Venanzio Fortunato e il suo tempo

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Venanzio Fortunato e il suo tempo
FONDAZIONE CASSAMARCA
Convegno internazionale
di studio
Piazza S. Leonardo, 1 - 31100 Treviso
e-mail: [email protected]
Venanzio Fortunato e il suo tempo
Venanzio Fortunato
e il suo tempo
Va l d o b b i a d e n e ,
C h i e s a d i S . G re g o r i o M a g n o
2 9 n o v e m b re 2 0 0 1
Tr e v i s o ,
C a s a d e i C a r r a re s i
3 0 n o v e m b re - 1 d i c e m b re 2 0 0 1
Convegno internazionale di studio
Venanzio Fortunato
e il suo tempo
Valdobbiadene, Chiesa di S. Gregorio Magno
29 novembre 2001
Treviso, Casa dei Carraresi
30 novembre - 1 dicembre 2001
Indice
Pag. 7
Saluti
DINO DE POLI
Presidente Fondazione Cassamarca
PIETRO GIORGIO DAVÌ
Sindaco di Valdobbiadene
DON MARCELLO BETTIN
Parroco di Valdobbiadene
PAOLO PECORARI
Università degli studi di Udine
Pag. 15
Venanzio Fortunato e la società del VI secolo
CRISTINA LA ROCCA
Università degli studi di Padova
Pag. 37
Profilo biografico di Venanzio Fortunato
STEFANO DI BRAZZANO
Pag. 73
Presentazione del primo volume
delle Opere di Venanzio Fortunato
GIORGIO FEDALTO
Università degli studi di Padova
Pag. 79
Una nuova occasione per un “Poeta d’occasione”:
il Venanzio Fortunato di Stefano Di Brazzano
PAOLO MANTOVANELLI
Università degli studi di Padova
Pag. 87
Venanzio Fortunato: monumenti ed estetica
In margine alla nuova edizione delle sue opere
SERGIO TAVANO
Università degli studi di Trieste
Pag. 103
L’agiografia di Venanzio Fortunato
SOFIA BOESCH GAJANO
Università degli studi Roma Tre
Pag. 117
Venanzio Fortunato e Radegonda.
I margini oscuri di un’amicizia spirituale
MARTA CRISTIANI
Università di Roma - Tor Vergata
Pag. 133
La Vie d’Hilaire de Fortunat de Poitiers:
du docteur au thaumaturge
YVES-MARIE DUVAL
Università di Parigi X (Francia)
5
Pag. 153
L’immagine del vescovo nelle biografie in prosa
di Venanzio Fortunato
DAVIDE FIOCCO
Seminario di Belluno
Pag. 171
La Vita Martini di Sulpicio Severo e la parafrasi
esametrica di Venanzio Fortunato
ANTONIO V. NAZZARO
Università degli studi di Napoli “Federico II”
Pag. 211
I carmina figurata di Venanzio Fortunato
GIOVANNI POLARA
Università degli studi di Napoli “Federico II”
Pag. 231
Parlare di sè: Venanzio poeta ai suoi lettori
FRANCA E. CONSOLINO
Università degli studi dell’Aquila
Pag. 269
Venanzio Fortunato nella poesia mediolatina
FRANCESCO STELLA
Università degli studi di Siena
Pag. 291
Le prefazioni alle vitae in prosa di Venanzio Fortunato
PAOLA SANTORELLI
Università degli studi di Napoli “Federico II”
Pag. 317
Fortunat, chantre chrétien de la nature
LUCE PIETRI
Université de Paris-Sorbonne (Francia)
Pag. 331
Venanzio Fortunato e le vie della devozione
GUIDO ROSADA
Università degli studi di Padova
Pag. 363
Venanzio Fortunato e lo scisma dei Tre Capitoli
RAJKO BRATOŽ
Università di Ljubljana (Slovenia)
Pag. 403
Venanzio Fortunato e
la tradizione teologica aquileiese
ALESSIO PERŠIČ
Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
Pag. 465
Conclusioni
ALBERTO VECCHI
Università degli studi di Padova
6
DINO DE POLI
Presidente Fondazione Cassamarca
Siamo molto lieti di aver trovato l’occasione di restaurare
questa magnifica Chiesa di Valdobbiadene e di poterla poi
dedicare ad attività culturali, oltre che a presenze religiose
significative nei momenti significativi della vita liturgica.
Valdobbiadene deve scrollarsi di dosso, per così dire, la
propria felicità per poter inserirsi nel flusso della vita con tutti
i suoi tentacoli, con tutte le sue difficoltà, che sono però lo
sprone perché si ricerchi il vero e il bene.
Abbiamo voluto iniziare, partendo proprio da questa
sede, un ciclo di iniziative attorno agli uomini più significativi di Treviso, nel loro tempo, cominciando da Venanzio Fortunato, uomo che ha avuto le sue radici in Valdobbiadene.
L’idea è di continuare con altri illustri personaggi, ad
esempio il valdobbiadenese Boccassino.
L’intento è quello di alzare, come si può e quando si può,
il livello della responsabilità, della coscienza, della visione
delle cose, in un tempo che è dominato dalla futilità, dall’utilità dell’immediato presente, che non crede nell’invisibile,
che è la sola e vera grande forza del genere umano, che
pare abbia bisogno di toccare, di sentire, di annusare, di
possedere per credere di essere vivo.
Attraverso queste iniziative portiamo un contributo indiretto perché cresca il livello della responsabilità e della
coscienza di essere uomini, come persone che hanno come
loro destino l’eternità.
7
PIETRO GIORGIO DAVÌ
Sindaco di Valdobbiadene
Porto i saluti dell’Amministrazione Comunale e, a nome
di tutti i cittadini di Valdobbiadene, vorrei ringraziare l’on. De
Poli, presidente della Fondazione Cassamarca, per questo
intervento di pregio nel comune di Valdobbiadene, che ha
portato al restauro di questa chiesa dell’anno milleduecento, che da anni non era in un bello stato.
Dispiace che, proprio in questa settimana in cui andiamo
ad inaugurare questo monumento a Valdobbiadene, un altro
edificio storico cittadino sia stato distrutto a causa di un
incendio.
Questa chiesa, viene oggi inaugurata dopo il restauro
con un Convegno dedicato a S. Venanzio Fortunato, che ha
avuto i natali proprio qui a Valdobbiadene, che, come diceva nei suoi libri chiamava “vallata du plavenis”, e precisamente in Cordana, in Borgo Cordanis.
Si tratta del personaggio più noto e famoso tra tutti i cittadini valdobbiadenesi.
È stato, infatti, uno dei più grandi autori di letterarura religiosa, famoso il tutto il mondo per la stesura di inni sacri.
Proprio adesso, mentre stiamo parlando, ci sarà in qualche parte del mondo, in qualche chiesa del mondo, qualcuno che starà suonando uno di questi inni.
Dispiace una cosa: che Valdobbiadene a questo personaggio famoso abbia dedicato solamente una via e una
scuola, e non abbia creato un’associazione che possa portare nel mondo, ai giovani, la conoscenza di questo personaggio e della sua letteratura.
Dobbiamo fare, dunque, un’autocritica, poiché non
abbiamo saputo lanciare il messaggio culturale di San
Venanzio Fortunato.
Credo sia impegno di tutti i valdobbiadenesi, con la
Parrocchia, l’Amministrazione Comunale e in collaborazione
con la Fondazione Cassamarca, iniziare da oggi a far conoscere, soprattutto ai giovani, questo personaggio di grande
valore letterario e culturale.
9
DON MARCELLO BETTIN
Parroco di Valdobbiadene
Anzitutto mi faccio portavoce del Vescovo della Diocesi di
Padova, sotto la cui giurisdizione canonica, da tempi remoti,
appartiene la parrocchia e il vicariato di Valdobbia-dene:
“Pace e bene nel Signore. Ringrazio sentitamente della
segnalazione riguardante il convegno internaazionale di studio su ‘Venanzio Fortunato e il suo tempo’, promosso dalla
Fondazione Cassamarca e che si svolgerà a Valdobbiadene
nel 29 novembre e poi a Treviso fino al primo dicembre
prossimi.
Improrogabili impegni pastorali non mi consentono, purtroppo, di intervenire. Ti chiedo la cortesia però di significare il signor Presidente della Fondazione, on. Dino De Poli, il
mio vivo compiacimento e il più sincero apprezzamento per
l’iniziativa intesa a promuovere la conoscenza di codesto
personaggio, originario di Valdobbiadene, grande per la
santità e la cultura, importante quindi non solo per la chiesa,
ma anche per la società e la storia.
Desidero esprimere, tuo gentile tramite, il mio vivo compiacimento agli organizzatori, porgere un deferente saluto
agli illustri relatori, con i più fervidi auguri per il felice esisto dell’importante manifestazione, mentre, con sensi, di rinnovata gratitudine e stima, mi confermo devotissimo in
Cristo.
Don Antonio Mattiazzo, Arcivescovo di Padova”.
La comunità di Valdobbiadene, in particolare la parrocchia, vuole esprimere, mio tramite, la grande gioia per questo evento, che riapre le porte di una chiesa cara a tutta la
nostra antica tradizione cristiana, proprio per commemorare
un suo lontano figlio, insigne per cultura, arte e santità.
Il Papa San Gregorio Magno e il Vescovo San Venanzio
Fortunato, ognuno con il proprio carisma e la propria missione, illuminano la scena della seconda metà del sesto
secolo, pur non essendosi mai incontrati.
Ma quello che interessa la storia di questa nostra terra,
allora forse denominata “Valle du plavenis”, è che in questi
due santi ci siamo riconosciuti per secoli, nella devozione e
nella civilità.
11
A San Gregorio si ricollega la tradizione di promozione
rurale, propria della famiglia religiosa dei benedettini, che
nella pedemontana aveva fondato numerosi monasteri.
Più distaccata invece la devozione al grande concittadino San Venanzio Fortunato, il quale, in età ancora giovanile,
lascia la sua casa per attraversare gran parte dell’Europa
allora emergente; ma sempre si conservò nei secoli il suo
ricordo, indicando perfino il luogo probabile dei suoi natali,
in una piccola borgata, che, come ha detto il signor
Sindaco, prende il nome da un modesto corso d’acqua che
l’attraversa, la Cordana.
Questa terra, ricca di acque, di boschi, di vigneti, già
segnata dalla civiltà latina, rimarrà impressa nel ricordo di
Venanzio Fortunato: la terra dei suoi padri, così come si
esprime nel commiato della sua opera che forse gli fu più
cara, “La vita di San Martino”:
“Ti prego di dare un breve saluto agli amici di
Valdobbiadene, paese natio della mia famiglia, dimora degli
avi, paese di origine dei miei genitori, di mio fratello, di mia
sorella, della schiera dei miei nipoti che amo con cuore sincero”.
Siamo dunque profondamente grati alla Fondazione
Cassamarca, e principalmente al suo Presidente, on. Dino
De Poli, per aver preso la generosa e lungimirante iniziativa
di sostenere il radicale restauro di questa antica chiesa di
San Giorgio e promuovere un convegno internazionale su
Venanzio Fortunato, il suo tempo.
Un grato saluto ai promotori, al comitato scientifico, ai
relatori del convegno stesso e un saluto cordiale di benvenuto a tutti voi che ci onorate con la vostra presenza.
12
PAOLO PECORARI
Università degli studi di Udine
Autorità, signore, signori,
il convegno su “Venanzio Fortunato e il suo tempo”, che
oggi si apre, è stato scientificamente preparato dai colleghi
Giorgio Fedalto, Luciano Gargan, Paolo Mantovanelli e
Sergio Tavano, il cui lavoro di ideazione e progettazione ho
avuto l’onore di coordinare. A ciascuno di essi esprimo il mio
più cordiale, sentito ringraziamento. Il convegno costituisce
la prima iniziativa di un vasto programma di attività al quale
sta lavorando il “Comitato Venanzio Fortunato di studi e
ricerche storiche”, istituito dal Presidente della Fondazione
Cassamarca, on. Dino De Poli, presieduto da chi vi parla e
composto da Giorgio T. Bagni, Andrea Cason, Leone
Cecchetto ed Eugenio Manzato.
Tale Comitato ha l’incarico di promuovere studi di storia
e di storiografia condotti con metodo rigorosamente scientifico e aperti al dialogo interdisciplinare, inteso come tentativo di comprensione critica della complessità storica della
Marca trevigiana, nella molteplicità dei suoi aspetti economici, politici, sociali, religiosi, artistici, linguistici, dal tardo
antico all’età contemporanea. La regionalità cui ci si riferisce
nulla ha in comune con il localismo, con la compiaciuta celebrazione di più o meno statiche e nostalgiche memorie del
passato, ma tiene conto dei due modi oggi prevalenti in letteratura di intendere la storia locale: quello incline a cogliervi l’espressione della concreta ricerca sui grandi temi o problemi di storia generale riflessi in un’area circoscritta e quello che la considera una possibile forma, forse la sola effettivamente possibile, di historire à part entière, di storia ‘globale’. L’apertura verso la ‘globalità’ è suggerita anche dalla
consapevolezza che il processo di revisione teorica e metodologica in corso su queste questioni pone numerosi, e non
ancora risolti, interrogativi circa l’assimibilità della microstoria al più ampio discorso storiografico, specie quando la
dimensione locale non sia assunta come spazio geografico
commisurato ai temi affrontati o quando, a fortiori, la medesima dimensione si trasformi in pretesto per trascurare i
nessi che interconnettono, nella continuità e nella discontinuità, il particolare al generale, e viceversa. Ma di ciò, ovviamente, si potrebbe discutere a lungo.
Diamo ora inizio ai lavori del convegno con la relazione
della prof.ssa Cristina La Rocca.
13
MARIA CRISTINA LA ROCCA
Dipartimento di Storia Università degli studi di Padova
Venanzio Fortunato
e la società del VI secolo *
1. Il VI secolo e il recente dibattito storiografico
L’esperienza di Venanzio Fortunato, non solo di poeta e
agiografo, ma soprattutto di individuo, si svolse in un contesto cronologico e geografico di eccezionale interesse.
La seconda metà del secolo VI costituisce infatti un momento di cruciale importanza per il passaggio dalla società tardoantica a quella altomedievale, e il regno dei Franchi rappresenta indubbiamente l’osservatorio privilegiato per esaminare lo sviluppo delle nuove forme di autorità regia, di
supremazia politica e di pratiche aristocratiche che portarono, nel corso del secolo VIII, all’emergere non soltanto della
dinastia dei Pipinidi e della creazione dell’unità carolingia,
ma anche alla nascita di una ideologia politica stabilmente
basata sul coerente rapporto tra istituzioni pubbliche e istituzioni ecclesiastiche1. Proprio la sua posizione di ponte tra
un epoca e un’altra non ha però giovato agli studi su questo
periodo. A cavallo com’è tra due discipline accademiche –
la storia romana e la storia medievale – la società del secolo VI è stata osservata secondo due prospettive divergenti,
ma entrambe sminuenti: mentre per i tardoantichisti essa
costituisce il momento finale di destrutturazione dei fenomeni del passato, gli altomedievisti tendono invece a interpretarla come fenomeno di embrionale novità. Enfatizzando
rispettivamente ciò che del passato vi è ancora, con lo
sguardo malinconicamente rivolto all’indietro, oppure ciò
che del futuro vi è già, con la mente proiettata verso il futuro, le caratteristiche intrinseche del VI secolo finiscono col
diventare solo una rozza e informe somma di elementi ‘finali’ oppure di aspetti ‘preparatori’2.
Nel caso di Venanzio, poi, questa tendenza è stata ulteriormente accentuata dalle stesse vicende biografiche del
poeta. Nato in Italia durante il lungo conflitto che oppose l’esercito dei Goti a quello imperiale, ma operante nel regno
15
dei Franchi, Venanzio è stato a lungo studiato come italiano
in terra straniera e la sua produzione è stata valutata tracciando una linea di confine tra le caratteristiche culturali
‘romane’ del decadente e opportunista Venanzio, a confronto con quelle ‘germaniche’, rozze e incolte dei suoi sponsor
franchi, non senza una venatura di disprezzo nel constatare
il prostrarsi dei raffinati strumenti retorici e poetici della tradizione classica nell’omaggiare un pubblico ‘barbaro’, incapace di apprezzarli compiutamente3. Ma questa rigida
separazione etnica e culturale sembra più il frutto di ricostruzioni storiografiche che non della realtà: se è pur vero
che una volta Venanzio si definisce italus, questo termine è
utilizzato soltanto per indicare la distanza geografica del suo
luogo di origine4; i lavori di Walter Goffart, poi, hanno dimostrato che il termine barbarus era utilizzato nel VI secolo
come etichetta neutra, priva di qualsiasi significato dispregiativo, che gli stessi Franchi o i Burgundi non disdegnarono di applicare a sé stessi5, senza contare che lo stesso
Venanzio lo applicò a persone che intendeva lodare6.
Come si è potuto accertare nella più recente storiografia,
a partire dal III secolo barbari e romani facevano parte di
uno stesso sistema, di cui il mondo romano costituiva il centro e i barbari, stanziati ai suoi confini, la periferia. Il mondo
romano stimolava i barbari a diventare parte attiva del centro attraverso una complessa dinamica di integrazione, stimolandone i bisogni, accrescendone la stabilità sociale, fornendo i simboli e gli oggetti materiali di ostentazione del
prestigio.7 In particolare nelle aree di frontiera, i modelli di
affermazione sociale furono ispirati all’attività militare e furono interpretati e utilizzati su un identico piano sia dai barbari sia dai romani, come prova, tra l’altro, la nascita di uno
specifico corredo funerario maschile, dotato di armi e cinture8. La coscienza di una separazione etnica oltre che istituzionale tra le due componenti della società venne quindi
soppiantata, a partire dal V secolo, dallo svilupparsi di identità etniche totalmente fittizie dal punto di vista biologico, ma
invece molto attive e proficue sul piano politico e culturale. I
Franchi di Childerico alla metà del secolo V e i Franchi del
tempo di Sigeberto e Chilperico alla metà del secolo successivo non hanno in comune che il nome, poiché le loro
caratteristiche biologiche, sociali e culturali si erano totalmente trasformate, non da ultimo perché il nome Francus
andò a qualificare tutti coloro che, indipendentemente dalle
loro origini etniche, riconoscevano la supremazia politica dei
re merovingi9. Allo stesso modo in cui la confederazione di
16
popoli che, in nome della fedeltà al clan degli Amali, si stanziò in Italia sotto il nome di Goti nel 493, non aveva niente da
spartire con coloro che si denominavano Goti cinquant’anni
più tardi10: se ha ragione Patrick Amory questo nome venne
infatti a indicare tutti coloro che ricoprivano le cariche militari, indipendentemente dalle loro radici biologiche11.
Se la fine del mondo romano si manifestò in modi e tempi
assai diversi nelle varie regioni dell’Impero, essa si avviò
soprattutto quando i funzionari imperiali cessarono di agire in
quanto delegati del potere centrale e utilizzarono invece, per
dominare, la loro leadership, fondata sul prestigio militare, le
alleanze e le clientele che essi avevano costruito localmente.
In questo processo venne dunque meno il ruolo dello stato
nell’organizzare e disciplinare le gerarchie sociali attraverso
titoli pubblici: perciò la competizione tra le élites divenne uno
dei fattori principali di azione della vita politica e sociale12. In
questa prospettiva, tra il regno dei Franchi ove Venanzio
andò a risiedere e quello dei Goti, presso i quali il poeta
aveva trascorso la giovinezza, vi erano molte più similitudini
di quanto le etichette etniche abbiano portato a credere.
2. Venanzio e i suoi patroni
Inoltre il supporre una netta contrapposizione culturale
tra il poeta e i suoi committenti ha fatto sì che abbia prevalso, nel valutare le informazioni offerte da Venanzio, il suo
punto di vista come semplice osservatore passivo, o tutt’al
più come mistificatore dei fatti, e non quello di Venanzio
come personaggio attivo, apprezzato e richiesto interprete
delle ambizioni e delle tensioni della società in cui egli
agiva, considerando cioè il rapporto che venne instaurandosi tra il poeta e i suoi committenti e le dinamiche della loro
relazione. Se osservata da questa prospettiva, la produzione encomiastica di Venanzio non è infatti di semplice valore
constatativo, di documentazione della realtà – ancorché
rivestita di una patina antica e nobilitante –, ma acquista un
forte valore propositivo, generatore di modelli e di comportamenti, specchio della cultura letteraria, dei pregiudizi, dei
progetti delle élites del VI secolo, e soprattutto delle loro difficoltà. La stessa carriera di Venanzio da poeta, a presbyter
sodale della regina Radegonda e infine a vescovo di
Poitiers13 è la prova di quanto l’abilità letteraria fosse tenuta
in considerazione presso la società franca del VI secolo14.
Come è stato osservato da più parti, la principale fonte
17
su Venanzio Fortunato, sulla sua vita e sulle sue opere, è
quanto egli stesso ci ha tramandato di sé. Questo costituisce una particolarità del nostro autore che forse non è stata
sufficientemente sottolineata, poiché, a dispetto della
varietà di individui e di ruoli sociali con cui Venanzio ebbe a
che fare nel corso della sua vita, questi rapporti sono singolarmente caratterizzati dalla mancanza di reciprocità, per lo
meno di reciprocità scritta. Lo stesso Gregorio di Tours, il cui
rapporto con Venanzio appare improntato dall’amicizia e
dalla solidarietà, non gli dedica che una scarna riga nelle
sue Historiae, e solo in quanto presbyter autore della Vita
Beati Germani, dimostrando di non volersi affatto dilungare
né sulle sue qualità poetiche, né sulla sua personalità15. A
fronte delle centinaia di epistolae redatte da Venanzio, non
ci è stata tramandata nessuna epistola a lui scritta, sebbene
in qualche caso egli stesso testimoni di essere in regolare
consuetudine con alcune figure laiche ed ecclesiastiche16.
Questa unidirezionalità di rapporti deve farci riflettere su uno
degli aspetti preminenti della società del VI secolo, pienamente testimoniata dagli scritti di Venanzio e dalla struttura
stessa della sua opera, organizzata per gruppi sociali di
destinatari: per Venanzio come per i suoi illustri interlocutori, l’altissimo grado di instabilità delle élites rendeva necessario ostentare e ribadire costantemente gli aspetti visibili e
condivisibili della preminenza. Il ruolo che Venanzio si ritagliò in seno alla società merovingia – o perlomeno quello
che lui stesso volle sottolineare di sé – è infatti quello di maestro della parola e della poesia: parole sapientemente ordinate a dare luce e anima alle caratteristiche altrui sono il
peculiarissimo oggetto del rapporto che Venanzio instaura
con coloro a cui dedica i suoi versi. Si tratta di relazioni presentate come diseguali, intrecciate da una posizione di
subalternità, veri e propri doni ai potenti. Ma si tratta di falso
understatement. Le qualità oratorie e poetiche che costantemente Venanzio esalta nei suoi patroni sono infatti quelle in
cui egli stesso sa di primeggiare: magnificandole nei suoi
interlocutori egli le propone come categorie di distinzione
sociale e di eccellenza che servono a qualificare prima di
tutto lui stesso di fronte al suo uditorio17.
Della realtà delle relazioni sociali di Venanzio sono spia
ben più efficace le lettere di raccomandazione che egli stesso rivolge ai vescovi locali a favore di suoi propri protegés –
come nel caso in cui egli si fa da tramite con il vescovo
Siagrio di Autumn per il pagamento di un riscatto per un
servo, oppure quando, in numerose occasioni, sollecita
18
Gregorio di Tours a liberare ragazze accusate di furto e
ingiustamente imprigionate18 –: esse testimoniano che
Venanzio, a un certo punto della sua carriera, era perfettamente in grado di attivare un certo numero di rapporti di
subordinazione. Anche i piccoli componimenti occasionali
svelano la capacità di Venanzio di instaurare rapporti paritari di familiarità: ne siano un esempio per tutti le conchiglie
portate in dono a Placidina, che, in quanto dono gratuito e
fuggevole, testimoniano la qualità della relazione di intimità
personale che il poeta aveva instaurato con la illustre moglie
del vescovo Leonzio di Bordeaux19.
3. Il problema della nobilitas
Sarebbe perciò un errore pensare che l’immagine di
instabilità che Venanzio stesso enfatizza di sé, cioè quella
del topolino alla ricerca di cibo alla tavola dei potenti20, fosse
un elemento a lui peculiare: tutta la società con cui Venanzio
ha rapporti vive, con la stessa intensità, seppur su piani e
modi diversi, nella necessità di vedere confermate e apprezzate le proprie specificità per dimostrare di appartenere alle
élites nel presente, e per trasmettere una tale eredità immateriale alla generazione successiva.
La produzione di Venanzio è perciò osservabile come
elemento attivamente ricercato per confermare o proporre la
supremazia di coloro a cui i carmina sono dedicati: uno dei
fili rossi dei carmi di Venanzio è infatti quello della stabilità
sociale, o meglio quello delle prove attraverso le quali la stabilità dei ruoli sociali può essere confermata e ribadita.
Come Venanzio aveva certo sperimentato durante la sua
giovinezza, vissuta durante il breve e contrastato momento
della restaurazione imperiale in Italia, la stabilità sociale era
l’oggetto controverso di due modelli in antitesi tra di loro: da
un lato, un modello di tipo pubblico, ove era lo stato ad
assegnare e garantire, attraverso propri titoli onorifici, la
posizione del singolo e del suo gruppo famigliare all’interno
della società. Dall’altro un modello più incerto e labile, ma
certo diffusissimo, perché lasciava ampio spazio alle possibilità individuali, all’interno del quale la rilevanza sociale si
estrinsecava attraverso la stabilità dei propri legami personali, la disponibilità di terra, la capacità di enucleare attorno
a sé gruppi di fedeli armati, oppure di sottoposti: insomma
vincoli privati di natura militare e familiare, di subordinazione o di pari livello sociale, che prevedevano un grande inve19
stimento di energie, materiali e politiche, nel ribadire costantemente di fronte al proprio pubblico la continuità di tali prerogative. Tale supremazia, o leadership, però, non poteva
contare su una titolatura ufficiale che la fissasse stabilmente all’interno delle gerarchie sociali, ma solo sugli epiteti
onorifici derivati dalla coscienza dinastica del gruppo familiare nelle generazioni, dalle imprese militari, dai legami di
protezione instaurati verso l’alto e dalle relazioni di reciprocità attivate attraverso il sistematico scambio dei doni21.
È bene chiarire che la compresenza di questi due modelli di affermazione sociale – il primo che tendeva a basarsi
sulla tradizione, il secondo sulle possibilità del presente – si
riverberava in pieno anche sulla componente ecclesiastica,
che da quegli stessi gruppi aristocratici era tratta. La nomina
vescovile, ad esempio, si trovava in continua oscillazione nel
conflitto tra gruppi familiari che ne avevano dinastizzato la
carica, i gruppi aristocratici loro rivali all’interno della stessa
comunità, e infine le fazioni nate all’interno del clero locale.
Le Historiae di Gregorio di Tours mostrano infatti numerosi
esempi delle ambizioni nate in seno al gruppo degli arcidiaconi che tendevano a presentarsi quali naturali successori
del proprio vescovo, e della loro capacità di mobilitare le proprie fazioni di sostenitori locali22.
A questa continua negoziazione con la società locale, si
aggiunga, per i laici come per gli ecclesiastici, la diretta ingerenza del re nella nomina vescovile come in quella degli ufficiali pubblici: il processo di rafforzamento e di separazione
della famiglia merovingia dalle altre famiglie aristocratiche del
regno era infatti consistito nel porsi al centro dei destini individuali dei funzionari, che spesso venivano designati senza
avere nessun legame locale – né familiare né patrimoniale –
con la loro sede, riservandosi il diritto di rimuoverli dalla loro
carica non appena il loro rapporto di coesione con il re fosse
venuto meno. Secondo Venanzio, lo stesso Gregorio doveva
la sua nomina di vescovo di Tours all’intervento diretto di re
Sigiberto e della moglie Brunilde23, mentre i suoi beni e le sue
relazioni familiari erano incentrati in Burgundia e in Alvernia24.
Il potere pubblico e il potere episcopale operavano dunque
in una stretta contiguità e reciprocità di rapporti con il potere
regio: se al re era necessario il supporto dei propri fedeli
armati, ugualmente necessario gli era l’appoggio dei vescovi
nelle principali città. Inoltre, così come il mantenimento dello
status aristocratico era garantito dalla continuità di sintonia
con il re, così i chierici necessitavano del supporto regio per
effettuare la propria ascesa vescovile. In questa prospettiva,
20
la separazione, anche di recente proposta, tra i carmina di
Venanzio dedicati ai vescovi da quelli dedicati all’aristocrazia
laica, tende a nascondere le origini comuni di questi due
gruppi e dunque la problematica sociale che entrambi pienamente condividevano25.
Un caso significativo è quello del gruppo familiare del
vescovo Avito di Clermont, imparentato con Sidonio
Apollinare, la cui dinastia cessò di avere ogni rilevanza nella
sede originaria della famiglia, potenziandosi successivamente a Bordeaux, con la coppia vescovile formata da
Leonzio e dalla moglie Placidina26, a cui Venanzio dedicò
numerosi suoi componimenti. Il carme I 15, in lode di
Leonzio, si apre anzitutto precisando le basi della sua eccellenza sociale: il primo elemento che identifica lo status di
Leonzio è il suo legame diretto con il re Childeberto I e l’attività militare che egli ha svolto al seguito del re, presentando il background di fedeltà e di valore in guerra come il fattore che ha permesso a Leonzio di ascendere alla carica
vescovile27. Il secondo elemento è quello dell’antichità della
sua stirpe, la quale però non ha di per sé una funzione nobilitante, ma risulta prestigiosa solo in quanto avvalorata dalle
azioni compiute da Leonzio. La stirpe è paragonata, in
modo assai efficace, a una antica villa che non è andata in
rovina nel corso del tempo, ma è stata restaurata e rinnovata dallo stesso Leonzio28. Il rapporto di legittimità è quindi
rovesciato: è l’agire di Leonzio che nobilita l’antico prestigio
dei suoi antenati e non vice versa. Per Venanzio e per
Leonzio, dunque, la coscienza dinastica, l’illustre e nobile
progenie del passato, non sono un elemento sufficiente per
essere definiti nobili, poiché le origini devono trovare una
loro conferma nel presente. La nobiltà non è allora presentata come elemento dal movimento discendente, che si trasmette geneticamente nelle generazioni, bensì all’inverso: la
stirpe è solo la radice di una pianta, di cui Leonzio è il frutto
fronzuto che la riveste e la abbellisce29.
È interessante che per esemplificare la trasmissione
della nobilitas Venanzio ricorra a immagini edilizie di tipo
archeologico, quali gli scavi ci riportano con grande intensità proprio nel territorio di Bordeaux: si tratta infatti di un
paesaggio fittamente occupato da residenze rurali aristocratiche costruite in età classica che subiscono, nel corso
del V e del VI secolo, una notevole fase di rioccupazione e
di risistemazione edilizia, che comprende in alcuni casi l’ampliamento degli spazi abitativi, in altri il mutamento di destinazione di alcune parti residenziali in edifici di culto30. In altri
21
tre carmi lo stesso Leonzio è celebrato da Venanzio proprio
per i restauri da lui fatti eseguire su antichi edifici abbandonati, che sono riportati a nuovo splendore, come la villa porticata di cui Leonzio ha restaurato l’impianto termale31. Né i
paragoni edilizi sono peculiarità dell’agire vescovile: anche
il duca Launebode è illustre per le sue attività che nobilitano
i suoi avi, e la prova edilizia del loro valore è utilizzata da
Venanzio come elemento visibile e noto a tutti32.
Nel sottolineare la necessità dell’agire nel presente per
rendere vivo il passato, definendo lo status aristocratico come
organico bilancio tra tradizione dinastica e attualità, Venanzio
fa dunque riferimento a immagini concrete che erano percepite e comprese con chiarezza dal suo uditorio proprio in
quanto facevano parte integrante del paesaggio visivo locale, oltre che essere, naturalmente, il prodotto stesso delle
attività edilizie dei suoi interlocutori. Nel fare ciò Venanzio
dichiarava del tutto sorpassata l’idea antica che riservava ai
soli costruttori di edifici nuovi il plauso e il pubblico riconoscimento, che aveva permesso ad Ammiano Marcellino di
biasimare un praefectus urbis perché si faceva passare per
fondatore di edifici che aveva in realtà solo riadattato33.
Il tema della nobilitas viene poi saldamente agganciato
alla figura regia e al rapporto di fedeltà instaurato con il re.
Nell’epitaffio redatto per lo stesso Leonzio si ribadisce infatti
che la sua preminenza deriva sì dalle sue origini “quale
genus Romae forte senatus habet”, ma precisando, subito
dopo, che questa caratteristica è resa attuale dai legami
instaurati dal presule, primo tra tutti quello con il re (“regum
summus amor”), la società locale (“patriae caput”), il proprio
gruppo familiare (“arma parentum”), i propri sodali (“tutor
amicorum”), infine la collettività urbana di Bordeaux (“plebis
et urbis honor”): ed è proprio la molteplicità di queste sfere di
rapporti personali e familiari che ha permesso a Leonzio di
agire in modo giusto ed efficace, in qualità di mediatore tra il
re e la cittadinanza (“placabat reges, recreans moderamine
cives”)34. Il legame con il re come fonte indiscutibile della preminenza è presente anche in altri epitaffi di laici e di ecclesiastici: per il prete Servilione, la sua nobiltà deriva non solo
dall’eredità di lignaggio, ma soprattutto dalla carica pubblica
di domesticus all’interno del palazzo regio e dalle virtù di
saggio amministratore del fisco regio35; Aracario è illustre
perché egli “palatina refulsit clarus in aula”36; Orienzio perché
per lui ‘il palazzo regio era sempre aperto”37.
