Musulmani d`Italia: una scuola per gli imam

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Musulmani d`Italia: una scuola per gli imam
Musulmani d’Italia: una scuola per gli imam
Giorgio Paolucci, Avvenire, 14.02.2009, 6
Il sermone che accompagna la preghiera del venerdì nelle moschee dev’essere pronunciato in
italiano, in modo che sia possibile controllare che «non ci sia alcun tipo di predicazione e
istigazione all’odio, durante un momento che deve essere soltanto di tipo religioso». La proposta
lanciata qualche settimana fa dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha raccolto molti
consensi e qualche imam si è premurato di dire che questo già avviene in decine di luoghi di
preghiera. Dopo qualche giorno, come spesso avviene in Italia, il tema sembra essere già tornato
nel dimenticatoio, mentre continua a infuriare la polemica sulle moschee che si vorrebbero
costruire in varie città. Il vero nodo da sciogliere – al di là della questione linguistica già di per sé
rilevante – è la preparazione del personale religioso che guida le comunità musulmane, quasi
sempre sprovvisto della necessaria formazione teologica e della conoscenza degli elementi
culturali e giuridici che fondano la nostra società.
Carenze non da poco per chi svolge un ruolo che non è soltanto spirituale ma che ha grande
rilevanza nell’indirizzare idee e scelte dei fedeli. «Dobbiamo ammetterlo, abbiamo gente di basso
livello – denuncia Asfa Mahmoud, architetto giordano, presidente della Casa della cultura islamica
di Milano, dove al venerdì si radunano in quattromila per la preghiera –. Troppi gli imam
auto-proclamati, che non hanno i numeri per guidare una comunità e spiegare il Corano tenendo
conto del Paese in cui si vive, nel rispetto delle sue leggi e delle sue consuetudini, favorendo i
processi d’integrazione e sconfessando chi vuole la separazione in nome dell’identità. C’è
un’ignoranza diffusa che dev’essere superata con una formazione adeguata».
Che fare? E chi dovrebbe prendere l’iniziativa? Il marocchino Abdellah Redouane, segretario del
Centro islamico d’Italia dove ha sede la Grande Moschea di Roma, un’idea ce l’ha: un master per
imam, incardinato presso un ateneo italiano. Il curriculum di studi dovrebbe comprendere teologia
islamica, storia della civiltà islamica, mistica, diritto costituzionale italiano, diritto privato, storia
dell’Europa, diritti umani, dialogo interreligioso. Potrebbero accedervi persone che, oltre a una
sufficiente padronanza dell’italiano, possiedono già i fondamenti del sapere islamico. «Non si può
ammettere gente che parte da zero, altrimenti ci vorrebbero 15 anni di studio. Ci vorrà un esame di
ammissione per selezionare le domande: non possiamo sdoganare l’ignoranza in nome della fede
e dobbiamo offrire garanzie di serietà anche a quella parte di opinione pubblica che guarda con
diffidenza a tutto ciò che si muove all’interno delle moschee». Secondo Souad Sbai, ex presidente
della federazione delle comunità marocchine in Italia e deputata del Pdl, «la diffidenza ha le sue
buone ragioni, se consideriamo quello che varie inchieste giudiziarie hanno portato alla luce. Sono
troppi gli imam fai-da-te, troppe le moschee in cui,anziché educare alla convivenza, si predica la
separazione o l’odio per chi non è musulmano. Da troppo tempo la questione non è più soltanto
religiosa, ci sono aspetti legati alla sicurezza. Lo Stato ha il diritto e il dovere di sapere con chi ha a
che fare. La massima trasparenza su quanto viene detto durante il sermone del venerdì e sulla
preparazione di chi guida la preghiera è utile alle istituzioni ed è un bene per i tantissimi fedeli che
troppo spesso ricevono un insegnamento che strumentalizza il sentimento religioso a scopi
politici». Sia la Sbai sia Redouane propongono di rilanciare il ruolo della Consulta per l’islam
italiano (istituita nel 2005 dall’allora ministro dell’Interno Pisanu) come luogo di confronto da cui
potrebbe uscire una proposta per istituire corsi di formazione superiore per guide spirituali
islamiche, che andrebbe poi messa a punto da un gruppo di accademici ed esperti. In più la Sbai
propone l’istituzione di un albo a cui dovrebbe obbligatoriamente essere iscritto chi vuole
esercitare la funzione di imam.
