dono
senza pari, anche se fu breve la giornata. Tra parole e
immagini, là avanti si profila
un guado da superare, per
loro, per tutti: è dolce che al
di là attenda un Dio pieno di
misericordia, che abbraccia
il Poeta, si emoziona ai colori del Pittore e avvolge tutti
nel segreto dell’eternità”.
E quando sarà il momento,
Piero, Toni, Ciro, Primula
Rossa. Ma anche Nerone,
Sceriffo, Caino, Usignolo,
Togliatti, Badoglio, Audace,
Indietro, Portos, Tigre, Stalin,
Macario. Nomi fantasiosi, pittoreschi, ironici. Ma sono
due i protagonisti della cronaca di Murialdi: Edoardo e
Maino. Edoardo è Italo
Pietra. È lui - il futuro direttore del Giorno - il comandante che l’aveva arruolato in un
campo di meliga: “Indossa
un insieme che ricorda un
po’ gli alpini e un po’ i campi
di sci: giacca a vento lunga e
gialla, fuori ordinanza, calzoni grigioverdi da ufficiale, calzettoni bianchi, scarpe Vibram. Non porta armi”.
Maino è Luchino dal Verme
che i partigiani-contadini
chiamavano al cònt, il conte.
Ufficiale delle batterie a cavallo in Russia, nel partigianato è stato uguale tra gli
uguali, ossessivo bersaglio
dei nazifascisti. Pietra ha
scritto di lui bellissime pagine nel suo libro I grandi e i
grossi (Mondadori, 1973).
C’è, nella cronaca di
Murialdi, un episodio che rivela l’intelligenza politica, lo
stile e il nero umore burlesco
di Pietra.
Il 29 aprile 1945, il crudele
capo della Sicherheits,
Felice Fiorentini, viene catturato e portato nelle scuole
di viale Romagna, caserma
partigiana di Milano: “Alto,
magro, pallido, disfatto.
Edoardo ed io temiamo il linciaggio o una raffica di mitra.
Edoardo, allora, pensa di
mostrarlo ai partigiani ammassati nell’atrio e urlanti,
con noi due ai suoi fianchi,
quasi a contatto di gomito.
Ottenuto il silenzio Edoardo
dice che bisogna dargli una
lezione: farlo giudicare da un
tribunale straordinario a
Voghera ma, intanto, cantargli una canzone partigiana.
Così accade. Una scena
emozionante e anche teatrale; ma i partigiani cantano e
non sparano”.
Paolo Murialdi,
La traversata. Settembre
1943-dicembre 1945,
Il Mulino 2001, pagine 137,
lire 18.000 (euro 9,26)
dice Arduino, “concedimi la
morte improvvisa, Signore. /
Abbattimi come una quercia
montana / colpita dalla folgore celeste. / Evitami la degradante agonia / dell’erba sotto la ferza estiva. / Conservami dignità umana / fino all’ultimo istante. / Ed accoglimi quindi / nelle tue braccia
amiche”.
Mario Arduino
e Oscar Di Prata,
Fu breve la giornata.
Parole ed immagini
sulla stagione perduta,
con prefazione
di Amanzio Possenti,
Tipolitografia Editrice
Angelo Lumini,Travagliato
(Bs), pagine 140, s.i.p.
ORDINE
8
2001
L I B R E R I A
D I
T A B L O I D
Luigi Gestra e Lucia Purisiol L. Benedini e C.Martignoni
Una voce mi chiamò:
Marino Moretti a Giuseppe
Primo!
Ravegnani. Lettere
di Gigi Speroni
Spiega Lucia Purisiol: “Mi
convinse a scrivere questa
testimonianza del suo cammino di conversione, chiedendomi: «Perché credi che
il Signore ci abbia fatto incontrare?». Non ebbi dubbi
nel rispondere: «Per scrivere
un libro».
Ed eccolo, dunque, il libro,
nato dall’incontro di una cronista d’esperienza con Luigi
Gestra, che, a quarant’anni,
si è lasciato alle spalle una
vita brillante e mondana, come titolare di un negozio di
abbigliamento nel centro di
Milano, per diventare terziario francescano.
Non per un’improvvisa folgorazione, ma dopo un cammino dai sofferti interrogativi
mentre veniva fornito di doti
paranormali da una presenza invisibile che lo “sollecitava a fare”. A esercitare fenomeni razionalmente inspiegabili che lo dilaniavano nel
cercare di comprendere che
cosa gli stava succedendo,
chi lo andava trasformando
in sensitivo, a volte, addirittura, in una specie di guru.
Lo aiuterà in questa ricerca
interiore un sacerdote, definito “Padre Illuminato”, che,
passo passo, lo avvierà verso la vocazione. Sin quando
“all’improvviso una voce interiore mi disse: «… tu sei
venuto al mondo per convertire le anime».
E in quell’istante ebbi questa
visione: il mio feto (compresi
subito che ero io) e l’anima
che entrava in esso nella forma di una particola bordata
d’oro”.
Prima di questa rivelazione
(siamo ormai verso le ultime
pagine
del
racconto),
Gestra, verrà indotto dalla
sua “voce guida” a compiere
una serie di stupefacenti atti
per la meraviglia di amici e
conoscenti: grandi e piccole
buone azioni: dall’avvertimento di non affidarsi più a
un commercialista disonesto, alla diagnosi per far
uscire un padre di famiglia
dal coma; dai consigli all’amico musulmano su quando
giocare una schedina vincente, al lungo, commosso,
colloquio con un’amica nell’aldilà… e via così.
Episodi raccolti dalla Purisiol
con diligenza partecipante
visto che anche lei è stata
coinvolta dalla personalità
del Gestra: “Quando ho cominciato a frequentare Luigi,
gli amici si sono accorti subito che c’era qualcosa di nuovo in me, in genere chiusa,
diffidente, pessimista.
Naturalmente mi hanno
chiesto come andava l’amore e se avevo un nuovo fidanzato. Io rispondevo che
avevo conosciuto una persona che mi faceva pregare.