In altri casi, come quello di Gogo, fedele del re Sigeberto, si afferma invece esplicitamente che la nobilitas rag22
giunta nel presente è esclusivamente il frutto del benvolere
regio: Gogo è stato scelto dal re “come un’ape che sceglie
i suoi fiori”: intendendo implicitamente che la posizione di
Gogo e la stima di cui gode sono esclusivamente il frutto
della contingenza e quindi suscettibili di mutare nel corso
del tempo38. Come risulta ormai chiaro, i doni di terra effettuati dai re merovingi per ricompensare i loro funzionari non
erano affatto donazioni permanenti in piena proprietà ed è
probabile, come si è discusso a lungo negli ultimi anni, che
esse consistessero esclusivamente nel diritto di raccoglierne le imposte invece del re, oppure di riscuoterne i censi39.
Dunque, il venir meno della carica significava per i funzionari anche il venir meno della terra, cioè della principale
risorsa aristocratica. Venanzio sembra perfettamente al corrente della complessa rete di legami e di raccordi che era
necessaria per conservare il favore regio: non da ultimo per
il fatto che la politica matrimoniale dei re e la mancanza di
un diritto successorio provocavano una situazione di
costante conflitto all’interno della stessa famiglia merovingia. In altre parole, la fedeltà a un re poteva tramutarsi all’improvviso in un elemento negativo presso il suo successore.
Perciò nel lodare il domesticus Condane, Venanzio descrive
il dipanarsi della sua carriera di ufficiale pubblico come una
successione di cariche agganciate alla personalità di cinque diversi re – Teoderico I (511-533), Teodeberto (533548), Teodebaldo (548-555), e il loro rivale Clotario I (511561) e infine Sigeberto I (561-575) – che si succedettero sul
trono di Reims tra 511 e 565, vantando anzitutto l’abilità
dello stesso Condane a dimostrarsi, nei fatti, un uomo indispensabile: “I re sono cambiati – dice Venanzio – ma tu non
hai mutato i tuoi honores. Tu sei il degno successore di te
stesso”40. Nell’illustrare il curriculum di Condane da tribunus
a comes a domesticus e infine a commensale del re
Sigeberto, Venanzio spiega che tale progressione è stata
effettuata da un uomo privo di qualsiasi background di passato41, presentando esplicitamente l’aristocrazia come gruppo mobile, e di origini variegate, ove i valenti parvenus,
come Condane e lo stesso Venanzio, hanno la possibilità di
emergere grazie alle loro intrinseche qualità.
23
4. Il ruolo femminile nell’aristocrazia
Un altro aspetto che laici ed ecclesiastici condividono
nell’opera di Venanzio è quello della celebrazione congiunta del nucleo coniugale come fonte di legittimazione della
discendenza. Uno degli aspetti che differenziava Franchi e
Romani era anzitutto la struttura della famiglia e dunque la
modalità stessa della trasmissione dei beni. Se la famiglia
romana era organizzata come struttura patrilineare di
lignaggio, quella franca aveva invece una struttura prevalentemente cognatica, e cioè aperta alle eredità derivanti sia
dal ramo materno che da quello paterno. Nel VI secolo, una
delle possibilità di individuazione e di trasmissione della
nobilitas derivava dall’uso di prelevare i nomi della propria
discendenza indifferentemente dall’uno o dall’altro bacino di
parentela, a seconda di quale dei due gruppi godesse di
maggiore prestigio. Proprio perché nell’alto medioevo l’aristocrazia praticava di norma l’omogamia, vale a dire l’unione di individui provenienti da gruppi parentali di status analogo, la linea di tendenza prevalente era quella di trasmettere nomi derivanti dalla famiglia paterna. La presenza di nomi
derivanti dal ramo materno è dunque indice preciso della
volontà di utilizzarli per rivendicare la trasmissione di specifici diritti42. L’elogio di Placidina, la moglie di Leonzio di
Bordeaux, è infatti indissolubilmente unito da Venanzio a
quello del marito, poiché la sua stirpe può contare tra gli avi
l’imperatore Eparchio Avito e Sidonio Apollinare43. In contrapposizione con Leonzio, la cui stirpe, nonostante le diverse congetture formulate a proposito, non è affatto certa, se
non come gruppo che fornì alla città di Bordeaux due vescovi prima di lui44, il background familiare di Placidina è l’elemento che contribuisce per via matrilineare a innalzare e a
sostanziare quello del marito. Sembrerebbe dimostrarlo il
fatto che l’unico loro figlio che noi conosciamo, Arcadio,
celebrato da Venanzio nel suo epitaffio funebre, fu denominato per ripetizione con il nome del nonno materno, così
precisando e accrescendo, appunto nella direzione materna, il rango della discendenza della coppia episcopale45.
L’elogio della coppia e delle sue caratteristiche congiunte
di eminenza e di concordia è presente, come ho già sottolineato, sia nei carmina dedicati ai laici sia a quelli per gli
ecclesiastici: nell’epitaffio del sacerdote Ilario, ‘egregia de
nobilitate refulgens’, Venanzio precisa che anche la sua
defunta moglie era dello stesso grado sociale (‘conubio iunctus simili’)46. Così come Placidina e Leonzio sono ritratti da
24
Venanzio agire in perfetta sintonia nella loro opera di edificatori di chiese e delle proprie residenze, ripartendosi i compiti
di abbellimento e di decorazione, come nel caso della chiesa
di S. Martino presso Parigi47, anche Basilio e Baudegonde
ampliano la chiesa di S. Martino presso Poitiers ‘cum
Baudegonde quo mente Basilius una’48, e Launebode e
Beretrude insieme fondano la chiesa di S. Saturnino presso
Toulouse, ripartendosi equamente le opere di abbellimento
della chiesa e quelle di pietà nei confronti dei poveri49.
Sullo stesso piano di reciproco rafforzamento va visto il
ruolo delle mogli, che Venanzio costantemente enfatizza,
come custodi della memoria familiare qualora esse diventino vedove: così come è Placidina a richiedere a Venanzio di
redigere l’epitaffio di Leonzio50, l’epitaffio di Basilio, più volte
inviato regio presso i Visigoti, sottolinea che la moglie
Baudegonde fu sposata con lui per vent’anni51. Nel caso poi
di Brumachius, anch’egli inviato regio, defunto in Italia, si
sottolinea che fu la moglie Frigia a riportare le spoglie del
marito presso la sua residenza e a occuparsi delle sue esequie funebri e del suo sepolcro52.
Come ha sottolineato Janet Nelson, la società altomedievale è fitta di giovani vedove, anzitutto per il diverso
momento della vita in cui le unioni matrimoniali avevano
luogo: appena adolescenti le femmine, già uomini maturi i
maschi. Ma la posizione sociale delle vedove era di grande
precarietà: non più vergini e non più sposate, esse si collocavano in un ambito liminale soggetto sia alle pressioni della
loro famiglia di origine a contrarre una nuova unione, sia a
quelle della famiglia d’acquisto a rimanere ‘non sposate’.
Specie per quanto riguarda la gestione dei loro beni fondiari, una parte dei quali derivava loro dai doni nuziali offerti dal
marito, le vedove si trovavano al centro di pressioni divergenti: quelle della loro famiglia di origine a contrarre un
nuovo matrimonio, quelle della famiglia del marito a rimanere ‘non sposate’.53 Queste considerazioni generali valgono in
modo speciale per le mogli dei vescovi, le quali, venendo
meno la funzione civile ed ecclesiastica del loro sposo, e
dunque il loro status di ‘moglie del vescovo’, tendono normalmente a presentarsi come custodi ed eredi della sua
memoria, acquisendo uno status di ‘vedova episcopale’ che
esse cercano di trasformare in quello di ‘madre episcopale’
– come per esempio Armentaria, madre di Gregorio di
Tours54 – attraverso la trasmissione della carica paterna ai
propri figli. Nel caso del vescovo di Nantes, Eumerio, la
fama del padre, dice Venanzio, sopravvive grazie a quella
25
del figlio Felice, suo erede biologico e anche della sede episcopale55. Per Nicasia, vedova dell’ufficiale pubblico
Orienzio, e custode del sepolcro e della memoria coniugale, e per Eufrasia, moglie di Namazio, poi vescovo di
Vienne56, la vedovanza significò invece porsi sotto la protezione ecclesiastica, acquisendo il ruolo di vedova velata,
cioè di donna che, a patto di non più risposarsi, poteva continuare a risiedere all’interno della propria casa senza contrarre l’obbligo di entrare in un monastero, e alla quale la
protezione ecclesiastica garantiva il pieno possesso dei
suoi beni, tutelandola dalle pressioni dei propri parenti57.
Per il gruppo familiare in genere, e in particolare per le
donne, gli epitaffi di Venanzio Fortunato e i dati archeologici
mettono bene in luce la rilevanza fondamentale del rituale
funerario nel ribadire e rivendicare le stesse prerogative
sociali del defunto per il suo gruppo familiare. Proprio nel
momento in cui Venanzio componeva le sue ‘epigrafi letterarie’ – come le ha chiamate Robert Favreau58 – si assiste
soprattutto nell’area di Metz al rafforzamento dell’investimento funerario delle élites attraverso l’impianto di grandi
necropoli: tra la seconda metà del VI e l’inizio del VII secolo
si moltiplicano infatti le sepolture con ricchi corredi di armi
oppure di gioielli59. Lungi dall’enfatizzare l’appartenenza
etnica a gruppi di germani, queste sepolture riccamente
ornate testimoniano l’investimento operato dalle élites locali
che utilizzarono il rituale funerario quale occasione pubblica
per ridefinire o confermare la posizione del gruppo famigliare all’interno della comunità: come dimostrano le ricerche di
recente effettuate nell’ambito dell’archeologia merovingia, le
sepolture con corredo sono il preciso segnale della precarietà e dell’incertezza sociale e non dell’orgoglio guerriero
‘tipicamente germanico’ come un tempo si era supposto.
Per dare un’idea dell’entità di questo fenomeno, il numero
delle necropoli nella sola valle della Seille passò da tre nel V
secolo a nove in quello successivo: esse sono poste di preferenza nei pressi delle rovine di antiche ville romane, che
diventano perciò il punto di attrazione della comunità che
frequenta il cimitero, fornendo anche materiale da costruzione per le sepolture. Gli studi archeologici hanno dimostrato come il criterio per l’attribuzione di un corredo più o
meno ricco, più o meno sessualmente caratterizzato, fosse
basato anzitutto sull’età di morte. Per i defunti di sesso femminile, tale età è quella compresa tra i 13 e i 20 anni, mentre le sepolture delle donne più anziane o delle bambine ne
sono del tutto prive o contengono oggetti non caratterizzati
26
sessualmente: i parenti sottolineavano perciò la gravità della
perdita subita anzitutto nella loro qualità di wife-givers, cioè
di detentori del principale strumento di alleanza con altri
gruppi parentali e di continuità dei gruppi familiari stessi60.
Anche gran parte dei carmina funerari di Venanzio si
indirizzano al planctus familiare nei confronti di individui giovani, – si pensi al celebre epitaffio di Vilituta61 – e a giovanette morte di parto. Particolarmente significativo è, a questo proposito il carme per Eusebia, morta a dieci anni, il cui
epitaffio è incentrato non tanto sulla morte di una bimba, ma
sulla morte di una sposa mancata, il cui padre si dispera per
non poter diventare suocero e per non poter avere più un
genero62. È dunque possibile che gli epitaffi di Venanzio fossero intesi come strumento di commemorazione orale, anziché scritta, da declamare al momento delle esequie, esprimendo in una forma nobilitante gli intenti che erano visivamente espressi dal corredo funerario63. Proprio nel carme
per Vilituta Venanzio sottolinea che essa aveva donato alle
chiese e ai poveri tutto ciò che poteva esser destinato all’ornato femminile, cioè il corredo con cui il suo gruppo familiare l’avrebbe onorata nel sepolcro, e che, proprio per questo,
essa avrebbe potuto nuovamente indossarlo nel al di là64:
Venanzio si fa dunque interprete dell’idea, poi pienamente
sviluppata in età carolingia, che la trasmissione dei beni ai
pauperes, anziché la loro tesaurizzazione nel sepolcro,
garantisse la conservazione perenne dello status sociale65.
La rilevanza del rituale funerario per stabilire un legame
di continuità con i defunti e le loro prerogative, sta anche alla
base del rinnovato rapporto instaurato dai vescovi con le
reliquie dei santi locali, normalmente santi vescovi che li
avevano preceduti nella stessa sede66. Accanto all’attività di
restauratore di edifici residenziali, Venanzio loda Leonzio e
Placidina sia per aver fatto erigere edifici ecclesiastici del
tutto nuovi, sia per aver ampliato o restaurato edifici di culto
già esistenti67, descrivendo, talora con grande minuziosità,
la portata di questi interventi: a Saintes, nella basilica di S.
Viviano, Placidina si è occupata di onorare il sepolcro con le
reliquie del santo, dotandolo di una teca d’argento, Leonzio
ha offerto le nuove decorazioni musive per le pareti della
chiesa68; ancora a Saintes, Leonzio e Placidina hanno fatto
rivivere il culto del vescovo Eutropio, restaurandone la chiesa cimiteriale, e fornendo l’edificio di un nuovo soffitto di
legno scolpito e di nuovi affreschi69. L’attività di cura e di
tutela degli edifici ecclesiastici e dei sacri resti da loro ospitati si presenta poi come uno degli elementi che caratteriz27
zano la continuità dell’azione vescovile sotto il profilo dinastico: per la chiesa di St. Denis a Bordeaux si sottolinea che
le reliquie del santo furono portate in città da Amelio, predecessore e padre dello stesso Leonzio, trasportandole da un
luogo lontano, e che fu Amelio a costruire la piccola chiesa
che ora Leonzio ha ampliato70. L’insediamento del gruppo
parentale di Leonzio a Bordeaux e il suo successivo rafforzamento come famiglia vescovile pare dunque realizzarsi
attraverso la progressiva concentrazione dei culti praticati
nella propria diocesi all’interno della città sede episcopale,
e quindi attraverso il fermo controllo delle reliquie e delle
devozioni, connotando visivamente la paternità del proprio
operato.71 Allo stesso modo, le immagini edilizie sono utilizzate da Venanzio per esprimere un giudizio negativo: un
vescovo inefficiente come Emerio, designato e poi deposto
vescovo di Saintes, manifesta la sua indegnità a ricoprire il
suo ruolo attraverso la sua incapacità a continuare la chiesa
iniziata dal suo predecessore72. Restaurando le antiche
chiese che ospitavano le sepolture dei santi vescovi del
passato, ritrovando e onorando le loro reliquie, i nuovi
vescovi, specie se provenienti da contesti territoriali estranei
da quello in cui si trovavano a dover operare, si proclamavano custodi della loro memoria ed eredi del loro culto, proponendosi alla collettività come figli spirituali dei loro illustri
predecessori. Per i laici, così come per gli ecclesiastici, il
rituale della morte e la memoria dei defunti era dunque uno
strumento attivo per comprovare i loro legami con il passato, definendo la propria identità nel presente.73
5. La corte regia: il ruolo del re e della regina
Al di là delle strategie elaborate dalle élites per sancire
di fronte alla comunità la preminenza, il tema che attraversa
tutte le composizioni celebrative di Venanzio è quello della
rilevanza e della pregnanza della figura regia. La caratterizzazione della famiglia merovingia conteneva alcuni aspetti
che certo a Venanzio dovevano essere ben presenti, altri
che dovevano risultargli del tutto nuovi. Anzitutto quello
della continuità dinastica.
Proprio l’esperienza elaborata all’interno del regno dei
Goti, da cui Venanzio proveniva, aveva eloquentemente
dimostrato che, nonostante la profonda liason con l’impero
d’Oriente intrattenuta da Teoderico, e l’organizzazione di
forme ideologiche tese a recuperare forme di legittimazione
28
del potere derivate dall’autorità imperiale, il problema delle
modalità della trasmissione del potere regio aveva costituito, alla morte di Teoderico, una fortissima fonte di conflitto
tra le aristocrazie. Nonostante la genealogia costruita da
Cassiodoro per Teoderico, con la quale si legittimava la
supremazia dinastica degli Amali sugli altri gruppi aristocratici in quanto detentori di una regalità sacrale attraverso le
generazioni, le lotte per la successione di Teoderico avevano dimostrato quanto forte fosse ancora la tendenza tra i
gruppi aristocratici a sostenere l’idea che il re dovesse essere eletto tra tutti i membri dell’aristocrazia per il suo valore e
non per diritto dinastico74. Nel regno dei Franchi, invece, la
competizione tra le famiglie aristocratiche per il titolo regio
era stata del tutto risolta: Clodoveo e i suoi figli riuscirono
infatti a eliminare tutti i possibili rivali regi o nobili, come testimonia Gregorio di Tours75, e a creare attorno al proprio gruppo famigliare una barriera di invalicabile distinzione da tutti
gli altri gruppi aristocratici. Tale barriera si sostanziava anzitutto nelle pratiche da essi adottate sotto il profilo matrimoniale, che si strutturarono in modo del tutto antitetico a quelle dell’aristocrazia. Se per l’aristocrazia, come abbiamo già
detto, la pratica dell’omogamia garantiva l’unione e il rafforzamento di gruppi parentali che potevano mutualmente fornirsi clientele, oltre che supporto politico e territoriale, i re
merovingi praticarono quella che gli antropologi chiamano
‘monogamia seriale’, vale a dire una sequenza di unioni
legittime successive. Essi si unirono di preferenza con
donne serve o, all’opposto della scala sociale, figlie o sorelle di re di regni contermini. Prive com’erano di supporto
locale e di sostegno familiare, sia la serva sia la principessa
straniera dovevano integralmente al loro legame sessuale
con il re la loro posizione sociale di ‘regina’. Specialmente le
serve potevano essere ripudiate con relativa facilità. Per
questo il nucleo famigliare di un re merovingio era spesso
composto da numerosi figli di madri diverse, molte delle
quali ancora in vita. La regina di umili origini si trovava però
in una condizione che, se era indubbiamente fonte di incertezza e di debolezza, le consentiva nondimeno di agire con
una “paradossale libertà” nella scelta dei legami più opportuni al proprio sostegno. Essa non risultava infatti condizionata dalle clientele della propria famiglia di origine, oppure
dalla dislocazione del suo patrimonio fondiario in una precisa area geografica, ma poteva utilizzare le risorse del tesoro regio per legarsi a chi le pareva più opportuno76. Proprio i
casi di Brunilde, la principessa straniera, e di Fredegonda,
29
la serva, con cui Venanzio ebbe personalmente a che fare,
dimostrano quanto grandi fossero le opportunità di stringere alleanze e di mantenere lo status di regina, anche dopo
la morte del proprio marito77.
Oltre alle pratiche matrimoniali, la strategia di differenziazione attuata dalla famiglia merovingia consistette nel
creare attorno a sé un gruppo di aristocratici, funzionari
pubblici, la cui stabilità e preminenza derivava esclusivamente dai legami stessi di fedeltà intrattenuti con il re, per i
quali la ricompensa di terra donata dal re costituiva la prova
materiale e lo strumento di tale collegamento. Gli unici aristocratici che sono dotati di un titolo nel Pactus della Legge
Salica, sono infatti gli ufficiali regi, i suoi fedeli, i suoi compagni d’arme78. Il re controllava le aristocrazie attraverso
l’assegnazione, il ritiro e la ridistribuzione delle cariche pubbliche, donando e poi reclamando i propri diritti sul fisco
regio. A questo si aggiunga, naturalmente, la caratterizzazione sacrale dei merovingi come reges criniti, re dai lunghi
capelli79. La preminenza del re e la sua diversità dalle altre
famiglie aristocratiche annullava di fatto le differenze di status di coloro che si trovavano al disotto del re: perciò sotto
lo strato regio la struttura sociale era permanentemente fluida, stimolando il desiderio e l’ambizione a entrare in rapporto con il re, presentato come unica fonte di stabilità80.
Detto questo non si deve pensare che la società merovingia fosse, grazie alla stabilità dinastica della famiglia
regia, una società priva di competizione. Anzi, proprio la
strategia matrimoniale adottata da quei re per distinguersi
dal resto dell’aristocrazia, era uno dei veicoli che permettevano alla competizione sociale di aggregarsi e di ricomporsi. Infatti l’abitudine a trasmettere il potere del re al primogenito non era affatto diffusa, poiché la regalità era concepita come patrimonio familiare, da spartirsi di diritto tra tutti
i figli maschi81; né, quando si cercò di la competizione tra
fratelli terminava, il vincitore risultava accettato senza contrasti e opposizioni. Poiché incerte e sempre fonte di conflitti erano le consuetudini che regolavano la successione al
trono, il destino della regina e il mantenimento del suo status erano costantemente in pericolo, specie se, come spesso accadeva essa restava vedova. La compresenza di
numerose mogli precedenti del re e dei loro figli, faceva sì
che non vi fosse alcuna certezza per l’ultima regina che uno
dei propri figli sarebbe riuscito a succedere al padre, né
tanto meno che, tra di loro, sarebbe stato scelto quello a lei
più legato. Si può facilmente capire perché i diritti del pri30
mogenito furono, in tale frangente, ostacolati anzitutto dalle
varie mogli del re in nome del loro vantaggio personale: il
conflitto per la successione permetteva a ognuna delle
mogli del re di provare a far eleggere il proprio candidato,
attraverso le alleanze da esse nel frattempo instaurate82. Il
conflitto per la successione regia che negli altri regni barbarici divampava all’interno dell’aristocrazia, nel regno dei
Franchi era quindi trasposto all’interno della famiglia merovingia e delle molteplici e contraddittorie alleanze che i suoi
numerosi membri avevano stretto con le fazioni aristocratiche, con i vescovi delle città, con i funzionari pubblici.
La società all’interno della quale Venanzio operò era
dunque una società pervasa dall’instabilità. Anche se articolata gerarchicamente al suo interno, a partire dal re, i
destini individuali erano costantemente in pericolo: l’aggregarsi e il disaggregarsi del consenso faceva sì che l’opera
poetica di Venanzio, alla stessa stregua dei banchetti, delle
chiese e delle ville ricostruite, delle reliquie di santi ritrovati
e onorati, dei sepolcri corredati di armi, gioielli ed epitaffi,
delle politiche matrimoniali, contribuisse a plasmare l’identità delle aristocrazie, fornendo ulteriori elementi da esibire e
ostentare nella ricerca del consenso. E certo fu questa
incertezza ad offrire a Venanzio Fortunato la chance di trasformarsi da nuovo Orfeo a vescovo di Poitiers.
Note
* Dedico questo lavoro alla memoria di Giovanni Tabacco,
grande maestro recentemente scomparso.
(1) Cfr. G.Tabacco, Il volto ecclesiastico del potere in età carolingia, in La
Chiesa e il potere politico, Torino 1986 (Storia d’Italia Einaudi. Annali, 9), pp.
7-41 (ora in G. Tabacco, Sperimentazioni del potere nell’alto medioevo, Torino
1993, pp. 165-208).
(2) Si tratta insomma dello stesso atteggiamento già verificato, a proposito del tema delle istituzioni cittadine tra altomedioevo ed età comunale, da
G. Sergi, Le città come luoghi di continuità di nozioni pubbliche del potere.
Le aree delle marche di Ivrea e di Torino, in Piemonte medievale. Studi per
Giovanni Tabacco, Torino 1985, pp. 5-7.
(3) Si vedano, a questo proposito, le belle pagine di L. Pietri, Venance
Fortunat et ses commanditaires: un poète italien dans la société gallo-franque, in Committenti e produzione artistico-letteraria nell’alto medioevo occidentale, Spoleto 1992 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 39), pp. 729-754.
31
(4) I riferimenti all’opera di Fortunato si riferiscono all’edizione di F. Leo
(M.G.H., Auctores Antiquissimi, IV/1, Hannoverae 1881, d’ora in avanti
Carmina) e di B. Krusch (M.G.H., Auctores Antiquissimi, IV/2, Hannoverae
1885, d’ora in avanti Opera pedestria) Venantius Fortunatus, Carmina, V, 18,
v.5. Più frequentemente Venanzio si dice semplicemente provenire dall’Italia:
IV 20, v. 5; VII 9, v. 7; VIII 1, v. 12; X 13, v. 10, 16, v. 1.
(5) Goffart, Foreigners in the Histories of Gregory of Tours, “Florilegium”,
4 (1982), pp. 80-99; W. Goffart, The Narrators of Barbarian History. Jordanes,
Gregory of Tours, Bede and Paul the Deacon, Princeton 1988, pp. 162-164,
212-213.
(6) Barbarus: Venantius Fortunatus, Carmina, IV 26, v. 14, VI 5, v. 52 ; VII
8 v. 63, 18, v. 19 ; IX 1, v. 27; app. I v. 31, II, v. 83; Vita Martini, I, v. 480, III, v.
497; si veda a questo proposito, L. van Acker, Barbarus und seine
Abletungen im Mittellatein, in “Archiv für Kulturgeschichte”, 47 (1965), pp.
125-140; quanto all’identità dei Romani in Gallia, cfr. J.D. Harries, Sidonius
Apollinaris and the frontiers of Romanitas, in Shifting Frontiers in Late
Antiquity, a cura di R.W. Mathisen, H.S. Sivan, Oxford 1996, pp. 31-44, che
ridiscute le conclusioni tradizionali di G.B. Ladner, On Roman attitudes
toward Barbarians in Late Antiquity, “Viator”, 7 (1976), pp. 1-25.
(7) Si vedano, a questo proposito, le conclusioni e gli spunti di ricerca
offerti da S. Gasparri, Prima delle Nazioni. Popoli, etnie e regni fra Antichità e
Medioevo, Roma 1997; W. Pohl, Le origini etniche dell’Europa. Barbari e
Romani tra antichità e medioevo, Roma 2000, con la relativa bibliografia.
(8) Cfr. G. Halsall, The origins of the Reihengräberzivilisation: forty years
on, in Fifth century Gaul. A crisis of identity?, a cura di J. Drinkwater, H. Elton,
Cambridge 1992, pp. 196-207.
(9) Sulla formazione dell’identità etnica dei Franchi, cfr. W. Pohl,
Alemannen und Franken. Schlußbetrachtung aus historischer Sicht, in Die
Franken und die Alemannen bis zur “Schlacht bei Zülpich” (496-497), a cura
di D. Geuenich, Berlin New York 1998, pp. 636-651 (ora in Pohl, Le origini
etniche, pp. 59-76). Per i Burgundi: P. Amory, The meaning and purpose of
etnic terminolgy in the Burgundian laws, “Early Medieval Europe”, 2 (1993),
pp. 1-28.
(10) Cfr. W. Pohl, I Goti d’Italia e le tradizioni delle steppe, in Teodorico il
Grande e i Goti d’Italia, Spoleto 1993 (Atti del XIII Congresso internazionale
di studi sull’alto medioevo), pp. 227-251 (ora in Pohl, Le origini etniche, pp.
101-125) con la relativa bibliografia.
(11) P. Amory, People and Identity in Ostrogothic Italy, 489-554,
Cambridge 1997.
(12) La principale discussione su questo tema è C. Wickham, The other
transition: from ancient world to feudalism, “Past & Present”, 103 (1984), pp.
3-36.
(13) La carriera di Venanzio è efficacemente riassunta da B. Brennan,
The career of Venantius Fortunatus, in “Traditio”, 46 (1985), pp. 49-78.
(14) Sono aspetti evidenziati da I. Wood, Merovingian Kingdoms 450751, London New York 1994, pp. 26-27.
(15) Gregorii episcopi Turonensis, Historiarum libri X, a cura di B. Krusch,
Hannoverae 1951 (M.G.H., Scriptores rerum Merovingicarum, I), V, 8. Le menzioni da parte di Gregorio di Tours a proposito di Venanzio, in tutta la sua
opera, si contano sulle dita di una mano: sono raccolte da Goffart, The
Narrators, p. 146 n. 149.
(16) Per esempio, Venantius Fortunatus, Carmina, V 17; VII 9, 10, 21, 25;
IX 6, app. I, IV.
(17) Cfr. la brillante analisi di P. Godman, Poets and Emperors. Frankish
Politics and Carolingian Poetry, Oxford 1987, pp. 15-21.
(18) Venantius Fortunatus, Carmina, V 6, 10, 14, 15, 18 ; X 12, 13.
(19) Venantius Fortunatus, Carmina, I, 17. Su questo carme, cfr. l’interpretazione di M. Reydellet, Venance Fortunat. Poèmes, I, livres I-IV, Paris
1994, p. XXX.
(20) Venantius Fortunatus, Carmina, praefatio, 6.
(21) Sullo scambio di doni come parte fondante dell’economia e delle
32
relazioni sociali nell’alto medioevo, cfr. il classico M. Mauss, Saggio sul dono.
Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, in M. Mauss, Teoria
generale della magia, Torino 1965 (trad. italiana dell’ediz. originale Sociologie
et antropologie, Paris 1950). La dinamica della reciprocità nelle relazioni altomedievali, impostate sull’organico scambio di doni e di contro-doni, in un
sistema di scambio che tendeva a definire e a precisare le gerarchie e gli
obblighi sociali tra beneficante e beneficato, era perfettamente nota a
Venanzio: nel cantare le virtù del ricco mercante Giuliano e del ricco e nobile
Avolo, Venanzio sottolinea che entrambi distribuirono doni in segreto, cioè
senza testimoni. Il legame di reciprocità e di subordinazione che il dono implicava veniva così a collocarsi in una dimensione strettamente privata, nota
solo alle due parti, che non recava alcun potenziamento della fama pubblica
del donatore. Venantius Fortunatus, Carmina IV 21, v.5-10: (Avolus) templa
dei coluit, latitans satiauit egentem:/ plenius illa metit quae sine teste dedit./
nobilitate potens, animo probus, ore serenus,/ plebis amore placens, fundere
promptus opes,/ non usurae auidus, licet esset munere largus,/ plus nihil
expetiit quam numerando dedit. Venantius Fortunatus, Carmina IV 23, v. 1114: (Iulianus mercator) nec solum refouens, sed dona latendo ministrans /
amplius inde placet quod sine teste dedit./ felicem censum qui fratris migrat
in aluo!/ et uiuos lapides aedificare potest. Sui doni gratuiti, cfr. J. Parry, The
gift, the Indian gift and the ‘Indian gift’, “Man”, n.s. 21, pp. 453-473.
(22) Cfr. Wood, Merovingian Kingdoms, pp. 77-79.
(23) Venantius Fortunatus, Carmina, V 3, v. 15-16.
(24) Gregori episcopi Turonensis, Historiarum Libri X, V, 49. Su questi
aspetti, cfr. N. Wood, The ecclesiastical politics of Merovingian Clermont, in
Ideal and Reality in Frankish and Anglo-Saxon society, a cura di P. Wormald,
Oxford 1983, pp. 34-57; Wood, Merovingian kingdoms, pp. 79-84.
(25) Questa separazione è proposta, ad esempio, da J. W. George,
Venantius Fortunatus. A latin poet in Merovingian Gaul, Oxford 1992; J.W.
George, Portraits of two Merovingian bishops in the poetry of Venantius
Fortunatus, “Journal of Medieval History”, 13 (1987), pp. 189-207; B.
Brennan, The image of the Merovingian bishop in the poetry of Venantius
Fortunatus, “Journal of Medieval History”, 18 (1992), pp. 115-139.
(26) Venantius Fortunatus, Carmina, I, 14-16, 18-20; III 24; IV 10. Le
vicende del gruppo parentale sono state esaminate da Wood, Merovingian
Kingdoms, pp. 83-84.
(27) Venantius Fortunatus, Carmina, I 15 vv. 7-10: qui, cum se primo
uestiuit flore iuuentus,/paruus eras annis et grauitate senes;/uersus ad
Hispanas acies cum rege sereno,/militiae creuit palma secunda tuae.
(28) Venantius Fortunatus, Carmina, I 15, vv. 19-22: tempora diffugiunt et
stat tamen aula parentum/nec patitur lapsum te reparante domus./nobilitas
longos non inclinauit in annos,cui magis ascensum proles opima dedit.
(29) Venantius Fortunatus, Carmina, 1,15 vv. 29-30: emicat altus apex
generosa stemmata pandens,/cuius apud reges unica palma patet. Sul tema
della stabilità sociale, cfr. B. Brennan, Senators and social mobility in sixthcentury Gaul, “Journal of Medieval history”, 11(1985), pp. 89-136.
(30) In Aquitania il V secolo è contraddistinto dalla persistenza della tipologia della villa suburbana come residenza aristocratica, come dimostrano gli
esempi di Chiragan, Plassac, St. Emilion, presso Bordeaux, tutte contraddistinte dalla presenza di terme e di ricchi mosaici. Se in alcuni casi si trattò di
rioccupazione di edifici preesistenti, in altri, come quello di Palat, si tratta di
costruzioni impiantate ex-novo. Cfr. H. Sivan, Town and country in Late
Antique Gaul: the example of Bordeaux, in Fifth century Gaul, pp.132-143.
(31) Si tratta rispettivamente di Venantius Fortunatus, Carmina, I 18, 19, 20.
(32) Venantius Fortunatus, Carmina, II 8, vv. 21-24: Launebodis enim post
saecula longa, ducatum/ dum gerit, instruxit culmina sancta loci./ quod nullus
ueniens Romana gente fabriuit,/ hoc uir barbarica prole peregit opus/; ibid.,
vv. 39-40 sed quamvis altum teneat de stirpe cacumen/ moribus ipse suos
amplificavit avos.
(33) Ammianus Marcellinus, Rerum Gestarum Libri qui supersunt, II, a
cura di C.U. Clark, Berolini 1910, XXVII, 3, 7, p. 423: “Per omnia enim civitatis
33
membra, quae diversorum principum exornarunt impensae, nomen proprium
inscribebat, non ut veterum instaurator, sed conditor”. Su questo tema, si veda
in generale B. Ward-Perkins, From Classical Antiquity to the Early Middle Ages.
Urban public building in Northen and Central Italy. A.D. 300-850, Oxford 1984,
pp. 37-49, con gli esempi ivi indicati. La lode della renovatio è anche uno degli
assi portanti dell’ideologia edilizia del regno di Teoderico: cfr. C. La Rocca,
Una prudente maschera “antiqua”. La politica edilizia di Teoderico, in
Teoderico il Grande e i Goti d’Italia, pp. 451-515.