«L’albo dev’essere una condizione vincolante per evitare la moltiplicazione degli pseudo-imam»,
concorda Yahya Pallavicini, segretario generale della Coreis, che vorrebbe affidarne la gestione al
ministero dell’Interno e localmente alle prefetture, «in attesa che prenda forma una rappresentanza
condivisa e riconosciuta dell’islam italiano, purificato da ingerenze di Paesi stranieri». Secondo
Pallavicini anche i corsi di formazione devono essere promossi dallo Stato italiano, «con il
contributo di organizzazioni islamiche credibili e affidabili. E devono puntare alla formazione di
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personale che possa fornire assistenza spirituale non solo nelle moschee ma anche in ospedali,
carceri, cimiteri, dove c’è una domanda di tipo religioso che chiede risposte religiose». La Coreis
ha già promosso autonomamente iniziative di formazione da cui in questi anni sono uscite decine
di imam. Tutti rigorosamente italiani, e che per ora si rivolgono a un ristretto universo di fedeli
anch’essi italiani. La partita più importante si gioca però all’interno delle comunità straniere, dove è
in atto da tempo una guerra sotterranea – e che ogni tanto fa sentire i suoi clamori anche in
su-perficie – per un’egemonia che è insieme religiosa, sociale e politica.
L’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (Ucoii), che si vanta di controllare la
stragrande maggioranza delle moschee (735 nel 2007) censite dal ministero dell’Interno, è oggetto
di contestazioni sia al suo interno sia da altre associazioni musulmane. La Consulta per l’islam
italiano – dove si sono a lungo confrontate e spesso aspramente combattute le diverse anime del
mondo musulmano e che aveva contribuito alla stesura della Carta dei valori, primo segnale
dell’accettazione dei principi che stanno a fondamento della nostra società – è stata
sostanzialmente ibernata (o piuttosto, come si mormora, definitivamente sepolta?) dall’attuale
titolare del Viminale, Roberto Maroni. Che finora si è impegnato sul versante del controllo e della
repressione delle derive fondamentaliste e terroristiche, piuttosto che sulle misure per favorire
l’integrazione. D’altra parte i tempi non sembrano ancora maturi per giungere a una
rappresentanza unitaria e condivisa dell’islam d’Italia, capace di dare vita a iniziative forti come la
promozione di un’«alta formazione» per le guide del culto.
Chi si muoverà per primo? Con quali credenziali? Con quale seguito? Da questa «palude italica »
bisogna uscire al più presto, promuovendo iniziative che garantiscano la libertà religiosa, una
preparazione teologica e culturale adeguata e in armonia con le leggi di questo Paese, nel rispetto
assoluto dei principi che fondano la convivenza civile. Altrimenti il rischio è che nella palude
nascano insidiose sabbie mobili, in cui crescono sentimenti di estraneità e ostilità. E allora sarebbe
peggio per tutti.
Samir Khalil: «In Europa si muovano gli Stati»
Intervista di Giorgio Paolucci
«La formazione degli imam è un passaggio fondamentale per arrivare alla formazione di un islam
europeo, capace di conciliarsi con la modernità e con le categorie dell’Occidente. La strada è
lunga e in salita, ma non bisogna perdere altro tempo. Ne guadagneranno i musulmani, che
avranno guide spirituali preparate, e l’intera società». Secondo il gesuita Samir Khalil, docente alla
Saint Joseph University di Beirut e islamologo di fama mondiale, «è necessario integrare
l’insegnamento islamico nel quadro degli ordinamenti universitari europei. Alla formazione di tipo
dottrinale e teologico si devono affiancare studi relativi al diritto e alla storia dei Paesi in cui si
opera. Oltre, ovviamente, alla padronanza della lingua locale che è fondamentale per avere le
coordinate della nazione in cui si vive. Gli imam devono aiutare i fedeli a sentirsi a casa e a
superare gli eventuali conflitti tra la fede musulmana e la cultura occidentale. Insomma, devono
costruire ponti, non alzare muri». Per questo Samir Khalil auspica che siano gli Stati europei a
promuovere corsi di formazione per le guide spirituali islamiche, piuttosto che quelli da cui
provengono gli immigrati, evitando così che diventino uno strumento di controllo delle comunità
all’estero. Il che, peraltro, non esclude il coinvolgimento di docenti provenienti dalle università
islamiche.