Conoscendo i miei trascorsi,
allarmati, insistevano nel saperne di più e io rispondevo
regolarmente che quando
andavo da lui mi sentivo
tranquilla, serena, e che
«pregare non fa male».”
Il libro è di buona scrittura, e
qui mi fermo. Perché il contenuto va preso per quello che
vuole essere: una testimonianza di Fede. Che donerà
ulteriori certezze a chi crede
e potrà offrire spunti di riflessione a chi dubita. Come
sempre, d’altronde, quando
si entra nel mistero del trascendente.
Così, più che addentrarmi in
un’analisi critica, penso che
sia più interessante proporre
al lettore due profezie di
Luigi Gestra. Sta parlando,
nei boschi della Verna, “della
grandezza di San Francesco” con alcuni amici,
quando li zittisce «perché mi
stanno comunicando un
messaggio»”.
“Sentii questa voce del
Signore che mi diceva:«Il
tempo che verrà è molto duro. Dal 2001 al 2003 mancherà il pane, ma chi è vicino
a me non deve temere perché non gli mancherà.
Chi invece sarà lontano da
me cadrà nelle tenebre.
Vedrai ci saranno molti suicidi perché non credono in me
e nella mia salvezza».
Poi mi disse per la Chiesa:
«Il vostro Papa è un grande
Papa… Parlerà alle potenze
ma non lo crederanno. La
sua grande missione è quella di spianare la strada al
prossimo Papa che verrà e
avrà un carattere molto duro.
Dirà basta a tutte le filosofie.
La verità è il Vangelo.
Molti sacerdoti verranno
spretati perché usano filosofie non coerenti con il
Vangelo. E ci vorranno cinquant’anni per ricostruire la
Chiesa».
I riscontri a un futuro. E neppure molto lontano.
Luigi Gestra,
Lucia Purisiol,
Una voce mi chiamò:
Primo!,
una vita,
una speranza,
una conversione,
Piemme, Religione,
pagine 208,
lire 24.000 (euro12,39)
di Gian Luigi Falabrino
Se si mette a confronto un
poeta e narratore con un critico di giornali e direttore di
collana, un operatore culturale come si diceva anni fa,
scatta facilmente nel lettore,
soprattutto se letterato anch’egli, un pregiudizio: il pregiudizio romantico del poeta
baciato dall’ispirazione e dalla gloria, di fronte al quale l’operatore culturale sembra
molto meno importante.
C’è del vero, naturalmente, in
questa specie di classifica,
perché la creatività artistica è
ciò che conta, e ciò che si giudica è l’opera. Ma sul piano
delle personalità, della cultura, della stessa autorità che si
può esercitare nei giornali e
nelle case editrici, il confronto
non va sempre a favore dei
poeti e dei narratori. In parte,
è anche il caso del confronto
fra Marino Moretti e Giuseppe
Ravegnani, che emerge dalle
lettere che il primo ha indirizzato al secondo, in due periodi, 1914-1921 e 1952-1964,
pubblicate dalla Biblioteca
Civica di Pavia, col titolo
Marino Moretti a Giuseppe
Ravegnani. Lettere.
Questo volume è lo sviluppo
di una tesi di laurea di Lucia
Benedini, arricchita di note e
di una biografia di Ravegnani, in collaborazione
con la professoressa Clelia
Martignoni, che ha anche
scritto l’introduzione. Ci sono
soltanto le lettere di Moretti a
Ravegnani, ma da ciò che
scrive il poeta e dai chiarimenti delle note, molto precise, si intuiscono gli argomenti
e il tono del critico.
Quando i due letterati comin-
ciarono a scriversi, Moretti
sfiorava i trent’anni ma era
già celebre, Ravegnani aveva
dieci anni di meno e stava facendo le prime prove con
qualche libretto di versi, con
una rivistina letteraria fatta
con Italo Balbo (allora repubblicano poi fascistissimo) che
non passò i due numeri, e poi
con un’altra rivista durata due
anni, fino al 1915. Come dice
la Martignoni nell’introduzione, la conoscenza fra i due è
superficiale: Moretti è affermato e già esperto, Ravegnani impacciato e subordinato. Le lettere del periodo
1914-1921 rivelano un tipo di
rapporto molto frequente fra i
letterati: l’esordiente manda
poesie per la pubblicazione,
e l’affermato risponde “lei può
fare di meglio”; oppure l’esordiente scrive soffietti benevoli
per l’arrivato, e questi si degna di rispondere con brevi
cartoline, dal tono molto formale, che si fanno più lunghe
e cordiali soltanto dal 1921.
Poi ci sono trent’anni di silenzio: nel 1952 i due letterati
s’incontrano nella giuria del
premio “Grazia Deledda”, diventano amici e la corrispondenza riprende da quell’anno
al ‘64: sono ambedue romagnoli, lavorano in modo diverso per la Mondadori, e
Ravegnani ha mantenuto
un’attenzione critica verso le
opere di Moretti. A proposito
di Mondadori: Moretti era divenuto un autore della casa,
e Ravegnani, come scrive
Lucia Benedini nella scheda
biografica, dopo i trascorsi fascisti (fra l’altro, nel ‘43 fu anche direttore per pochi mesi
del Gazzettino e della
Gazzetta di Venezia) e dopo
la direzione della Biblioteca
Ariostea di Ferrara, nel ‘44 riparò a Milano. Qui dal 1950
al ‘59 fu redattore capo e critico letterario di Epoca e direttore della celebre collana di
poesia Lo Specchio. Questi
incarichi, uniti alla capacità
critica, gli diedero una posizione di “potere” fra gli autori,
che non scomparve del tutto
neppure dopo la rottura con i
Mondadori e il passaggio al
Giornale d’Italia.
Le molte lettere del secondo
periodo sono rivelazioni e
conferme di beghe editoriali,
ambizioni di autori, delusioni
e persino pettegolezzi. Nel
raccoglierle in questo promettente
lavoro,
Lucia
Benedini ha sostenuto le lettere e i loro contenuti con note numerose e approfondite,
che costituiscono il merito
maggiore di questa giovane
studiosa.