(34) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 10, rispettivamente ai vv. 8, 1112, 21.
(35) Sui panegirici ai funzionari regi, dal punto di vista stilistico e di contenuto, cfr. George, Venantius Fortunatus, pp. 132-151. Venantius Fortunatus,
Carmina, IV 13, vv. 3-5: hoc igitur tumulo Seruilio clausus habetur,/ nobilis et
merito nobiliore potens/.Ipse palatinam rexit moderatius aulam./
(36) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 19, vv. 5-6: ipse palatina refulsit
clarus in aula /et placido meruit regis amore coli.
(37) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 24, vv. 6-7: palatina prius mansit
aperta domus/consiliis habilis regalique intimus aulae.
(38) Venantius Fortunatus, Carmina, VII 1, v. 38
(39) Cfr. W. Goffart, Barbarians and Romans. A.D. 418-584. The
Techniques of Accomodation, Princeton 1980, pp. 162-174.
(40) Venantius Fortunatus, Carmina, VII 16, vv. 35-36: mutati reges, vos
non mutatis honores/ successorque tuus tu tibi dignus eras.
(41) Venantius Fortunatus, Carmina, VII 16, vv. 15-16: a parvo incipiens
existi semper in altum/ perque gradus omnes culmina celsa tenes .
(42) Cfr. R. Le Jan, Dénomination, parenté et pouvoir dans la société du
haut Moyen Âge, in R. Le Jan, Femmes, pouvoir et société dans le haut
Moyen Âge, Paris 2001, pp. 224-238.
(43) Venantius Fortunatus, Carmina, 1 15, vv. 93-100: Cogor amore etiam
Placidinae pauca referre,/quae tibi tunc coniunx, est modo cara soror./lumen
ab Arcadio ueniens genitore refulget,/quo manet augustum germen, Auite,
tuum;/imperii fastus toto qui rexit in orbe,/cuius adhuc pollens iura senatus
habet./humani generis si culmina prima requiras,/semine Caesareo nil superesse potest.
(44) Cfr. Wood, Merovingian kingdoms, p. 84.
(45) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 17.
(46) Venantius Fortunatus, Carmina, IV, 9, vv. 9 e 11.
(47) Venantius Fortunatus, Carmina, I 6, v. 21.
(48) Venantius Fortunatus, Carmina, I 7, v. 7.
(49) Venantius Fortunatus, II, 8; Di Berterude, Gregorio di Tours precisa
che aveva fondato un monastero femminile e che lo aveva dotato attraverso i
suoi beni fondiari: Gregori Episcopi Turonensis, Historiarum Libri X, IX, 35.
(50) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 10.
(51) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 18.
(52) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 20, vv. 5-6: finibus Italiae raptus,
sed Frigia coniunx/ detulit huc cari funus amando uiri.
(53) J. Nelson, The wary widow, in Property and Power in the Early Middle
Ages, a cura di W. Davies, P. Fouracre, Cambridge 1995, pp. 82-113 e anche
il classico lavoro di K. Leyser, Rule and Conflict in an Early Medieval society.
Ottonian Saxony, London 1979, pp. 15-27. Sulle strategie matrimoniali nel
modo franco si veda, naturalmente, R. Le Jan, Famille et pouvoir dans le
mond franc, Paris 1995, pp. 287-332.
(54) Venantius Fortunatus, Carmina, X 15 (5-10): tu quoque prole potens,
recte Armentaria felix,/nec minor ex partu quam prior illa suo./illa uetus numero maior, tu maxima solo:/quod poterant plures, unicus ecce tuus. fetu clara
tuo, geniti circumdata fructu,/est tibi Gregorius palma corona decus.
(55) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 1
(56) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 24, 27
(57) Cfr. C. La Rocca, Les femmes et la loi dans le royaume des Lombards,
in Femmes et pouvoirs des femmes en Occident et à Bysance, a cura di S.
Lebecq, A. Dierkens, R. Le Jan, J.M. Sansterre, Lille 2000, pp. 37-50.
34
(58) R. Favreau, Fortunat et l’epigraphie, in Venanzio Fortunato tra Italia
e Francia, Treviso 1993, pp. 161-175.
(59) Le necropoli altomedievali dell’area di Metz sono analizzate in modo
particolareggiato da G. Halsall, Settlement and social organization. The
Merovingian Region of Metz, Cambridge 1995, pp. 220-245.
(60) Cfr. Halsall, Settlement, pp. 235-238; G. Halsall, Female status ans
power in early Merovingian central Austrasia: the burial evidence, “Early
Medieval Europe”, 5 (1996), pp. 1-24.
(61) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 26, per il quale si veda la fine analisi Epitaphium Vilithutae (IV 26), a cura di P. Santorelli, Napoli 1994.
(62) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 28: vv. 15-18: conteriturque socer
cui nata generque recedit:/ haec letalis obit, ille superstes abit./sit tamen auxilium, quia non es mortua Christo:/uiues post tumulum uirgo recepta deo.
(63) La declamazione di carmi celebrativi in occasione delle esequie è
stata di recente supposta anche per il regno longobardo. Cfr. F. De Rubeis,
La tradizione epigrafica in Paolo Diacono, in Paolo Diacono. Uno scrittore fra
tradizione longobarda e rinnovamento carolingio, a cura di P. Chiesa, Udine
2000, pp. 139-162.
(64) Venantius Fortunatus, Carmina, IV 26, vv. 71-74: nam quod ad ornatum potuit muliebre uideri,/ecclesiis prompte pauperibusque dedit./hic nulla
ex illis rebus peritura reliquit,/ut modo praemissas diues haberet opes.
(65) B.K. Young, Exemple aristocratique et mode funéraire dans la Gaule
mérovingienne, “Annales E.S.C.”, 41 (1986), pp. 379-407; B. Effros; Symbolic
expressions of sanctity: Gertrude of Nivelles in the context of Merovingian
mortuari custom, “Viator”, 27 (1996), pp. 1-10. Sul concetto di tesoro sempiterno, composto proprio dagli oggetti di ornamento personale, che, donati
alla Chiesa e non più tesaurizzati nel sepolcro, costituiscono nel paradiso la
prova dello status di colui al quale originariamente appartenevano, cfr. C. La
Rocca, Donare, distribuire, spezzare. Pratiche di conservazione della memoria e dello status in Italia tra VIII e IX secolo, in Sepolture tra IV e VIII secolo,
a cura di G.P. Brogiolo, G. Cantino Wataghin, Mantova 1998, pp. 77-88; C.
Treffort, L’Église carolingienne et la mort, Lyon 1996, pp. 165-184.
(66) Venantius Fortunatus, Carmina, I 18, 19, 20
(67) Edifici nuovi: Venantius Fortunatus, Carmina, II 11, 12; edifici preesistenti rinnovati: I 7, 10, 11, 12, 13, 15.
(68) Venantius Fortunatus, Carmina, I, 12.
(69) Venantius Fortunatus, Carmina, I 13.
(70) Venantius Fortunatus, Carmina, I 11, vv. 5-10: exiguam dederat hic
praesul Amelius arcem,/ Christicolam populum nec capiente loco:/ quo uitae
claudente diem dehinc prole graduque/ uenit ad heredem hoc opus atque
locus,/ fundauitque piam hanc papa Leontius aulam,/ obtulit et domino splendida dona suo.
(71) Sull’importanza della topografia delle reliquie, cfr. il lavoro di S.
Boesch Gaiano in questo volume e, in generale, i saggi contenuti nel volume
miscellaneo Les reliques. Objets, cultes, symboles, a cura di E. Bozoki, A.M.
Helvetius, Turnhout 1999.
(72) Venantius Fortunatus, Carmina, I 12, vv. 1-6: Digna sacerdotis Bibiani
templa coruscant./ quo si iusta petis, dat pia uota fides./ quae praesul fundauit
ouans Eusebius olim./ ne tamen expleret raptus ab orbe fuit./ cui mox Emerius
successit in arce sacerdos,/ sed coeptum ut strueret, ferre recusat onus.
(73) Si veda anche Venantius Fortunatus, Carmina, I, 8 ove Leonzio è
lodato per aver rinverdito il culto di S. Vincenzo, santo locale di Vernemetum
e Pompeiacum presso Poitiers, dotando le reliquie di una nuova teca.
(74) P. Heather, Theoderic, king of the Goths, “Early Medieval Europe”, 4
(1995), pp. 145-173.
(75) Gregorii Episcopi Turonensis, Historiarum Libri X, II, 40-42. Cfr.
Wood, Merovingian Kingdoms, pp. 58-59.
(76) Questi aspetti sono esaminati nel fondamentale lavoro di J.L.
Nelson, Queens as Jezabels: Brunhild and Bathild in Merovingian history, in
J.L. Nelson, Politics and Rituals in Early Medieval Europe, London 1986, pp.
1-48.
35
(77) Cfr. Wood, Merovingian Kingdoms, pp.121-136.
(78) Pactus Legis Salicae; a cura di K.A. Eckhardt, Hannover Leipzig
1892 (M.G.H. Leges Nationum Germanicarum, IV/1) cfr Le Jan, Famille et
pouvoir, pp. 32-35.
(79) Si veda, sul tema, il fondamentale lavoro di J.M. Wallace-Hadrill, The
Long-Haired kings, London 1962.
(80) Questo è perfettamente chiaro a Venanzio, il quale fa uso a più riprese del concetto di amor regis come strumento della stabilità: Venantius
Fortunatus, Carmina, II 10, v. 17; 11, v. 22; 16, v. 161; IV 10, v. 11; 18 v. 11;
19, v. 6; VI 6, v. 9; VII 16, vv. 6, 34, 39, 49; X 18, v. 7.
(81) Cfr. Wood, Merovingian Kingdoms.
(82) Si veda, su questo punto, la discussione di P. Stafford, The king’s
wife in Wessex 800-1066, “Past & Present”, 91 (1981), pp. 7-13.
36
STEFANO DI BRAZZANO
Profilo biografico
di Venanzio Fortunato
Quel che ci è dato di sapere sulla vita del poeta
Venanzio Fortunato deriva interamente da ciò ch’egli stesso
ci dice nelle sue opere, in primis negli undici libri di carmi,
nei quali è spesso presente l’elemento autobiografico.
Nondimeno, mentre egli è prodigo di dettagli sugli accadimenti della vita di ogni giorno, non ci comunica quasi nulla
su quegli aspetti e quei momenti della sua esistenza che per
noi sarebbero particolarmente significativi: ci sono così
ignoti sia l’anno della sua nascita che quello della sua ordinazione sacerdotale, e misterioso rimane pure il momento
della sua elezione alla cattedra vescovile di Poitiers.
Da un passo della sua opera letteraria di maggior impegno, la Vita Martini, poema epico-agiografico in 4 libri,
apprendiamo ch’egli nacque a Duplauenis, l’odierna
Valdobbiadene in provincia di Treviso, presso Cenita, l’attuale Vittorio Veneto (fino al 1866 Cèneda)1. Quanto alla data
di nascita, l’opinione degli studiosi non è unanime: da alcuni essa è posta attorno al 530, altri si spingono fino al 540; è
oltremodo probabile che la verità stia nel mezzo, anche se
la seconda metà del decennio pare più appropriata2.
Altrettanto esigua è la nostra conoscenza della sua famiglia di origine: Venanzio nomina due volte il proprio padre e
la madre, un fratello, una sorella di nome Tiziana e un certo
numero di nipoti3. Qualche elemento in più si può ricavare
dalla forma completa del suo nome quale ci è stata tramandata dai manoscritti: Venantius Honorius Clementianus
Fortunatus. Un nome composto da quattro elementi può far
pensare che chi lo portava provenisse da una famiglia di un
certo prestigio. Il nome Venantius compare nella prosopografia romana soltanto con il secolo V, e diviene piuttosto frequente nell’alta società italica del secolo successivo. Nella
stessa epoca Honorius si trova di rado e sempre connesso
con appartenenti alla famiglia dell’imperatore Teodosio; nondimeno, se il nostro poeta avesse potuto vantare una tale
37
parentela, certo non l’avrebbe taciuta. Clementianus gode
di pochissime altre attestazioni e non pare per noi significativo, mentre lo è assai più l’ultimo elemento, Fortunatus, che
poi è quello con cui sempre il poeta designa se stesso: esso
è certamente connesso con il culto dell’omonimo martire di
Aquileia, diffuso in tutta la Venetia4.
Nulla ci dice il poeta sui luoghi in cui trascorse gli anni
dell’infanzia e dell’adolescenza, e che furono verisimilmente
anche l’ambiente in cui ricevette la formazione primaria.
Sappiamo però che a un dato momento, presumibilmente
all’età di quindici o vent’anni, egli entrò in contatto con quel
Paolo (alias Paolino) che nel 557 fu eletto vescovo della
metropoli aquileiese e fu il primo ad assumere – abusivamente – il titolo di patriarca: questi cercò di convincerlo ad
abbracciare la vita monastica5. A questo riguardo, se conoscessimo l’esatta data di nascita di Venanzio, potremmo stabilire se l’incontro tra i due poté avere luogo ad Aquileia
oppure potesse essere avvenuto anche in un’altra località
della Venetia, dove Paolo poteva risiedere quale semplice
monaco prima della sua designazione episcopale6.
Purtroppo, non disponendo di dati precisi, non possiamo
che formulare ipotesi. Purtuttavia, sulla sola base della certa
conoscenza reciproca dei due, nel passato alcuni studiosi
sostennero disinvoltamente che proprio ad Aquileia
Venanzio compì il ciclo inferiore dei suoi studî, e immaginarono che la sua famiglia vi si fosse trasferita da
Valdobbiadene a causa delle ripetute incursioni di truppe
gotiche, bizantine e franche nella Venetia, teatro della guerra condotta dall’imperatore Giustiniano per la riconquista
dell’Italia occupata dagli Ostrogoti, nella quale i Franchi giocarono un ruolo assai ambiguo, schierandosi ora con l’uno
ora con l’altro dei contendenti, e spesso difendendo i proprî
interessi a scapito di entrambi7.
Tuttavia, in mancanza di prove dirimenti, si può pure
pensare, e forse con maggior verisimiglianza, che Venanzio
abbia trascorso l’adolescenza – e abbia quindi conosciuto
Paolo – in uno dei numerosi centri urbani del bacino del
Piave: Acilum (Asolo), Taruisium (Treviso), Opitergium
(Oderzo), Altinum: tutti erano sedi di vescovati e molto probabilmente in ognuno di questi era possibile conseguire una
formazione scolastica inferiore, senza bisogno di spingersi
fino ad Aquileia8.
Quel poco ch’egli stesso ci dice della sua giovinezza
riguarda un periodo che tutto fa pensare come successivo a
quello della prima formazione, e ci porta a Ravenna, massi38
mo centro culturale dell’Italia settentrionale già al tempo del
regno gotico nei primi decennî del secolo, e ancor più dopo
la riconquista da parte delle armate imperiali di Belisario nel
5409. Qui Venanzio attese agli studî di grammatica e di retorica, e forse anche di giurisprudenza10, formandosi così una
vasta preparazione culturale che gli avrebbe permesso di
intraprendere la carriera di insegnante, di poeta di professione ma anche di funzionario dell’amministrazione pubblica11. Il trasferimento dalla Venetia a Ravenna sarà stato
senz’altro motivato dalla volontà di completare il ciclo degli
studî per assicurarsi una carriera, e non vi è alcun bisogno,
come pure è stato fatto da Dominique Tardi, di metterlo in
relazione alla vicenda dei Tre Capitoli, ovvero la condanna
per nestorianesimo degli scritti di tre Padri della Chiesa
(Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Cirro e Iba di Edessa)
pretesa da Giustiniano e in seguito sottoscritta obtorto collo
dal papa Vigilio, vicenda che in quello stesso giro di anni
causò gravissimi contrasti tra il potere imperiale, la Sede
apostolica e le due principali metropoli ecclesiastiche
dell’Italia settentrionale, Milano e Aquileia12.
Durante la permanenza a Ravenna il giovane Venanzio
fu colpito, assieme al suo amico e collega di studî Felice
divenuto in seguito vescovo di Treviso13, da una fastidiosa
malattia agli occhî: in breve tempo entrambi furono sul punto
di perdere la vista. Animati da fervente devozione i due si
recarono nella basilica ravennate dei santi Giovanni e Paolo:
qui vi era un altare dedicato a san Martino, vescovo di Tours
nella seconda metà del IV secolo, famoso già in vita per i
numerosissimi miracoli attribuitigli14. Venanzio e Felice unsero le loro palpebre con l’olio della lampada che ardeva
sopra l’altare, e miracolosamente riacquistarono la salute15.
Di lì a poco, e precisamente sul finire dell’estate o all’inizio dell’autunno del 565, Venanzio lasciò Ravenna per compiere un lungo viaggio che lo avrebbe portato fin nella Gallia
dominata dai Merovingi, donde non avrebbe mai più fatto
ritorno in patria16. Egli descrive in due diversi luoghi della sua
opera letteraria il percorso compiuto: una prima volta nel finale del IV libro della Vita Martini, scritta molto probabilmente
nell’estate del 57517; in seguito, qualche anno dopo, nella
prefazione ai primi sette libri dei Carmina, indirizzata all’amico Gregorio vescovo di Tours e databile con sufficiente esattezza tra il 576 e il 57718. In quest’ultimo passo Venanzio non
fornisce alcuna motivazione precisa per il suo viaggio, e presenta anzi se stesso come un novello Orfeo, cantore-poeta
alla ventura tra popolazioni barbariche, tanto che molti stu39
diosi moderni vi hanno ravvisato la figura del poeta itinerante in cerca di gloria e fortuna, una sorta di antesignano dei
bardi medievali19. Nel primo brano, molto più esteso e dettagliato, egli espone invece l’itinerario punteggiandolo di soste
in corrispondenza di celebri luoghi di culto, soprattutto martiriale, talché il brano della Vita Martini è stato recentemente
definito “un vrai guide du voyageur-pèlerin au VIe siècle… qui
témoigne de l’étendue du culte des saints et de la richesse
architecturale religieuse en Gaule, en Norique et principalement en Italie du Nord”20. In conformità a tale visione,
Venanzio asserisce due volte nei suoi carmi di aver compiuto il lunghissimo viaggio quale peregrinatio religiosa allo
scopo di visitare, nella città di Tours, la tomba del santo
vescovo al cui intervento egli attribuiva la sua miracolosa
guarigione21; il viaggio assumerebbe pertanto i tratti di un
atto di ringraziamento, o più verisimilmente di compimento di
un voto, come già interpretò a distanza di due secoli Paolo
Diacono, il quale dedicò alla figura di Venanzio un paragrafo
della sua Historia Langobardorum22.
Partì dunque da Ravenna e risalì la pianura veneta, toccando Padova23 e Treviso24, raggiungendo la valle del
Tagliamento25 e di qui guadagnando il passo di Monte Croce
Carnico26. Risalì quindi la valle della Drava valicando una
seconda volta lo spartiacque alpino presso San Candido27;
da qui discese lungo i corsi della Rienza e dell’Isarco verso
meridione fino al sito dell’odierna Bolzano, donde risalì il
corso dell’Adige, valicando per una terza volta le Alpi al
passo di Resia28. Proseguì scendendo per la valle dell’Inn,
dalla quale poi si staccò per guadagnare il Fernpass e, percorrendo la valle del fiume Lech, pervenne nella pianura
germanica. Seguì quindi il corso del Reno29, verisimilmente
fino alla confluenza della Mosella, per poi risalire quest’ultimo fiume fino a raggiungere Treviri e quindi Metz, la capitale del più orientale dei quattro regni in cui era stato diviso lo
stato franco alla morte del re Clotario I, figlio di Clodoveo,
avvenuta nel 56130.
Venanzio giunse a Metz all’inizio della primavera del 566,
in singolare e felicissima concomitanza con la solenne celebrazione delle nozze del re Sigiberto I, uno dei figli di
Clotario, con la principessa visigota Brunichilde, figlia del re
Atanagildo31. L’occasione aveva riunito nella capitale tutti i
dignitarî del regno di Sigiberto, che oltre alla regione del
bacino renano (che nei secoli seguenti sarebbe stata detta
Austrasia, ovvero “regno orientale”) a grande prevalenza di
popolazione di stirpe germanica, comprendeva anche i ter40
ritorî meridionali dell’Aquitania orientale e della Provenza,
entrambi a popolazione in maggioranza romana, e nei quali
la raffinata cultura latina della tarda antichità, che aveva
visto fiorire i talenti di un Ausonio, di un Paolino di Nola e di
un Sidonio Apollinare, aveva oltrepassato senza troppi danni
il turbine delle invasioni32. Tra i personaggi convenuti non
mancavano dunque uomini che erano in grado di apprezzare la cultura e le capacità versificatorie di un giovane poeta
italiano fresco di studî come Venanzio. E infatti egli per l’occasione compose un epitalamio di stile claudianeo, con la
tipica ambientazione mitologica e moltissime reminiscenze
dai poeti antichi, conformemente alla formazione letteraria
ricevuta nelle scuole ravennati33.
Ad ogni modo, il suo arrivo alla corte di Sigiberto non
dovette essere del tutto imprevisto: il poeta stesso ci dice
che durante il viaggio dall’Italia verso il regno franco il sovrano demandò a un suo cortigiano, Sigoaldo, di fargli da guida
o da scorta all’interno del territorio di sua pertinenza34.
Questo dettaglio porta anzi a credere che il viaggio possa
essere stato scrupolosamente preparato, e che, tramite
opportune conoscenze, che come vedremo erano con ogni
verisimiglianza episcopali, Venanzio si sia procurato in Italia
le necessarie lettere di presentazione da esibire a diversi
vescovi dell’Austrasia35.
Fa propendere per questa idea il fatto che, tra i numerosi carmi ch’egli compose durante la sua permanenza al
seguito del re Sigiberto, spiccano quelli dedicati appunto a
vescovi, i quali ci permettono pure di ricostruire l’itinerario
seguito dal poeta nell’ultima fase del suo viaggio, quando
ormai si trovava all’interno del regno franco. Dopo le nozze
infatti Sigiberto percorse tutte le principali città del suo territorio, probabilmente allo scopo di presentare ai sudditi la
nuova regina: Venanzio rimase al suo seguito, toccando
dapprima le città lungo il corso della Mosella e del Reno:
Magonza Colonia e Treviri, ove compose diversi carmi in
lode dei rispettivi vescovi Sidonio, Carentino e Nicezio, nonché a celebrazione dei più ragguardevoli edifici sacri36. Fu
poi la volta delle città situate nella parte più occidentale del
regno: Verdun, ove dedicò due carmi al vescovo Agerico;
Reims, seconda sede della corte austrasiana, ove scrisse
l’elogio del vescovo Igidio, e infine Soissons, appartenente
de iure al regno di Chilperico I, fratellastro di Sigiberto, ma
occupata da quest’ultimo fin dal 56237, ove compose un
lungo carme sulla vita e i miracoli del vescovo Medardo di
Noyon, morto nel 560 e colà seppellito38.
41
Nel contempo Venanzio ebbe modo di stringere amicizia
anche con diversi dignitarî laici della corte austrasiana, sia
con quelli appartenenti al ceppo romano (perlopiù provenzali) sia con quelli di ceppo germanico: naturalmente egli si
legò più strettamente a quanti erano dotati di maggior sensibilità artistica, ed erano pertanto in grado di apprezzare
appieno e di sostenere il suo talento letterario. Tra costoro
spiccano il conte Berulfo, il governatore di Marsiglia
Bodegisilo, il maestro di palazzo Condane, Dinamio di
Marsiglia, il consigliere reale Gogone, il governatore della
Provenza Giovino, il duca della Champagne Lupo, nonché
Mummoleno, tutti dedicatarî e protagonisti di carmi39.
In seguito, probabilmente al principio dell’estate del 567,
Venanzio si accomiatò dalla corte austrasiana e raggiunse
Parigi, la capitale del regno di un altro fratello di Sigiberto,
Cariberto, cui dedicò un solenne panegirico in versi40. Qui
poi egli conobbe diverse principesse appartenenti alla
generazione precedente della dinastia merovingica: la regina madre Ultrogota, vedova di Childeberto I fratello di
Clotario I, con le sue due figlie Croteberga e Crotesinda,
nonché Teodechilde, figlia di un altro fratello di Clotario, il re
Teodorico I41. Contemporaneamente entrò in relazione con il
vescovo locale Germano, di cui più tardi avrebbe steso in
prosa la biografia42.
Di lì a poco tuttavia, nel corso dell’inverno 567/568,
Cariberto morì, e forse proprio per questa ragione, vista svanire ogni possibilità di mecenatismo da parte di quel sovrano, Venanzio lasciò Parigi43 e ripartì alla volta di Tours, la città
di san Martino, che assieme alla vicina Poitiers entrava ora
a far parte del regno di Sigiberto in seguito alla spartizione
dei dominî del re defunto tra i rimanenti tre fratelli44. Qui il
poeta fu accolto dal vescovo Eufronio, e il carme di elogio
che Venanzio gli dedicò in quest’occasione costituisce per
noi l’unica testimonianza per questo suo primo soggiorno a
Tours, che evidentemente dovette essere assai breve45. A
questo proposito è stata giustamente rimarcata la singolarità
del silenzio che il poeta, altrimenti sempre fervente di devozione verso san Martino, mantiene su questa visita46; nondimeno coglieremmo nel giusto supponendo ch’egli, prima di
proseguire il suo cammino, abbia visitato tutti i luoghi sacri
legati alla memoria del santo vescovo, in primis il suo sepolcro nella basilica extra muros47.
Da Tours Venanzio si portò poi nella vicina Poitiers48, ove
avvenne l’incontro con una personalità che sarebbe stata
determinante per il resto della sua vita: Radegonda.
42
Questa principessa di stirpe turingica, nata pagana attorno al 520, ebbe
la fanciullezza segnata dalla violenta conquista del regno di Turingia da
parte dei Franchi nel 531: tratta prigioniera, fu assegnata al bottino di
guerra personale del re Clotario I, che la fece educare cristianamente in
un monastero presso Poitiers e se la riservò in isposa. Già in questa fase
della sua esistenza però la fanciulla aveva dato chiari segni di voler consacrare la propria vita al servizio di Cristo e della sua Chiesa, e allorché
Clotario, per motivi a noi ignoti, ordinò di ucciderle il fratello, ella si allontanò dallo sposo e si ritirò in solitudine. Il re, dopo alcuni vani tentativi di
ricondurla presso di sé, acconsentì al ritiro, e Radegonda fu consacrata
diaconessa dal vescovo Medardo di Noyon. Ella fondò poi, verso il 551,
un monastero a Poitiers, ponendolo in seguito sotto la regola femminile
di san Cesario di Arles, e nominando badessa in segno di umiltà la sua
giovane discepola Agnese49. Dopo la morte di Clotario il suo prestigio
aumentò di molto: godeva infatti del più deferente rispetto di tutti e quattro i suoi figliastri tra i quali fu diviso il regno, Chilperico, Sigiberto,
Gontrano e Cariberto, e spesse volte cercò con il suo carisma di intervenire come mediatrice nei loro frequenti scontri50.
La sua sensibilità mistico-religiosa, cui non era disgiunto
un vivo interesse per la cultura letteraria, dovette fare presa
sull’animo di Venanzio, sicché egli s’impegnò con la regina
a stabilirsi definitivamente a Poitiers e, forse, a curare gli
interessi del monastero in qualità di sovrintendente laico o
economo51.
Prima di seguire gli ulteriori sviluppi della biografia di
Venanzio, sarà opportuno tentare a questo punto un’analisi
d’insieme sulla vicenda del suo viaggio in Gallia, del quale
continuano in buona misura a sfuggirci le vere motivazioni
profonde.
Abbiamo già avuto modo di vedere che il poeta stesso
presenta il suo viaggio in due modi diversi, in conformità al
genere letterario in cui la presentazione è inquadrata: se da
un lato, nella Vita Martini, poema agiografico, asserisce di
essersi recato in Gallia al fine di visitare la tomba del santo
a Tours in rendimento di grazie per la miracolosa guarigione
agli occhî52, dall’altro lato, nella praefatio dei carmi indirizzata a Gregorio di Tours, il cui fine era evidentemente l’autoesaltazione poetica, Venanzio mette in scena se stesso quale
novello Orfeo che vaga alla ventura cantando le sue classiche armonie in mezzo alle rozze ballate di un popolo primitivo53.
Quasi tutti i critici moderni hanno però osservato come la
presentazione del viaggio quale pellegrinaggio devozionale
non sia pienamente credibile. Abbiamo già notato come il
primo soggiorno a Tours non riceva alcun rilievo particolare
nell’opera poetica di Venanzio, ma anzi ne sia pressoché
assente: sembra perciò ragionevole concludere ch’esso in
sostanza null’altro sia stato se non una semplice tappa in
43
vista di un proseguimento del viaggio verso meridione, alla
volta di Poitiers e forse oltre. La brevità della permanenza a
Tours, l’asserito luogo di destinazione del pellegrinaggio,
sarà poi ancora più stupefacente se si pone attenzione al
fatto che il poeta raggiunse la sua meta circa due anni dopo
la sua partenza, dopo aver soggiornato per un anno in
Austrasia e almeno per qualche mese a Parigi, e che –
soprattutto – non fece mai più ritorno in Italia. Questi e altri
tratti particolari hanno portato a pensare che la motivazione
presentata da Venanzio stesso nella Vita Martini sia null’altro
che una motivazione di facciata, dovuta evidentemente
all’influenza del genere letterario agiografico entro il quale è
inquadrata, ma dietro alla quale si nasconderebbero in
verità altre spinte54.
Ha destato sospetti anche il tortuosissimo itinerario prescelto: per recarsi da Ravenna alla Gallia la via più immediata lo avrebbe indotto a risalire la pianura padana e valicare (o aggirare via mare) le Alpi occidentali portandosi così
direttamente in Gallia, con il vantaggio di rimanere sempre a
contatto di popolazioni romane o di antica romanizzazione55.
Venanzio invece si diresse verso settentrione percorrendo la
pianura veneta per poi valicare ben tre volte lo spartiacque
alpino: dapprima al passo di Monte Croce Carnico, poi a
San Candido e infine sul passo di Resia, giungendo così
nella Germania meridionale, attraversando territorî occupati
da popolazioni barbariche completamente estranee alla cultura romana quali i Baiovari e gli Alamanni56.
Particolari sono pure le circostanze storiche nelle quali il
viaggio si colloca: Venanzio lasciò l’Italia riconquistata
appena qualche mese prima della morte dell’imperatore
Giustiniano (novembre 565), e soltanto tre anni prima della
calata in Italia dei Longobardi, che avrebbe cambiato radicalmente la situazione politica nella penisola, vanificando in
brevissimo tempo tutti i risultati ottenuti da Bisanzio durante
la ventennale campagna contro gli Ostrogoti. Ancora, come
già accennato, da qualche anno soltanto si era consumato
lo strappo tra la Sede apostolica e le due metropoli ecclesiastiche di Milano e Aquileia a seguito della controversia
sui Tre Capitoli (555). Per il viaggio del poeta si è pertanto
pensato alle motivazioni più diverse, che potevano andare
dalla missione politica alla ricerca di fortuna letteraria al dissenso teologico.
Vi è stato ad esempio chi ha ritenuto che la sua partenza potesse essere dovuta a motivi di ordine politico legati
alla riconquista bizantina dell’Italia. Pare infatti che Venanzio
44
abbia avuto il suo primo protettore nel vescovo Vitale di
Altino, che proprio nel 565 fu tratto in arresto dal generale
bizantino Narsete e deportato in Sicilia57. Questo legame
avrebbe reso il giovane poeta inviso all’autorità imperiale,
sicché, prima di essere trascinato dalla caduta di colui che
probabilmente fu il suo primo mecenate, egli scelse di porsi
sotto la tutela del re Sigiberto, che fino a pochissimo tempo
prima aveva condotto alla frontiera orientale del suo regno
una campagna contro gli Avari allora alleati di Bisanzio58.
Il legame di Venanzio con Vitale, vescovo scismatico suffraganeo di Aquileia, potrebbe inoltre costituire un indizio –
ancorché indiretto – del suo coinvolgimento nella questione
dei Tre Capitoli, probabilmente la principale causa della
rovina del vescovo altinate: al riguardo vi sono infatti diversi
elementi che porterebbero a vedere nel poeta un partigiano
dei vescovi scismatici59. In primo luogo, l’entusiastica apostrofe contenuta nel carme indirizzato a nome di Radegonda
verso il 570 al nuovo imperatore Giustino II, successore di
Giustiniano, che «quidquid concilium statuit Calcedonense
tenet»60: dietro queste parole si riconosce la polemica delle
chiese scismatiche, che accusavano il concilio costantinopolitano II del 553, voluto da Giustiniano e approvato obtorto collo dal papa Vigilio, di aver implicitamente sconfessato
la dottrina calcedonese condannando gli scritti dei tre Padri
al solo scopo di venire incontro ai monofisiti, i quali godevano del favore dell’imperatrice Teodora. Poi, il contatto, avvenuto nel momento stesso dell’arrivo in Gallia, con il vescovo
Nicezio di Treviri, autore di una lettera a Giustiniano nella
quale si condanna la sua politica religiosa, e in rapporti di
corrispondenza con diversi suoi confratelli dell’Italia settentrionale61; nonché la già ricordata amicizia con Felice, divenuto vescovo scismatico di Treviso e – a quel che pare –
uomo di sentimenti fieramente antibizantini62, amicizia iniziatasi a Ravenna ma protrattasi per lettera anche dopo il trasferimento in Gallia. Ancora, il deferente ossequio tributato
al “patriarca” scismatico Paolo, che il poeta significativamente definisce pontifex pius da adorare cupienter63. Infine,
per quanto può valere un argumentum ex silentio, l’assenza
negli scritti venanziani di qualsiasi cenno ai papi suoi contemporanei, a fronte del riconoscimento in linea di principio
del primato dottrinale della cathedra Petri, ch’egli forse riteneva al momento occupata da persone indegne (Vigilio e i
successori Pelagio I e Giovanni III) che ne avrebbero tradito il vero insegnamento64.