L’iniziativa presa dalle istituzioni statali sarebbe una violazione del principio di laicità, che è una
delle caratteristiche della cultura occidentale? Al contrario, risponde Samir Khalil: potrebbe aiutare
a far capire che la vera laicità non esclude la dimensione religiosa ma la considera parte integrante
nella vita di ogni individuo e fattore irrinunciabile nella costruzione della convivenza. In questo
senso sarebbe un antidoto all’impostazione fondamentalista, oggi in forte crescita, che vuole
cancellare l’autonomia della dimensione temporale da quella spirituale. E a chi lamenta il pericolo
di un’invadenza dello Stato negli affari religiosi delle comunità musulmane, risponde: «Un controllo
su quanto viene detto nelle moschee è assolutamente necessario e urgente. Lo sanno bene i
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governi dei Paesi islamici che infatti lo esercitano in varie forme, dalla lettura preventiva dei testi
dei sermoni fino alle telecamere installate nelle sale di preghiera. E non è un caso che in molti
Paesi l’imam viene stipendiato dallo Stato». Ma come sarà possibile attuare un ricambio dei
dirigenti nelle moschee? E quanto tempo sarà necessario per farlo? «Non sarà operazione né
facile né indolore, ci vorranno molti anni, ma bisogna favorire questa dinamica. Avere delle guide
preparate e che si sentano parte integrante del Paese in cui vivono conviene a tutti gli europei, non
solo ai musulmani. Perché sono diventati i vostri nuovi vicini di casa».
Francia
A lezione di laicità all’Istituto cattolico
Daniele Zappalà
Gli imam censiti in Francia sono circa un migliaio, ma gli esperti giudicano che quelli realmente
attivi siano almeno il doppio. Spesso si tratta di figure giunte negli anni Ottanta da Paesi come il
Marocco, l’Algeria e la Turchia e fra loro solo un terzo padroneggia il francese. Solo 1 su 5, inoltre,
è di nazionalità francese. Persino Mohammed Moussaoui, l’imam di origine marocchina eletto
qualche mese fa presidente del Consiglio francese del culto musulmano ( Cfcm), massima istanza
rappresentativa, attendeva ancora di essere naturalizzato al momento dell’elezione. Più del 50%
degli imam in esercizio predicano in arabo a fedeli che sono nella stragrande maggioranza
francofoni.
Preoccupate di arginare le derive radicali, le autorità consultano periodicamente i rapporti
dell’intelligence sulle situazioni sospette di apologia del terrorismo. Nei casi accertati sono state già
ordinate espulsioni verso i Paesi di origine. Ma una strategia puramente repressiva si rivela
inadeguata, come comprese Nicolas Sarkozy già all’epoca in cui, da ministro dell’Interno, favorì la
creazione del Cfcm. Era il 2003 e da allora la “formazione repubblicana degli imam” rappresenta
un tema ampiamente dibattuto. Ma un quinquennio non è bastato a trovare una soluzione univoca
alla questione ed è già lunga la lista dei fallimenti.
Da parte sua, Parigi ha chiesto a diverse università statali di offrire agli imam attuali e soprattutto
futuri dei cicli di formazione linguistica e civica (fondamenti giuridici e repubblicani) complementari
all’insegnamento teologico. Ma tutti gli atenei hanno rifiutato, avanzando il principio di laicità
dell’insegnamento pubblico. Così il Ministero dell’Interno si è rivolto alla fine all’Istituto cattolico di
Parigi, il cui rettore Pierre Cahné ha accettato la sfida schivata dalle università pubbliche: «Hanno
paura dei barbuti, la Cattolica no». Un anno fa è partito il corso “Religioni, laicità, interculturalità”:
circa 400 ore in tutto, coordinate dal sociologo delle religioni Olivier Bobineau. Di un’età media di
circa 40 anni, i primi 25 allievi erano stati già quasi tutti formati teologicamente presso la Moschea
di Parigi. Il modello, in fase sperimentale, potrebbe essere presto copiato a Lilla e Aix en
Provence, ma gli ostacoli non mancano, soprattutto nel campo musulmano. Le federazioni di
moschee più radicali non accettano che sia un’università cattolica ad impartire i corsi. In generale,
a causa dei feroci conflitti interni fra le diverse federazioni cultuali islamiche, la “commissione
formazione” del Cfcm non si riunisce più da tre anni. Il neopresidente Moussaoui, considerato
come un moderato, assicura adesso di voler smuovere le cose. Ma la strada pare tutta in salita.