Si tratta di vere biografie, precise e dettagliate, di tanti autori del Novecento. Se si mettessero insieme le brevi, ma
ricche biografie di Panzini,
Rea,
Govoni,
Cecchi,
Giuseppe A. Borgese e tantissimi altri (e anche molti “minori”:Guido Lopez, Mas-simo
Grillandi, Cesare Bran-duani,
per esempio), si otterrebbe
non soltanto una descrizione
dell’ambiente letterario del
secolo, ma anche un compendio di storia della letteratura che, in certe parti, è storia dell’editoria e del giornalismo.
Lucia Benedini
e Clelia Martignoni,
Marino Moretti a Giuseppe
Ravegnani. Lettere,
Biblioteca Civica di Pavia,
Edizioni N.T.P. 2000
Romano Bracalini
L’Italia prima dell’Unità (1815-1860)
di Gigi Speroni
Per chi ama la storia,
Romano Bracalini è un autore DOC, garanzia di documentazioni d’origine controllata. Come nella sua ultima
fatica dedicata all’Italia prima dell’Unità, agli anni che
vanno dal 1815 al 1860: dalla caduta definitiva di
Napoleone, sconfitto a
Waterloo, alla vigilia della
proclamazione del regno
d’Italia. Con i popoli “spartiti”
dal Congresso di Vienna
“come greggi, comprati e
venduti come al mercato” e
l’Italia “divisa in cinque grandi Stati (Piemonte, Lombardo-Veneto, Toscana, Roma,
Napoli), più due piccoli
(Parma e Modena) che aggregano, rispettivamente
Lucca e Massa-Carrara)”.
Ognuno con usi ed econoORDINE
8
2001
mie diverse, le proprie leggi,
la sua moneta.
Ho usato il termine “fatica”
nel senso che questo libro è,
chiaramente, il risultato di un
accurato, paziente, lavoro di
ricarca; tradotto in un testo
accattivante, diviso in tre
parti per raccontare la vita
pubblica, privata, sociale degli italiani quando erano uniti
unicamente dalla lingua, peraltro parlata soltanto da
un’élite di intellettuali.
In trecento pagine ricche di
dati, fatti, aneddoti, l’autore
mette a confronto le mentalità, i personaggi, le consuetudini in una penisola dove
...“anche le abitudini quotidiane non potevano essere
più diverse a seconda del rigore o della mitezza del clima, della qualità dei governi,
della floridezza dell’economia o della povertà delle terre: ed era naturale che ciò
influisse sul temperamento,
sull’umore e sulle disposizioni dell’uomo”.
È “L’Italia prima dell’Unità”:
un mondo misconosciuto, un
vuoto che Bracalini ha riempito in un Paese che già poco ricorda del suo passato di
Nazione, figurarsi dei 45 anni che precedettero il Risorgimento!
E l’ha riempito a mo’ di racconto: godibilissimo, spesso
arguto.
“A Venezia il turismo aveva
salvato la città dalla completa rovina, dopo la crisi economica degli anni ‘20. Solo
nel 1843 erano arrivati
112.644 forestieri, più degli
stessi abitanti, e la città era
diventata una grande locanda, l’Austria aveva favorito
questa nuova «industria del
forestiero».”… “Certe locande erano prive di servizi igie-
nici. In una Heine aveva
chiesto dove fosse la toilette.
«Là fuori» rispose il locandiere indicandogli l’aperta
campagna.
Le strade erano piene di ladri; e non era piacevole dover dividere per parecchi
giorni la medesima stanza
priva di ogni comodo con
persone sospette e sconosciute”…
“Per recarsi da Milano a
Recanati, Giacomo Leopardi
dovette procurarsi il passaporto necessario all’ambasciata austriaca «per andare, stare, tornare», come diceva la formula d’uso.
Impiegò tre giorni per andare da Bologna a Milano…
Lungo i 60 chilometri circa
che dividevano Mantova da
Parma c’erano sette barriere
doganali; e lungo il Po, malgrado la libera circolazione
prevista dal trattato del
1815, cinque; e più di ottanta
erano i posti di blocco in cui
le barche potevano essere
ispezionate. Tra Milano e
Bologna c’erano sei frontiere
doganali, ognuna delle quali
imponeva al traffico due ore
di sosta”…
“Nel Regno di Napoli su
1848 comuni ben 1621 mancavano totalmente di strade”… “Non solo non se ne
costruivano di nuove, ma
nessuno riparava quelle vecchie. I briganti erano talvolta
meno pericolosi dei gendarmi che taglieggiavano i viaggiatori col pretesto di aver
violato i regolamenti. Quali
regolamenti, se non ne esistevano?”
“A proposito dell’indolenza
degli impiegati pontifici,
Giuseppe Verdi raccontava
un divertente episodio.
Venuto a Roma nel 1853 per
assistere alla prima del
Trovatore si recava ogni mattina alla posta, che aveva sede nel palazzo Madama, attuale sede del Senato.
Vi arrivava puntualmente alle nove, orario di apertura,
ma lo sportello era chiuso; il
maestro sbuffa per il ritardo.
Alle nove e mezzo un impiegato sonnolento apre lo
sportello. Verdi s’avvicina, dice il suo nome, e cacciandogli l’orologio sotto il naso, gli
ringhia: «Ma non vedete che
sono le nove e mezzo?». E
quello, con flemma romana:
«E nun ringrazia il cielo che
ce semo arivati?»
Romano Bracalini,
L’Italia prima dell’Unità
(1815 – 1860),
RCS Libri, Milano, 2001,
pagine 318,
lire 16.900 (euro 8,73)
25 (33)
Intervista a Lucia Mari, quarant’anni di esperienza professionale nel settore
La Divina Moda
di Paola Pastacaldi
Mandare gli stilisti all’inferno?