Un proseguimento della carriera nella Ravenna imperia45
le e ortodossa sarebbe stato dunque per lui pressoché
impossibile, e ancora più scarse sarebbero state le possibilità nei centri minori della Venetia, e ciò non soltanto per l’oggettiva difficoltà di trovare committenti e patroni, ma pure e
soprattutto perché tali centri, ancorché sottoposti alla giurisdizione ecclesiastica della metropoli scismatica di
Aquileia, erano pur sempre parte dell’Italia riconquistata dai
Bizantini, i quali non rifuggivano da metodi violentemente
coercitivi allo scopo di ricondurre i vescovi scismatici all’obbedienza alla Sede apostolica65. Al contrario, i vescovi della
Gallia non presero mai posizione né a favore né contro la
condanna dei Tre Capitoli, per diversi ordini di motivi: da un
lato, la Chiesa gallica non contava al suo interno metropoli
di grande prestigio, dotate di forza aggregante e capaci
perciò di organizzare una resistenza durevole; in quelle
regioni inoltre era inesistente il risentimento anti-bizantino
che invece serpeggiava in Italia già all’indomani della riconquista, a causa dei pesantissimi gravami fiscali imposti per
risollevare le casse dell’impero, esauste dalla lunghissima
guerra combattuta su due fronti, quello italico e quello persiano. Ancora, e proprio perché in grado di giudicare sine
ira et studio, i vescovi gallici, tutti allineati all’ortodossia calcedonese, non dettero soverchia importanza a quaestiones
superfluae come la condanna dei tre scrittori ecclesiastici –
il cui pensiero peraltro risulta oggettivamente velato di nestorianesimo – la quale sola certo non bastava ai loro occhi a
sconfessare de facto le decisioni di un concilio ecumenico66.
Durante tutto il periodo dello scisma – che ad Aquileia si protrasse fino alla fine del secolo VII – essi intrattennero regolari rapporti con le diocesi dell’Italia settentrionale, considerandosi in comunione con queste come pure con la sede di
Pietro e con tutti coloro che accettavano la fede di
Calcedonia, a prescindere dagli sviluppi successivi67.
A tutto ciò bisogna aggiungere che nei territorî gallici, a
dispetto delle invasioni e della conquista da parte di un
popolo barbaro, la cultura latina, sebbene andasse decadendo secondo il noto giudizio con cui Gregorio di Tours
apre i suoi Historiarum libri68, e tendesse a divenire patrimonio di un numero sempre minore di persone, godeva tuttavia
ancora di un altissimo prestigio, rimasto intatto dai tempi
della grande stagione letteraria della tarda antichità, in cui
fiorirono scrittori come Ausonio, Paolino di Nola, Rutilio
Namaziano e Sidonio Apollinare. Fin dalle fasi immediatamente successive al loro stabilizzarsi da nuovi dominatori in
quelle terre, i Franchi intesero presentare se stessi come i
46
legittimi successori ed eredi dei Romani, proponendosi di
assorbirne istituzioni, usanze e cultura, senza per questo
rinunciare alle tradizioni loro proprie69: dei quattro sovrani
che regnavano all’epoca in cui giunse Venanzio, due,
Sigiberto I e soprattutto Chilperico I, erano entusiasti e affascinati estimatori della cultura latina, che intendevano promuovere e far rifiorire nei loro regni dopo la crisi seguita al
periodo delle invasioni70. Un letterato di formazione italiana
era pertanto in grado di offrire ai re merovingi proprio quei
servigi culturali e letterarî che essi ricercavano, e che certamente era assai difficile reperire nell’ambiente locale71; ma
era in grado al contempo di farsi portavoce delle legittime
istanze della vecchia aristocrazia gallo-romana, che non
intendeva rinunciare al suo antico ruolo guida nel paese. Per
questo aspetto dunque la Gallia poteva offrire a un giovane
poeta intraprendente molte più possibilità di carriera che
non l’Italia, fiaccata da una guerra durata vent’anni e ridotta
ormai a semplice provincia bizantina, dove conseguentemente l’assenza di una corte avrebbe reso oltremodo difficile l’affermazione dei letterati72.
Un certo seguito ha trovato negli ultimi anni l’idea proposta dallo storico
sloveno Jaroslav Šašel, secondo cui Venanzio, lungi dal trovarsi in posizioni di attrito con il potere bizantino, ne sarebbe stato invece un agente, incaricato di svolgere una sorta di missione diplomatica in Gallia, allo
scopo di mantenere il regno franco, e l’Austrasia in particolare, nell’orbita dell’Impero, isolando così i Longobardi. In vista di ciò il poeta, con la
sua presenza e con l’attività letteraria, avrebbe dovuto tenere desto presso i Merovingi l’ideale di continuità culturale con il mondo romano antico73. In questa prospettiva sarebbe pure da vedere il particolare interesse di Venanzio per la regina Radegonda, ché alcuni tra i suoi familiari,
dopo la caduta del regno turingico, avevano trovato rifugio nella Ravenna
ostrogota, donde furono poi tratti a Bisanzio: tra questi il cugino
Amalafredo, che prestava servizio nelle armate imperiali, e il nipote
Artàchi74. Nondimeno l’idea di un Venanzio agente segreto di Bisanzio
pare non resistere a un’analisi approfondita: in un recente articolo B.
Brennan osserva infatti come molte delle premesse da cui partiva Šašel
non siano condivisibili e come non vi sia alcun indizio che il poeta possa
aver influenzato la politica estera di Sigiberto I75. Non ci dilungheremo
oltre su tale questione, anche perché ci sembra che i dati sopra esposti
riguardo la posizione di Venanzio sulla questione tricapitolina portino a
escludere un suo ruolo di agente imperiale.
Lasciata Poitiers, evidentemente con tutta l’intenzione di
ritornarvici, Venanzio si spinse verso il sud-ovest della
Gallia, soggiornando per qualche tempo a Bordeaux, ove
entrò in contatto con il vescovo Leonzio II, destinatario di un
buon numero di carmi76; in seguito proseguì fino a raggiungere Tolosa77. Quindi, nel luglio di un anno che assai probabilmente è il 568, giunse fino in vista dei Pirenei coperti di
neve78. Recentemente si è altresì supposto ch’egli possa
47
essersi spinto ben oltre, giungendo nella penisola iberica
fino a Bracara (l’attuale Braga nel Portogallo nordoccidentale), per incontrarsi con il vescovo locale Martino, con il quale
in seguito intrattenne rapporti epistolari79.
Alla fine del 568 Venanzio fece ritorno a Poitiers, verisimilmente fermandosi per breve tempo a Saintes80, e – a quel
che pare – prese a occuparsi su richiesta di Radegonda
degli affari esterni del monastero, che in pochi anni aveva
acquisito diverse donazioni sia da parte dei sovrani che da
parte di altri esponenti dell’alta società locale81. In questo
periodo ebbe modo di stringere relazioni con il vescovo diocesano Pascenzio, cui dedicò due scritti in prosa sui miracoli e sulla vita di sant’Ilario di Poitiers, e di rinsaldare il legame con il titolare della vicina sede di Tours, Eufronio, destinatario di due nuove lettere in prosa82. Entrambi i presuli
morirono nel giro di qualche anno, e i loro rispettivi successori ebbero sul poeta influenze di segno opposto. Se infatti
il nuovo vescovo di Poitiers, Maroveo, succeduto a
Pascenzio attorno al 56983, era animato da una fortissima
ostilità verso la fondazione monastica di Radegonda e conseguentemente verso tutti i collaboratori di quest’ultima84,
con il nuovo vescovo di Tours, Gregorio, eletto nel 573,
uomo caratterizzato da intelligenza vividissima e da sollecita attenzione alla letteratura, nonché scrittore egli stesso,
Venanzio strinse un’amicizia destinata a durare fino alla
morte del presule, avvenuta probabilmente nel 594.
Gregorio fu un fervido ammiratore della cultura classica dell’amico, che nei suoi scritti pose alla pari con i talenti letterarî più celebrati della Gallia dei secoli precedenti85. Fu proprio Gregorio a commissionargli numerosi carmi in occasione di festività e celebrazioni solenni, oppure a sollecitarlo a
comporre poesie adoperando metri inusuali e ricercati86.
Infine, fu sempre il presule turonense a insistere presso
Venanzio, tra il 576 e il 577, perché questi pubblicasse i
carmi che aveva composto fino a quel momento: il poeta
cedette alle istanze dell’amico e rese pubblica la sua prima
raccolta poetica, comprendente gli attuali libri I-VII87.
Venanzio si era da poco tempo stabilito a Poitiers allorquando, presumibilmente nello stesso anno 568, fu testimone del passaggio per Poitiers del corteo che accompagnava a Parigi la promessa sposa del re Chilperico I,
Gelesvinta88. Ella era figlia del re visigoto Atanagildo e sorella maggiore di Brunichilde; proprio il matrimonio legittimo di
Sigiberto con quest’ultima, che aveva trovato l’unanime
48
approvazione del clero austrasiano, sembra aver spinto
Chilperico ad abbandonare gli amori ancillari con
Fredegonda e altre donne per passare a un legame ufficiale e consacrato con una fanciulla di sangue regale. Le
nozze furono celebrate a Rouen, ma dopo qualche mese
Gelesvinta fu trovata strangolata nel proprio letto89. A seguito di questo luttuoso evento Venanzio compose una lunga
elegia consolatoria indirizzata alla madre di Gelesvinta,
Goisvinta, e alla sorella Brunichilde90. Certamente l’ispirazione gli venne per suggerimento di Radegonda, che sperava
in questo modo di contribuire a riappacificare gli animi all’interno della famiglia reale91. Infatti l’assassinio di Gelesvinta,
ordito con ogni verisimiglianza dalla concubina spodestata
Fredegonda con la complicità dello stesso Chilperico, fu la
causa che scatenò la guerra fra quest’ultimo e il fratellastro
Sigiberto. Ben difficilmente il poeta si sarebbe invischiato da
solo in una materia tanto delicata per gli equilibrî sempre
precarî del regno franco.
Nel 569 Radegonda, intendendo aumentare il prestigio
della propria fondazione monastica, decise di rivolgersi
all’imperatore d’Oriente Giustino II allo scopo di ottenere da
lui un frammento del legno della vera Croce di Cristo, che
era stata ritrovata da sant’Elena madre di Costantino al principio del secolo IV, e da allora era custodita a
Costantinopoli. Ottenuto il benestare ufficiale dal figliastro
Sigiberto, del cui regno Poitiers era entrata a far parte dopo
la morte di Cariberto, un’ambasceria franca partì da Metz
per Bisanzio92. In quest’occasione Venanzio scrisse un
carme in cui presentava se stesso e Radegonda alla corte
imperiale, delineando la regina come una persona sensibile, pia, colta e devota, e invitando gli intellettuali bizantini a
inviare in omaggio al monastero libri di argomento religioso93. Accanto a questa composizione egli preparò, su esplicito incarico e a nome di Radegonda, un’appassionata elegia indirizzata al cugino della regina, Amalafredo, che –
come già anticipato – dopo la caduta del regno turingico
aveva trovato rifugio a Ravenna e poi a Costantinopoli, ove
si era arrolato nelle armate imperiali: Radegonda intendeva
riprendere i contatti con l’unico consanguineo che le era
rimasto dopo l’uccisione del fratello da parte del re Clotario
I suo sposo94. Quando l’ambasceria ritornò da Bisanzio,
recando con sé la preziosa reliquia, essa fu solennemente
installata nella chiesa del monastero, che in quell’occasione
mutò il titolo primitivo alla Vergine in quello alla Santa Croce.
Le fastosissime celebrazioni furono disertate dal vescovo
49
diocesano Maroveo, verisimilmente perché questi scorgeva
nella presenza della reliquia nel cenobio un fattore che
avrebbe diminuito di molto l’importanza degli altri luoghi di
culto della città di Poitiers, in primis della sua cattedrale,
deviando l’afflusso dei pellegrini e dei donativi; la cerimonia
fu pertanto officiata su richiesta di Sigiberto dal vescovo
Eufronio di Tours95. Per l’occasione Venanzio compose una
serie di carmi, tra i quali spiccano due carmina figurata
costruiti appunto a schema cruciforme, nonché i due celeberrimi inni processionali Pange, lingua, gloriosi proelium
certaminis e Vexilla regis prodeunt, che furono ben presto
recepiti nella liturgia della Chiesa latina e ornati durante il
medioevo da meravigliose melodie96. La medesima ambasceria riportò inoltre in dono preziosi drappi di seta97, ma
pure una notizia triste per Radegonda: al suo appello al
cugino Amalafredo giunse infatti in risposta una lettera di un
parente di nome Artàchi, che annunciava la morte del congiunto98. Dopo la cerimonia fu ancora una volta Venanzio a
indirizzare, a nome di Radegonda, un solenne panegirico di
ringraziamento all’imperatore Giustino II e all’imperatrice
Sofia, e in risposta ad Artàchi un lamento sulla morte del
cugino che è nel contempo una richiesta di supporto e
sostegno all’opera della regina99.
Nel 573, in occasione della consacrazione di Gregorio
quale nuovo vescovo di Tours, Venanzio compose un carme
di felicitazione indirizzato alla popolazione della città100, e
poco dopo, su sollecitazione del vescovo Germano di
Parigi, compilò in prosa la biografia di san Marcello, della
quale poi donò pure una copia alla biblioteca del monastero di Radegonda101. Probabilmente a questa stessa epoca
risale anche la stesura di un’altra uita, quella di san Paterno
vescovo di Avranches, morto da poco, commissionatagli da
Marziano, abate di un monastero fondato dal santo.
Sebbene avesse preso dimora stabile a Poitiers,
Venanzio non mancò di compiere altri viaggi, durante i quali
gli si presentarono ancora occasioni per stringere rapporti
con personalità ecclesiastiche: a Bordeaux egli conobbe
Bertrando, che dal 573 occupava la cattedra che era stata di
Leonzio II103, mentre a Nantes frequentò il vescovo Felice104,
destinatario di diversi carmi, con il quale peraltro i rapporti
presto si raffreddarono in seguito all’accesa ostilità che scoppiò tra quest’ultimo e il suo metropolita Gregorio di Tours105.
Ancora nella prima metà del decennio sarà molto probabilmente da collocare anche un viaggio del poeta ad Angers
presso il vescovo Domiziano105: per istanza di costui
50
Venanzio scrisse in prosa la biografia di sant’Albino, abate
del vicino monastero di Tincillacum. Sembra sia da collegare a quest’ultimo viaggio anche l’invito rivoltogli dal vescovo
Felice di Nantes affinché visitasse la sua proprietà di
Cariacum, situata lungo il corso della Loira106. Parimenti in
questi anni saranno da collocarsi diversi altri viaggi i cui
contorni precisi ci sfuggono107.
I mesi centrali del 575 vedono Venanzio impegnato nella
stesura della sua opera di maggior impegno: la Vita Martini,
parafrasi poetica, in quattro libri di esametri, della narrazione della vita e dei miracoli del santo vescovo di Tours composta alla fine del IV secolo dal discepolo Sulpicio Severo,
impresa già condotta nel V secolo dal poeta Paolino di
Petricordia (Périgueux)108.
In quello stesso anno la guerra tra Sigiberto e Chilperico
subì una svolta improvvisa: fino a quel momento le sorti del
conflitto erano state generalmente favorevoli al primo dei
due fratelli, anche se al secondo era riuscito di occupare
Tours e Poitiers una prima volta nel 572 soltanto per qualche
mese, e in seguito nel 574, ancora una volta temporaneamente, grazie a una spedizione comandata dal figlio
Teodeberto109. Sigiberto era però in deciso vantaggio nel
nord, tanto che Chilperico, assieme a Fredegonda e ai figli,
finì col trovarsi braccato dalle truppe austrasiane; si asserragliò a Tournai, e si trovava già sul punto di capitolare,
quando Sigiberto, proprio nell’istante in cui stava per essere salutato come re da parte dei soldati del fratello, fu
improvvisamente colpito a morte da alcuni sicarî, inviati da
Fredegonda110. Conseguenza di questo delitto fu un momentaneo cedimento della parte austrasiana, che nondimeno in
breve tempo riuscì a difendere le proprie posizioni grazie al
carisma e alla determinazione della regina Brunichilde; in
ogni caso Chilperico seppe approfittare della sua temporanea posizione di forza rioccupando Parigi e Soissons, mentre ebbe maggiori difficoltà quando intese invadere per la
terza volta la regione di Tours e Poitiers. Dapprima egli inviò
con questo compito il proprio figlio Meroveo, che però si
ribellò al padre, sposando la vedova di Sigiberto e prendendone le parti; in seguito le due città dovettero egualmente capitolare nel 579111.
Se seguiamo l’opinione della maggioranza degli studiosi, durante questi anni Venanzio ricevette l’ordinazione
sacerdotale, con ogni verisimiglianza su esortazione di
Radegonda112: quale appartenente al clero secolare egli si
trovava così sottoposto alla giurisdizione del vescovo di
51
Poitiers Maroveo, che lo coinvolse nella sua ostilità verso
tutto quanto fosse connesso con Radegonda e con il monastero di Santa Croce. Gli fu così ad esempio impedito di viaggiare per recarsi a Tours in visita dal suo amico Gregorio113.
Quest’ultimo in ogni caso continuò ad apprezzare e a sostenere il talento poetico di Venanzio, e quando, il giorno
dell’Ascensione del 576, il vescovo Avito di Clermont, suo
maestro spirituale, riuscì a ottenere la conversione della
quasi totalità degli Ebrei che dimoravano nella sua diocesi,
Gregorio commissionò all’amico poeta un carme a celebrazione di quell’evento eccezionale114. Probabilmente fu nella
stessa occasione, o nel primo anniversario della stessa, che
il vescovo turonense rivolse a Venanzio il già ricordato invito
a curare un’edizione ufficiale di tutti i carmi ch’egli aveva
composto, e che sino a quel momento avevano circolato in
singole copie a carattere privato115. Forse allo stesso periodo
risale pure il diffondersi di voci malevole concernenti il rapporto del poeta con le monache di Santa Croce e con
Agnese in particolare: Venanzio sentì il bisogno di dichiarare
pubblicamente, in un carme indirizzato a Radegonda, che in
quel legame nulla vi era di equivoco, che come egli amava
lei dell’affetto devoto che si deve a una madre, così per
Agnese nutriva lo stesso sentimento che in gioventù lo aveva
unito alla propria sorella Tiziana116.
Gli anni seguenti dovettero essere difficili per Venanzio:
l’occupazione del territorio di Poitiers da parte delle forze di
Chilperico, completatasi tra il 577 e il 579, aveva reciso ogni
legame con il regno nemico, ora governato dal figlio men
che decenne di Sigiberto, Childeberto II, sotto la reggenza
della madre Brunichilde e del tutore Gogone. Il poeta dovette conseguentemente interrompere ogni rapporto epistolare
con i dignitarî dell’Austrasia e della Provenza cui negli anni
precedenti si era legato, e certamente anche la situazione
interna non era migliore117. Quale unico patrono gli rimaneva
Gregorio di Tours, ma anche questi si sentiva minacciato
nella persona e nel patrimonio, dati i suoi sentimenti filoaustrasiani118; nondimeno, in queste situazioni d’angustia il
vescovo espresse con un segno tangibile la stima nutrita nei
confronti dell’amico venuto dall’Italia: seguendo l’illustre
esempio di Mecenate verso Orazio, egli mise a disposizione
di Venanzio una tenuta con un terreno situata lungo il corso
del fiume Vienne, verisimilmente a metà strada tra Tours e
Poitiers oppure a oriente di quest’ultima città119. Da allora il
poeta visse tra la città di Poitiers e il suo podere, occupandosi spesso personalmente della semina e del raccolto120.
52
Questo periodo d’insicurezza politica coincide probabilmente con un isterilimento della vena poetica: soltanto
pochissimi tra i carmi risalgono con certezza a questi anni121.
Tuttavia altre e più gravi circostanze avrebbero di lì a poco
sollecitato novamente il talento del poeta. Nella primavera
del 580 Gregorio di Tours fu convocato dal re Chilperico I
alla sua villa di Berny-Rivière presso Soissons, per rispondere davanti a un sinodo di vescovi di una pesantissima
accusa: egli era stato infatti incolpato di aver diffuso voci
calunniose in merito a una presunta relazione adulterina
della regina Fredegonda con il vescovo Bertrando di
Bordeaux122. In quell’occasione Gregorio si discolpò con un
giuramento, e Venanzio pronunciò un solenne panegirico
del re Chilperico, riservando un cenno anche alle virtù della
sua consorte123. Questo elogio di due personaggi che
Gregorio di Tours nella sua opera storiografica tratteggia a
tinte foschissime ha procurato al poeta da parte di una certa
critica l’accusa di adulazione e di opportunismo124, nondimeno la critica più recente vi ha invece ravvisato un leale e
generoso tentativo di venire in soccorso dell’amico125. In particolare si è riconosciuto che il ritratto di Chilperico quale
principe ideale dovette essere concepito come un discorso
retorico a carattere pedagogico-didascalico, ovvero quale
tratteggio di un modello ideale che il destinatario era invitato a contemplare per poi emulare in sé.
Contemporaneamente a questi avvenimenti scoppiò in
tutta la Gallia nordoccidentale una violentissima epidemia di
dissenteria, della quale caddero vittime i due giovani figli di
Chilperico e Fredegonda: Clodoberto e Dagoberto.
Venanzio compose gli epitaffî dei due fanciulli126 e indirizzò
pure un carme consolatorio ai genitori127. Un secondo carme
consolatorio fu poi scritto dal poeta nella primavera del 581,
molto probabilmente in occasione di un suo viaggio a Parigi,
compiuto allo scopo di raccogliere materiali e testimonianze
in vista della composizione della biografia in prosa del
vescovo locale Germano, morto il 28 maggio del 576, commissionatagli dal successore Ragnemodo128. Nella nuova
consolatio indirizzata ai sovrani il risveglio della natura a primavera è còlto quale stimolo ad abbandonare il dolore per i
recenti lutti e a ritornare alla vita consueta129.
La morte dei due figli di Chilperico apriva nuove possibilità per quella parte minoritaria dell’aristocrazia austrasiana, capeggiata dal vescovo Igidio di Reims, che auspicava
la riconciliazione con il regno rivale: Chilperico infatti, rimasto senza eredi, avrebbe potuto adottare il nipote
53
Childeberto II, figlio di Sigiberto, tanto più che in quegli stessi mesi morì pure Gogone, tutore del fanciullo e principale
esponente del partito contrario alla riconciliazione130.
Tali progetti però non addivennero a nulla, ché una
nuova svolta politica ebbe luogo nel 584, quando Chilperico
I venne assassinato presso Chelles131. Anche questa volta vi
fu chi vide dietro il delitto la longa manus di Fredegonda;
conseguenza fu ad ogni modo il ritorno delle città di Tours e
Poitiers ai possedimenti di Childeberto II e della madre
Brunichilde, quantunque fossero state assegnate de iure al
regno di Gontrano132. Per Venanzio tutto ciò significò la ripresa, dopo quasi dieci anni, delle relazioni con la corte che
per prima lo aveva ospitato, e con i dignitarî che erano stati
conquistati per primi dal suo talento poetico.
Una prova dell’immediato coinvolgimento del poeta nella conduzione
politica austrasiana si potrà avere qualora si accetti la proposta, recentissimamente formulata da Elena Malaspina, di attribuire a Venanzio la
lettera contrassegnata con il numero 43 nella silloge delle Epistulae
Austrasicae, la quale nell’unico manoscritto che ce la tramanda risulta
essere opera di un altrimenti sconosciuto (e improbabile) Furtuna, da
integrare quindi in Furtunati (epistula). La lettera in questione fu portata
a Costantinopoli assieme ad altre tre (44, 45 e 47) da un’ambasceria guidata da due funzionarî austrasiani, Babone e Gripone, tra la fine del 585
e la primavera dell’anno successivo, con lo scopo di ottenere dall’imperatore Maurizio la restituzione, o almeno la protezione, di Atanagildo,
figlio del defunto principe visigoto Ermenegildo e di Ingonda, sorella di
Childeberto II: madre e figlio si trovavano infatti quali pegni nelle mani dei
Bizantini. La lettera della quale Venanzio sarebbe l’estensore, nel ruolo di
occasionale dictator a servizio della corte austrasiana dopo la morte di
Gogone, presenta uno stile affine a quello dei suoi scritti agiografici, ed
è concepita in maniera retoricamente ricercata. Si presenta infatti come
una missiva del quindicenne Childeberto II indirizzata al figlio di
Maurizio, Teodosio, che all’epoca aveva certamente meno di tre anni: un
espediente poetico per giovare alla causa di Atanagildo, anch’egli poco
più che un neonato133.
La nuova situazione politico-dinastica, supportata dall’episcopato e dai nobili d’Austrasia e di Borgogna, fu ufficialmente sancita il 28 novembre del 587 con il trattato di
Andelot, in base al quale l’ultimo superstite fra i quattro fratelli che si erano spartiti il regno ventisei anni prima, il re di
Borgogna Gontrano, che non aveva figli, riconobbe quale
suo erede il giovane nipote Childeberto II e garantì la difesa
per lui e per la madre134. Colei che tanto si era impegnata per
garantire la pace tra i sovrani, Radegonda, non poté però
vivere questo solenne momento di riconciliazione: qualche
mese prima della stipula del trattato, il 13 agosto del 587,
ella moriva, seguendo di poco la dipartita della sua discepola Agnese135.
Nell’anno 588, poco tempo dopo questo duplice lutto,
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che dové toccare Venanzio nel profondo, egli accompagnò
l’amico Gregorio che era stato convocato a Metz dal re
Childeberto II per essere investito di una missione diplomatica presso lo zio Gontrano, allo scopo di concordare l’applicazione pratica del trattato136. Gregorio e Venanzio furono
accolti con tutti gli onori dalla corte presso Metz, e in seguito furono invitati a salire sul battello regale per un viaggio
lungo la Mosella e il Reno, durante il quale fecero sosta a
Treviri e a Coblenza, raggiungendo infine la cittadella di
Andernach137. Probabilmente durante questo soggiorno alla
corte austrasiana il nostro poeta compose anche un carme
di elogio per Childeberto II e Brunichilde138.
Il viaggio fu certamente di breve durata, e Venanzio già
in quello stesso anno 588 fece ritorno a Poitiers: fu presumibilmente in questo periodo ch’egli attese alla stesura della
biografia in prosa della sua madre spirituale, Radegonda.
Una biografia che, alquanto stranamente vista la ventennale frequentazione quasi quotidiana tra i due, tratta esclusivamente della vita ascetica della regina, presentata come il
modello perfetto di un’esistenza dedicata alla mortificazione
e alla contemplazione, senza mai entrare in argomenti da
cui far emergere i tratti della sua personalità, come ci si
potrebbe aspettare in un caso come questo. L’opera dovette sembrare fredda e distaccata già ai contemporanei, giacché circa vent’anni dopo la monaca Baudonivia, discepola
di Radegonda, si decise a scrivere una nuova biografia
della santa, nella quale traspare con evidenza l’intenzione di
compiere un lavoro che faccia in qualche modo da complemento alla biografia fortunaziana, diffondendosi su quegli
aspetti individuali e umani che Venanzio, preoccupato di
presentare la sua eroina come una pura asceta sempre tesa
all’assoluto, aveva tralasciato. Poco dopo la biografia di
Radegonda il poeta prese a scrivere, probabilmente su
incarico del nuovo vescovo di Bordeaux, succeduto a
Bertrando dopo il 585, quella di san Severino, che resse
quest’ultima diocesi nella prima metà del secolo V.
Quest’opera, della cui esistenza ci assicurava un cenno di
Gregorio di Tours139, fu considerata a lungo perduta, finché
fu riconosciuta circa un secolo fa dal benedettino H. Quentin
in una Vita anonima conservata in diversi manoscritti140.
Durante il successivo anno 589 il poeta, che mai aveva
smesso di interessarsi alla vita della comunità di Santa
Croce, rimase coinvolto nei disordini scatenati nel convento
da una delle monache, Crodielda, figlia del defunto re
Cariberto, la quale si era ribellata alla conduzione della
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nuova badessa Leubovera, succeduta ad Agnese141. La
situazione pericolosa indusse Venanzio a tentare un intervento presso Gregorio, dalla cui autorità il monastero dipendeva, affinché si portasse quanto prima a Poitiers per porre
fine allo scandalo142. Ancora nel 589 Gregorio di Tours richiese il supporto letterario dell’amico per la buona riuscita di
una controversia sorta con gli esattori delle tasse inviati da
Childeberto II con l’intento di estendere anche alla città di
Tours il regime fiscale vigente nel resto del regno143. Fin dai
tempi di Clodoveo la città era infatti stata esonerata dal
pagamento di qualsivoglia imposta, in considerazione del
fatto ch’essa era stata la sede episcopale di san Martino, la
cui santità e i cui miracoli meritavano riverente deferenza.
Poiché le casse del regno di Childebrto II erano ancora
esauste a causa del decennale conflitto con Chilperico, il
giovane sovrano intendeva togliere alla città le esenzioni di
cui godeva. Venanzio si recò quindi a Tours, ricevette gli
esattori in luogo e su incarico di Gregorio, intervenendo pure
con un carme in lode del santo e dei sovrani144.
L’atteggiamento forte del vescovo, ai limiti della minaccia, e
alcune circostanze interpretate come ammonimenti dall’alto
di san Martino indussero Childeberto a desistere dal suo
proposito, confermando i privilegi alla città145.
L’anno successivo, quando Gregorio celebrò la dedicazione della cattedrale di Tours, da lui stesso restaurata e
ingrandita, Venanzio ebbe l’incarico di stendere delle didascalie in versi da apporre sotto le pitture del nuovo tempio
che raffiguravano le storie e i miracoli di san Martino146. In
questi stessi anni il poeta raccolse e pubblicò tutta la sua
produzione letteraria composta dall’epoca dell’edizione dei
primi sette libri (576/577) in poi: i due libri di carmi così ricavati andarono a formare gli attuali libri ottavo e nono della
raccolta147.
Nel 591, alla morte del vescovo Maroveo, fu elevato alla
sede episcopale di Poitiers un arcidiacono appartenente al
clero di Tours, Platone: in occasione del suo ingresso
Venanzio compose un carme di benvenuto148. Non sappiamo quanti anni sia durato l’episcopato di Platone, poiché di
quest’ultimo non è conosciuta la data della morte; non saremo però lontani dalla verità nel supporre ch’egli abbia occupato la cattedra di Poitiers per non più di qualche anno.
Successore di Platone fu infatti Venanzio stesso, e pare
ragionevole pensare ch’egli abbia avuto la preconizzazione
dal re Childeberto II grazie alla stima di cui godeva presso
Gregorio, e che proprio quest’ultimo gli abbia poi conferito
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l’ordinazione episcopale149. Poiché Gregorio morì – probabilmente – nel novembre del 594, è chiaro che, se le cose stanno così, Venanzio dovette accedere alla cattedra vescovile
poco prima di questa data150.
Anche il suo episcopato durò soltanto pochi anni: la data
della morte di Venanzio è sconosciuta, ma deve certamente
collocarsi nel primo decennio del secolo VII151. A questo ultimo periodo della sua vita risalgono le due opere omiletiche
sul Pater noster e sul Symbolum Apostolorum (quest’ultima
è quasi un’epitome dell’analogo commento composto alla
fine del IV secolo da Rufino di Concordia, con lievi modifiche
dovute sia alla personalità e alla sensibilità proprie di
Venanzio, sia al necessario adattamento della discussione
alla formula del simbolo adoperata nella chiesa di Poitiers,
non sempre identica a quella aquileiese) nonché la lunga
elegia in lode della Vergine, la cui autenticità fu a lungo contestata anche da parte di studiosi di altissima levatura prima
di essere definitivamente dimostrata negli anni Trenta da
Sven Blomgren152.
Alla sua morte fu sepolto nella basilica di sant’Ilario a
Poitiers; i suoi estimatori provvidero alla pubblicazione in
due libri degli scritti che furono trovati tra le sue carte153, e
già pochi anni più tardi fu venerato come santo154: la sua
festa si celebra ancor oggi il giorno 14 dicembre in alcune
diocesi francesi e nella diocesi italiana di Padova, nel cui
territorio è compresa Valdobbiadene155.
Più di un secolo e mezzo dopo la morte di Venanzio, tra
il 781 e il 786, il suo conterraneo Paolo Diacono, chiamato in
Francia a servizio di Carlo Magno, ne visitò la tomba e, su
richiesta dell’abate Apro, compose un epitaffio in distici elegiaci156:
Ingenio clarus, sensu celer, ore suauis,
cuius dulce melos pagina multa canit,
Fortunatus, apex uatum, uenerabilis actu,
Ausonia genitus, hac tumulatur humo.
Cuius ab ore sacro sanctorum gesta priorum
discimus: haec mostrant carpere lucis iter.
Felix, quae tantis decoraris, Gallia, gemmis,
lumine de quorum nox tibi tetra fugit.
Hos modicos prompsi plebeio carmine uersus
ne tuus in populis, sancte, lateret honor.
Redde uicem misero: ne iudice spernar ab aequo,
eximiis meritis posce, beate, precor.
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Un altro epitaffio, nel quale si avverte l’eco del precedente, gli fu dedicato qualche anno dopo da Alcuino157:
Hac quoque praesenti praesul requiescit in aula
Fortunatus enim uir, decus ecclesiae,
plurima qui fecit sanctorum carmina metro,
concelebrans sanctos laudibus hymnidicis.
Qui sermone fuit nitidus sensuque fidelis,
ingenio calidus, promptus et ore suo.
Le sue ossa, ancora devotamente conservate nel XVI
secolo, furono disperse dai protestanti nel 1562, assieme a
quelle del suo grande predecessore sant’Ilario158.
