Il Manicomio di San Salvi - Giuseppe Fioravante Giannoni
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Il Manicomio di San Salvi - Giuseppe Fioravante Giannoni
Il Manicomio di San Salvi Tanti meno anni avevo quando entrai in manicomio; già ero stato in clinica tre anni per avere uno straccio di diploma, già mi ero potuto rendere conto che tutta folle era la psichiatria insegnatami. Presto mi ero accorto che gli psichiatri più folli erano dei folli che stavano in mano loro; la loro follia era senza senso mentre negli altri c’era un perché, c’era del metodo. Ma guai a dirlo: ”Lei deve sapere, caro dottore, è troppo giovanino” mi dicevano sempre gli infermieri, (però avevo quarant’anni suonati), “col tempo lo capirà come stanno le cose”; coi dottori non parlavo, era fiato sprecato. Vedevo umanità ridotta a larva, le persone spettri di se stesse immerse in ipocrita falsità , parvenza d’ospedale e di pietà ma che, al contrario, era solo oppressione. (Nella Clinica Psichiatrica ,un tempo, nella sala a sinistra dell’ingresso, davanti a quella dov’era la sala degli psichiatri, ci stava la terapia dell’acqua: dacché l’acqua fresca fa risvegliare, il meschino in cura a queii mentecatti veniva fatto entrare nella stanza e veniva investito all’improvviso da scrosci d’acqua; (e questa sarebbe stata la cura!) ed ai miei tempi al quarto reparto, quello dei sudici! l’insopportabile puzzo di merda , di rancido, di lezzo e di sudore fermentati in decenni di abbandono; dovendo andare quand’ero di guardia, davanti al naso, un batuffolo di cotone idrofilo imbevuto d’alcol denaturato mi proteggeva. In quel reparto, all’ora del pranzo, i pentoloni con la pasta asciutta capovolti sul nudo pavimento! quei disgraziati, (tanto erano già sudici di suo), portavan quella roba con le mani alla lor bocca. Ed al decimo donne, accanto al nono, le legate di notte che al mattino di piscio e di merda erano lordate venivan fatte entrare in una vasca; due infermiere, una con la sistola la innaffiava ben bene mentre l’altra, con la granata , le spazzava il davanti ed il groppone. E la “strozzina” da per tutti i reparti era la regola.. L’abbrutimento, lì dentro, era diventato sistema. Ma lì pure brillava la pazzia degli psichiatri; c’era il professor Zalla che provava, nei viali , le sue auto sportive tanto che il Nistri appellava nosodromo quei viali, c’era la professoressa dei gatti; c’era puranco il professore fobico della polvere; portava a mezza asta i calzoni e per aprire una porta fra la maniglia e la mano metteva il bianco camice; per la docenza, una psichiatra aveva inoculato, nei ratti, l’orina di schizofrenici ed aveva visto che stavan male! Me li ricordo. Avevo conosciuto gli psichiatri nella solenne Clinica Psichiatrica dove, avendo stabilito che il folle era pericoloso a sé ed agli altri , si costringeva a mangiar col cucchiaio gli spaghetti al sugo! Ed io dicevo “Chissà perché non fanno i paternostri o le marie oppur la grandinina, se non possono usare la forchetta ?” Per cui, per paradosso, in manicomio era permesso anche di fare il pazzo. Lo feci vedere al caro Còccioli una notte d’estate; era venuto a trovarmi, nel mentre ero di guardia. Urlavano i pavoni come ossessi mentre il treno, rapido sferragliava. Mi disse:: “Giuseppe, come fai a stare qui dentro? Come fai?” Senza rispondere feci una capriola sull’erba fresca. “Falla tu pure”, gli dissi. “No,no, io non la faccio”. “Ed allora io ne farò un’altra”. Dopo fatta, “Vedi “, gli dissi, “qui io la posso fare, mentre se la faccio a Careggi oppur in piazza del Duomo, mi portan qui dove la posso fare”! “Tu hai ragione”, concluse. A San Salvi, anche con le brinate, un pover’omo, d’inverno , tutto nudo si poteva lavare all’aria aperta, alla cannella del piazzale; solo a quella maniera poteva fare come gli pareva mandando a fare in culo psichiatria e norme igieniche. Ma i ricoverati a caro prezzo pagavan lo sfizio di libertà. Al caro prezzo d’esser rimbambiti dagli psicofarmaci e del subire l’elettroshock! spesso minacciato come castigo: “Se non stai buono ti mando a fare un bell’elettrsciok” La folle psichiatria credeva che la follia fosse malattia del cervello ma così dimostrava di non riconoscere un uovo al tegamino da un pollaio! La fabbrica non è la stessa cosa dell’auto che è prodotta nella fabbrica! Ché la follia in realtà è da intendere come difesa; è entrar nel paradosso del “bisogno di non comunicar comunicando” . (per far ciò si parla col non verbale oppure con significati“a latere”, allitterazioni, o consonanze, od assonanze, od assillabazioni, o raccontando fatti oppur cose. Prima di alliora c’erano stati i tanti tentativi ,, di risolvere quel “doppio legame” , il non poter sottrarsi a quei comandi paradossali, dover ubbidire allo stesso tempo a quei due comandi contrastanti che strangolano per la conseguente indecidibile interpretazione, un giochino fatale. Ma gli psichiatri non sanno arrivare a comprenderlo. Poi vennero le belle novità: in ogni reparto fu fatto un bar; se prima le monache ed i frati facevan votare per la diccì, ora si faceva votar piccì; si eran dipinte di tanti colori tante panchine; ma c’era tuttora l’elettroshock, Il largactil era somministrato sempre a pompate, c’era ancora la contenzione al letto e c’erano le porte chiuse a chiave; in manicomio. Ipocrisia ignobile che dava belletto ai morti. Cambiava tutto per cambiare niente. Ma alla fine la legge Basaglia! un “libero tutti” tanto aspettato! Un compromesso, però, che consentiva di poter continuare la vecchia psichiatria del cervello, l’uso smodato degli psicofarmaci pur con l’elettrshock, continuato a fare in qualche clinica, insieme alla medicalizzazione del disagiato (anche se permetteva, bontà sua, parlar di mente), che però consentiva alla Provincia di foraggiar case di cura private la Villa dei Pini e Poggio Sereno, ch’erano privati manicomini. Ma tanti laboratori protetti insieme alla tante case famiglia somigliavano ancora ai manicomi. Si aprirono i cancelli, uscirono larve a chieder l’elemosina, a far pensare a tanti “benpensanti” che fosse meglio prima. Come ora , se entrate in un reparto psichiatrico d’un ospedale pubblico sembra d’entrare dentro un manicomio. Non si è capito che se si medicalizza la psiche si va in delirio. (E nel delirio ci possono entrare sia gli psichiatri che gli infermieri che degli psichiatri siano al servizio). Ci sono pazzi e pazzi; chi ne soffre e chi ne gioisce, ad essere pazzo. Io gioisco. Davvero sono pazzo ed anche tanti sono pazzi perché poeti, tanti sol perché artisti. Vorrei che a tutti fosse data la possibilità d’essere pazzi ma senza soffrire, non diventando zombi ma poeti, amanti, suonatori, sognatori, andando a piantare rose nei boschi, accordandosi col cantar dei grilli suonare le chitarre e i mandolini, diventando nuvole, diventando fiori profumati, stelle oppur lucciole! Sì, l’avete capito chiaramente; son veramente pazzo ma non soffro.