Perché no! Anche se è soltanto l’inferno
dell’ironia. Perché la moda, dopo aver
conquistato il mondo sull’onda di un made in
Italy straordinario, sta spopolando il cuore
delle città, assediandole di boutique e show
room, perché infine e non ultimo il mondo del
giornalismo di moda ha riempito le pagine
dei settimanali e i muri delle città di una
pubblicità invasiva e qualche volta anche di
dubbio gusto. L’idea diremmo “dantesca” è di
Lucia Mari, da quarant’anni impegnata in
questo segmento del giornalismo, che sta
raccogliendo le sue memorie su passato e
presente della moda per farne un libro.
“Ripenso alle mie esperienze con ironia, ora
me lo posso permettere, dopo una vita
trascorsa dietro le quinte delle passerelle allora non li chiamavamo back stage -. Ho
immaginato di raccontare la storia della
moda come se fosse una Divina Commedia,
da cui un titolo probabile La Divina Moda,
con i protagonisti trattati alla maniera di
Dante. C’è chi finisce nei gironi dell’inferno e
chi in quelli del purgatorio”.
E il paradiso?
“Quello, parafrasando un film storico, può
attendere.
Cercherò di svelare il vero volto degli stilisti,
le loro debolezze e le vanità, i loro peccati”.
Con nomi e cognomi?
La risposta di Lucia Mari è puntuale anche
se breve.
“Sì, con nome e cognome. Valentino andrà
all’inferno, Armani in Purgatorio e gli altri
vedremo!”.
Lucia Mari è stata inviato per la moda di
Stasera e di Paese Sera dal 1961 al 1987,
è poi passata al Giorno, dove come collaboratrice fissa seguiva le sfilate e teneva la
rubrica “Agenda Donna” sino al ‘97. Ha
collaborato anche a Gente. E nel ‘69 ha
avuto l’idea di vestire i cantanti del “Festivalbar”, proponendo tra gli altri grandi nomi
come quelli di Litrico e di Biki, che riscosse
un enorme successo in abbinata con una
celebre canzone Acqua azzurra, acqua
chiara di Lucio Battisti. Nell’81 prese il
premio della Camera Nazionale dell’Alta
Moda Italiana per gli articoli su Paese Sera.
È sua la voce sulla moda italiana e francese
dal 1900 al 1960 per il Dizionario Enciclopedico Moderno, edito da Labor, e ha collaborato al Dizionario della moda curato da
Guido Vergani, edito da Baldini e Castoldi.
E, dopo una vita dedicata alla carta, si è riciclata con entusiasmo - come dice lei - come
responsabile della moda per il canale tv
satellitare “Leonardo” e, in più, sta lavoran-
do alacremente a due romanzi. Continua
anche a portare avanti la sua attività sociale
a favore dei bambini, per la quale ha avuto
riconoscimenti sia dall’Onu nel ‘95 sia dal
Comune di Milano, nell’ambito dell’Ambrogino d’oro.
“Quando sono entrata nel giornalismo, le
sfilate si facevano a porte chiuse e solo per
le clienti, non c’erano uffici stampa, ma le
sarte che dirigevano gli atelier ad organizzare tutto. Erano invitate quasi solo le colleghe
dei settimanali.
Noi dei quotidiani potevamo vedere le toilettes solo nei foyer del Teatro della Scala in
defilet a porte chiuse. La moda si è affermata a Firenze, che era la città delle passerelle
e di Palazzo Pitti: eravamo negli Anni
Cinquanta. Solo dopo, negli anni Settanta,
quando è arrivata nella città degli affari, si è
trasformata in un business, promuovendo
Milano a capitale della moda. Ma prima di
allora era tutto diverso. Non molti sanno che
Dino Buzzati era un appassionato e talvolta
scrivesse di abiti e modelle. Ero con lui a
Parigi al debutto di Yves Saint Laurent, che
aveva appena lasciato il grande Dior. Coco
Chanel, prima di ogni sfilata, allineava le
indossatrici e diceva loro: ‘Ora si comincia.
Ma non scordate che protagonisti saranno
solo e sempre gli abiti, se per caso ve ne
scorderete sarete licenziate’.
Lucia Mari
Oggi è esattamente il contrario. Con l’arrivo delle firme, tutto si è modificato.
“C’è spesso il dominio della pubblicità che
impedisce di parlare liberamente di questo
mondo e se lo si fa, se ne subiscono le
conseguenze. Le grandi aziende possono
arrivare a ritirare la pubblicità dai giornali. La
moda è governata dall’arroganza”.
La moda, aggiungiamo, è diventata spettacolo, come del resto anche altri settori. E le
modelle vivono la tragica era della magrezza
anoressica. Una sorta di modello, di ideale
sociale che viene proposto ai giovani. Ma
essere magri è diventato troppo bello. Di
anoressia molti giovani muoiono. Il vestire
per i giovani rappresenta un modo di essere,
è per alcune età l’appartenenza alla tribù.
Quindi le pagine dei giornali, le pubblicità
influenzano la formazione delle giovani
generazioni.
Che ne pensa delle modelle di oggi?
“La moda è certamente bella, ma è diventata anche crudele. Molto spesso sono le
donne a identificarsi nelle modelle in modo
passivo o eccessivo. Per non parlare delle
modelle adolescenti. Dico una sola parola.
Non va fatto. Non si devono proporre modelle giovani, magrissime. Non si devono
proporre modelli volgari. Non si può presentare la donna come se il suo corpo fosse una
credenziale pronta per l’uso”.
Ferpi raccoglie
la sfida culturale
e formativa in alleanza
con Maggioli Editore
“Nuova
stagione
per le rp
in Italia”
Pubblichiamo il comunicato della Ferpi
(Federazione italiana relazioni pubbliche):
“Giovedì 2 agosto, in tarda serata, il Consiglio dei ministri ha approvato in via definitiva
il regolamento di attuazione della 150. A
quindici mesi dalla sua approvazione parlamentare, dopo prese di posizione e aspre
polemiche pubbliche e private, la decisione
delle Regioni di chiamarsi fuori e la dura critica espressa dall’Autorità Antitrust, la 150 è,
a tutti gli effetti, legge dello Stato.