Note
(1) Mart. 4,668-669: per Cenitam gradiens et amicos Duplauenenses /
qua natale solum mihi sanguine, sede parentum… L’identificazione di
Duplauenis con l’attuale Valdobbiadene si trova proposta già nella Cronica trivigiana di Bartolomeo Zuccato, risalente al 1530 circa (Treviso, Biblioteca
Comunale, ms. 596, c. 8v); la dimostrazione puntuale è però dovuta a
Rambaldo degli Azzoni Avogaro, canonico della chiesa di Treviso vissuto negli anni centrali del secolo XVIII; cfr. Lettere del canonico Rambaldo degli
Azzoni Avogadro per la prima volta pubblicate in occasione delle nobili nozze Valier-Tiepolo, Venezia 1829, pp. 22-23, nonché M.A. Luchi, Vita Venantii
Fortunati, in Venantii Fortunati presbyteri Italici opera omnia… collecta… opera et studio d. Michaelis-Angeli Luchi, I, Romae 1786 (poi in Patrologia Latina
LXXXVIII, Parisiis 1850 [rist. anast. Turnhout 1991], cc. 19-52, § 8, c. 23C;
trad. franc. in Venanti Honori Clementiani Fortunati, presbyteri Italici, opera
poetica miscellanea. – Venance Fortunat. Poésies mêlèes traduites en
français pour la première foi par M. Charles Nisard, avec la collaboration,
pour les livres I-V, de M. Eugène Rittier, Paris 1887, p. 4. Esiste pure una traduzione italiana, da me non consultata: A. Arrigoni, Sopra la vita di Venanzio
Fortunato, nativo della diocesi di Padova e vescovo di Poitiers. Dissertazione
pubblicata ora in italiano, Venezia 1821, 18462). In generale sugli studi venanziani condotti da eruditi trevisani si veda I. Sartor, Venanzio Fortunato nell’erudizione, nella tradizione e nel culto in area veneta, in Venanzio Fortunato
tra Italia e Francia, Treviso 1993, pp. 267-276.
(2) Per una nascita nel 530 o negli anni immediatamente successivi si sono espressi M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des
Mittelalters, I, München 1911, p. 170; D. Tardi, Fortunat. Étude sur un dernier
représentant de la poésie latine dans la Gaule mérovingienne, Paris 1927, p.
24; P. de Labriolle, Histoire de la littérature latine chrétienne, II, Paris 1947, p.
757. La datazione attorno al 540 è stata invece difesa da R. Koebner,
Venantius Fortunatus. Seine Persönlichkeit und seine Stellung in der geistigen
Kultur des Merowingerreiches (Beiträge zur Geschichte des Mittelalters und
der Renaissance 22), Leipzig-Berlin 1915 [rist. anast. Hildesheim 1973], p.
58
11; M. Schuster, art. Venantius 18., in Realenzyklopädie der
Altertumswissenschaft, XV A (1955), c. 677. Ultimamente K. Langosch,
Gregor von Tours und Venantius Fortunatus – der merowingische
Geschichtsschreiber und der merowingische Dichter, in Id. Profile des lateinischen Mittelalters. Geschichtliche Bilder aus dem europäischen
Geistesleben, Darmstadt 1965, pp. 11-79, 51; J. Szövérffy, Weltliche Dichtung
des lateinischen Mittelalters, Berlin 1970, p. 223; B. Brennan, The Career of
Venantius Fortunatus, “Traditio”, XLI (1985), pp. 49-78, 50, e J. W. George,
Venantius Fortunatus. A Latin Poet in Merovingian Gaul, Oxford 1992, p. 19 lasciano aperta la questione, propendendo però per una datazione agli anni
immediatamente precedenti il 540; mentre M. Reydellet, Introduction, in
Venance Fortunat. Poèmes, I, livres I-IV, Paris 1994, p. VII, propone gli anni
attorno al 535.
(3) carm. 7,9,11; Mart. 4,669-670. Il nome della sorella è poi noto da
carm. 11,6,8; cfr. Prosopographie chrétienne du bas-empire, 2,
Prosopographie de l’Italie chrétienne (313-604), a cura di Ch. Pietri e L. Pietri,
II, Rome 2000, Titiana 2, p. 2207.
(4) J. Šašel, Il viaggio di Venanzio Fortunato e la sua attività in ordine alla politica bizantina, in Aquileia e l’Occidente (Antichità altoadriatiche 19),
Udine 1981, pp. 359-375, 360-361; George, Venantius Fortunatus, p. 19.
(5) Mart. 4,661-662: pontificemque pium Paulum cupienter adora / qui
me primaeuis conuerti optabat ab annis. Nella lingua cristiana conuerti assume il significato tecnico di “scegliere una forma di vita più vicina alla perfezione evangelica”. Abbastanza sorprendentemente sia Brennan, The Career,
p. 51 nota 15, che la George, Venantius Fortunatus, p. 19 nota 95, affermano
che del pius pontifex Paulus non vi è traccia nelle fonti, che invece conoscono un “patriarca Paolo”, con il quale però il nostro personaggio non può in alcun modo essere identificato. È invece ovvio che si tratta della medesima
persona.
(6) Che Paolo fosse stato monaco lo sappiamo da una lettera di papa
Pelagio I: Epist. pontif. Gassó-Batlle 24,5: quid autem iam de eorum principe
loquar, qui et monachum, si tamen aliquando fuit, inuadendi episcopatum
ambitu perdidit, et episcopatum nec contra morem factus nec scismaticus
potuit obtinere?
(7) Capofila di questa visione tra i moderni è Tardi, Fortunat, 25-36, ma la
convinzione è già di Luchi, Vita Venantii, 11 (Patrologia Latina LXXXVIII cc. 2324), e ancor prima G. G. Liruti, Notizie delle vite ed opere scritte da’ letterati
del Friuli…, I, Venezia 1760 [rist. anast. Bologna 1971], pp. 132-163, 134, ritenne che Venanzio fosse stato battezzato ad Aquileia per mano di Paolo.
(8) Di un legame particolare con la città di Treviso pare sia indice l’espressione mea Taruisus in Mart. 4,665, laddove Aquileia, pur nominata tre
volte dal poeta nel corso della sua opera, non è mai accompagnata da alcuna connotazione affettiva. Anche nel ricordo di Mart. 4,661-662 (cfr. la nota 5)
l’emozione del poeta pare legata assai più alla persona di Paolo che alla città
in sé. Sulle possibili tracce nella produzione venanziana di una specifica spiritualità aquileiese – la quale resta comunque assai difficile da definire – che
già Tardi, Fortunat, pp. 35-36 volle riconoscere, si veda ora il contributo di A.
Persic in questo volume.
(9) Mart. 4,680-701; carm. praef. 4; cfr. anche carm. 8,3,167: cara
Rauenna (da tenere presente per le considerazioni svolte alla nota precedente). Il ricordo della città non venne mai meno nel poeta, che si presentò
sempre come ravennate, e tale fu considerato dai suoi estimatori in Gallia, come attesta il v. 20 del ritmo De priuilegio, composto a Poitiers pochissimo tempo dopo la morte del poeta: ex Fortunato ab Rauenna Pictonum floret ciuitas
(ed. K. Strecker, Monumenta Germaniae historica, Poëtae Latini medii aeui IV
2, Berlin 1914 [rist. anast. München 1978] pp. 654-655), sul quale si veda lo
studio di W. Meyer, Ein merowinger Rythmus über Fortunat und altdeutsche
Rythmik in lateinischen Versen, “Nachrichten von der königlichen
Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen – Philologisch-historische
Klasse”, Berlin 1908, pp. 31-45.
(10) Mart. 1,26-33. Ignoriamo la data esatta in cui Venanzio si portò a
59
Ravenna; secondo Tardi, Fortunat, p. 27, certamente non prima del 552, giacché soltanto in quest’anno Narsete riesce a liberare definitivamente la regione attorno alla città dall’assedio del re ostrogoto Totila. Quanto agli studî di
giurisprudenza, soltanto Koebner, Venantius Fortunatus, p. 11, mette in dubbio l’interpretazione usuale delle parole del poeta; secondo lo studioso austriaco l’espressione cotes iuridica alluderebbe non già agli studî legali,
quanto piuttosto all’affinamento del gusto e delle capacità critico-letterarie.
Non trova infine alcun appoggio nelle fonti l’idea espressa da L. Navarra,
Venanzio Fortunato: stato degli studî e proposte di ricerca, in La cultura in
Italia fra tardo antico e alto medioevo, I, Roma 1981, pp. 605-610, 606, secondo cui durante gli anni ravennati Venanzio avrebbe avuto per maestro il
poeta Aratore. Dagli elementi in nostro possesso pare anzi che questi abbia
lasciato definitivamente Ravenna per Roma già nel 540, anno che costituisce
pure una delle ultime date certe per la sua vita, cfr. Manitius, Geschichte, pp.
162-164.
(11) Così da ultimo B. Brennan, Venantius Fortunatus: Byzantine Agent?,
“Byzantion”, LXV (1995), pp. 7-16, 7; nel precedente articolo, Id., The Career,
p. 52, egli sottolineava invece la particolare preparazione per la carriera di
poeta di professione. Diverso l’avviso di Šašel, Il viaggio, p. 373, che vede negli studi compiuti da Venanzio la tipica preparazione per una carriera amministrativa; su questa linea ora pure Reydellet, Introduction, p. VIII.
(12) Tardi, Fortunat, pp. 38-39. Secondo questo studioso, Venanzio non
avrebbe condiviso la posizione di scontro con la Sede apostolica assunta dal
metropolita aquileiese Macedonio riguardo all’ortodossia del concilio costantinopolitano II del 555, e avrebbe preferito abbandonare la terra natìa per rifugiarsi in ambiente cattolico. A questa idea bisogna però osservare che non
vi è alcun elemento nell’opera di Venanzio che porti a vedere in lui un fiero sostenitore dell’impero e della Sede apostolica contro i vescovi scismatici. Anzi,
come ha rilevato E. Stein, Histoire du Bas-Empire, II, De la disparition de
l’Empire d’Occident à la mort de Justinien (476-565), Paris-BruxellesAmsterdam 1949, pp. 832-834, vi sono casomai diversi indizî che porterebbero a sostenere l’idea opposta, come vedremo a proposito dell’abbandono
dell’Italia da parte del poeta per la Gallia merovingica.
(13) Cfr. carm. 7,13; Mart. 4,666; Paul. Diac. Lang. 2,13; Prosopographie
chrétienne du bas-empire, 2, Prosopographie de l’Italie chrétienne (313-604),
a cura di Ch. Pietri e L. Pietri, I, Rome 1999, Felix 54, p. 796. Per il suo ruolo
durante l’invasione longobarda in Italia si rimanda alla nota 62.
(14) Sul santo si rimanda a J. Lahache, Martino di Tours, in Bibliotheca
sanctorum, VIII, Roma 1966, cc. 1248-1279.
(15) Mart. 4,686-701; cfr. Paul. Diac. Lang. 2,13.
(16) La bibliografia specifica sul viaggio di Venanzio è abbondantissima,
citeremo H. Wopfner, Die Reise des Venantius Fortunatus durch die Ostalpen.
Ein Beitrag zur frühmittelalterlichen Verkehrs- und Siedlungsgeschichte, in
Festschrift zu Ehre E. von Ottenthals (Schlern-Schriften 9), Innsbruck 1925, pp.
362-417; K. Staudacher, Das Reisegedicht des Venantius Fortunatus, “Der
Schlern”, XV (1934), pp. 276-279; H. Wopfner, Zur Reise des Venantius
Fortunatus durch die Alpen, “Deutsche Gaue”, XXXVII (1937), pp. 21-25; G.
Conta, Il viaggio di Venanzio Fortunato attraverso le Alpi, “Rivista per l’Alto
Adige. Rivista di studî alpini”, LXXVII (1983), pp. 35-67 (Corona Alpium.
Miscellanea di studî in onore del prof. C.A. Mastrelli); M. Pavan, Venanzio
Fortunato tra Venetia, Danubio e Gallia merovingica, in Venanzio Fortunato tra
Italia e Francia, pp. 11-23 (precedentemente apparso in Id., Dall’Adriatico al
Danubio, a cura di M. Bonamente e G. Rosada [Saggi e materiali universitarî
17. – 16. serie di antichità e tradizione classica], Padova 1991, pp. 331-344);
G. Rosada, Il «viaggio» di Venanzio Fortunato ad Turones: il tratto da Ravenna
ai Breonum loca e la strada per submontana castella, in Venanzio Fortunato tra
Italia e Francia, pp. 25-57. Dello stesso si veda ora il contributo presente in
questo volume. Quanto alla data della partenza, prescindendo dagli studiosi
meno recenti, l’accordo sull’anno 565 è generale; l’unica voce discorde è M.
Pavan, Venanzio Fortunato, p. 18, che la assegna al periodo compreso fra l’autunno del 563 e la primavera del 564, senza fornire alcun appoggio in merito.
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(17) Questa almeno la posizione dell’ultima editrice del testo, S. Quesnel,
Introduction, in Venance Fortunat. Œuvres, IV, Vie de Saint Martin, Paris 1996,
p. XV; altri critici propendono per una datazione leggermente anteriore:
Koebner, Venantius Fortunatus, p. 86 nota 1, pensa al 573/574, e quest’ultimo
anno è proposto anche da Tardi, Fortunat, p. 181. Recentemente Brennan,
The Career, p. 55, ha riproposto la datazione di Koebner.
(18) W. Meyer, Der Gelegenheitsdichter Venantius Fortunatus
(Abhandlungen der königlichen Gesellschaft der Wissenschaften in Göttingen,
philologisch-historische Klasse, n. F. IV 5), Berlin 1901, (riprodotto in parte in
Mittellateinische Dichtung. Ausgewählte Beiträge zu ihrer Erforschung, herausgegeben von K. Langosch [Wege der Forschung CXLIX], Darmstadt 1969, pp.
57-90), pp. 25-26. Su Gregorio di Tours si rimanda a J. Lahache, Gregorio di
Tours, in Bibliotheca sanctorum, VII, Roma 1966, cc. 217-222.
(19) Brennan, The Career, p. 54; George, Venantius Fortunatus, p. 25.
(20) Quesnel, Introduction, p. LXII.
(21) carm. 8,1,21: Martinum cupiens uoto Radegundis adhaesi; Mart.
1,44: cuius (Martini) causa fuit hac me regione uenire.
(22) Paul. Diac. Lang. 2,13: qua de causa Fortunatus in tantum Martinum
ueneratus est, ut, relicta patria, paulo antequam Langobardi Italiam inuaderent, Turonis ad eius beati uiri sepulchrum properauit.
(23) Mart. 4,672-676.
(24) Mart. 4,668-671. È ragionevole pensare che il poeta abbia fatto una
breve deviazione per raggiungere Duplauenis e salutare i suoi parenti prima
d’intraprendere un viaggio così avventuroso. Non è neppure da trascurare
quanto sostiene Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 13-14, cioè che il poeta
non sia partito per la Gallia movendo direttamente da Ravenna, ma che tra la
fine del soggiorno di studî ravennate e l’abbandono dell’Italia nel 565 intercorra un certo tempo, che Venanzio avrebbe trascorso nella sua terra natale,
la Venetia, alla ricerca di un mecenate. Per il maggior coinvolgimento emotivo del poeta al momento di nominare la città di Treviso si ricordi quanto osservato alla nota 8.
(25) Mart. 4, 663-665.
(26) Mart. 4,651-652.
(27) Mart. 4,649-650.
(28) Mart. 4,644-648. Questa almeno l’opinione prevalente; nondimeno
c’è chi ritiene che il poeta abbia invece passato per la terza volta le Alpi al
passo del Brennero: Koebner, Venantius Fortunatus, p. 14; George, Venantius
Fortunatus, p. 24; nonché, forse, Reydellet, Introduction, p. IX, le cui parole in
proposito non sono molto dettagliate. Anche Rosada, che in Il «viaggio», pp.
30-31, si era espresso per il passo di Resia, ora propende invece per il
Brennero (così durante una lezione tenuta a Trieste nel giugno 2000).
(29) Mart. 4,640-642.
(30) Per la storia della Gallia durante il secolo VI la fonte più importante
è costituita dai Libri historiarum decem (correntemente conosciuti come
Historia Francorum) di Gregorio di Tours (ed. B. Krusch – W. Levison,
Monumenta Germaniae historica, Scriptores rerum Merouingicarum I 12,
Hannoverae 1937-1951). Per una sintesi moderna si può vedere M. Rouche,
I regni latino-germanici (secoli V-VIII), in La storia, a cura di N. Tranfaglia e M.
Firpo, II, Il medioevo, Torino 1986, pp. 89-122, e G. Fournier, Il regno franco,
ivi, pp. 123-144; ancora utile, nonstante il suo tono romanzato, risulta pure il
vecchio A. Thierry, Storie dei Merovingi, Parma 1994 (ed. orig. Récits des
temps mérovingiens, Paris 1840).
(31) Greg. Tur. Franc. 4,27 (non datato). Anche in questo caso si riporta
l’opinione oggi prevalente, cfr. ad esempio Brennan, The Career, pp. 54 e 59;
Id. Venantius Fortunatus, p. 8; George, Venantius Fortunatus, p. 28.
Nondimeno secondo Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 8, il poeta avrebbe
raggiunto la Mosella già nell’autunno del 565, e così ritengono pure Koebner,
Venantius Fortunatus, p. 16, e più recentemente Šašel, Il viaggio, p. 369, nonché L. Pietri, Venance Fortunat et ses commanditaires: un poète italien dans
la société gallo-franque, in Committenti e produzione artistico-letteraria nell’alto medioevo occidentale (Settimane del Centro italiano di studi sull’alto me-
61
dioevo 25), Spoleto 1992, pp. 729-754, 737. Durante tutto l’inverno Venanzio
avrebbe cercato varî abboccamenti per ottenere sostegno da dignitarî ecclesiastici e laici. Più vaga la cronologia proposta da Tardi, Fortunat, p. 62 nota
2, secondo il quale Venanzio giunse in Gallia tra la fine del 565 e l’inizio dell’anno successivo. Reydellet, Introduction, p. IX, si limita a prendere atto che
alla data delle nozze regali il poeta si trovava già a Metz.
(32) Sullo stato della cultura nella Gallia tra tarda antichità e alto medioevo resta fondamentale P. Riché, Educazione e cultura nell’Occidente barbarico, Roma 1970 (ed. orig. Éducation et culture dans l’Occident barbare,
VIe-VIIIe siècles, Paris 19622).
(33) carm. 6,1. Come giustamente osservano Koebner, Venantius
Fortunatus, p. 1, e Tardi, Fortunat, p. 15, Venanzio fu con ogni probabilità una
delle ultime personalità letterarie dell’antichità ad aver compiuto il regolare corso di studî grammaticali e retorici, formandosi sui classici e imparando a pensare sui libri, prima del decadimento generale della cultura e dell’educazione.
Si aggiungerà poi – cosa di non minima importanza – ch’egli è altresì con tutta verisimiglianza l’ultimo poeta ad aver appreso la lingua latina direttamente
dalla bocca dei suoi genitori: per gli autori delle epoche successive, dalla cosiddetta rinascenza carolingia in poi, il latino, per quanto appreso fin dalla prima età scolare, sarà pur sempre una lingua acquisita. Accanto alla giovane
età del poeta e al forte influsso della formazione ricevuta, a determinare l’opzione in favore di un epitalamio di tipo pagano contribuì senza dubbio la necessità di non toccare la delicata questione religiosa, poiché la visigota
Brunichilde al momento del matrimonio professava ancora l’eresia ariana, cfr.
Meyer, Der Gelegenheitsdichter, 13 e Koebner, Venantius Fortunatus, 26.
(34) carm. 10,16,1-4. Secondo Koebner, Venantius Fortunatus, p. 15, l’incontro tra Venanzio e Sigoaldo avvenne già nel primo territorio d’influenza
franca per chi arriva dalle Alpi centrali, cioè nella Baviera, mentre secondo M.
Pisacane, Il De excidio Thoringiae di Venanzio Fortunato, “Giornale italiano di
filologia”, IL (1997), pp. 177-208, 183, esso ebbe luogo a Treviri, dopo che il
vescovo locale Nicezio segnalò la presenza del poeta al re Sigiberto. Per la
George, Venantius Fortunatus, p. 27, Venanzio potrebbe aver saputo delle imminenti nozze regali ancora mentre si trovava a Ravenna.
(35) Brennan, The Career, pp. 57-58; Pietri, Venance Fortunat, p. 741;
Reydellet, Introduction, p. X e XVI. Secondo Koebner, Venantius Fortunatus,
p. 23, il poeta sarebbe poi entrato ufficialmente a servizio del re Sigiberto, cui
interessavano quelle prestazioni letterarie ch’egli soltanto era in grado di offrire; avrebbe dunque ricoperto una mansione che riuniva i compiti del cancelliere e quelli del propagandista. Questa idea è stata però contestata da
Brennan, The Career, p. 60, che nota come essa non sia suffragata da alcun
elemento certo, nonché dalla George, Venantius Fortunatus, p. 28, la quale
osserva come Venanzio, ancora giovane e straniero, non potesse trovare immediatamente una collocazione nella cancelleria o nella schola di corte.
(36) Rispettivamente per Magonza carm. 2,11; 2,12; 9,9; per Colonia
carm. 3,14; per Treviri carm. 3,11 e 3,12. Per il ruolo di Nicezio di Treviri durante la prima fase del soggiorno gallico del poeta si rimanda al seguito della trattazione. Anche sulle tappe dell’itinerario compiuto dal poeta nei primi
mesi di permanenza in Austrasia non vi è totale accordo fra i critici: se il nostro dettato segue l’idea di Koebner, Venantius Fortunatus, p. 22, d’altra parte Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 11, e la George Venantius Fortunatus,
p. 28, pensano a un viaggio ininterrotto fino a Metz; Tardi, Fortunat, p. 64, ritiene invece che le visite alle città lungo il Reno e la Mosella precedano la
comparsa a corte, e che quindi Venanzio si sia presentato a Sigiberto già preceduto dalla propria fama. Reydellet, Introduction, p. XI, pensa infine che il
poeta prima di raggiungere Metz abbia fatto tappa esclusivamente a
Magonza. Quel ch’è certo è che il soggiorno a Treviri deve collocarsi nella primavera-estate del 566, giacché il vescovo Nicezio morì nel corso di quello
stesso anno, cfr. Koebner, Venantius Fortunatus, p. 21 nota 2.
(37) Greg. Tur. Franc. 4,23: rediens autem Sigyberthus uictur a Chunis,
Sessionas ciuitatem occupat, ibique inuentum Theodeberthum, Chilperici regis filium, adprehendit et in exilio transmittit.
62
(38) Rispettivamente carm. 3,23 e 23a (Verdun); 3,15 (Reims) e 2,16
(Soissons).
(39) carm. 7,15 (Berulfo); 7,5 (Bodegisilo); 7,16 (Condane); 6,9 e 6,10
(Dinamio); 7,1, 7,2, 7,3 e 7,44 (Gogone); 7,11 e 7,12 (Giovino); 7,7, 7,8 e 7,9
(Lupo, composto a Metz); 7,14 (Mummoleno, verisimilmente composto a
Soissons). Koebner, Venantius Fortunatus, p. 37, nota come al di fuori
dell’Austrasia Venanzio celebri soltanto i sovrani e i membri delle loro famiglie:
sembra pertanto che la presenza di una classe intellettuale laica, dedita principalmente a mansioni amministrative, fosse un fatto caratteristico del regno di
Sigiberto, senza equivalenti nel resto della Gallia. A questo medesimo periodo
risale pure il divertente carm. 6,8, incentrato su episodî accaduti durante il
viaggio compiuto in battello tra le varie città dell’Austrasia. Di Dinamio in particolare si sarebbe conservata una lettera di risposta a Venanzio, se si accetta l’attribuzione a lui di Epist. Austras. 12 (ed. W. Gundlach, Monumenta
Germaniae historica, Epistulae III, Berolini 1892 [rist. anast. München 1994],
nuova ed. corretta in Corpus Christianorum, series Latina CXVII, Turnholti
1957), proposta da W. Gundlach, Die Sammlung der Epistulae Austrasicae,
“Neues Archiv der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde”, XIII
(1888), pp. 367-387, 369 e accolta nel recentissimo commento alla silloge: Il
Liber epistolarum della cancelleria austrasica (sec. V-VI), a cura di E.
Malaspina (Biblioteca di cultura romanobarbarica 4), Roma 2001, pp. 250-252.
(40) carm. 6,2. Sulla data del congedo dall’Austrasia pare convincente
l’argomentazione di Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 17-18, secondo cui
quanto il poeta afferma in carm. 6,9,5 e 13-14 indicherebbe che un anno dopo le nozze di Sigiberto e Brunichilde egli si trovava ancora in Germania, cioè
nella parte maggiormente germanizzata del regno, quella che in seguito si
sarebbe chiamata Austrasia; su questa linea ora anche Šašel, Il viaggio, p.
363, Brennan, The Career, pp. 56 e 60, e più esplicitamente la George,
Venantius Fortunatus, p. 28. Diversa la cronologia proposta da Meyer, Der
Gelegenheitsdichter, 16, e accettata ora da Reydellet, Introduction, p. XII,
che pone il congedo dall’Austrasia già all’autunno del 566.
(41) carm. 6,6 (Ultrogota e le figlie) e 6,3 (Teodechilde).
(42) carm. 2,9,97 e 8,2. Secondo Reydellet, Introduction, p. XVII, il vero
obiettivo della visita di Venanzio a Parigi era costituito appunto da Germano,
nel quale egli sperava di trovare un mecenate.
(43) Sulla durata del soggiorno parigino di Venanzio i pareri dei critici ancora una volta discordano: secondo Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 17, e
Reydellet, Introduction, p. XII, il poeta vi si sarebbe trattenuto dall’autunno del
566 al principio dell’anno successivo, e la partenza non sarebbe pertanto da
mettere in relazione con la morte di Cariberto; diversamente Koebner,
Venantius Fortunatus, p. 39, circoscrive la permanenza a Parigi ai mesi centrali del 567; Brennan, The Career, pp. 60-61 non precisa la cronologia; ultimamente poi la George, Venantius Fortunatus, pp. 28-29, cui ci uniformiamo
ma senza escludere la possibilità di altre cronologie, pensa che il poeta abbia trascorso a Parigi tutto l’inverno 567/568.
(44) Greg. Tur. Franc. 4,26. Più precisamente, ancor prima che Sigiberto
riuscisse a stabilizzare il proprio dominio sui nuovi territorî, essi furono occupati dalle truppe del fratellastro Chilperico I, ma l’abilità del generale
Mummolo riuscì immediatamente a riannetterli all’Austrasia, cfr. Greg. Tur.
Franc. 4,45.
(45) carm. 3,3, cfr. Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 16.
(46) Brennan, The Career, p. 61; Reydellet, Introduction, p. XIII.
(47) Sui luoghi martiniani a Tours ci informa lo stesso Venanzio nella biografia della sua protettrice Radegonda, in riferimento a un pellegrinaggio a
Tours compiuto da quest’ultima alcuni anni prima: uita Radeg. 14. Si veda altresì Greg. Tur. Mart. 1,2.
(48) Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 17, e sulle sue tracce Reydellet,
Introduction, p. XIII, pongono il giungere di Venanzio a Poitiers nei primi mesi del 567; alla fine del medesimo anno pensa invece Koebner, Venantius
Fortunatus, pp. 39-40, che motiva il trasferimento con qualche incarico di natura politica conferitogli da Sigiberto. Noi ci uniformiamo alla cronologia pro-
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posta dalla George, Venantius Fortunatus, pp. 29-30. Assumono una posizione più sfumata Brennan, The Career, p. 61, che non puntualizza la cronologia, restando incerto tra il 567 e il 568, e la Pietri, Venance Fortunat, p. 741,
che riconosce nel 568 soltanto il terminus post quem non per l’arrivo di
Venanzio a Poitiers.
(49) Su santa Radegonda le fonti principali sono la Vita Radegundis scritta dallo stesso Venanzio dopo la morte della monaca nell’agosto del 587
(trad. ital. di G. Palermo, Venanzio Fortunato. Vite dei santi Ilario e Radegonda
di Poitiers [Collana di testi patristici 81], Roma 1989, pp. 95-134), e l’opera
analoga scritta nei primi anni del sec. VII dalla discepola Baudonivia, concepita esplicitamente quale complemento alla troppo distaccata biografia fortunaziana (ed. B. Krusch, Monumenta Germaniae historica, Scriptores rerum
Merouingicarum II, Hannoverae 1888 [rist. anast. ivi 1984], pp. 377-395, trad.
ital. e comm. in P. Santorelli, La Vita Radegundis di Baudonivia [Koinwnàa.
Collana di studi e testi a cura dell’Associazione di studi tardoantichi 19],
Napoli 1999). Tra le opere della storiografia moderna resta fondamentale R.
Aigrain, Sainte Radegonde (vers 520-587), Paris 19243; diversi interventi in
Études mérovingiennes. Actes des journées de Poitiers 1952, Paris 1953, e
nella miscellanea che raccoglie i contributi presentati al convegno indetto a
Poitiers nel 1987 in occasione del 1400° anniversario della morte: La riche
personnalité de sainte Radegonde, Poitiers 1988. Per un’informazione più rapida in italiano si possono vedere le introduzioni alle traduzioni citate nonché
N. Del Re, Radegonda, in Bibliotheca sanctorum, X, Roma 1968, cc. 13471352.
(50) Baudon. 10: semper de pace sollicita, de salute patriae curiosa,
quandoquidem inter se regna mouebantur, quia totos diligebat reges, pro omnium uita orabat et nos sine intermissione pro eorum stabilitate orare docebat. Vbi eos inter se amaritudinem moueri audisset, tota tremebat, et quales
litteras uni, tales alteri dirigebat, ut inter se non bella nec arma tractarent, sed
pacem firmaret, et patria ne periret.
(51) Cfr. carm. 8,1,21: Martinum cupiens, uoto Radegundis adhaesi.
Sulle affinità elettive nel carattere dei due personaggi, che sarebbero stati accomunati da una sensibilità estatica, sognatrice e portata al misticismo, si
diffonde a lungo Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 39-66, ma si tratta di pagine segnate da un certo psicologismo caratteristico dell’epoca in cui furono
scritte, e oggi non più acriticamente accettabile. Si veda pure, sul medesimo
tema, il contributo di M. Cristiani in questo volume. Per la natura del ruolo
svolto da Venanzio in rapporto al monastero si rinvia al seguito della trattazione.
(52) Mart. 1,44 e 4,686-701.
(53) carm. praef. 4.
(54) Tra i pochi che sembrano accettare l’idea della peregrinatio religiosa è da ricordare soprattutto F. Leo, Venantius Fortunatus, der letzte römische
Dichter, “Deutsche Rundschau”, XXXII (1882), pp. 414-426, 415. Ora la ritengono possibile, per lo meno quale concausa, la George, Venantius
Fortunatus, p. 25, ed E. Malaspina, Letterati forestieri a servizio della corte austrasica (511-596), in Incontri di popoli e culture tra V e VIII secolo. Atti delle
V giornate di studio sull’età romanobarbarica, Benevento, 9-11 giugno 1997,
a cura di M. Rotili, Napoli 1999, pp. 59-88, 84.
(55) Si tratta del percorso descritto, ancorché in direzione contraria, nel
cosiddetto Itinerarium Burdigalense, un testo risalente alla I metà del secolo
IV, ove s’illustra la strada che da Bordeaux portava a Concordia transitando
per Carcassonne, Narbona, Arles, le Alpi Cozie e Milano,
(56) A distanza di dieci anni, scrivendo la lettera prefatoria a Gregorio di
Tours, il poeta non mancherà di ricordare l’impressione di barbarie che queste genti suscitarono in lui, che si era appena allontanato da uno dei più raffinati centri culturali d’Italia: carm. praef. 5. C’è stato chi ha sostenuto, traendo spunto da questo passo, che Venanzio abbia scelto di passare attraverso
paesi non romanizzati allo scopo di rendere più morbido l’impatto con i
Franchi semiromanizzati, impatto che avrebbe potuto essere troppo violento
qualora egli fosse giunto direttamente dall’Italia, cfr. Tardi, Fortunat, p. 66.
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(57) Questa almeno l’identificazione finora più attendibile del vescovo
Vitalis celebrato in carm. 1,1 e 1,2, gli unici componimenti databili con certezza al periodo precedente il trasferimento in Gallia; cfr. Koebner, Venantius
Fortunatus, pp. 120-125, cui aderisce Brennan, The Career, pp. 53-54.
Inoltre, la stessa posizione privilegiata conferita da Venanzio a questi due carmi al momento di pubblicare tutte le sue composizioni sembra confermare l’idea secondo cui Vitale fu il suo primo mecenate, al quale egli doveva non soltanto i suoi primi successi, ma anche con ogni verisimiglianza i giusti appoggi in Gallia, cfr. George, Venantius Fortunatus, p. 26. Vitale infatti già diversi
anni prima di essere deportato da Narsete dovette, per motivi che ci restano
ignoti, fuggire dalla sua diocesi, trovando asilo ad Aguntum, l’odierna Lienz,
nel Norico, zona d’influenza del regno franco. Conosciamo l’intera vicenda da
Paul. Diac. Lang. 2,4: his quoque temporibus Narsis patricius, cuius ad omnia studium uigilabat, Vitalem episcopum Altinae ciuitatis, qui ante annos plurimos ad Francorum regnum confugerat, hoc est ad Agonthiensem ciuitatem,
tandem comprehensum aput Siciliam exilio damnauit.
(58) Greg. Tur. Franc. 4,23 e 29.
(59) Questa idea fu prospettata per la prima volta da Stein, Histoire, II,
pp. 832-834, che pure rifiutò l’identificazione del vescovo Vitalis con il presule altinate nominato da Paolo Diacono. Che la partenza di Venanzio sia legata alla vicenda tricapitolina è oggi ammesso, con varie sfumature, da più di
uno studioso: ad esempio la Pietri, pp. 729-754, 735, che si richiama alla discussione di Stein, ma pure M. Pavan, Venanzio Fortunato, pp. 18-20;
Rosada, Il «viaggio», pp. 43-45; F. Della Corte, Venanzio Fortunato, il poeta
dei fiumi, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, pp. 137-147, 138 (ripubblicato in Id., Opuscula, XIV [Pubblicazioni del D.AR.FI.CL.ET., nuova serie,
190], Genova 2000, pp. 141-151). Alle medesime conclusioni giunge ora l’indagine specifica di R. Bratož compresa in questo volume.
