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Nicola Fanizzi
DEDICATO A CHI NON HA SAPUTO ASCOLTARMI
Parla l’autore di “Lasciateci stare - narrazioni dal manicomio”, l’autobiografia di un
uomo che ha saputo venire fuori dalla malattia mentale, anche grazie alla via della
scrittura, aggrappandosi alla fantasia e alla poesia. Nel libro si alterna un linguaggio
quasi infantile, spesso confuso, con espressioni talora rabbiose e violente, fino a
momenti di grande dolcezza. Resta, di fondo, la critica dura e motivata all’istituzione
manicomiale e alla società dei cosiddetti ‘sani’.
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di Liliana Senczuk
Nicola Fanizzi…Una vita difficile… L’infanzia in collegio, la caserma, il tentato suicidio, i viaggi
e, soprattutto, il manicomio. Nel 1990 finalmente arriva la libertà. Lasciateci Stare - narrazioni dal
manicomio (Edizioni Sensibili alle foglie, 2004, € 10) è l’autobiografia di un uomo che ha trovato
nella scrittura una speranza a cui aggrapparsi, un’amica a cui confidare sentimenti e paure. Egli
scrive: “L’unica luce mi viene in manicomio dal chiarore della carta”.
Incontriamo Nicola Fanizzi a Roma, nella casa dove ormai vive da diciassette anni; appesi alle
pareti ci sono i suoi quadri, un turbine di colori, di immagini piene di significato.
Nel suo libro la varietà del linguaggio è una delle caratteristiche che più colpisce: si passa da
un linguaggio quasi infantile, che procede per brevi, ripetitivi e spesso confusi pensieri, ad un
linguaggio forte, rabbioso e violento, fino ad arrivare ad espressioni di una dolcezza infinita.
Perché? Scelta consapevole o spontanea?
È stato tutto molto spontaneo. Ho iniziato a scrivere per rabbia; pensavo che non avrei mai
pubblicato niente. Scrivevo per me, non per gli altri. Mi ritrovavo a scrivere nel cantiere della
metropolitana dove lavoravo o in manicomio. Spesso il linguaggio è crudo perché esprime il disagio
di un uomo circondato da persone che lo chiamavano “fallito”, un uomo in contrasto con il resto del
mondo.
Lei scrive: “Siete voi che non capite il nostro linguaggio…”. Franco Basaglia riteneva che il
linguaggio fosse un indizio per cogliere il mondo del malato. Lei cosa ne pensa?
È così; il vero problema è che non hanno saputo ascoltarci.
Nella premessa lei afferma che proprio negli anni trascorsi in manicomio ha incontrato Dio.
Qual è oggi il suo rapporto con la divinità?
Ad una certa età ci si interroga su determinati argomenti. Io ho incontrato Dio. Dopo il tentato
suicidio, a Milano, mi ha assistito una signora; lei diceva che quando deliravo invocavo Dio.
Credo, comunque, che esista una realtà al di là delle apparenze; possiamo chiamarla come
vogliamo… Io, Super-Io, Inconscio o Sogno. Io ho sperimentato questa realtà.
Lei scrive: “Stare in questo posto è come passare la vita a mettere bulloni in una catena di
montaggio. La mano si abitua e vive per suo conto, mentre il resto del corpo e la mente sono
quasi in un’altra dimensione”. Esprime così la dialettica tra l’“abitudine” a stare in
manicomio e la voglia di distaccarsene per entrare in un’altra sfera. In questo la fantasia ha
avuto un ruolo determinante. In che senso per lei è stata “una forma di vita”?
Per me la fantasia ha sempre predominato sulla realtà, è stata un modo per isolarmi dalla vita
manicomiale.
Nel libro fa spesso riferimento ad un bambino che ha dentro e che vorrebbe essere liberato.
Perché questa parte infantile in lei si manifesta in maniera tanto forte?
Forse perché non ho mai avuto una vera infanzia, non sono mai stato trattato come un bambino.
La sua critica alle istituzioni (“manicomio come istituzione fascista”), alla borghesia e alla
società dei “sani” è, a tratti, feroce. Nelle sue parole c’è ostilità, odio e invidia: come si pone
oggi nei confronti del mondo che la circonda? È riuscito a colmare quel bisogno di
comunicare con l’altro che per tanti anni non ha soddisfatto?
Ci sono riuscito. Qui spesso è venuta la televisione e ho potuto esprimere disappunto nei confronti
della gente del quartiere che non mi voleva. L’inserimento è stato difficile, ma adesso ho dei buoni
rapporti con le persone. Sono stato anche nelle università e gli studenti mi hanno riservato
un’accoglienza molto calorosa. Forse, riesco a comunicare con gli altri perché oggi sono più sereno.
Nella poesia esplode con tutta la sua forza la smania di vivere, di sbagliare e di amare. Con i
versi riesce meglio a rappresentare i suoi stati d’animo?
Decisamente sì. Con la poesia sfogo meglio i miei sentimenti; nei miei racconti prevale infatti la
forma poetica.
Come vede oggi gli psichiatri e la psichiatria?
Gli psichiatri vanno bene quando non mi “psichiatrizzano”, non voglio essere considerato un caso
clinico. I primi tempi in cui abitavo qui ero invaso dagli operatori del dipartimento di Salute
mentale; oggi la loro presenza è più moderata e mi condiziona meno. Comunque, non so se la
psichiatria mi abbia aiutato veramente.
Credo che il finale sia la parte più bella del libro: viene descritto il lento scorrere delle ore in
manicomio, la monotonia di ogni cosa e poi la voglia di “normalità”, il desiderio di provare
dei sentimenti. È meraviglioso il pezzo in cui lei crea una donna immaginaria da amare e da
proteggere. È riuscito mai a donare a qualcuno tutto l’amore che portava dentro? L’illusione
di vivere è diventata vita dopo l’uscita dal manicomio?
Sì. Una volta uscito dal manicomio sono riuscito a stringere dei legami d’amicizia, come quello con
Mirella, la signora che viene a farmi compagnia e a cui sono molto legato. Oggi sento solo il
bisogno di un po’ d’affetto.
Nel libro ricorda gli anni al Villaggio don Bosco di Tivoli come i più belli della sua vita: è
ancora così?
Sì, è così, anche se lì c’erano molte difficoltà. Era un villaggio per ragazzi abbandonati. A volte
scrivevo componimenti per il compleanno di don Nello, il fondatore del villaggio.
Nel corso della lettura si incontrano dei pezzi poco chiari: sono le parole di un uomo che
“grida” un dolore incomprensibile per chi non l’ha provato?
Probabilmente sì, ma sono convinto che il racconto della mia sofferenza possa aiutare qualcun’altro.