La Ferpi, dopo avere attivamente contribuito
al regolamento di attuazione elaborato dal
Dipartimento della Funzione Pubblica, ha
deciso di creare, tramite Ferpi Servizi srl,
una associazione di impresa con Maggioli
Editore per sviluppare una offerta formativa
rivolta ai colleghi degli uffici stampa e degli
urp del settore pubblico.
Questo, al fine di contribuire a trasferire
nell’amministrazione pubblica una cultura
innovativa delle relazioni pubbliche.
In questa direzione, la Ferpi ha inviato a tutti
i suoi soci una lettera per informarli del
progetto offrendo loro, in presenza dei requisiti previsti dalla legge, la possibilità di avanzare candidature per svolgere un ruolo di
docenza nei corsi Ferpi-Maggioli.
Il progetto è ora operativo.
Nel frattempo, l’associazione Comunicazione Pubblica - nata nel 1990 in accordo con
la Ferpi…come opportunamente sottolinea
Attilio Consonni correggendo un errore nella
relazione di Bologna del Presidente - ha
elaborato una nuova “linea politica”, assai
apprezzabile nei contenuti e nelle intenzioni.
Il prossimo 20 settembre al Compa, le due
associazioni realizzano un convegno comune e potrebbe essere un utile appuntamento
di confronto, un appuntamento al quale la
Ferpi si presenta con le migliori intenzioni,
proprio come, in assoluta buona fede, aveva
fatto l’anno scorso. L’augurio è che questa
volta l’esito sia positivo”. (da www.ferpi.it)
26 (34)
ORDINE
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2001
L I B R E R I A
Josef K. Byte,
Nello Cozzolino
Papere e papaveri
di Gianni de Felice
Sembra giusto che di
Papere e papaveri, gustosa
e abbastanza imparziale
raccolta di infortuni, scivoloni, distrazioni, incertezze e
presunzioni di Tv, giornali e
giornalisti a Napoli nel 2000,
tratta dal settimanale on line
Iustitia, debba occuparmi io
che – sebbene mascherato
dal greve accento lombardo
preso in quarantadue anni di
vita milanese – sono nato,
come tardivamente confesso ad amici, colleghi e lettori
che non l’avessero ancora
capito, nel pieno centro di
Napoli.
Sembra logico che di questo
divertente florilegio dell’informazione partenopea si parli
sul mensile dei giornalisti
lombardi. Non soltanto perché la Lombardia è, come
sapete, la più settentrionale
delle regioni meridionali, ma
anche e soprattutto perché
le insidie – chiamiamole così
– del nostro mestiere non
hanno patria. A qualsiasi latitudine sono in agguato, sotto
la scrivania o nella tastiera
del computer, la gaffe e l’anacoluto, la ridondanza e
magari l’invidia. Scagli la prima penna chi, avendo bucato una notizia, non ha tentato all’indomani di sostenere
che i concorrenti, esagerando, avevano fatto di una
sciocchezza uno scoop.
I colleghi Byte e Cozzolino
credono di allibirci con la citazione di questo bizzarro incipit, pubblicato da una gloriosa testata napoletana il 6
maggio 2000: “Sarà pure vero che l’asino non troppo si
rivela soggetto docile quando s’innervosisce”. Illusi. Da
Milano rispondo citando l’incipit del primo fondo della
neonata pagina dell’agricoltura del Corriere della Sera,
stampata nell’autunno del
1962: “Il malcontento serpeggia viscido nel mondo
del pomodoro”. E siamo 1-1.
Fanno gli spiritosi, i due
maestrini dalla penna grossa (o dal randello sottile, che
fa lo stesso), perché in un
tiggì regionale si ascolta la
notizia di “Napoli soà, una
mostra per non dimenticare”. E immaginano di avere
invitato il collega a vedere un
memorabile film di Steven
Spielberg sul doloroso argo-
mento: “Ma ci ha risposto
che Sindler’s List lo aveva
già visto, e ne approfittava
per andare a fare un po’ di
sopping”.
Chiaro che l’emittente non
era la BBC. Ma come faccio
a non reagire, ricordando il
tiggì nazionale in cui venne
data la notizia – da microfoni
non napoletani – che “il sàmmit di Belfast è stato rinviato
sàin dài”: cioè, “sine die”?
L’inglese, ragazzi, è così: o ti
manca o ti cresce. E siamo
2-2.
Il genere DDT, cioè fare le
pulci ai colleghi, sta prendendo piede. In varie forme.
Quella condita con lazzi e
cachinni di Striscia la notizia,
che insieme con le Jene pratica il vero giornalismo di ricerca, inchiesta e denuncia:
perciò, quando capita, manda anche giornali e telegiornali dietro la lavagna.
Oppure la forma minuetto,
stile rondò veronese, flautata da Giulio Nascimbeni con
un occhio rivolto alla tutela
D I
T A B L O I D
della grammatica e un altro
alla custodia delle date storiche e dei film d’epoca.
Oppure quella tutta frizzi,
trombette e clacson della
Gialappa’s, che per la verità
scortica viva più la sintassi
degli allenatori che quella
dei giornalisti: forse perché
uno dei tre ex-ragazzacci
(ormai son padri di famiglia)
è figlio di un grande giornalista sportivo e, come si sa,
l’arte di tata va rispettata.
Quindi questo Papere e
Papaveri – che, confesso,
più d’una risata me l’ha
strappata – si aggiunge all’opera di altri maestri e maestroni per suggerire a tutti
noi giornalisti umiltà, attenzione, un pensierino alla
consecutio temporum, un
sospiro alla grammatica, un
collirio contro la “congiuntivite”, una sciacquata di panni
nel Tamigi e, perché no?, anche nel Reno e nella Senna.
A tutti: senza distinzione di
età, sesso, latitudini, longitudini, regioni e media.
Così è stato ritrovato il
cadavere di Giancarlo
Siani il 23 settembre 1985.
Antonio Franchini
L’abusivo
di Ettore Colombo
Antonio Franchini fa lo scrittore, Giancarlo Siani faceva
il giornalista, o meglio “l’abusivo”, al Mattino di Napoli.
