Merini_Diario di una folle normalità - Atlante digitale del `900 letterario

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Merini_Diario di una folle normalità - Atlante digitale del `900 letterario
Atlante digitale del '900 letterario
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Diario di una folle normalità
Il manicomio è una grande cassa
con atmosfere di suono
e il delirio diventa specie,
l'anonimità misura,
il manicomio è il monte Sinai
luogo maledetto
sopra cui tu ricevi
le tavole di una legge
agli uomini sconosciuta.
Alda Merini
L'altra verità / Diario di una diversa è la prima
opera in prosa a carattere autobiografico nata
dalla penna sensibile e acuta di una delle più
importanti poetesse e scrittrici della
letteratura italiana moderna: Alda Merini.
Rappresenta la testimonianza diretta dei dieci
anni passati in una clinica psichiatrica, o
meglio, l'analisi vissuta in prima persona per
deliri, allucinazioni, amori tormentati, poesie
e illusioni di un luogo maledetto e dolente, in
cui la natura malvagia dell'uomo trova il suo
spazio e prende inconsciamente il
sopravvento. Il luogo in questione è un posto
a sé, sospeso dal mondo terreno, senza alcun
Dio né appiglio o possibilità di redenzione. È
un luogo in cui l'uomo è abbandonato a se
stesso ed è escluso dalla realtà circostante.
«Al momento dell'internamento, l'ammalato
sente sopra di sé il peso della condanna,
condanna che non può non riversare sulla
società tutta ed anche sui congiunti. I parenti
invece avvertono questa repulsione come uno
stato di malattia e cercano di stare alla larga,
anche perché non è detto che non abbiano
un vago o profondo senso di rimorso. [...] Ma
le vere vittime restiamo pur sempre noi,
perché una volta a casa ci sentiremo sempre
rinfacciare quella degenza come un fatto
giuridico, e non di malattia. Insomma, il
malato è un gradino più su di colui che è
stato in galera». (pp. 56-57); «È pericoloso
uscire dai meandri della propria inquietudine
per addentrarsi nella socialità».(p. 35).
In manicomio, oltre ai legami con altri
esseri umani, perfino il tempo non ha più
alcun valore: le notti si dilatano, gli attimi
diventano infiniti, i giorni non hanno
scansione e i sospiri si accavallano in un
disperato tentativo di libertà e
consapevolezza della propria situazione. «Si
parla spesso di solitudine, fuori, perché si
conosce solo un tipo di solitudine. Ma nulla è
così feroce come la solitudine del manicomio.
In quella spietata repulsione da parte di tutto
si introducono i serpenti della tua fantasia, i
morsi del dolore fisico, l'acquiescenza di un
pagliericcio su cui sbava l'altra malata vicina,
che sta più su. Una solitudine da dimenticati,
da colpevoli. [...] In manicomio ero sola; per
lungo tempo non parlai, convinta della mia
innocenza. Ma poi scoprii che i pazzi avevano
un nome, un cuore, un senso dell'amore e
imparai, sì, proprio lì dentro, imparai ad
amare i miei simili» (p.117).
Nessun particolare evento scuote la vita dei
"diversi": le poche e crudeli vicende sono
mosse dalla violenza e da velati gesti di una
malignità così umana, da far ribrezzo.
All'interno del manicomio, dove la morte
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muta in lunga attesa, ogni cosa è viva e in
continua trasformazione: odiosa o amorosa
che sia è tenuta in piedi come un burattino, i
cui fili sono mossi con destrezza da esseri
privi di alcun sentimento umano, "persone"
spinte da un senso di innaturale malvagità,
ridotte al massimo di una brutalità così piena
di burocrazia da risultare quasi banale.
Tra elettroshock e autentiche torture fisiche
e psicologiche, acuto è lo sguardo della
poetessa su questo inferno, come un'onda
che alterna gli orrori all'illusione.
«Si veniva fuori da quello strano inferno già
stordite, con la riprova che la nostra demenza
rimaneva un fatto inspiegabile e che non
avrebbe avuto nessuna verità razionale» (p.
37).
Un diario, anzi una voce senza traccia di
leggerezza d'animo o di facili condanne, in
cui emerge la profonda confusione che
muove alcune scelte della poetessa, ma al
tempo stesso la sicurezza di sé e delle
proprie emozioni in una sorta di innocenza
trasparente e veritiera che tutto osserva e
trasforma, senza mai rinnegare la malattia, o
la fatica del non sentire i respiri e i bisogni
altrui. La riflessione si fa così poesia.
Interrogativi e dubbi diventano rime. Orrori e
barbarie, incapacità di comprendere e di
essere compresi divergono in una narrazione
che nonostante tutto è un inno alla vita e alla
forza della libertà.
«Così in questo modo gentile adoperai il
silenzio, e mi venne fatto di incontrarvi il mio
io, quell'io identico a me stesso, che non
voleva, non poteva morire» (p. 38).
Ma in fondo, cos'è la follia? I pazzi da chi
sono diversi? Se la natura umana è così vasta
ed eterogenea, si può parlare di sanità
mentale? «L'uomo è socialmente cattivo, un
cattivo soggetto. E quando trova una tortora,
qualcuno che parla troppo piano, qualcuno
che piange, gli butta addosso le proprie
colpe, e, così, nascono i pazzi. Perché la
pazzia, amici miei, non esiste. Esiste soltanto
nei riflessi onirici del sonno e in quel terrore
che abbiamo tutti, inveterato, di perdere la
nostra ragione» (p. 123).
Così allora l'anima sensibile scava fino in
fondo alla ricerca dei "perché" della vita, e
spesso arriva ad oscure profondità, cozzando
contro il timore del beffardo trasformismo del
male che si manifesta vestito di paure, nelle
quali la mente si allarma e si confonde. Non è
forse questo l'inizio della vera follia?
Contributo:
Chiara de Stefano, (classe IV A, L.C.
Gioacchino Da Fiore, Rende-CS)
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