(60) carm. app. 2,23-28, carme che si apre con una precisa esposizione
del dogma trinitario, oggetto della controversia.
(61) Brennan, The Career, pp. 56-57, il quale suppone che proprio a
Nicezio fossero dirette le lettere di presentazione che Venanzio aveva recato
con sé dall’Italia; George, Venantius Fortunatus, p. 26. La lettera di Nicezio,
Epist. Austras. 7, risale al 566, e secondo Stein, Histoire, p. 833, potrebbe essere stata ispirata dallo stesso Venanzio, ignaro della morte dell’imperatore,
avvenuta nel novembre dell’anno precedente, quando egli aveva già lasciato
Ravenna. Altre lettere che testimoniano suoi legami con vescovi dell’Italia settentrionale Epist. Austras. 5; 6; 21 con il commento ad loc. della Malaspina, Il
Liber epistolarum, pp. 234-238 e 266-267.
(62) carm. 7,13, una lettera poetica scritta da Poitiers; cfr. Paul. Diac.
Lang. 2,12: Igitur Alboin cum ad fluuium Plabem uenisset, ibi ei Felix episcopus Taruisianae ecclesiae occurrit. Cui rex, ut erat largissimus, omnes suae
ecclesiae facultates postulanti concessit et per suum pracmaticum postulata
firmauit, nonché la nota 14.
(63) Si veda la nota 5.
(64) carm. 5,2,5-6; carm. app. 2,15-18.
(65) Paul. Diac. Lang. 3,26, ricorda la deportazione a Ravenna del “patriarca” Severo assieme a tre vescovi suoi suffraganei, avvenuta ad opera dell’esarca Smaragdo nel 590: i presuli scismatici furono costretti a fare atto di
sottomissione al metropolita ortodosso Giovanni di Ravenna.
(66) Stein, Histoire, II, 673. Una prova della neutralità dei vescovi gallici
si ha da un lato nel fatto che la Sede apostolica non prese mai alcun provvedimento contro di loro, dall’altro nel fatto che gli stessi vescovi scismatici vedevano nei confratelli di Gallia un presidio alla loro causa, come si evince dalle lettere inviate all’imperatore Maurizio dopo il conciliabolo di Marano (590591), in cui i presuli scismatici minacciavano di porsi sotto la giurisdizione dei
vescovi dei Franchi, cfr. Conc.S IV 2 p. 132-136. Si ricordi poi l’asilo offerto anni prima dai Franchi a Vitale di Altino, la cui fuga fu dovuta con ogni probabilità all’esplodere della controversia tricapitolina (si veda la nota 57).
L’espressione quaestiones superfluae a proposito della controversia sui Tre
Capitoli è tolta da una lettera del papa Pelagio II ai vescovi scismatici: Epist.
65
pontif. 1055 Conc.S IV 2 p. 111: pro superfluis quaestionibus et haereticorum
defensione capitulorum; in termini simili si espresse pure il successore Greg.
M. epist. 4,2 l. 12: scissura pro nulla re facta.
(67) Sull’intera questione si rimanda alla sintesi di Pavan, Venanzio
Fortunato, soprattutto pp. 16-21. Si accennerà appena alla teoria di Tardi,
Fortunat, pp. 61-64, preoccupato di presentare la figura del poeta il meno lontana possibile dalla fama di santità che gli valse il culto ufficiale in alcune diocesi francesi (nonché, dal secolo XIX, in quella di Padova cui appartiene
Valdobbiadene). Dopo aver motivato il passaggio del giovane Venanzio dalla
Venetia a Ravenna con la volontà di non compromettersi con le chiese scismatiche ma di rimanere nell’orbita ortodosso-imperiale (cfr. nota 12), lo studioso francese che, sarà bene rammentarlo, era sacerdote, ascrive la partenza del poeta dall’Italia all’insicurezza politica del momento, con l’Impero indebolito dalle lunghissime campagne, con lo scisma tricapitolino che creava
una pesante contrapposizione religiosa e politica in seno alle terre sottomesse a Bisanzio, e con i Longobardi che premevano sulle Alpi orientali. La Gallia
sarebbe stata l’unica terra a godere di una relativa pace, dopo essere stata
riunificata da Clotario I. C’è però da chiedersi come mai Venanzio, volendo lasciare l’Italia per paura dell’invasione longobarda, valicò proprio le Alpi orientali, portandosi così a breve distanza dal luogo dal quale quel popolo si sarebbe calato di lì a tre anni.
(68) Greg. Tur. Franc. praef.: Decedente atque immo potius pereunte ab
urbibus Gallicanis liberalium cultura litterarum, cum … nec repperire possit
quisquam peritus dialectica in arte grammaticus, qui haec aut stilo prosaico
aut metrico depingeret uersu: ingemescebant saepius plerique, dicentes:
“Vae diebus nostris, quia periit studium litterarum a nobis, nec reperitur in populis, qui gesta praesentia promulgare possit in paginis”.
(69) Già a Clodoveo fu conferita nel 508 dall’imperatore d’Oriente
Atanasio la dignità di console onorario, e mentre egli era ancora in vita si addivenne alla prima codificazione scritta del diritto franco (Pactus legis
Salicae, ed. K. A. Ekhardt, Monumenta Germaniae historica, Leges nationum
Germanicarum IV 1, Hannover 1962, pp. 2-235).
(70) Chilperico I compose poesie ritmiche di argomento religioso, cfr.
Greg. Tur. Franc. 6,46, nonché George, Venantius Fortunatus, p. 12 con la nota 45. Fu inoltre autore di un trattato sulla Trinità in cui però esprimeva idee
eterodosse, e intese riformare l’alfabeto latino per adattarlo alla lingua franca,
cfr. Greg. Tur. Franc. 5,44. L’unica sua poesia superstite, un Hymnus in solemnitate sancti Medardi episcopi, è pubblicata da K. Strecker, Monumenta
Germaniae historica, Poëtae Latini medii aeui IV 2, Berolini 1914 [rist. anast.
München 1978], pp. 455-457.
(71) Cfr. E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel medioevo, Milano 1960 (ed. orig. Literatursprache und Publikum in
der lateinischen Spätantike und im Mittelalter, Bern 1958), pp. 237-238. Un
esempio delle possibilità che a quel tempo si schiudevano alle poche persone con formazione culturale si ha nella carriera di Andarchio, un servo istruito impiegato alla corte di Sigiberto (Greg. Tur. Franc. 4,46) e in quella di
Celso, leguleio al servizio del re Gontrano (Greg. Tur. Franc. 4,24).
(72) Cfr. Brennan, The Career, p. 56.
(73) Šašel, Il viaggio, 371-375. L’autore nota come nella stessa direzione
paia andare il matrimonio di Sigiberto con Brunichilde, figlia del re visigoto
Atanagildo, il quale proprio allora stava conducendo una politica di avvicinamento a Bisanzio; questo orientamento potrebbe essere stato in certo modo
favorito da Martino di Braga, che in quegli stessi anni giunse dalla Pannonia
e con cui Venanzio intrattenne relazioni epistolari (epist. [carm. 5,1] e carm.
5,2): i due uomini sarebbero dunque stati incaricati della medesima missione
diplomatico-culturale presso due regni occidentali, quello visigoto e quello
franco, che Bisanzio voleva attrarre nella propria orbita; sui rapporti tra
Venanzio e Martino di Braga si rinvia pure alla nota 79.
(74) carm. app. 1 e 3. Questo aspetto è stato sottolineato di recente da
Reydellet, Introduction, pp. XVII-XIX, il quale sembra far propria la teoria
avanzata da Šašel, già abbracciata da M. Rouche, Autocensure et diploma-
66
tie chez Fortunat à propos de l’élegie sur Galeswinthe, in Venanzio Fortunato
tra Italia e Francia, pp. 149-159, e da ultimo dalla Malaspina, Letterati forestieri, p. 87.
(75) Brennan, Venantius Fortunatus, pp. 7-16.
(76) Da carm. 1,8 a 1,20. Sulla cronologia di questi spostamenti all’interno della Gallia non c’è accordo tra i critici: ad esempio secondo Brennan, The
Career, p. 63, e la George, Venantius Fortunatus, pp. 31-32, questo viaggio
nel meridione sarebbe da collocarsi qualche anno più tardi, quando già
Venanzio dimorava stabilmente a Poitiers. Anche la Pietri, Venance Fortunat,
p. 742, data il soggiorno bordolese a dopo il 569.
(77) carm. 2,7 e 2,8; cfr. Brennan, The Career, p. 65. Ormai nessuno segue più l’ipotesi di Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 54, secondo cui i carmi di soggetto tolosano sarebbero lettere spedite da Poitiers.
(78) carm. praef. 4: Pyrenaeis occurrens Iulio mense niuosis. Reydellet,
Introduction, p. XIV, data l’episodio, coerentemente con la cronologia da lui
adottata, al luglio 567.
(79) L’idea, introdotta per la prima volta da Tardi, Fortunat, p. 76, è ora ripresa da Reydellet, Introduction, p. XIV: a suo dire il tono della lettera che
Venanzio più tardi inviò da Poitiers a Martino (epist. [carm. 5,1]) farebbe presupporre una personale conoscenza fra i due, mentre carm. 5,2 sarebbe stato recitato proprio a Braga alla presenza del vescovo. Come osserva il medesimo autore (nota 23), in favore di un passaggio in Ispagna parla anche
carm. 4,11, un epitaffio per Vittoriano, abate del monastero di Asan (provincia di Huesca, Aragona settentrionale). Quanto ai motivi che furono all’origine dei rapporti con Martino, Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 41-42, supponeva che Venanzio fosse stato incaricato da Radegonda di cercare supporto per l’introduzione della regola di san Cesario nel monastero di Poitiers
(ma in tal caso il viaggio sarebbe da collocare al più presto nel 570, si veda
qui la nota 95), mentre ora Reydellet, Introduction, p. XIX, pensa piuttosto a
motivi di natura politica e diplomatica, connessi con l’“offensive de charme”
di cui il poeta sarebbe stato incaricato da Bisanzio secondo Šašel (si tenga
presente la nota 73). L’eventualità del viaggio in Ispagna è invece esclusa da
Brennan, The Career, p. 64.
(80) carm. 1,12 e 1,13; cfr. Brennan, The Career, p. 65. Altri però pongono il passaggio a Saintes nel corso del viaggio di andata.
(81) L’idea di una mansione ufficiale presso il monastero risale a Thierry,
Storie, p. 195, ed è accettata da Tardi, Fortunat, p. 85, e ancora da Reydellet,
Introduction, p. XIX, che qualifica il poeta “chargé d’affaires”. Nondimeno, come osserva Brennan, The Career, p. 69, in verità non abbiamo elementi per
sapere quale sia stata la posizione di Venanzio nei confronti dell’istituzione
monastica fondata da Radegonda. È vero che il poeta in un’occasione, rivolgendosi a Radegonda, si definisce agens: carm. 11,4,3: Fortunatus agens,
Agnes quoque uersibus orant; ciò può far pensare al ruolo del sovrintendente laico, una sorta di amministratore degli affari temporali, necessario dal momento che le monache non potevano abbandonare il convento. Tuttavia il verso in questione è palesemente giocato sulla paronomasia agens/Agnes, artificio particolarmente gradito a Venanzio, che lo adopera anche con altri nomi
proprî: pertanto il participio potrebbe non aver alcun significato tecnico, ma
valere semplicemente “con insistenza”.
(82) epist. (carm. 3,1) ed epist. (carm. 3,2).
(83) Questa almeno la data proposta da Y. Labande-Mailfert, Les débuts
de Sainte-Croix, in Histoire de Sainte-Croix de Poitiers, «Mémoires de la
Société des Antiquaires de l’Ouest et des Musées de Poitiers», XIX (19861987), pp. 21-116, 43. Certamente egli – di stirpe germanica se dobbiamo
credere al nome – era già in carica negli anni 569-570, quando fu accolta nel
monastero la reliquia della vera Croce di Gesù, inviata in dono a Radegonda
dall’imperatore Giustino II (su cui si veda il seguito). Su Maroveo si veda a
ogni modo R. Mineau, Un évêque de Poitiers au VI siècle: Marovée, «Bulletin
de la Société des Antiquaires de l’Ouest et des Musées de Poitiers», XI
(1972), pp. 361-383.
(84) Greg. Tur. Franc. 9,40. Cfr. carm. 5,9,7: il poeta, ormai ordinato sa-
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cerdote diocesano (cfr. infra), e perciò sottoposto a Maroveo, lamenta che
questi gli abbia impedito di allontanarsi dal territorio della diocesi per far visita a Gregorio di Tours. Sui motivi dell’ostilità del vescovo si rimanda al seguito
della trattazione. Ultimamente B. Brennan, Deathless Marriage and Spiritual
Fecundity in Venantius Fortunatus’ De virginitate, «Traditio», LI (1996), pp. 7397, 76-77, ricorda come vi fosse una parte dell’episcopato gallico che in linea
di principio contestava la legittimità stessa del monachesimo femminile.
(85) Greg. Tur. Mart. 1,1: Vtinam Seuerus aut Paulinus uiuerent, aut certe
Fortunatus adesset qui ista describerent!
(86) carm. 5,5b, celebrazione della conversione degli Ebrei di Clermont,
ottenuta dal vescovo Avito, destinatario di carm. 3,21, 3,22 e 3,22a; carm. 9,7
composto in istrofe saffiche minori, col biglietto accompagnatorio carm. 9,6.
(87) carm. praef. 6; sulle diverse fasi di pubblicazione del corpus poetico venanziano si rimanda a Reydellet, Introduction, pp. LXVIII-LXXI.
(88) carm. 6,5,223-226. La datazione ancora una volta non è certissima,
ma la maggioranza degli studiosi converge sul 568: K. Steinmann, Die
Gelesuintha-Elegie des Venantius Fortunatus (carm. VI 5). Text, Übersetzung,
Interpretationen, Zürich 1975, p. 188; Brennan, The Career, p. 63; Pietri,
Venance Fortunat, p. 741; e da ultimo implicitamente M. Pisacane, Il De
Gelesuintha di Venanzio Fortunato, «Vichiana», IV s. I (1999), pp. 82-105, 84;
la George, Venantius Fortunatus, p. 31, non prende una posizione precisa,
mentre Reydellet, Introduction, p. XXIII nota 56, assegna l’episodio al
568/569.
(89) Greg. Tur. Franc. 4,28.
(90) carm. 6,5.
(91) Si ricordi, a proposito degli sforzi mediatorî di Radegonda, il passo
della Vita Radegundis di Baudonivia riportato alla nota 50. Singolare è il fatto
che questo aspetto della personalità di Radegonda nella biografia fortunaziana rimanga del tutto ignorato; per ipotesi al riguardo si veda Santorelli, La
Vita, pp. 36-38.
(92) Greg. Tur. Franc. 9,40; Baudon. 16; per la datazione dell’ambasceria Meyer, Der Gelegenheitsdichter, pp. 100-101; certamente è posteriore alla morte di Cariberto, precedente sovrano di Poitiers, occorsa nell’inverno
567/568. Sulle implicazioni politiche dell’iniziativa A. Cameron, The Early
Religious Policies of Justin II, «Studies in Church History», XII (1976), pp. 5960. Sull’interesse di Radegonda per le reliquie si veda ora Santorelli, La Vita,
pp. 46-54.
(93) carm. 8,1; questa almeno l’interpretazione oggidì più accreditata,
cfr. Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 133-135 e 142; B. Brennan, The
Disputed Authorship of Fortunatus’ Byzantine Poems, «Byzantion», LXVI
(1996), pp. 335-345, 338. Scettico al riguardo invece M. Reydellet, in
Venance Fortunat. Poèmes, II, livres V-VIII, Paris 1998, ad loc.
(94) carm. app. 1, conosciuto con il titolo De excidio Thoringiae, probabilmente non originale.
(95) Greg. Tur. Franc. 9,40; Baudon. 16. Verisimilmente fu in seguito a
questo episodio che Radegonda decise di adottare nel monastero la regola
di san Cesario di Arles, che lo sottraeva alla giurisdizione del vescovo diocesano per affidarlo a quella del vescovo scelto dalla badessa: da quel momentro il referente della comunità fu il vescovo di Tours. Sulle vicende dell’adozione della regola di san Cesario si rimanda alla nota 79 nonché a
Santorelli, La Vita, pp. 54-61.
(96) carm. 2,2 (Pange, lingua); 2,4 e 2,5 (i due carmina figurata); 2,6
(Vexilla regis). Sul genere letterario dei carmina figurata, introdotto nella letteratura latina da Ottaziano Porfirio (età costantiniana) si veda G. Polara, Le parole
nella pagina: grafica e contenuti nei carmi figurati latini, «Vetera Christianorum»,
XXVIII (1991), pp. 291-336, nonché U. Ernst, Carmen figuratum. Geschichte
des Figurengedichts von den antiken Ursprüngen bis zum Ausgang des
Mittelalters, Köln-Weimar-Wien 1991. In particolare sui carmina figurata fortunaziani è incentrato il contributo dello stesso Polara in questo volume.
(97) carm. app. 3,17.
(98) carm. app. 3,12.
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(99) carm. app. 2 e 3. Nel panegirico l’imperatore Giustino II è definito
noua purpura (v. 25): poiché questi salì al trono durante gli ultimi giorni dell’anno 565, dopo il lungo regno di Giustiniano (527-565), e tenendo conto della velocità con cui le notizie viaggiavano a quei tempi, l’espressione pare ancora adatta per gli anni 569-570.
(100) carm. 5,3.
(101) carm. app. 22,15 sgg. Germano di Parigi morì nel 576, cfr. Greg.
Tur. Franc. 5,8: eo anno et beatus Germanus Parisiorum episcopus transiit.
(102) carm. 3,17 e 3,18; cfr. anche carm. 4,10, un epitaffio per Leonzio II.
(103) epist. (carm. 3,4); da carm. 3,5 a 3,10; carm. 5,7. Tra questi notevole soprattutto l’elegia pasquale carm. 3,9, da molti critici giudicata la migliore opera di Venanzio. Secondo Brennan, The Career, p. 66, e la George,
Venantius Fortunatus, p. 31, il soggiorno a Nantes risalirebbe a prima del 573.
(104) Greg. Tur. Franc. 5,5: eo tempore Felix Namneticae urbis episcopus
litteras mihi scripsit plenas opprobriis, scribens etiam fratrem meum ob hoc interfectum, eo quod ipse cupidus episcopati episcopum interfecisset; e 6,15.
(105) carm. 11,25,9; cfr. Brennan, The Career, p. 66; George, Venantius
Fortunatus, p. 32.
(106) carm. 5,7.
(107) A tali viaggi alluderebbero, secondo Brennan, The Career, p. 66,
carm. 3,19 (Nevers); 3,26 (Bretagna), 5,11 (viaggio programmato a Tours).
Accetta l’idea dei viaggi a Nevers e in Bretagna anche la George, Venantius
Fortunatus, pp. 31-32.
(108) Questa almeno la data che oggi pare godere di maggior credito cfr.
Quesnel, Introduction, pp. XV-XVI, nonché A. V. Nazzaro, Intertestualità biblico-patristica e classica in testi poetici di Venanzio Fortunato, in Venanzio
Fortunato tra Italia e Francia, pp. 99-135, 112. Se in passato Tardi, Fortunat,
p. 181, pensava all’estate del 574, Brennan, The Career, p. 71, si esprime invece con prudenza per una datazione “between 573 and 576”.
(109) Greg. Tur. Franc. 4,47.
(110) Greg. Tur. Franc. 4,51.
(111) Greg. Tur. Franc. 5,14, ove l’autore ricorda di aver offerto asilo all’interno della basilica di Tours, oltre che a Meroveo, pure a un altro aristocratico ribelle: Gontrano Bosone.
(112) La datazione si ricava usualmente dall’espressione Fortunatus presbyter adoperata da Gregorio di Tours nella sua opera De uirtutibus Martini
(1,2), correntemente datata a prima del 576. Anche qui però non mancano le
divergenze: se si trovano sostanzialmente d’accordo con la cronologia tradizionale sia la Pietri, Venance Fortunat, p. 739, che Reydellet, Introduction, p.
XX; Brennan, The Career, p. 67 con la nota 77, ritiene che il poeta possa aver
ricevuto gli ordini già dal vescovo Pascenzio di Poitiers, morto nel 568.
All’estremo opposto la George, Venantius Fortunatus, pp. 34 e 212, ha accolto una datazione dell’opuscolo di Gregorio al 593, spostando conseguentemente l’ordinazione sacerdotale di Venanzio tra il 587 e il 593 (ma si veda
al proposito la nota seguente). Sottolinea l’influsso decisivo di Radegonda
sull’ordinazione del poeta Koebner, Venantius Fortunatus, p. 46.
(113) Cfr. la nota 84. Con la datazione della George (vedi nota precedente) il passo in questione, senza dubbio anteriore al 577 essendo compreso nella prima raccolta poetica, perderebbe ogni significato.
(114) Cfr. la nota 86 e Greg. Tur. Franc. 5,11. Sul discepolato di Gregorio
presso Avito si veda Greg. Tur. uit. patr. 2, praef.
(115) Cfr. la nota 87, nonché Brennan, The Career, pp. 55 e 71.
Ultimamente Reydellet, Tradition et nouveauté dans les Carmina de Fortunat,
in AA.VV., Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, 81-98, 85, ha pensato che
la richiesta di Gregorio sia stata essenzialmente volta a difendere il prestigio
dell’Austrasia e del suo episcopato dopo l’assassinio di Sigiberto.
(116) carm. 11,7; cfr. Brennan, The Career, p. 68; George, Venantius
Fortunatus, p. 176.
(117) Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 6; Koebner, Venantius
Fortunatus, pp. 93-94, il quale osserva pure come Poitiers di per sé fosse un
luogo che non offriva molti stimoli alla poesia.
69
(118) Koebner, Venantius Fortunatus, p. 94; Brennan, The Career, p. 73;
Pietri, Venance Fortunat, p. 743.
(119) carm. 8,19 e 8,20. Il primo a mettere il fatto nell’adeguata luce è
Brennan, The Career, p. 72.
(120) carm. 9,6,9-12.
(121) Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 91-95; non bisogna però seguire lo studioso austriaco quando afferma che dopo la composizione della
Vita Martini s’inizierebbe il tramonto di Venanzio, e che nel seguito della sua
vita egli avrebbe composto soltanto pochi carmi di circostanza. Certo, la produzione diminuisce assai per la quantità rispetto al decennio 566-576, ma
agli anni dopo il 580 risalgono pur sempre componimenti notevoli quali il panegirico a Chilperico (carm. 9,1) e la descrizione del viaggio da Metz ad
Andernach (carm. 10,9).
(122) Greg. Tur. Franc. 5,49. Sui motivi primi dell’accusa mossa a
Gregorio da parte di un suo sacerdote, Riculfo, e del conte turonense
Leodasto, come pure sui dettagli del sinodo si rimanda alla George,
Venantius Fortunatus, pp. 48-49.
(123) carm. 9,1.
(124) Cfr., oltre ai critici francesi del secolo XIX, principalmente S. Dill,
Roman Society in Gaul in the Merovingian Age, London 1926, p. 333; cfr. ancora recentemente la Pietri, Venance Fortunat, 744: “poète de circonstances
au sens le plus péjoratif du terme”.
(125) Rivalutazioni progressive si hanno in Meyer, Der Gelegenheitsdichter, pp. 113-126; Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 95-105, e nel modo
più compiuto in George, Venantius Fortunatus, pp. 48-57.
(126) carm. 9,4 e 9,5; Greg. Tur. Franc. 5,34 e 50, dal quale sappiamo
che lo stesso Chilperico si ammalò seriamente, ma riuscì a riprendersi.
(127) carm. 9,2; probabilmente l’iniziativa fu suggerita al poeta da
Radegonda e da Gregorio di Tours, cfr. George, Venantius Fortunatus, p. 33.
(128) Pertinenti a questo viaggio sono pure carm. 9,11, 9,12 e 9,13; cfr.
Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 21; Koebner, Venantius Fortunatus, p.
105-107. Più cauto Brennan, The Career, p. 75 nota 107.
(129) carm. 9,3.
(130) Greg. Tur. Franc. 6,1.
(131) Greg. Tur. Franc. 6,46.
(132) Greg. Tur. Franc. 7,13.
(133) Quanto presentato in questo paragrafo è ripreso dalla Malaspina,
Letterati forestieri, pp. 82-83; cfr. ora il commento della stessa a Epist.
Austras. 43: Il Liber epistolarum, pp. 296-299. Sulla datazione della missione
diplomatica di Babone e Gripone si veda P. Goubert, Byzance avant l’Islam,
II 1, Byzance et les Francs, Paris 1956, pp. 119; la complicata vicenda del sequestro di Ingonda e del figlio da parte dei Bizantini è ricostruita da E. Ewig,
Die Merowinger und das Imperium, Opladen 1983, pp. 44-48.
(134) Greg. Tur. Franc. 9,11; il testo del trattato in Pactio reg. Greg. Tur.
Franc. 9,20. Una datazione alternativa del trattato al 28 o al 29 novembre del
586, proposta da W.A. Eckhardt, Die Decretio Childeberti und ihre Überlieferung, «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte», Germanische
Abteilung, LXXXIV (1967), pp. 1-71, 67-70, non ha trovato sostenitori tra chi si
è occupato di Venanzio, a eccezione della Malaspina, Letterati forestieri, pp.
76-77 e 87, la quale invece ritiene di poterla corroborare con l’attribuzione a
Venanzio di Epist. Austras. 43.
(135) Greg. Tur. glor. conf. 104; Baudon. 21-24. Le esequie di
Radegonda furono celebrate dallo stesso Gregorio, e il fatto che tra le persone presenti alla cerimonia non sia menzionata Agnese lascia intendere ch’ella fosse già morta. Del resto due anni dopo, nel 589, a capo della comunità
vi era una nuova badessa di nome Leubovera, cfr. Greg. Tur. Franc. 9,39.
(136) Greg. Tur. Franc. 9,20: eo anno quoque tertio decimo regis
Childeberthi, cum ad occursum eius usque Metensim urbem properassemus,
iussi sumus ad Gunthchramnum regem in legationem accedere; cfr. Meyer,
Der Gelegenheitsdichter, p. 45.
(137) carm. 10,9.
70
(138) carm. 10,8; allo stesso viaggio paiono poi appartenere pure carm.
app. 5 e 6. Gregorio poi proseguì alla volta di Chalons-Sur-Saône, sede della corte di Gontrano, mentre Venanzio si trattenne con ogni probabilità presso Brunichilde e Childeberto II, cfr. Brennan, The Career, p. 76, George,
Venantius Fortunatus, p. 33. L’unico a sostenere che Venanzio avesse accompagnato Gregorio fino alla meta fu Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 22,
ma la sua tesi, che non poggia su documenti certi, non è stata sposata da alcuno studioso.
(139) Greg. Tur. glor. conf. 44: uitam tamen huius, postquam haec scripsimus, a Fortunato presbytero conscriptam cognouimus.
(140) H. Quentin, La plus ancienne vie de saint Seurin de Bordeaux, in
Mélanges Léonce Couture. Études d’histoire méridionale, Toulouse 1902, pp.
23-63.
(141) Greg. Tur. Franc. 9,39. Sull’argomento ora G. Scheibelreiter,
Königstochter im Kloster. Radegund (ob. 587) und der Nonnenaufstand von
Poitiers (589), «Mitteilungen des Instituts für österreichische Geschichtsforschung», LXXXVII (1979), pp. 1-37.
(142) epist. (carm. 8,12) e carm. 8,12a. Questi due testi sembrano dunque smentire l’idea di Koebner, Venantius Fortunatus, p. 110, secondo cui dopo la morte di Radegonda e di Agnese Venanzio avrebbe smesso di interessarsi alle vicende della comunità monastica di Santa Croce.
(143) Greg. Tur. Franc. 9,30.
(144) carm. 10,11 e 10,12.
(145) Greg. Tur. Franc. 9,30.
(146) carm. 9,6.
(147) Reydellet, Introduction, p. LXX, che ben puntualizza la questione:
alla luce del fatto che carm. 8,12 ed epist. (carm. 8,12a) si riferiscono ai disordini nel monastero di Santa Croce, come individuato da Tardi, Fortunat, p.
94, risulta impossibile seguire quest’ultimo studioso anche quando data la
pubblicazione dei libri VIII e IX al 584 (Id. ibid. p. 93). Appare perciò singolare che l’incoerente cronologia proposta da Tardi sia ora condivisa dalla
George, Venantius Fortunatus, pp. 33 e 209-210.
(148) carm. 10,14; cfr. Greg. Tur. Mart. 4,32.
(149) Brennan, The Career, 78.
(150) Altri studiosi pongono invece la morte di Platone negli anni attorno
al 600: Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 23, Koebner, Venantius Fortunatus,
p. 115, Reydellet, Introduction, p. XXVII. Inspiegabilmente preciso Tardi,
Fortunat, p. 88 nota 1, che data la successione all’anno 599, mentre la
George, Venantius Fortunatus, p. 34, lascia aperto il problema. Naturalmente,
accettando una cronologia più tarda, si dovrà escludere nella consacrazione
episcopale qualsiasi intervento non soltanto da parte di Gregorio di Tours, ma
pure di Childeberto II, essendo questi morto all’età di 26 anni nel 596.
(151) Così da ultimi Reydellet, Introduction, p. XXVII; e la George,
Venantius Fortunatus, p. 34. Sconcertantemente preciso, in assenza di dati sicuri, Tardi, Fortunat, p. 88 nota 1: “mourut tout au début du VIIe siècle, vers
603 ou 604”.
(152) S. Blomgren, Studia Fortunatiana II. De carmine in laudem sanctae
Mariae composito Venantio Fortunato recte attribuendo (Uppsala Universitets
Årsskrift 1934. Filosofi, språkvetenskap och historiska vetenskaper 3),
Upsaliae 1934, soprattutto 3-26. Per l’autenticità si erano espressi già in precedenza G. M. Dreves, Hymnologische Studien zu Venantius Fortunatus und
Rabanus Maurus (Veröffentlichungen aus dem Kirchenhistorischen Seminar
München, III. Reihe, 3), München 1908, e Koebner, Venantius Fortunatus, pp.
111-113 e 143-148.
(153) Quest’ultima silloge costituisce i libri X e XI del corpus venanziano,
Reydellet, Introduction, pp. LXX-LXXI; dubbî sul carattere di compilazione postuma esprime già Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 125-128, ora seguito
dalla George, Venantius Fortunatus, p. 211, e con maggior decisione Ead.
Venantius Fortunatus: the End Game, «Eranos», XCVI (1998), pp. 32-43.
Intermedia la posizione di Tardi, Fortunat, p. 93, che ritiene pubblicato dal
poeta il libro X, e frutto di una raccolta postuma il libro XI. Non tocco in que-
71
sta sede il difficile problema della formazione della cosiddetta Appendix carminum, su cui restano ancora in buona parte valide le osservazioni di
Koebner, Venantius Fortunatus, pp. 128-143, da integrare con Reydellet,
Introduction, pp. LXXV-LXXX.
(154) Nel già citato ritmo merovingico De priuilegio (vedi la nota 9), la cui
composizione risale ai primi decennî del secolo VII, Venanzio è associato ai
più grandi santi: Mosè, Martino, Girolamo.
(155) Sul culto tributatogli durante il medio evo e la prima età moderna
B. de Gaiffier, S. Venance Fortunat, évêque de Poitiers. Les témoignages de
son culte, «Analecta Bollandiana», LXX (1952), pp. 262-284; nonché F.
Caraffa, Venanzio Fortunato, in Bibliotheca sanctorum, XII, Roma 1969, cc.
985-987. Per l’area veneta Sartor, Venanzio Fortunato, pp. 267-276.
(156) Paul. Diac. Lang. 2,13: l’ultimo distico, con la richiesta di intercessione, attesta il culto di cui Venanzio era oggetto.
(157) Ed. E. Dümmler, Monumenta Germaniae historica, Poëtae Latini
medii aeui I, Berolini 1881 [rist. anast. München 1997], p. 326.
(158) De Gaiffier, S. Venance Fortunat, p. 266.
72
GIORGIO FEDALTO
Università degli studi di Padova
Presentazione del primo volume
delle Opere di Venanzio Fortunato
Il volume delle opere di Venanzio Fortunato, che qui presentiamo in edizione bilingue, latino con traduzione italiana,
fa parte di una collana comprendente le opere dei Padri e
degli Scrittori di Aquileia, all’incirca del primo millennio cristiano. Le “lettere, scienze ed arti” sono parti di una pianta
che si sviluppa soprattutto in tempo di pace: abbiamo goduto una cinquantina d’anni di pace e ben fanno quanti hanno
coltivato e coltivano quella pianta, di cui stiamo raccogliendo ora dei frutti.
Durante queste giornate, altri diranno del personaggio in
questione. Sia consentito qui sottolinearne un aspetto. Nei
primi secoli dell’era cristiana, Venanzio Fortunato non è stato
l’unico autore cristiano ad uscire dalle terre venete, la “Venetia
et Histria” come l’aveva chiamata l’imperatore Augusto. Altri
ve ne furono e la collana, che ne pubblica gli scritti, ha il progetto di far seguire, in una ventina di volumi il “corpus” completo degli scrittori cristiani che si sono succeduti in questa
regione lungo quei secoli. In particolare, prima dei due volumi previsti per l’opera omnia di Venanzio, oltre ad una introduzione su Aquileia, una chiesa, due patriarcati, e alle opere
di Rufino di Concordia, già pubblicate in due volumi a cura di
Manlio Simonetti1, dovranno seguire con gli atti dei martiri
della regione, le opere di Vittorino di Petovio (Ptui in Slovenia)
di prossima pubblicazione, le omelie e i commentari di
Cromazio di Aquileia. A Venanzio seguiranno le opere di
Paolo Diacono, in due tomi quelle di Paolino di Aquileia, altri
volumi riguarderanno la musica aquileiese, gli atti dei concili,
le epigrafi cristiane, le fonti cronachistiche ed altro.