Antonio e Giancarlo erano
amici: avevano iniziato insieme. Poi Franchini se n’è andato ed è andato a vivere a
Milano. Siani a Napoli è rimasto, ma presto è anche
morto. E già, perché questo
è il punto: Franchini è vivo e
oggi ha quarant’anni. Siani
invece è morto, ucciso dalla
camorra il 23 settembre
1985 quando di anni ne aveva 26. Franchini ha scritto un
libro bellissimo, L’abusivo,
che – si direbbe – parla del
“caso Siani”. Di come è stato
ammazzato, di chi l’ha ucciso, delle indagini mille volte
iniziate e mille volte interrotte, dell’ambiente del Mattino
e, più in generale del giornalismo “alla napoletana” (una
sottospecie tutta particolare
di una professione già squinternata, quella del giornalismo “all’italiana”) fatto di
abusivi (e di abusi, dei direttori come dei caposervizi,
dei colleghi come della concorrenza), di raccomandazioni (dei politici, naturalmente, ma a volte anche
dello zio prete e simili) e d’ignavia, certo, nei confronti
del potere vero che spadroneggia, nel regno di Napoli,
quello della criminalità. Ma
fatto anche di tanti giornalisti
sconosciuti e coraggiosi,
che indagano e stanno alle
costole dei corrotti come dei
piccoli e grandi boss locali,
di amicizie e solidarietà anche tra chi era già praticante
o professionista (e quindi poteva esibire il famoso “tesserino”) e chi invece non lo era
e faceva, appunto, uno
ORDINE
8
2001
pseudo mestiere, “l’abusivo”,
termine che – scrive
Franchini – a Napoli acquista tutto un altro suono.
Eppure, questo libro non
parla – o meglio, non parla
“solo” – del caso Siani e di
come è potuto maturare “il
contesto” che ha portato alla
sua morte: le inchieste di
Siani a Castellammare di
Stabia e il fastidio che dava
al clan Gionta, le indagini
che stentano, il Mattino che
si vergogna, almeno all’inizio, di difendere la memoria
del suo cronista (in quanto,
appunto, “abusivo”...), e poi
la santificazione e i premi
dati in suo nome, che passa
da quello di un giovane e
brillante cronista di provincia
a quello di simbolo. No, il libro di Franchini parla, per
fortuna dei suoi lettori e di
chi voglia capire tante cose,
della città di Napoli, con tutto
il contorno vociante e improbabile di personaggi e culture, alle follie sociali e mentali
di cui può rendersi protagonista solo quella piccola borghesia meridionale dalla
quale lo stesso autore proviene, fino alla generazione
di quei trenta/quarantenni
che hanno fatto in tempo a
vivere gli scampoli degli anni
Settanta (sì, persino a
Napoli) ma che sono stati
troppo presto sommersi dal
disincanto e dalla cupidigia
degli anni Ottanta e oggi, affermati socialmente o meno
che siano, si sentono dolorosamente in debito con la
Storia prima ancora che con
le loro stesse vite. Infine,
Franchini opera – all’interno
del testo, tutto costruito su
lunghe e fedelissime sbobinature dei colloqui che ha
avuto nel corso degli anni,
mentre accatastava i materiali e svolgeva le ricerche
Dunque, anche a Nello
Cozzolino e Josef K. Byte
(ma come si fa a chiamare
Peppeniéllo uno che ci ha
questi prenome, nome e cognome?). Ai quali paternamente, o ziescamente, suggerisco di non cominciare
mai più un libro sulle gaffes
dei colleghi infilandone una
nella nota di prefazione.
“La palla entrò in porta come
un carro armato a vele spiegate” – frase che non ha mai
scalfito la tradizione di cultura e prestigio del giornalismo
sportivo napoletano – non fu
scritta negli anni Ottanta come allegramente si fantastica, ma apparve in un resoconto del 1959. Ho l’età per
averla letta e orripilato, come
dire?, dal vivo.
Josef K. Byte,
Papere e papaveri
(Tv, giornali
e giornalisti a Napoli
nel 2000),
a cura di Nello Cozzolino,
Edizioni Magmata,
pagine 196, lire 20.000
per il libro, con i vari amici,
colleghi e protagonisti della
vicenda Siani – delle interpolazioni narrative dall’esito
felice e imprevedibile. Per
pagine e pagine, infatti, la
storia di Giancarlo e della
sua morte viene intervallata
da quella della famiglia di
Franchini e in particolare da
tre figure, due femminili e
una maschile: la nonna, soprannominata “Il Locusto”,
vecchissima eppure loquace
e perfidamente saggia, la
madre dell’autore, esasperata e invelenita dalla presenza di sua madre e dall’assenza del marito, che si
esprime con una volgarità
feroce e cinica, ma contemporaneamente in un dialetto
e con ragionamenti di un’ilarità contagiosa, e infine lo
zio Rino, ex (forse) generale
dei Carabinieri, silenzioso e
magrissimo, che in tempo di
guerra dovette giudicare un
suo attentatore e gli evitò la
condanna a morte. Franchini
si può permettere di tratteggiare un ritratto vero e impietoso, ai limiti della cattiveria,
del suo più ristretto clan familiare solo perché si mette
in gioco in prima persona e
consente a chi lo legge di riflettere su concetti dolorosi e
insieme cruciali. Innanzitutto,
che – come gli disse un triste
Walter Chiari in una delle
sue prime prove da giornalista – “ad un certo punto della vita ci si abitua a tutto. A
perdere gli amici, agli addii
delle donne...”. Ecco perché
solo ora Franchini ha potuto
scrivere di Siani. Poi che “andarsene congela gli affetti e
forse li preserva”, come
Franchini ha fatto con questa
storia, seguita e insieme
messa da parte per tanti anni, ma anche con Napoli e
probabilmente anche con la
sua famiglia. Infine, che “catalogare - posti, esperienze,
amori, è già un gesto che
dovrebbe togliere il diritto di
vivere”. Perché, sostiene, se
siamo saturi, anche solo di
andare ogni giorno al mare
nella stessa bellissima
spiaggia, dovremmo pensare ai nostri coetanei morti, a
chi questa possibilità non
viene più data. E, dunque,
conclude Franchini, per chi,
come Siani e altri della sua
generazione, ha lottato tanto
per diventare giornalista, per
raccontare quello che vedeva, per conquistare una dignità (professionale, sociale,
umana) è un insulto vedere
o pensare a chi snobba con
sufficienza conquiste e responsabilità che, ad altri, in
posti più crudeli, sono costati la gioia e la vita. Come a
Siani. O la fuga e il dolore.
