Patto con islam

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Patto con islam
Patto per un islam italiano
intervista a Paolo Naso a cura di Gian Mario Gillio
in “Riforma” - settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi – del 10 febbraio
2017
Il 1° febbraio al Viminale il ministro dell’Interno Marco Minniti e le principali Associazioni dei
musulmani hanno sottoscritto il «Patto nazionale per un islam italiano». Il patto si struttura in tre
sezioni: una che richiama i principi dell’ordinamento italiano in materia di libertà religiosa; un’altra
che raccoglie gli impegni delle associazioni islamiche di fronte allo Stato italiano e, infine, una
terza che esplicita gli impegni del ministero dell’Interno. Complessivamente si tratta di un
documento «bilaterale» che, riconoscendo la rilevanza della comunità islamica in Italia, delinea
precise strategie di dialogo e confronto; rafforza l’azione di contrasto al radicalismo; sostiene i
percorsi di riconoscimento pubblico dell’islam e dei suoi ministri di culto – gli imam – e si pone
l’obiettivo di favorire l’avvio di negoziati «volti al raggiungimento di Intese».
Il processo che ha portato alla sottoscrizione del patto è stato facilitato dal Consiglio per le relazioni
con l’islam italiano, composto da studiosi ed esperti della materia e coordinato da Paolo Naso,
docente di Scienza Politica alla Sapienza Università di Roma e coordinatore della Commissione
Studi Dialogo Integrazione della Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Ne abbiamo parlato
con lui.
– Qual è il valore di questo patto?
«Riapre un percorso sul tema delle libertà religiose fermo da anni e segna una netta controtendenza
rispetto a pregiudizi e chiusure nei confronti dei musulmani. Forse sottovalutiamo che i
provvedimenti del cosiddetto islamic-ban di Trump sono stati preceduti da campagne islamofobiche
che hanno avuto come teatro principale l’Europa e che anche in Italia hanno prodotto vere e proprie
ferite alla libertà religiosa».
– Qual è la novità di questo accordo? Avevamo già visto la «Carta dei valori» sottoscritta dalle
Associazioni islamiche nel 2007 di fronte al ministro Amato.
«Per la prima volta un testo ufficiale – non a caso un “patto” – prefigura una relazione bilaterale tra
le comunità islamiche e lo Stato italiano, per cui agli impegni delle associazioni islamiche
corrispondono altrettanti impegni da parte del ministero dell’Interno: dieci articoli da una parte e
dieci dall’altra, due tavole speculari che delineano un rapporto di reciprocità».
– Qualcuno rileva che «il patto» non sia stato sottoscritto da tutto l’islam italiano…
«Il patto è stato sottoscritto da tutte le associazioni che hanno rilievo nazionale: l’Unione delle
Comunità islamiche in Italia (Ucoii) e la Confederazione islamica italiana, che insieme contano
oltre 700 centri in tutta Italia; ma anche il Centro islamico culturale d’Italia collegato alla Grande
moschea di Roma – l’unico ente che aveva ottenuto in passato il riconoscimento giuridico – e la
Comunità religiosa islamica (Coreis), nota per il suo impegno culturale e interreligioso. A queste
firme si aggiungono: l’Associazione nazionale degli imam e delle guide spirituali, le confraternite
muridi, gli sciiti e alcune associazioni nazionali come gli albanesi e così via. Mai si era creato un
fronte di rappresentanza islamica così ampio».
– Non c’è il rischio di un «islam di Stato»?
«Credo voglia alludere al “modello francese”, dove lo Stato ha nei fatti imposto delle elezioni per
selezionare una rappresentanza di musulmani con cui dialogare. Nulla di più diverso. Da anni le
associazioni islamiche partecipano a tavoli di dialogo con le Istituzioni, alla ricerca di una formula
che da una parte rappresenti la comunità nel suo complesso e dall’altra salvaguardi le identità di
ciascuna componente dell’islam in Italia. Il Patto è una tappa di questo modello partecipativo, che
ha progressivamente allargato la platea delle associazioni islamiche che hanno inteso prendere parte
a questo processo».
– Il Patto non rischia di allontanare i tempi dell’Intesa?
«Al contrario. E il ministro lo ha detto con una chiarezza mai espressa».
– Intesa o Intese?
«A ciascun giorno il suo affanno. È chiaro che una intesa “unitaria” sarebbe più facile di una serie
di intese parziali, ma ormai abbiamo vari precedenti di Intese con enti diversi afferenti alla stessa
area confessionale. Quindi l’idea dell’unica Intesa non può essere pregiudiziale ».
– Che cosa significa questo patto per gli immigrati musulmani che arrivano in Italia ora e che si
lasciano alle spalle scontri e tensioni anche in nome dell’islam?
«Che trovano moschee e centri islamici orientati a favorire l’integrazione e il dialogo con la società
italiana, imam qualificati e capaci di aiutarli a inserirsi nel nostro paese spiegando loro i principi
fondamentali che orientano la comunità nazionale».
– E per gli italiani non musulmani?
«L’auspicio è che diventi più facile e più normale avvicinarsi all’islam senza il pregiudizio negativo
di una fede “naturalmente violenta” e di fedeli “prevalentemente fanatici” o radicalizzati.
Il Patto esplicita due concetti chiave per la nostra convivenza: che in un mondo sconcertato
dall’estremismo religioso la comunità islamica italiana si impegna pubblicamente e solennemente a
contrastare il radicalismo. E che la cultura, la spiritualità e la tradizione islamica portano un
eccezionale contributo alla crescita interculturale della società italiana».
– Qualche testata ha sottolineato che lei ha messo d’accordo tutti: «un valdese ha messo d’accordo
i musulmani».
«Spunto giornalistico a effetto. L’islam italiano è ormai una solida componente della nostra società
e ha una precisa consapevolezza delle sue responsabilità nello spazio pubblico nazionale. Questa è
stata la chiave di successo del processo che ha portato al “Patto”».