A dire il vero, siamo stati incerti se includere in questo
volume tutte le opere poetiche di Venanzio, e in un secondo
volume tutte le biografie ed altri scritti, non tanto perché egli
non sia veneto, trevigiano, come quando ricorda la sua
Treviso (“la mia Treviso”), quanto per essere vissuto gran
parte della vita ad essere morto nella Gallia, in Francia dunque, ed appropriarci perciò glorie maturate altrove.
73
Ma questa è una caratteristica anche di non pochi altri
veneti della “Venetia et Histria” non solo di allora; l’essere
cioè emigrati nel mondo produttivo o colto del tempo, ed
aver così arricchito, oltre il paese di destinazione, anche
quello d’origine.
In una regione che ha perduto il proprio patrimonio
umano lungo i secoli, a beneficio di altri popoli e culture, è
difficile perciò trovare un’unità culturale e religiosa, lungo
quei primi secoli cristiani. È problematico trovare un’aggregazione dottrinale omogenea nella storia cristiana di quel
primo millennio, a prescindere dal riferimento alla Chiesa di
Aquileia. La regione è stata soggetta allo scorrimento di
popoli diversi per pretenderlo, per di più “barbari”, come
vengono ricordati nella nostra cultura greco-latina.
Ce ne accorgiamo lavorando alla collana di cui fa parte
questo volume di Venanzio, in quanto poco conosciamo del
periodo delle origine cristiane. Saranno comunque pubblicati interessanti atti di martiri, con l’opera del primo commentatore dell’Apocalisse, Vittorino di Petovio, il cui latino
Girolamo criticava come poco classico, mediocre, anche se
si trattava di opera eccellente nel contenuto2. Siamo in
epoca precostantiniana. Per una presenza cristiana documentata, occorre poi attendere le prime indicazioni offerte
dalle epigrafi musive del pavimento della basilica di Aquileia
del 314 d.C., per renderci conto di quanto stava maturando,
anche se tali testimonianze attestano già uno stadio successivo rispetto all’evangelizzazione cristiana della regione.
Si tratti di martiri della persecuzione del 303/304 o anche di
altre precedenti, in ogni caso presuppongono evangelizzazione e predicazione anteriori, quantomeno del secolo III
lungo le strade romane della regione ed oltre le Alpi, fino al
Danubio. Tralasciamo la questione marciana, sulla quale ci
sarebbe peraltro sempre molto da dire.
Dopo i provvedimenti costantiniani concernenti la libertà
religiosa, nei primi decenni del secolo IV v’è un forte incremento di presenze cristiane, come vescovadi, prima o poi
testimoniati, chiese, mosaici, monete... La collana ricordata
è più interessata ai resti letterari, alle testimonianze di
Scrittori e di Padri della Chiesa, di cui faceva parte la Treviso
di Venanzio Fortunato. L’iniziativa è nata da un’idea del
vescovo emerito di Gorizia, mons. Vitale Bommarco, fatta
propria dalla Fondazione “Società per la conservazione
della Basilica di Aquileia” e dall’editrice Città Nuova di
Roma, che col I volume delle opere di Venanzio stampa ora
il IV volume della stessa collana.
74
Se poi nel secolo IV emerge nella regione un nuovo interesse culturale e dottrinale, si tratta più di tensione pastorale missionaria che di teologia speculativa. Si deve ugualmente pensare che un tale insegnamento pastorale non
poteva fondarsi sul vuoto o quasi, nel periodo successivo
alle persecuzioni – di cui peraltro sembrano scarse le tracce nell’alto trevigiano –, quando compaiono le prime espressioni cristiane consentite dalla politica imperiale. La religione cristiana non nasce infatti accidentalmente, ma richiede
forti decisioni e tensioni di fede per aderirvi e rimanervi al
suo interno; molto più in tempo di persecuzione.
Appunto in quei primi decenni del secolo IV si constata
un periodo di forte espansione religiosa con personaggi
come Cromazio, Rufino o Girolamo, ben presto partito,
senza più ritornare. Nel secolo V sono cominciate poi le
grandi invasioni barbariche e nel secolo VI, pur con le scorrerie di Franchi, Bizantini, Longobardi, anche se diverse tra
loro, non è mancata, anzi si è accentuata, l’affermazione di
quella cultura e di quella religione, nelle quali si sarebbe formato appunto il giovane Venanzio. Posteriormente, vanno
ricordati poi, in tutt’altra prospettiva, i secoli VIII e IX, il periodo carolingio, con altre accentuazioni dei valori religiosi,
ecclesiastici, artistici, storici, e con le opere di autori come
Paolo Diacono e Paolino di Aquileia.
Pur in questa discontinuità politica e culturale, è sempre
vivo il nome magico di Aquileia a riunire nel suo centro
metropolitano il cristianesimo della “X regio”. Ecco dunque il
senso del nostro autore, di Venanzio Fortunato, inserito tra
un passato ed un futuro, anche se egli diventerà – per così
dire – l’antesignano dei trevigiani emigrati e piantati altrove,
non solo in Francia, ma nel mondo.
Se non si può capire Venanzio senza il cristianesimo
della regione dove è nato e cresciuto, va ugualmente ricordata l’ambientazione storico-religiosa di quel territorio, per
situare l’opera nella cultura europea del suo e del nostro
tempo.
Ci si potrebbe chiedere: perché Venanzio sia partito per
la Gallia e non invece per Bisanzio? Il problema è già stato
dibattuto ed altri continueranno a discuterne. Si stava profilando allora un nuovo drammatico periodo, nel quale la
Chiesa aquileiese avrebbe perduto la propria identità originaria. Si trattava di crisi di sviluppo? Le iniziative dei
Bizantini con le invasioni dei Longobardi ne avrebbero sbriciolato la struttura iniziale. La Chiesa aquileiese fuggita a
75
Grado era legittima, ma i Bizantini ne avrebbero fatto una
chiesa “politicizzata” sulla linea della loro tradizione costantinopolitiana, mentre in antitesi i vescovi là residenti e quelli
dell’entroterra si arroccavano in uno scisma per dir così
“nazionalistico”, anti-imperiale ed anti-papale, utilizzando la
gloriosa ma inopportuna intitolazione patriarcale. Volendo
accettare quanto riferisce la cronachistica, e così i documenti pontifici, la bricconata di un ecclesiastico, ladro, fuggito da Grado a Cormons in area longobarda (627), diede
allora nuovo respiro alla Chiesa di Aquileia, provocando per
contro, sotto protezione bizantina, il consolidamento della
sede di Grado, riconosciuta infine anche come patriarcale
dalla stessa Chiesa di Roma3. Ma non cessava allora, anzi si
consolidava, l’altra Chiesa, divenuta sotto protezione longobarda, la Chiesa aquileiese per antonomasia.
In breve: da una gloriosa Chiesa paleocristiana, segnata dal sangue di molti martiri, di tradizione marciana si dirà
più tardi, sorsero due patriarcati, protetti da forze politiche
antagoniste. E Venanzio? Per sua fortuna era già in Gallia:
aveva forse intuito quanto stava maturando? Sia solo consentito sottolineare la tesi, per dir così, della sua devozionalità verso il santo guaritore, sulla base di un’osservazione
riferita da Stefano Di Brazzano (che con tanto impegno ha
curato questo volume)4, che cioé col viaggio in Gallia
Venanzio rifece in senso contrario il percorso dell’“itinerarium Burdigalese” del secolo IV. Se l’“itinerarium” conduceva alle radici della religione cristiana, alla Gerusalemme
dove si veneravano i “vexilla regis”, il giovane pellegrino
compiva il percorso inverso col gusto curioso e devoto di chi
al riguardo aveva ancora molto da dire.
La storia cristiana riguarda sia i singoli, sia le chiese e le
rispettive strutture ecclesiastiche. Il patriarcato di Grado,
ricuperato e valorizzato dall’impero bizantino (ma il patriarca
Fozio lo ricordava solo come “arcivescovado di Aquileia”)5, lo
sarà anche dal papato romano, che unico patriarca
dell’Occidente, a mala pena poteva ammettere un antagonista, meno che meno due, pur finendo coll’accettarlo. Il
patriarcato di Aquileia ebbe invece un futuro – diciamo così
– glorioso, non tanto per appoggio romano, quanto per interventi politici regi ed imperiali. L’incarnazione del Dio-uomo
continua nell’incarnazione delle sue chiese nell’eredità politica del tempo. Se il destino del patriarcato di Grado sarebbe
stato più fortunato col suo spostamento a Venezia, quello di
Aquileia, pur nella dialettica implicita nella sua storia, sarebbe maturato verso sorti più varie, con la successione di
76
Franchi a Longobardi. Ma qui il discorso porterebbe lontano.
Si può concludere pensando a quella di Venanzio come
ad una scelta strategica di fronte ad uno scontro che si
sarebbe prolungato per secoli, tra un impero d’oriente che
voleva governare l’ecumene per diritto divino, e regni occidentali, più limitati ma non meno ambiziosi, che avrebbero
preparato nel futuro l’impero di Carlo Magno. Si potrebbe
almeno ricordare Venanzio come un possibile patrono dei
Trevigiani sparsi nel mondo, vedendolo di ritorno in patria
una volta all’anno, il giorno della sua festa, per rincuorare
quanti come lui, mai ritornati, sentono la nostalgia del paese
nativo.
Note
(1) G. Fedalto, Aquileia, una chiesa, due patriarcati, Roma 1999; Rufino
di Concordia, Scritti apologetici, a cura di M. Simonetti, Roma 1999; Scritti vari, a cura di M. Simonetti, Roma 2000.
(2) Girolamo, Gli uomini illustri, a cura di E. Camisani, Roma 2000, p. 158,
n. 74.
(3) G. Fedalto, Aquileia, una chiesa, p. 122.
(4) Venanzio Fortunato, Opere/1, a cura di S. Di Brazzano, Roma 2001,
p. 24, n. 52.
(5) Les regestes des actes du patriarcat de Costantinople, I, II-II, edd. V.
Grumel-J. Darrouzès, Paris 1989, nn. 550, 560.
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PAOLO MANTOVANELLI
Università degli studi di Padova
Una nuova occasione per un
“Poeta d’occasione”: il Venanzio Fortunato
di Stefano Di Brazzano
Nell’associarmi al saluto rivolto a questo gentile pubblico dall’amico e collega Paolo Pecorari, desidero innanzi
tutto ringraziarlo per aver reso più concreto e diretto, invitandomi a partecipare a questo Convegno, il mio approccio
a Venanzio Fortunato, gloria della città di Valdobbiadene,
insieme personalità eminente della Chiesa e autore significativo della latinità cristiana: una fase della latinità da me
indagata più di vent’anni or sono nell’ambito dei miei studi di
semantica storica1, per cui, nel dire a Paolo grazie per l’occasione offertami di approfondire le mie conoscenze del
tardo latino, gli dico altresì grazie per avermi fatto riandare
per un po’ ai tempi della mia giovinezza; e per aver fornito
alla nostra amicizia, nata a quei tempi nel fervore di studi
diversi, l’occasione per riprendere vecchie consuetudini di
colloquio e di incontro, in vista di un obiettivo comune.
1. Il compito affidatomi, e che mi è gradito assolvere, è
quello di presentare secondo le mie competenze un prodotto notevole degli studi venanziani, frutto dell’impegnato lavoro di un giovane studioso, Stefano Di Brazzano2: il primo
volume, cioè, delle opere di Venanzio Fortunato, autore che
viene così ad aggiungersi degnamente a quelli già editi del
“Corpus Scriptorum Ecclesiae Aquileiensis”, la benemerita
collana curata da Giorgio Fedalto. Il volume comprende i
Carmina, con incluse l’Expositio orationis Dominicae,
l’Expositio symbuli e l’Appendix carminum: tutta la produzione poetica del letterato e uomo di Chiesa di
Valdobbiadene, eccezion fatta per quella delle opere agiografiche, che saranno comprese assieme alle prose, come
specificato nell’Avvertenza, in un secondo volume.
L’Avvertenza circa il piano generale dell’opera (p. 13)
79
precede l’Introduzione generale (pp. 15 sgg.) e
l’Introduzione al volume I (pp. 51 sgg.). La prima (per la
quale, oltre che per le note e anche, in parte, per la traduzione, il curatore dichiara il suo ampio debito nei confronti
dell’edizione “Les Belles Lettres” di M. Reydellet3) offre in
una trentina di pagine, ivi compresa una ricca bibliografia,
un quadro documentato ed esauriente della biografia
venanziana, ripercorsa nelle sue tappe note, dove, con chiarezza espositiva senz’altro apprezzabile dai non addetti ai
lavori, l’attività letteraria del Nostro viene continuamente raccordata alle vicende che lo portarono a contatto con i più
eminenti personaggi politici ed ecclesiastici del tempo.
L’Introduzione al I volume contiene invece informazioni sulla
struttura generale della raccolta, sui temi dei vari componimenti, pure in raccordo costante con la biografia dell’autore,
sul valore storico e sul valore letterario dei carmi (con puntualizzazioni metriche, senza le relative tavole statistiche del
Reydellet), cui segue un’accurata descrizione della tradizione manoscritta. Due Introduzioni che fanno utilmente il punto
degli studi venanziani in ordine alle varie questioni trattate.
Giustamente si dà spazio, nella seconda sezione (pp. 69
sg.), al giudizio, formulato da W. Meyer4, di Venanzio come
“poeta d’occasione” (“Gelegenheitsdichter”), con l’avvertenza che l’espressione non deve configurarsi come giudizio di
valore riduttivo o negativo, ma come definizione delle caratteristiche intrinseche di una poesia che trova nella realtà di
fatti e personaggi la sua prima ragion d’essere. Una definizione estensibile, in fondo, anche ai famosi Inni, il Pange lingua (2,2) e il Vexilla regis prodeunt (2,6): ‘poesie d’occasione’ anch’essi, non solo perché, come rilevato dal curatore,
originati da particolari circostanze storiche, ma anche perché sono in essi riconoscibili i due fondamentali registri delle
poesie d’occasione, quello narrativo e quello descrittivo: i
registri propri di una scrittura abitualmente impegnata da un
lato a ripercorrere le tappe salienti di vicende illustri, dall’altro a ritrarre i particolari architettonici, ornamentali e di culto
di quei referenti concreti che sono gli edifici sacri e profani.
Così, per quanto riguarda la prima modalità, il Pange lingua si configura come la storia di una battaglia avente per
protagonista il Redentore del mondo e culminante nel trionfo
della Croce (gloriosi proelium certaminis […] triumphum
nobilem, vv.1 sg.); a questa storia sublime si riconducono gli
infiniti rivoli delle vicende secolari della Chiesa che sono
oggetto dei singoli carmi, anch’esse contrassegnate da certamina (per es. 1,16,45; cfr. bella, 2,7,22; proelia, 3,30,18
80
etc.) e triumphi (1,3,5; 2,11,17; 2,16,11; 3,23a,25; 3,30,18,
con proelium come nel Pange lingua; 6,1,76 etc.). E così,
per quanto riguarda la modalità descrittiva, nel Vexilla regis
prodeunt sono riservati alla Croce alcuni tratti, per esempio
il “fulgore” (fulgit Crucis mysterium, v.2; Arbor decora et fulgida, v.17), che caratterizzano la raffigurazione di edifici fondati o restaurati da personaggi illustri, come ad esempio la
cattedrale di Tours restaurata dal vescovo Gregorio (Fulgida
praecipui nituerunt culmina templi, 10,6,13).
Una poesia, quindi, ‘della realtà’, colta ovviamente nei
suoi aspetti di più gratificante edificazione, e aliena dalle
speculazioni teologiche: delle quali registra, semmai, il
riflesso storico, come eco delle controversie del tempo: così
nel De Cruce Domini (2,1), dove il primo verso accenna alla
posizione di Venanzio avversa al monofisismo. Di ciò il Di
Brazzano fornisce in nota5 puntuale informazione, come di
tutto ciò che attiene alla storia di personaggi, edifici e in
generale, per dir così, ai referenti oggettivi del testo. Da questo punto di vista il volume offre al lettore, anche non specialista, tutte le informazioni necessarie.
2. Non trattandosi di una nuova edizione critica, non mi
soffermerò più di tanto sul testo, che riproduce per i primi otto
libri quello del Reydellet, tranne che in due luoghi, il primo dal
cosiddetto Epitaphium Vilithutae, v.12. La scelta principio per
principium (accolto dal Reydellet) è comprovata con buoni
argomenti da Paola Santorelli nel suo commento
all’Epitaphium6. E anche il rifiuto della congettura del
Reydellet lusus per usus in epist. (carm. 5,6)1 mi pare condivisibile7.
3. È comprensibile, a questo punto, come il mio interesse si sia concentrato sulla traduzione, la parte del lavoro che
presuppone un approccio più diretto al testo, implicando la
resa dei suoi valori contenutistici e formali. Vediamo, necessariamente per sommi capi, come con il sistema linguisticoletterario del vescovo poeta del VI secolo si è confrontato un
giovane traduttore dei nostri tempi. Naturalmente, tra le
competenze del traduttore sta anche la conoscenza di traduzioni precedenti: e, come sopra ricordato, Stefano Di
Brazzano dichiara onestamente i suoi debiti nei riguardi
della traduzione del Reydellet.
81
3.1 Un primo punto da considerare riguarda il rapporto
poesia-prosa. Secondo l’esempio del Reydellet, il Di
Brazzano traduce in prosa i distici elegiaci del nostro poeta,
mentre riserva la colometria, con rispetto dell’unità versale,
a pochi componimenti, tra cui gli Inni. Va detto subito che la
rinuncia al verso nella traduzione appare, nel caso di un
poeta come Venanzio, più che ragionevole, ove si pensi a
certe particolarità del suo dettato poetico, relative, in particolare, al rapporto metro-sintassi. Il Reydellet, citato dal
nostro nell’Introduzione8, osserva come la sintassi di
Venanzio sia di un’estrema semplicità e come il senso dei
singoli enunciati sia generalmente racchiuso nel giro di un
distico. Ciò vuol dire, in generale, che l’attesa di informazione suscitata nel lettore dall’esametro si placa immediatamente, per così dire, nel verso successivo. Vedrei in queste
strutture assai semplici il riflesso di un atteggiamento volto a
chiudere in modo rassicurante e persuasivo il messaggio
pastorale insito nei diversi motivi della composizione.
Un esempio soltanto, da 3,9 (vv. 37 sg.), il carme sulla
Pasqua dedicato al vescovo Felice: Qui crucifixus erat Deus
ecce per omnia regnat / dantque Creatori cuncta creata precem, tradotto così dal Di Brazzano: “Quel Dio che era stato
crocifisso, ecco regna su tutte le cose (più esattamente:
“Colui che era stato crocifisso, ecco, regna Dio per l’universo”) e tutto il creato si effonde in preghiera al suo Creatore”.
Nel breve giro di due versi è racchiuso, a beneficio dei lettori, il paradossale messaggio cristiano: il crocifisso è Dio re
dell’universo, e l’universo da lui creato rende onore al suo
Creatore. Come di frequente, il senso generale dell’enunciato coincide col distico, così come l’unità di senso, la frase,
coincide con l’unità di metro, il verso, o le sue parti, gli emistichi. Di qui l’uso piuttosto raro, in Venanzio, dell’enjambement, come un confronto con i modelli della classicità può
mettere in evidenza. Venanzio tende a ricomporre nell’unità
del verso o nella sottounità dell’emistichio i nuclei semantici
e iconici separati in enjambement nei poeti riecheggiati
(anche cristiani). Così nello stesso carme 3,9, al v.22: iam
reparat viridans frondea tecta nemus, si ricompone in unità
nel secondo emistichio la coppia frondea tecta che in Virgilio,
georg. 4,61 sg., compariva separata per enjambement: et
frondea semper / tecta petunt. Analogamente, in un carme
del I libro, il 20 (v.16), uno dei carmi per l’inaugurazione di
ville, si ricompone in unità in clausola di pentametro il nesso
opacat humum (sogg. vitis) separato per enjambement in
Virgilio, Aen. 6,195 sg.: dives opacat / ramus humum.
82
In conclusione: una struttura come quella venanziana,
dove la sintassi coincide in buona sostanza col metro, dove
cioè la misura del verso e delle sue parti procede, per così
dire, ‘secondo il senso’, rende ragionevole e anche legittima
la scelta di tradurre in prosa ampie sezioni dei Carmina.
3.2 Una tale scelta potrebbe comportare il rischio di un
livellamento in basso del registro stilistico della resa. Rischio
in genere evitato dal Di Brazzano grazie all’incisività che la
soppressione dei nessi sintattici (relativi o congiunzioni o
altro) conferisce alle singole espressioni. Per esempio, sempre dall’elegia di Vilithuta, morta di parto insieme col bambino: “La creatura infatti muore insieme alla madre, sepolta sul
nascere, non reca con sé alcun segno di vita, nata tra le fauci
della morte”. E ancora: “L’afflizione raggiunse il culmine per
lui quando gli fu rapita la consorte: sposa per breve tempo,
ora suscita in lui lacrime durevoli” (vv. 55 sg. e 67 sg.).
È questo lo stile del traduttore, apprezzabile per incisività e per l’intento di fornire al lettore di lingua italiana immagini definite. Certo, qualche volta il livello stilistico della traduzione pare scadere leggermente rispetto all’originale:
come al v.1 del citato carme al vescovo Felice sulla Pasqua,
raffigurata con le luci e i colori della primavera (3,9): tempora florigero rutilant distincta sereno, dove la patina arcaizzante di tradizione (enniano-)lucreziana dell’aggettivo composto floriger (Lucrezio ha florifer, ambedue presenti in altri
autori cristiani, Sedulio, Boezio etc.) va perduta nella traduzione puramente meteorologica “atmosfera che favorisce la
fioritura” (forse meglio: “apportatrice di fiori”). E, già che ci
siamo, rutilare, più che “tingersi di rosso”, che fa pensare al
tramonto o all’aurora, vorrà dire “scintillare” (come l’oro: rutila pellis in Valerio Flacco, 8,114, è il vello d’oro), un verbo
che non a caso ricorre in Virgilio, Aen. 8,529, detto delle
armi di Enea che, si noti, per sudum [i Troiani] rutilare vident:
per sudum, cioè “nel sereno”, e al verso precedente Virgilio
ha in regione serena, a cui sembra rinviare il florigero […]
sereno di Venanzio: un’eco del passo virgiliano relativo alle
armi di Enea si potrebbe riconoscere al v. 5 del carme di
Venanzio: Armatis radiis elementa liquentia lustrans.
D’altra parte il traduttore è tutt’altro che insensibile ai
valori formali dell’originale, per esempio nel rendere il gioco
fonico dell’allitterazione, procedimento stilistico praticato
frequentemente da Venanzio. Così in 2,1,7 (De cruce
Domini), dove clavis confixa cruentis (sogg. la mano del
Cristo) è reso con “confitta dai chiodi grondanti di sangue”,
più efficace del semplice “sanglants” del Reydellet.
83
Nel complesso sembra di poter riconoscere il pregio di
questa traduzione in una resa ‘moderna’ dell’originale, che
non mancherà di rendere più facile e piacevole il nostro
approccio ad un autore per molti versi significativo della latinità cristiana.
4. Abbiamo toccato, parlando della tecnica compositiva
di Venanzio, il tema dell’intertestualità, cioè, in sostanza,
delle reminiscenze e imitazioni di modelli classici e cristiani.
Un tema a cui il Di Brazzano dedica alcuni cenni nell’Introduzione (p. 71 nt. 105), avvertendo che “di ciò [cioè di tali
imitazioni] rende sistematicamente conto l’apparato delle
fonti posto in questa edizione in calce a ogni pagina dl
testo”. Ora, “sistematicamente” è parola impegnativa, che
prefigura in modo fin troppo ottimistico, mi pare, un quadro
esauriente dell’intertestualità di Venanzio che non poteva
rientrare negli scopi della presente edizione, intesa primariamente a presentare un testo filologicamente attendibile e
a fornire esaurienti informazioni storiche e storico-letterarie:
come rivelato del resto dall’uso, per gli antecedenti letterari,
del termine “fonti”, che è proprio della scuola storica e che
privilegia, semmai, l’aspetto tematico e non formale del
testo. Tanto per fare un esempio, nelle note a piè pagina
dell’Epitaphium Vilithutae (4,26), l’elegia scritta per la giovane aristocratica d’origine germanica, a proposito di Heu
lacrimae rerum (v.5) non troviamo il riscontro della dibattutissima espressione virgiliana sunt lacrimae rerum (Aen.
1,462): riscontro discusso nella nota di commento di Paola
Santorelli9, da integrare con l’interpretazione che dell’espressione virgiliana ha fornito in modo, credo, definitivo
Alfonso Traina (rerum genitivo oggettivo, “lacrime per le
vicende umane”)10, interpretazione presupposta per il verso
di Venanzio dalle traduzioni di Reydellet e del Di Brazzano11
(così come non troviamo registrato per il v.12 l’ascendente
di Virgilio, Aen. 6,429: funere mersit acerbo).
5. Attendibilità filologica (come si inferisce dalla ricca
Bibliografia generale e dalle sezioni dell’Introduzione su La
tradizione manoscritta e Le edizioni a stampa), aggiornata
informazione storico-letteraria e buona qualità della traduzione (a cui avrebbe forse giovato, qua e là, una più capil84
lare considerazione degli intertesti poetici sottesi ai vari
componimenti): sono i pregi maggiori di un’opera che si presenta insieme come utile strumento di lavoro per gli specialisti e come occasione di fruttuosa informazione per un più
vasto pubblico.
La qualità di un’edizione si misura appieno soltanto nell’uso che se ne può fare: saranno i destinatari a decretarne
la sorte. Per quanto mi riguarda, posso solo prevedere per il
lavoro del Di Brazzano una buona fortuna. Ed è questo
anche il mio augurio, che estendo al progettato II volume,
con il quale l’intera produzione letteraria del vescovo poeta
di Valdobbiadene sarà finalmente a disposizione del lettore
italiano.
Note
(1) P. M., Profundus. Studio di un campo semantico dal latino arcaico al
latino cristiano, Roma 1981, pp.329 sgg.
(2) Venanti Honori Clementiani Fortunati Opera / I, cur. Stephanus Di
Brazzano: Carmina, Expositio orationis Dominicae, Expositio Symbuli,
Appendix carminum, CSEA – Aquileia MMI.
(3) Venance Fortunat, Poèmes, t. I: livres I-IV; t. II: livres V-VIII, Texte établi et traduit par M. Reydellet, Paris 1994-1998.
(4) W. Meyer, Die Gelegenheitsdichter Venantius Fortunatus (“Abhandl.
der Königl. Gesellschaft der Wissenschaften in Göttingen”, phil. hist. Kl., n.F.
IV 5), Berlin 1901 (ristampa parziale in AA.VV., Mittellateinische Dichtung, a.
c. di K. Langosch, Darmstadt 1969, pp. 57-90).
(5) P. 147 nt. 2.
(6) Venanzio Fortunato, Epitaphium Vilithutae (IV 26), Introduzione, traduzione e commento a. c. di Paola Santorelli, Napoli 1994, p. 58.
(7) Per queste scelte vd. L’Introduzione del Di Brazzano, p. 87 con nt.
186. Per i rimanenti tre libri della raccolta (comprese le due omelie o
Expositiones) il Di Brazzano ha utilizzato l’edizione di Fr. Leo (Berolini 1881),
ripulendola però della patina di normalizzazione classicistica, specie in materia di scelte ortografiche.
(8) A p.80 (cfr. l’Introduction del Reydellet, Venance Fortunat, Poèmes, t.
I, p. LXVIII).
(9) Pp. 54 sg.
(10) Vd. Virgilio. L’utopia e la storia. Il libro XII dell’Eneide e antologia delle opere, a. c. di A. Traina, Torino 1997, p. 64.
(11) “O lacrime per le umane cose” (analogamente Reydellet).
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SERGIO TAVANO
Università degli studi di Trieste
Venanzio Fortunato: monumenti ed estetica
In margine alla nuova edizione delle sue opere
In un primo tempo questo intervento avrebbe dovuto
riguardare gli aspetti monumentali considerati nell’opera di
Venanzio Fortunato e, in modo particolare i monumenti che
egli vide o che potè vedere. Si potrebbero ricavare considerazioni utili, per esempio, confrontando un paio di capitelli del Museo Civico di Treviso1 e almeno un capitello del battistero di St. Jean di Poitiers2: questi sono senza dubbio tra
di loro contemporanei ma riflettono la cultura artistica tardogiustinianea sul finire del secolo sesto e quindi corrispondono al “gusto” e alle conoscenze dirette di Fortunato. Ma,
mentre gli esemplari trevigiani rappresentano una versione
schematizzata, e non tradita, dei modelli della prima metà
dello stesso secolo, il ricordato capitello di Poitiers si deve
giudicare effetto d’un’elaborazione che, sulla base di spunti
più antichi, ritenuti classici ma proiettati verso l’altomedioevo, senza riguardo verso la cultura artistica propriamente
tardoantica, è un po’ ciò che definisce la figura e l’opera di
Venanzio Fortunato, il quale è radicato nella cultura letteraria antica ma propenso a superarla in vari modi.
Nuovi appunti e suggerimenti giungono però dalla recentissima edizione (primo volume) delle opere di Fortunato
curata da Stefano Di Brazzano. Le considerazioni che
seguono vogliono esprimere apprezzamento per questa
nuova impresa editoriale e trasformarsi in occasioni per commenti di vario genere ma soprattutto su aspetti d’ordine artistico e storico-culturale individuati da una nuova lettura resa
possibile e necessaria dall’edizione ricordata (i riferimenti al
testo e alle pagine sono inseriti direttamente nel testo).
Senza insistere sulle riserve, per lo più marginali3, l’edizione dei Carmi fortunazianei e la nuova lettura che ne propone il Di Brazzano possono indurre a svariate considerazioni e valutazioni più che sull’edizione stessa4 su
Venanzio Fortunato e sul suo tempo.
87
1. Tra Aquileia e Ravenna
Altri, e principalmente Rajko Bratož, ne parlano in questo
convegno: i punti più oscuri della vita fortunazianea riguardano certamente le ragioni e le circostanze della sua partenza dall’Italia verso le Gallie e ciò non tanto perché, pur
avendo detto di voler andare a Tours per San Martino, vi
giunse soltanto dopo due anni di spostamenti specialmente
nell’Austrasia. La giustificazione “ufficiale” di quella partenza e del relativo viaggio è “motivazione secondaria”5. Non è
il caso di riassumere e di ridiscutere quanto si sa dei suoi
rapporti con chiese e figure dello scisma tricapitolino, ma è
certo che la lettera scritta a nome di Radegonda nel 569 a
Giustino II riflette sentimenti di soddisfazione per il ristabilimento della pace (App. 1): la sua avversione non aveva
riguardato l’autorità imperiale e romana in quanto tale ma la
discordia provocata dalle decisioni del concilio costantinopolitano secondo del 553 e dalle persecuzioni che colpirono in modo più duro la sua Chiesa (pp. 630-632).
Venanzio si sente romano e si vanta di poter essere un
Orfeo6. Più tardi, pur essendo lontano e ormai quasi del tutto
estraneo alle sue terre d’origine, si sarebbe espresso in termini decisi contro il popolo longobardo, gravis hospes7.
L’andare pellegrino di Venanzio Fortunato potrebbe trovare un parallelo in quello di Marciano che in quegli stessi
anni peregrinatus est pro causa fidei, come si legge nell’epigrafe musiva stesa a Grado sulla sua tomba8, o come
quello di Agrippino di Como che, attivo pro dogma patrum,
(...) pro sancta studuit pereger esse fide9. Concetti e atteggiamenti del genere non compaiono però negli scritti fortunazianei: egli, oltre tutto, fu vescovo molto più tardi e del
tutto indipendentemente da impegni missionari simili a quelli studiati da poco da Rajko Bratož10.
Sono ben noti i rapporti di Fortunato col futuro “patriarca”
Paolo di Aquileia e col probabile vescovo di Altino, Vitale, ma
anche con Felice, futuro vescovo di Treviso: nella sua opera
ricorrono piuttosto nomi di aquileiesi che non di ravennati11.
Da buon egocentrico egli apprezza senza dubbio alcuno ciò
che e chi potrebbe essergli utile ma in fin dei conti rimaneva
ancora Aquileia la più importante sede metropolitica dell’Italia
nordorientale, alla pari soltanto con Milano; la fortuna e l’autorità di Ravenna stavano delineandosi appena allora.
Non è ardito pensare tuttavia che egli, giunto tra i
Franchi, non volesse richiamarsi apertamente ad Aquileia in
quanto chiesa scismatica (un atteggiamento del genere ci
88
sarebbe stato anche in Paolo Diacono), il che non gli impedisce di ricordare con esattezza nomi di figure e di martiri
aquileiesi. Il suo rifarsi a Ravenna tornò più utile dal punto di
vista culturale e politico davanti ai barbari di Francia come
davanti ai romani di Costantinopoli.
Se infatti Venanzio Fortunato fa dei nomi di persona,
questi sono della Venetia et Histria, come si è accennato:
rivolgendosi a Felice, ricorda la frequenza nella stessa
scuola (VII, 13, vv.3-4), che non necessariamente era quella raggiunta a Ravenna, dal momento che era patriae (cfr.
p. 405, n. 63).
Non è il caso di riprendere nemmeno la discussione sull’identità di questi vescovi, ma non si può trascurare che a
Vitale è riferita non soltanto la costruzione di una basilica in
onore di Sant’Andrea, bensì anche la promozione del culto
dei Santi Lorenzo, Martino, Cecilia e soprattutto Vigilio,
Martirio, Sisinnio e Alessandro: a questo proposito si
dovrebbe guardare a Milano, da dove erano stati inviati i tre
missionari che caddero nella Val di Non, oppure a Sabiona
stessa: qui la visione è complicata, ma forse anche chiarita,
dalla presenza d’un bonus antistes Iohannes (I, 2, v. 25).
Sia pure con forme alquanto vaghe, tanto a Padova12
quanto a Sabiona13 affiora un vescovo Iohannes nella seconda metà del secolo sesto.