Come a Franchini.
Antonio Franchini,
L’abusivo,
Edizioni Marsilio 2001,
pagine 249, lire 28.000
CORPORATE WEB TV
PRIMARIO GRUPPO ITALIANO
per un progetto di Corporate Web Tv ricerca le seguenti figure professionali
1 capo redattore (RIF 140)
4 redattori ordinari (RIF 141)
3 giornalisti di prima nomina (RIF 142)
1 segretaria di redazione (RIF 143)
Per tutti i candidati costituiscono elementi preferenziali:
esperienza in redazioni radio televisive, livello culturale ottimo
con particolare riferimento ai settori economico e finanziario.
In particolare, per la posizione di Redattori ordinari sarà un requisito distintivo l’esperienza diretta nella conduzione di
telegiornali.
La sede di lavoro è Milano.
Le persone interessate possono visitare il sito
www.executivesurf.com alla sezione ”ricerche in corso”.
27 (35)
Promosso e organizzato dal Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia
Via al 4° Concorso tesi di laurea sul giornalismo
A ogni vincitore 5 milioni. I candidati dovranno consegnare le tesi entro dicembre
Milano, 5 luglio 2001. Promosso dal Consiglio dell’Ordine
dei giornalisti della Lombardia, prende il via la quarta
edizione del Concorso destinato a valorizzare le tesi di
laurea dedicate al giornalismo e alle istituzioni della professione. Giudice insindacabile del premio è lo stesso Consiglio dell’Ordine. Le tesi (in duplice copia e anche su dischetto in programma word oppure rtf) dovranno pervenire alla
segreteria dell’Ordine (via Appiani 2 - 20121 Milano) entro
il 31 dicembre 2001.
Potranno concorrere le tesi discusse nelle Università italiane
(pubbliche e private) nel periodo gennaio-dicembre 2001. Le
sezioni del premio sono sei e ogni vincitore di sezione riceverà 5 milioni di lire. L’impegno finanziario dell’Ordine è,
pertanto, di 30 milioni complessivi. La cerimonia della consegna avverrà in occasione dell’assemblea degli iscritti all’Albo
dell’Ordine della Lombardia.
La cerimonia, quindi, è prevista per il marzo 2002 al Circolo
della Stampa. Estratti (di 400 righe) delle tesi premiate (e
segnalate) verranno pubblicati su Tabloid, organo mensile
dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia. Per la valutazione
delle tesi il Consiglio si avvarrà, come lo scorso anno, dell’opera di consulenti (giornalisti e professori universitari).
Queste le sezioni:
1) Storia del giornalismo italiano (testate e personaggi).
2) Storia del giornalismo europeo e nordamericano
(testate, deontologia e personaggi).
3) Istituzioni della professione giornalistica. La deontologia e l’inquadramento contrattuale dei giornalisti in
Italia, Europa e Nord America.
4) Professione giornalistica e sue specializzazioni anche
telematiche e radiotelevisive.
5) Giornalismo economico e finanziario.
6) Giornalismo culturale, sociale, scientifico.
Decisione interlocutoria della seconda sezione consultiva del Consiglio di Stato
Laurea in giornalismo
ed esame di giornalista:
decisivo il sì di Castelli
Milano, 30 luglio 2001. La II sezione consultiva del Consiglio di Stato, chiamata ad esprimersi con un parere sul raccordo tra la laurea
specialistica in giornalismo e l’esame di giornalista, ha sospeso il giudizio, ritenendo prioritario acquisire il punto di vista del ministro
della Giustizia, Roberto Castelli, competente
in materia di Ordini professionali., e i verbali
della “Commissione Rossi”, “limitatamente
alle riunioni in cui si è dibattuto il problema
della (non) riforma dell’Ordine dei giornalisti”.
Al Consiglio di Stato è apparso “congruo
assegnare all’ amministrazione il termine di
quaranta giorni decorso inutilmente il quale si
provvederà a rendere comunque il richiesto
parere”.
In sostanza sarà il Consiglio di Stato, in sede
consultiva, a dirimere il contrasto tra l’Ordine
dei giornalisti e il ministero dell’Università sul
raccordo tra la laurea specialistica in giornalismo con l’ordinamento professionale. La
Commissione Rossi non ha provveduto a
scrivere il decreto sul nuovo esame di Stato
dei giornalisti, sostenendo che l’attuale “prova
di idoneità», che i praticanti giornalisti sostengono per diventare professionisti, «non
presenta i caratteri dell’esame di Stato”.
Secondo i giornalisti, l’articolo 1 (comma 18)
della legge 4/99 obbliga il ministero dell’Università (Murst, oggi Miur) a «integrare e modificare» gli ordinamenti vigenti della professione giornalistica, stabilendo che quella universitaria sia l’unica via di accesso alla professione e che questa via richieda un esame di
Stato rinnovato, il quale tenga conto della
laurea specialistica (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 23 gennaio 2001).
I giornalisti hanno rimproverato alla Commissione Rossi di non aver considerato gli atti
parlamentari relativi alla legge 69/1963, che
ha istituito l’Ordine dei giornalisti, e alla legge
4/1999, che dà al Murst (oggi Miur), di
concerto con la Giustizia, il potere di cambiare gli accessi alle professioni regolamentate.
La posizione di Rossi nasconderebbe così
una banale questione nominalistica, ben
potendo il Parlamento denominare, come
crede, un esame di Stato.