Islam: confronto e autocritica per musulmani italiani. C’è anche ucoii
(ASCA) - Roma, 14.02.2009 – L’islam italiano, da anni segnato dalle aspre divisioni tra diverse
sigle, gruppi nazionali etra immigrati e italiani convertiti, prova ritessere un dialogo comune, di
fronte ad un clima politico e sociale che sembra diventare sempre più “ostile” ai musulmani:
l’occasione è stato il Forum nazionale sull’islam in Italia organizzato questa mattina a Roma dal
sito minareti.it.
L'incontro ha registrato la partecipazione di esponenti di moschee di tutto il Paese, da Napoli a
Torino, da Roma a Milano, assieme alla presenza di professori universitari cattolici, valdesi e della
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Comunità di Sant'Egidio. All’incontro ha partecipato anche l’Ucoii, con il suo portavoce Izzedin Elzir
della moschea di Firenze, che ha illustrato i meccanismi di democrazia interna e partecipazione
della sua comunità (tra i sette membri eletti che guidano la comunità ci sono anche due donne), e
l’impegno nel dialogo interreligioso, con scambio di reciproche visite con la sinagoga di Firenze.
Una “eccezione che conferma la regola”, quella fiorentina, secondo SergioYahya Pallavicini della
Coreis, per il quale è comunque necessario “ricercare una dimensione pacificata” all’interno
dell’islam italiano e con quanti “nonostante le pressioni” lavorano in questa direzione. Quello
attuale, ha aggiunto, è un momento storico importante per porre fine a una campagna di odio di
carattere ideologico”.
La presenza dell’Ucoii e del presidente dell’Istituto culturale islamico di Viale Jenner a Milano,
Abdelhamid Shaari, ha comunque provocato la defezione all’ultimo minuto dell’Associazione
Intellettuali Musulmani e della Grande Moschea di Roma, l’unico “volto” dell’islam italiano
riconosciuto dallo Stato. Motivo del rifiuto, aveva spiegato ieri in un comunicato Ahmad Gianpiero
Vincenzo presidente dell’associazione Intellettuali Musulmani, era proprio il fatto che l’evento
sembrasse ideato “per ridare legittimità” a organizzazioni vicine ai movimenti fondamentalisti,
prima di tutti la moschea di viale Jenner a Milano”.
“Stupisce -aggiungeva Vincenzo - la presenza di personalità estranee almondo islamico, che già in
passato hanno a vario titolo espresso il loro appoggio nei confronti di organizzazioni come l’Ucoii”.
Nel suo intervento Shaari, dell’Istituto milanese di Viale Jenner, ha ribadito che “il musulmano ha
l’obbligo religioso di rispettare le leggi del Paese che lo accoglie”, ma chiede allo stesso tempo
“rispetto reciproco e soluzioni condivise” per la convivenza. L’accento sembra andare comunque
verso il superamento delle divisioni interne all’islam italiano: “Abbiamo difetti e siamo divisi - ha
detto Shaari - ma dobbiamo trovare delle soluzioni adatte tra di noi”.
Sullo stesso tono Abdelaziz Khounati della Unione Musulmani Italiani (Umi), “non dobbiamo
portare nella società italiana le ideologie e la realtà da cui siamo venuti”. Sul piano concreto, dalla
diversità di voci del Forum sono emerse comunque alcune esigenze fondamentali: la trasparenza
nelle moschee, anche dal punto di vista del loro finanziamento; la necessità di imam preparati che
conoscano l’Italia e l’italiano, magari - ha proposto Elzir - con corsi di italiano per i fedeli e corsi di
formazione per gli imam; e la piena autonomia da ingerenze statali e politiche, tanto di
organizzazioni e partiti quando di “Stati stranieri”. Ma è stato anche ribadito il diritto ai luoghi di
culto dignitosi, sanzionato dalla Costituzione, e il rifiuto di disegni di legge “discriminatori” e
“anticostituzionali” come il ddl della Lega sulle moschee.
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