Appello anche
al ministro
dell’Istruzione
e dell’Università,
Letizia Moratti:
“La laurea
in giornalismo
ha senso se diventa
l’unica via di accesso
alla professione
Nel caso dei giornalisti, il legislatore, a salvaguardia dell’autonomia della professione, ha
deciso di affidare l’organizzazione degli
esami all’Ordine nazionale “in cooperazione”
con la Corte d’Appello di Roma, che designa
due magistrati di cui uno assume la presidenza della commissione esaminatrice, come
garanzia di imparzialità e uguaglianza di trattamento.
Nella memoria scritta da Franco Abruzzo e
ora all’esame del Consiglio di Stato, si sostiene che la prova di idoneità professionale dei
praticanti giornalisti è del tutto assimilabile alle
prove attitudinali prescritte dal Decreto legislativo 27 gennaio 1992 n 115, con il quale, in
attuazione della direttiva n. 89/48 CEE, sono
state disposte norme per il riconoscimento dei
titoli accademico-professionali conseguiti in
ambito europeo ai fini dell’esercizio in Italia
delle corrispondenti professioni.
Il 23 luglio precedente Franco Abruzzo ha
rivolto un appello ai ministri dell’IstruzioneUniversità-Ricerca (Miur) e della Giustizia,
Letizia Moratti e Roberti Castelli sul tema
Non chiediamo
sconti:
vogliamo
accedere
alla professione
per via universitaria
esattamente
come
gli altri professionisti
italiani”
dell’accesso alla professione giornalistica:
“Cari Ministri, la laurea in giornalismo ha
senso se diventa l’unica via di accesso alla
professione. Vi chiedo di essere severi con
noi e di scrivere in fretta il decreto del nuovo
esame di Stato. Non chiediamo sconti: vogliamo accedere alla professione per via universitaria esattamente come gli altri professionisti italiani”. Franco Abruzzo si è rivolto anche
al neopresidente del Consiglio di Stato, Alberto de Roberto: “I giornalisti – ha scritto Abruzzo – vogliono legare il loro futuro all’Università e attendono con ansia un parere, che
faccia fare un salto di qualità alla categoria e
all’informazione italiana sul piano della preparazione e della responsabilità”.
Nel frattempo il presidente del Cup (Comitato
unitario delle professioni), avv. Nicola Buccico, ha deciso di iscrivere il problema all’odg
della prossima seduta del Comitato (che
rappresenta tutte le professioni intellettuali) e
di sostenere le ragioni dei giornalisti. Buccico
è anche presidente del Cnf (Consiglio nazionale forense).
Ordine/Tabloid
Un’indagine
del Censis
Giornalisti,
la paura
dei new media
Segnali di crisi per una professione “forte”
Roma, 13 luglio. I segnali di crisi ci sono, ineludibili, a cominciare dalla sensazione diffusa che per i giovani ci siano ben
poche prospettive, fino alla convinzione, piuttosto sentita, che
le aziende editoriali abbiano investito e stiano investendo
poco o secondo strategie poco riconoscibili.
Ma quella del giornalista, rileva un’indagine del Censis, è
ancora “una professione, solida, forte, autocentrata e autoconsistente’’. Lo dimostra il fatto che ben il 68,1% dei giornalisti consultati è convinto di svolgere “una professione importante per la società’’. E che per il 50,4% del campione, giornalisti si diventa “per vocazione’’.
Non solo, visto che per il 42,8% la testata per la quale lavora
è apprezzata in primo luogo per la correttezza delle informazioni e che per moltissimi (57%) l’obiettività non è affatto
un’utopia, bensì “uno scopo da raggiungere’’.
Giornalisti fieri del proprio ruolo, dunque, e ancora gratificati
da una professione sentita come nevralgica nella società.
Non immuni però, rilevano i ricercatori, da un’ansia piuttosto
diffusa del futuro e dalla paura indotta dai cambiamenti. Anzi,
dalla profonda e articolata trasformazione ed evoluzione alla
quale il mestiere di giornalista sta andando incontro in questi
anni.
In molti ad esempio, si dicono sicuri che nelle aziende editoriali crescerà in futuro il ricorso ai service esterni (64,8%) e
ai liberi professionisti (51,6%) e che una ‘’figura più ampia di
comunicatore’’ prenderà il posto del giornalista.
28 (36)
Tanti (34,7%) denunciano un lavoro ormai “fatto di troppa
scrivania’’ e di troppa routine (33,9%) e persino “con troppa
attenzione a ciò che accade dentro la televisione (23,7%)
piuttosto che a ciò che accade fuori di essa’’.
In agguato, secondo il 43,9%, c’è anche ‘’la minaccia dei new
media alla propria professionalità. Anche perché, sottolineano i ricercatori, qualche problema emerge nel campo della
formazione, con una denuncia massiccia (71,8%) di carenze
nella conoscenza delle lingue, accompagnata da un’incertezza generalizzata verso le nuove tecnologie.
Quella che invece è certa per tutti, è l’importanza dei fattori
economici.
Il potere economico, riconosce il 73,2% dei giornalisti, limita
in parte l’autonomia della professione, e più del potere politico (57,7%). Ma anche la pubblicità, ritenuta “fonte insostituibile di finanziamento’’ dal 67,8% degli intervistati, è sentita
dall’ 89,3% del campione come un potere fortemente condizionante, perché diminuisce l’autonomia del giornalista
(67%) o addirittura “gli impedisce di essere obiettivo (22,3%).
Quanto alle doti del buon giornalista, in testa rimane la curiosità (53,9%), seguita a buona distanza dall’equilibrio (28,6%) e
dalla passione (16,8%). Mentre per essere veramente bravi,
l’attributo piu’ importante risulta essere il fiuto (39,5%), seguito
da “un maestro che insegni il mestiere’’ (29,9%). Già, perché in
barba alla diffusione delle scuole, il 75,3% degli intervistati,
per diventare giornalista, ha fatto la gavetta.
(ANSA)
ORDINE - TABLOID
periodico ufficiale del Consiglio
dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia
Mensile / Spedizione in a. p. (45%)
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Chiuso in redazione il 16 settembre 2001
ORDINE
8
2001