Si avverte che per Fortunato i legami con Aquileia sono
tra quelli più familiari in ogni senso, incominciando dal nome
stesso di Fortunato (VII, 9, v.8, p. 550), che ricorre almeno
due volte nel martirologio aquileiese14, e dal nome della
sorella Tiziana, che rimanda a quel Tiziano che risulta più
tardi venerato a Ceneda15.
Molti sono i riferimenti indiretti al mondo aquileiese che si
possono trovare nell’opera fortunazianea, anche senza soffermarsi sul ricordo degli Anicii o dell’antipatripassianesimo
(pp. 146-147) che ad Aquileia però si espresse appena con
lo scatenarsi della questione tricapitolina16.
Più diretti, in senso aquileiese, sono gli spunti reperibili
nell’Expositio orationis dominicae (pp. 570-593), testo che
sarebbe da collazionare con il XXXVIII Tractatus in
Mathaeum di Cromazio, per vedere quanto di nuovo e quanto di tradizionale sia inserito o conservato nel commento fortunazianeo. Qualcosa di simile si dovrebbe fare per
l’Expositio Symbuli (pp. 597-613), da confrontare col testo
ben noto di Rufino di Concordia o di Aquileia, non soltanto
per il commento ma anche per le varianti sopraggiunte e
accolte dal poeta, per esempio nel cambiamento di certi
89
casi (ablativo al posto dell’accusativo o viceversa), nello
spostamento di parole (in Sancto Spiritu invece che in
Spiritu Sancto) o nella soppressione di vocaboli a proposito
di patrem invisibilem et impassibilem oppure di huius carnis
resurrectionem17 e così via: il confronto è da fare specialmente dopo gli studi più recenti18.
Rimane da vedere se e quanto i due testi, quello del
Pater e quello del Simbolo, e i relativi commenti fossero
ancora impressi nella memoria del commentatore, che li
aveva appresi fin dalla sua educazione aquileiese, e di
quanto fossero stati da lui aggiornati e adattati in base ai
luoghi e ai tempi in cui vennero ripensati e riproposti.
Qualcosa del genere, ma forse con risultati migliori, si
può fare e dire per un altro caso: nel carme terzo dell’ottavo
libro (pp. 426 ss.), De virginitate, Venanzio Fortunato ricorda
le vergini Agata, Agnese, Basilissa, Eufemia, Eugenia,
Giustina, Paolina e Tecla, alle quali poi aggiunge Cecilia ed
Eulalia: viene istintivo cercare il punto di partenza nella processione di martiri mosaicata a Ravenna in Sant’Apollinare
Nuovo (p. 429, n. 10). È possibile che nella sua permanenza a Ravenna il poeta avesse potuto addirittura assistere
all’esecuzione di quel mosaico che giungeva a sostituire
figure del regno ostrogoto.
Fin dal 550 circa però un corteggio di vergini martiri era
già stato mosaicato nel sottarco della basilica eufrasiana di
Parenzo. Rispetto alle venti figure del ricordato mosaico
ravennate la scelta compiuta da Venanzio Fortunato corrisponde piuttosto, ragionando in percentuali19, al gruppo scelto a Parenzo. Otto martiri corrispondono al gruppo ravennate (Agata, Agnese, Cecilia, Eufemia, Eugenia, Eulalia,
Giustina e Paolina), mentre a Parenzo, dove mancano Eulalia
e Paolina e furono aggiunte Perpetua, Susanna e Valeria,
ricorrono Agata, Agnese, Basilissa, Cecilia, Eufemia,
Eugenia, Giustina e Tecla. Sarà da vedere se i criteri della
scelta seguita a Parenzo siano stati gli stessi di quelli adottati a Ravenna e perciò di quelli seguiti da Venanzio Fortunato.
Dell’amore o almeno del ricordo vivo della propria terra o
patria può vedersi più d’un segno nelle composizioni di
Venanzio, come quando sente il popolo longobardo quale
gravis hospes, che domina italas harenas (VII, 20 v.9).
Nel giudizio negativo sull’occupazione dell’Italia da parte
dei Longobardi si somma l’alta coscienza di sé (Carm.
praef., 4) e della superiorità raffinata della propria cultura20:
da qui anche il disappunto, tutto personale, se qualcuno,
come Dinamio (VI, 10 v.63), osa entrare nel suo campicello.
90
Echi però della cultura, specialmente di quella letteraria,
che aveva potuto assorbire nella sua terra, prima aquileiese
che italiana, si possono riconoscere in citazioni da epigrafi
contemporanee o in formule omogenee, ma anche in fenomeni più o meno paralleli e talora anche anticipatori: si veda
il frequente uso di metallo per indicare il mosaico21, che trova
corrispondenza altrove e, per esempio, a Parenzo, nell’epigrafe dedicatoria di Eufrasio (magno metallo; vario fulgere
metallo), di cui si parlerà più avanti. Nell’epigrafe parentina
c’è anche l’esaltazione esagerata di un edificio cadente che
sarebbe stato rifatto dalle fondamenta, mentre si sa che il
vescovo Eufrasio, attorno al 550, conservò della basilica
precedente, che risaliva al 420 circa, i muri perimetrali e rifece, spostandola verso occidente, soltanto la parete orientale, modificando e aggiornando in tal modo i valori proporzionali, che nell’edificio precedente erano appunto vecchi22.
Lo stesso avviene in Venanzio Fortunato per la basilica
di Sant’Eutropio (I,13) o per la basilica di Tours23, rinnovata
dal vescovo Gregorio (X, 6, vv.13-16, 24).
Anche l’epigrafe di Elia di Grado (579), che era stata
preceduta e preparata, oltre che da questa appena ricordata di Parenzo, anche da un’epigrafe romana di papa
Simmaco24, può trovare anticipazioni o paralleli in Venanzio
Fortunato (III, 14, v.21: Aurea templa novas pretioso fulta
decore, quasi identico in IX, 9, v.25).25
Ma una qualche analogia con quanto avvenne per il
culto tributato più tardi a Venanzio Fortunato26 si verificò
ugualmente in terra aquileiese: se non fu difficile venerare
tra i Franchi il poeta di Valdobbiadene, divenuto vescovo di
Poitiers, di cui non si conosceva con esattezza il passato,
essendo stato probabilmente coinvolto o interessato dallo
scisma tricapitolino27, meno facile è spiegare l’ingresso di
Ingenuino nel culto dei santi, benché come vescovo di
Sabiona si fosse compromesso apertamente nello stesso
scisma, interpretato in tutta l’ampia provincia ecclesiastica
di Aquileia come forma di difesa dell’ortodossia28.
2. Sensibilità e preferenze
Venanzio Fortunato, com’è già stato osservato da molti,
rivela una sensibilità raffinata per odori, sapori, colori e principalmente per il mondo della natura: ne è incitato a una brillantezza dell’eloquio e delle figure. Egli perciò è bilanciato
tra forme “astratte” o simboliche e criteri naturalistici nel giu91
dicare opere d’arte pittorica (X, 6, v.92: ducta ... fucis vivere
membra putes), in un tempo che, dopo la crisi tardoantica e
nel clima lucidamente paleobizantino, si mostrava propenso
appunto piuttosto ad astrazioni e a geometrizzazioni, le
quali del resto affiorano più volte nei versi fortunazianei,
come si vedrà più sotto.
Egli esalta la bellezza ma è consapevole dell’importanza
dell’intelligenza e dell’elaborazione affidate all’arte, alla tecnica. Nella Praefatio (3, p. 88 e 5, p. 90) compare addirittura l’autoironia, tanta è e quasi spavalda la sua sicurezza.
Molti sono i luoghi in cui il poeta esprime la sua viva sensibilità verso gli odori: ad esempio sono gli aromi e gli incensi (V, 5b, vv. 133-134) dell’altare e del battesimo, a cui contrappone un iudaeus odor (ibid., vv.109-111). Ma sono molto
goduti i cibi e i sapori (VII, 14, vv.17-26; XI, 9, vv.3-14; XI, 13,
vv.1-4; XI, 16, vv.5-10; XI, 18, vv.18-23; App. 9, vv.11-20): si
affianca il pittoresco e anche il grottesco (VI, 8, v.11 e ss.;
VII, 14, vv.31-36; XI, 23, vv.7-8; ma cfr. XI, 11).
C’è raffinato godimento quando ai profumi si associa la
gradevolezza dei colori (VIII, 7, vv.11-18). Ma su tutte le sensazioni prevale il piacere derivato dalla vista, specie se vi
interviene l’arte (Praef., 5): le bellezza è goduta nello splendore dei colori e delle luci. Uno dei passi in cui il rapimento
sembra suscitato anche dal ricordo affettuoso degli ambienti trevigiani o addirittura di Valdobbiadene stessa si legge
nel secondo carme a Martino, vescovo di Galizia (V, 2,
vv.29-42), con allusioni attraverso una serie di metafore tratte dal fascino della campagna coltivata con viti, olivi, fichi,
che sono difficilmente riscontrabili nella Francia settentrionale (cfr. X, 9, vv.30-38).
Si affiancano efficacemente incantate visioni di primavera (VI, 1, vv.1-14), i loci amoeni (VI, 6,vv.1-8), trionfi di fiori
policromi (VIII, 3, vv.29-32; VIII, 7, vv.11-18; XI, 10, vv.1-12;
XI, 11, vv.1-6) o di frutta (VI, 7, vv.4-10).
Benché nei suoi versi prevalgano visioni pressoché
immobili ma preziose, quando il poeta si volge a descrivere
scene e figure drammatiche costruisce quadri non di rado
scultorei: è il caso di Gelesvinta, quasi novella Niobe (VI, 5,
vv.186-196) o del cuoco nel suo antro, già ricordato (VI, 8,
v.11 e ss.).
Notevoli poi sono i rimandi alla musica e precisamente
all’incontro, si direbbe polifonico, di più voci, di più colori ma
anche di ritmi: qui il passo più degno di studio si ha nel
carme 9 del secondo libro, con il possibile pensiero rivolto a
uno strumento a canne (vv.55-62; v. anche App. 19, vv.7-8:
92
Mitis in aure sonus suavi dulcedine tinnit,/ organa vocis
habens mitis in aure sonus). Ed è ben noto il confronto che
egli istituisce tra strumenti di culture diverse (VII, 8, vv.61-64;
cfr. X, 11, vv.1-6).
3. Luce e arte
Tra colori e immagini Venanzio Fortunato coglie con particolare attenzione quelle figure che si presentano intrinsecamente preziose nelle forme, negli aspetti e soprattutto
nelle luci: qui egli si accosta una volta di più a un modo di
sentire e d’immaginare distintivo dell’estetica bizantina o
ancora paleobizantina, per la quale viene ricercata la bellezza brillante dell’oggetto attraverso la preziosità dei materiali impiegati, come gemme, smeraldi, ori e così via.
La preziosità luminosa ancora una volta soddisfa tendenze all’astrazione dell’immagine di derivazione naturalistica e a forme o piuttosto a sensazioni godute quasi irrazionalmente. Le stesse figure umane, specialmente quelle femminili, vengono talora esaltate con immagini e luci tratte da
questo repertorio: texerunt gemmae qua caro nuda fuit: /
brachia nobilium lapidum fulgore coruscant / inque loco
tunicae pulchra zmaragdus erat (I, 3, vv.16-18; cfr. VI, 1,
vv.101-112; II, 10, vv.11-16; III, 20, vv.3-4; VIII, 3, vv.29-31,
268-281: Sardoniche impressum per colla monile coruscat,
/ Sardia purpurea luce metalla micant; cfr. VIII, 4, vv.16-22;
cfr. Append., 1, vv.7-8).
È stato più volte rilevato questo grande amore del poeta
per la luce che si traduce in immagini luminose e nella frequenza di verbi come emicat, coruscat, nitet, radiat, micat,
rutilat. Dell’eloquenza splendente d’un oratore è detto che
lux vibravit (III, 4 v.2) e molto spesso ritornano, oltre ai casi
già citati, metafore affidate alla luce: ad esempio in Praef. 3;
in I, 15, v.23; III, 3, 7-8, 31-32; III, 5, v.2; III, 6, v.20; III, 11,
v.1; III, 15, v.38; V, 3, vv.36 e 40; VII, 1, vv.25-26: fulgore
animi radios a pectore vibras / et micat interior lux imitata
diem.
La luce, che è oggettivamente percepita e goduta, e
talora è l’occhio stesso (III, 7, vv.21-22; V, 5b, v.5; V, 6, v.21),
è spesso metafora spirituale; è l’immagine che di diritto
viene attribuita al sovrano e naturalmente al cielo.
Qui occorre dire che Venanzio non mostra di godere
tanto della luce perché aveva rischiato di perdere la vista29
come vorrebbe l’Amatucci30: è la stessa cultura del suo
93
tempo che, pur dipendendo da Plotino, sente la luce quale
strumento essenziale per far sprigionare dalle cose e soprattutto dalle opere d’arte i valori più alti e più significativi; basta
guardare del resto alla descrizione che Procopio fa della
basilica costantinopolitana di Santa Sofia (De aed., I, 1, 2931, 54 ss.) e, prima ancora, alle immagini che ricorrono nell’epigrafe di Giuliana Anicia per la basilica di San Polieuto e
nella stessa scultura decorativa di questa basilica31.
Lucidità delle superfici, con l’oro che riflette i raggi della
luce, e colorismo intenso e brillante, in ispecie nella scultura architettonica (capitelli, cornici ecc.), sono mezzi che proprio nell’età di Giustiniano trionfano mirando a una visione
coerentemente bidimensionale, antiplastica dunque e antivolumetrica: ne sono testimoni il ricordato Procopio e Paolo
Silenziario32.
Venanzio Fortunato ricorre con tanta insistenza a immagini di luce che non è da escludere che ne abbia voluto
tener conto Paolo Diacono quando compose quell’epitaffio
(H.L., II, 13) in cui egli parla di carpere lucis iter, di tantis
decoraris gemmis e di gemmis, lumine de quarum nox tibi
tetra fugit.
4. Architettura paleobizantina
Sono già stati più volte citati i passi in cui Venanzio
Fortunato sente la bellezza dell’architettura in quanto definita ed esaltata dalla luce: Emicat aula potens divino plena
sereno (I, 9, v.19; cfr. III, 3, vv.7-8); Emicat aula decens
venerando in culmine ducta (I, 4, v.1-3; cfr. I, 9, v.19; I, 12,
v.1 e 11-13; I, 15 passim ); Splendida marmoreis attolitur
aula columnis / et quia pura manet, gratia maior inest (II, 10,
11-16; cfr. II, 12, v.1; II, 13, vv.1-4 e 9; III, 3, vv.7-8; III, 7, passim; VIII, 4, 17-22); Ardua quae rutilo nituere ornata metallo,
/ pallidus oppressit fulgida tecta cinis (App., I, vv.7-8).
Indipendentemente da un pur utile confronto con la
descrizione delle architetture uscita dalla penna di Gregorio
di Tours33, molti spunti, non soltanto retorici, si possono
cogliere nei versi fortunazianei che riguardano edifici nei loro
valori architettonici: si riscontra ciò in modo speciale, com’è
ovvio, nel gruppo di ventuno carmi raccolto nel libro primo.
La basilica di San Nazario a Vernemetum (I, 9), proprio
perché era un martyrium, doveva avere sì una pianta centrale ma non necessariamente circolare (p. 121).
Particolareggiata e tecnicamente sicura è la descrizione
94
della basilica di Nantes (III, 7), della quale si indicano le tre
navate e altre caratteristiche, quali torri merlate, archi, cuspidi (p. 199, cfr. note 20, 23) e navate: resta da vedere se ciascuna navata si concludesse con un altare, uno per
Sant’Ilario e l’altro per San Ferreolo (p. 201, n. 26) o se piuttosto non si debbano vedere mosaicate o dipinte le rispettive storie sulle pareti che dividevano la navata centrale dalle
navate laterali, un po’ come si vede ancora in Santa Maria
Maggiore a Roma34. Altrove (III, 14, vv.21-24) si allude ugualmente a mosaici e a un ordine o galleria superiore. Di riflessi d’oro (obsceno melior lux aurea plumbo: IV, 26, v.129) si
fa cenno più volte (cfr. VIII, 1, vv.36-38).
Il ricordato carme per la basilica di Nantes (III, 7) descrive dapprima l’esterno (fino al v.46) e soltanto dopo l’interno,
per cui la luce dei riflessi (al punto che si parla di sidus ) rimbalza sulla copertura metallica (probabilmente di piombo o
di peltro più che di stagno), sicché il viandante può credere
di vedervi le stelle (terram stellas credit habere suas, vv.4546). Le finestre sono ampie (si direbbero ancora classiche)
di modo che anche l’interno può essere invaso dalla luce
che rimbalza dalle superfici lucenti dei mosaici: quando
sopraggiunge la notte sembra che la luce rimanga imprigionata e che continui a essere emanata rimbalzando da quelle superfici brillanti.
È questo uno dei topoi più cari a Venanzio Fortunato, con
precedenti peraltro in un’epigrafe della basilica vaticana
relativa all’opera di papa Simmaco (498-514) e alludente
all’inclusum diem fulgore perenni, sicché cuncta micant35.
Più chiaro ancora è il concetto nell’epigrafe musiva che
corre nel vestibolo della cappella arcivescovile di Ravenna
e che risale ugualmente ai primi anni del secolo sesto: Aut
lux hic nata est, aut capta hic libera regnat. L’epigrafe ravennate fu senza dubbio letta direttamente da Venanzio
Fortunato (pp. 74-75).
In base a questa smaterializzazione della struttura architettonica, a cui concorrono le tessere musive in oro e il colorismo vibrante ed antiplastico, Procopio poté vedere la
cupola di Santa Sofia quasi agganciata alla volta celeste,
tanto leggera cioè da non presupporre un sistema di sostegni e di contrafforti o di controspinte che pure una calotta
così ribassata esigeva36.
Molte sono le varianti in Venanzio Fortunato sugli stessi
presupposti e con gli stessi criteri concettuali e allusivi. Sine
nocte manet continuata dies. Invitat locus ipse Deum sub
luce perenni (I, 1, vv.11-13; cfr. I, 15, v.48 e 56: nox ubi victa
95
fugit semper habendo diem ); artificis manu clausit in arce
diem (II, 10, vv.13-14); tempore quo redeunt tenebrae, mihi
dicere fas sit, / mundus habet noctem, detinet aula diem (III,
7, vv.47-50); placet aula decens, patulis oculata fenestris, /
quo noctis tenebris clauditur arce dies (X, 6, vv.89-92); confessores gemmata palatia complent / aeternumque tenent
aurea tecta diem (X, 7, vv.22-25).
Il passo più completo può essere indicato nel carme XXIII
del libro terzo (vv.15-16): Candida sincero radiat haec aula
sereno / et, si sol fugiat, hic manet arte dies; qui c’è un preciso richiamo all’opera dell’artista. A questo proposito sono
da leggere i passi in cui il poeta si riferisce all’arte come tecnica: premesso che l’arte e la fede concorrono a rivelare il
Creatore (III, 20, v.4: ista placere magis ars facit atque fides),
oltre che a rendere più gradevole il mondo visibile, il poeta
mostra di apprezzare la tecnica applicata all’arte in quanto
tale: Ingenio perfecta novo tabulata coruscant (I, 12, v.17);
Exilit unda latens vivo generata metallo / dulcis et inriguo
fonte perennis aquae (dove vivo vuole essere non la purezza
ma la vivacità dell’acqua, la verosimiglianza: ma cfr. p. 139).
Il gusto raffinato è già bizantino: VIII, 3, vv.268-280; cfr. II, 10,
v.5; X, 7, vv.22-25; X, 10, vv.11-12.
Si fa cenno anche ad opere d’arte alquanto elaborate, a
piatti d’argento (VII, 24), a mense mobili in marmo (quasi del
tipo a “sigma”: IX, 10, vv.9-14; cfr. XI, 10, v.5), a sete ricamate o da ricamare (App., 3, vv.17-18). Ed è curiosa la preferenza per l’intaglio nel legno rispetto all’uso del marmo
scolpito (IX, 15, vv.1-2): il legno si direbbe più idoneo a effetti coloristici come, per esempio, avviene nelle cornici lignee
delle porte di Sant’Ambrogio di Milano.
I tempi erano maturi per apprezzare le forme che obbediscono in primo luogo alla fantasia: egli fa sue le parole di
Flacco: Pictoribus atque poetis / quaelibet audiendi semper
fuit potestas (V, 6, 7): il passo è importante nella sottolineatura dell’ardimento nelle creazioni artistiche, per cui, tanto
nella poesia quanto nella pittura, tutto è lecito. Qui poi lo
schema (33x33: carmen quadratum) è arte in quanto virtuosismo più che corrispondenza col mondo visibile.
Parlando poi di un’architettura vistosa, il poeta rileva il
gioco abile nell’invenzione delle forme da parte dell’architetto
e del suo scultore: et sculpturata lusit in arte faber (IX, 15, v.9).
Non poteva però rimanere estraneo a un’abilità che fosse ancora al servizio della verosimiglianza: Ingenio perfecta novo tabulata coruscant / artificemque putas hic animasse feras (1, 12, vv.17-18: è pur sempre un ingegno che rin96
nova qualcosa). Vitibus intextis ales sub palmite vernat / et
leviter pictas carpit ab ore dapes (III, 13c, vv.1-2): è sempre
descrizione di un soggetto convenzionale (Parrasio) ma
riproposto dapprima da tanta pittura ellenistica e romana e
poi adottata, sempre più con significati simbolici e con
intenti pedagogici, dall’arte paleocristiana.
I colori danno illusione di vita alle figure: Lucidius fabricam picturae pompa perornat, / ductaque qua fucis vivere
membra putes (X, 6, vv.91-92).
Venanzio Fortunato sente vivamente la differenza tra
l’oggettività delle cose e il piacere dell’immagine o del ricordo: Cum forma fugit, dulcis imago redit (VI, 5, v.198).
Tornano qui opportune le parole dette da Curtius proprio
a proposito di Venanzio Fortunato: “Fra arte e artificio i confini sono vaghi. (...) Di solito l’artificiosità è ritenuta fenomeno di decadenza, di degenerazione dell’arte. Ma può verificarsi anche l’opposto (...): il manierismo formale della tarda
antichità agisce allora sulle capacità tecniche come uno stimolo e sollecita l’ambizione artistica. Si cerca così di trarre
dalla lingua ogni effetto possibile e si raggiungono esiti
nuovi e positivi”37.
Lo stesso tipo di giudizio viene imposto dall’analisi degli
orientamenti estetici e formali impressi nel secolo sesto all’arte. Nel superamento di convenzioni antiche, tendenti a inaridirsi fossilizzandosi, in quel secolo il mondo dell’arte, specialmente per gli impulsi e per i modelli che provenivano da
Costantinopoli, acquistò nuovi equilibri con ricuperi ragionati
che sembrerebbero sollecitati da spinte neoclassicistiche o
puristiche: ma il distacco dai presupposti antichi, già prevalenti lungo la tarda antichità, incoraggiò a proporre forme cariche di tensioni espressive e quasi barocche, sostanzialmente
e strutturalmente estranee a criteri naturalistici38.
In questo clima si collocano e si spiegano molto bene la
figura e l’opera di Venanzio Fortunato: giunge qui utile anche il parere di Auerbach: “Venanzio padroneggia tanto il
manierismo della tarda classicità quanto le forme più semplici del sermo humilis cristiano”39.
Nel suo amore per il mondo visibile e nel suo bisogno di
verosimiglianza Venanzio si sente attratto dal naturalismo,
che giudica per convenzione più idoneo a intenti pedagogici, per la migliore “comprensibilità” e persuasività: eppure
non prevalgono in lui gli intenti pedagogici o didascalici nel
senso convenzionale e giustificativo delle immagini; il che
non esclude attenzione nel suo elogium ai valori morali lodati e proposti40.
97
Nonostante una sua condiscendenza verso estetismi
goduti apertamente, si sentono echi agostiniani nel rapporto tra bellezza e verità in Dio41. Ciò non comporta per lui una
giustificazione delle immagini in senso allegorico e pedagogico ma nemmeno la rinuncia alle stesse a favore di soluzioni aniconiche: egli semmai gode da virtuoso dei valori formali, tecnici e simbolici, senza forzature pedantesche ma
con frequenti allusioni. Egli distinguerà la suggestione ottica, grazie all’evidenza prodotta dalla luce, dall’interpretazione sul piano concettuale, messa in risalto invece da una
luce interiore.
5. La croce
Quando, meno di trent’anni fa, si è scoperta a Grado una
considerevole reliquia della Croce, celata in una teca senza
dubbio costantinopolitana, e si è potuta interpretare la
cosiddetta cattedra veneziana di San Marco come ostensorio per la stessa reliquia e per la sua stauroteca, si sono
potute leggere le figurazioni ivi scolpite in funzione di quella
interpretazione e si è richiamata proprio l’opera in versi di
Venanzio Fortunato per la Croce di Cristo e la donazione del
569 di Giustino II a Radegonda42. Gli studi successivi hanno
confermato anche con nuovi argomenti l’importanza di quella scoperta e la fondatezza di quell’interpretazione ma
anche la stretta affinità della stauroteca di Grado con la
stauroteca di Poitiers43.
D’un’altra stauroteca con gemme, donata nel 576 da
Ragnemodo a Radegonda e ad Agnese parla Venanzio nel
carme X del nono libro (vv.13-14).
Molti altri sono i riferimenti al culto della Croce nell’opera
di Venanzio Fortunato (pp. 29-31), incominciando dai carmina figurata (II, 4 e 5) e dalla dedicazione del monastero alla
Santa Croce: il frammento di mosaico44 con le parole iniziali
del carme O Crux a(ve) presenta con grande chiarezza i
caratteri dell’età di Giustiniano per il ricorso a palmette e
matasse organizzate in un modo particolare, che si direbbe
prolungamento in terra franca di una stagione molto ben
documentata nell’Italia settentrionale, tra Pola e Ravenna,
passando per Grado, e nell’Africa bizantina, di modo che
viene da pensare forse anche a una mediazione dello stesso Venanzio Fortunato. Lo stesso genere di mosaici si
riscontra anche a Trento, addirittura in età longobarda45.
Altrove (II, 2, v.29; II, 4) Venanzio paragona la croce a
98
una nave come aveva fatto già Cromazio d’Aquileia46, ma
non soltanto lui, e ricorda veli su cui erano ricamate croci (II,
3, vv.17-18). Ma tra le figurazioni venanziane relative alla
Croce almeno due possono essere ricordate perché con
singolare coerenza trovano corrispondenza nella “cattedra”
gradese-veneziana: nel dossale di questa “cattedra” compare un agnello sospeso a mezz’altezza contro un albero,
proprio come dice il secondo carme del secondo libro
(vv.18-19): Passioni deditus / agnus in crucis levatur immolandus stipite. È questa la figurazione che, più di tutte quelle scolpite sulla “cattedra”, autorizza a vedervi un ciclo legato al culto della croce.
Non meno pertinente è però un altro passo che parla
della Croce come pianta carica di frutti (Fertilitate potens, o
dulce et nobile lignum, / quando tuis ramis tam nova poma
geris, II, 1, vv.9-10): gli alberi e gli arboscelli scolpiti all’esterno della “cattedra” gradese sono coronati piuttosto da
frutti che da foglie o da fiori. Ad abundantiam si potrebbe
ricordare l’immagine tutta paleocristiana che ricorre poco
oltre (vv.17-18): Appensa est vitis inter tua brachia de qua /
dulcia sanguineo vina rubore fluunt; salvo che il poeta sostituisce i mistici quattro fiumi, che sgorgano dai piedi dell’albero, con il flusso del vino-sangue.
Le coincidenze qui rilevate a questo proposito hanno
sullo sfondo una comune cultura figurativa, in vigore tanto in
Occidente quanto in Oriente, ma possono essere assunte
anche a confermare affinità di scelte da parte del venetoaquileiese Venanzio Fortunato. Nell’area aquileiese e gradese avrebbe avuto in seguito grande importanza il culto della
Croce e forse vi contribuirono proprio i monumenti gradesi
appena ricordati, e cioè la “cattedra” e la relativa stauroteca, sicché tornò precocemente utile e cara l’introduzione dei
carmi fortunazianei nella liturgia locale e poi universale47.
Le due stauroteche inviate da Costantinopoli, quella di
Poitiers nel 569 da Giustino II e quella di Grado nel 628 da
Eraclio, hanno parzialmente in comune ragioni e scopi di
quei doni con cui gli imperatori volevano sì onorare le rispettive città, con le loro autorità politiche ed ecclesiastiche, ma
anche farne degli avamposti “romani” verso il mondo barbarico. Nel caso di Poitiers Venanzio Fortunato interpreta il
dono quasi come una correzione della rotta già seguita da
Giustiniano, per cui egli e il suo entourage potevano passare dalla condizione di avversari e di estranei a quella di possibili amici o collaboratori; in tal caso soltanto tornerebbero
accettabili alcuni degli argomenti di Jaroslav Šašel48. Nel
99
caso di Grado, dove il patriarca di Aquileia era rientrato
nella fede romana, mentre la sede ufficiale di Aquileia voleva persistere nell’opposizione tricapitolina, il dono d’una
parte della reliquia, di quella Croce che Eraclio aveva ricuperato sconfiggendo i Parti, rappresentava un pegno o un
palladio per quel castrum che allora compariva più romano
che mai49 e che avrebbe dovuto assolvere, nei progetti
imperiali, un compito politico e storico di fronte al regno longobardo in Italia.
Note
(1) Enciclopedia dell’Arte Medievale, XI, 2000, fig. a p. 342.
(2) J. Hubert, J. Porcher, W.F. Volbach, L’Europa delle invasioni barbariche, Milano 1968, fig. 49; ma cfr. M. Veillard-Troiékouroff, Les monuments religieux de la Gaule d’après les oeuvres de Grégoire de Tours, Paris 1976,
pl.X,40.
(3) A questo proposito ci si permetta qualche osservazione non sostanziale: in I, 19, v.11 vivo metallo sarebbe da tradurre con “metallo mobile”, trattandosi di un liquido; a p. 172 (IV, 14, v.6) fortis (e non fortes) si dovrebbe riferire a Maurizio; a p. 246 (IV, 6, v.5) consulat dovrebbe tradursi con “ispiri”;
p. 296 (V, 5b, v.5) lumine perspicuo potrebbe alludere non a una “luce diafana” ma a una “luce trasparente” in senso attivo, che fa conoscere (cfr. il senso opposto nel v.25); p. 648 (App. 13, v.8) si legge tegunt oppure tegent? Si
comprende la perplessità circa il carme XIV del l. II (p. 175, n. 44), non foss’altro per il modo con cui sono costruite le oggettive, che non è proprio fortunazianeo; a proposito di questo aggettivo (cfr. p. 68 e alibi) sarebbe da preferire questa forma all’altra (fortunaziano) in analogia con giustinaneo o massimianeo. L’edizione italiana si completa con due cartine (p. 672) del regno
franco tra 561 e 587: omettono troppi luoghi di Fortunato, tra cui Tours e
Poitiers. Vigilio, se era stato vescovo di Trento alla fine del secolo quarto, non
poté essere assassinato attorno al 500 (p. 111, n. 11). Sono infine da controllare le date dell’adozione della regola di San Cesario: cfr. p. 30 (n. 84), p. 425
(n. 4), pp. 430-431 (n. 11).
(4) Salvo che pochi episodi (es. pp. 87, 277, 305) l’edizione segue l’autorità di Reydellet.
(5) L. Pietri, Fortunat et ses commenditaires: un poète italien dans la société gallo-franque, in Committenti e produzione artistico-letteraria nell’alto
medioevo occidentale (Settimane del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, XXV), Spoleto 1992, p. 735.
(6) Pp. 23-25, n. 56; Praef. 4.
(7) Non è il caso di riprendere né tanto meno di riproporre la tesi di J.
Šašel, Il viaggio di Venanzio Fortunato e la sua attività in ordine alla politica bizantina, in Aquileia e l’Occidente, “Antichità Altoadriatiche” 19, 1981, pp.
359-375; cfr. L. Pietri, Venance Fortunat, cit., pp. 737-739. Quando Venanzio,
nel 565, si allontanò dall’Italia e si rivolse oltre le Alpi, il suo viaggio non poteva significare una preferenza “strana” per certi luoghi e per le genti che tre
100
anni dopo sarebbero giunte in Italia (p. 26): egli non poteva saperlo già. Ciò
non toglie che più tardi fosse a sufficienza informato della “gravità” dell’occupazione longobarda (VII, 20, v.11).
(8) S. Tavano, Aquileia e Grado. Storia, arte, cultura, Lint, Trieste 1996 (2ª
ed.), pp. 356-357.
(9) A. Roncoroni, L’epitafio di S. Agrippino nella chiesa di S. Eufemia ad
Isola, in “Rivista archeologica dell’antica provincia e diocesi di Como” 162,
1980, pp. 99-149; S. Tavano, Como, Aquileia, Gorizia, in “Memorie Storiche
Forogiuliesi” 70, 1990, pp. 31-39; G. Cuscito in Patriarchi (cat. a c. S. Tavano
e G. Bergamini), Skira, Milano 2000, pp. 153-155.
(10) R. Bratož, Ecclesia in gentibus, in Grafenauerjev zbornik (c. V.
Rajšp), Ljubljana 1996, pp. 205-225.
(11). Non si può dire che dalle sue parole non traspaiano forme d’affetto
verso Aquileia bensì verso il suo vescovo: ci si chiede se siano scindibili i due
oggetti del suo affetto (p. 16, n. 5 e 7); cfr. la Vita Martini, 4, 656-662.
(12) Questo Iohannes sarebbe succeduto però al Virgilius-Bergullus che
firmò i documenti del sinodo di Grado del 3 novembre 579: cfr. F. Lanzoni, Le
diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (a.604), Faenza 1927, p.
912; cfr. R. Bratož nel contributo ospitato in questi stessi Atti: note 37, 39 e 50.
(13) J. Riedmann, in Geschichte des Landes Tirol, I, Bozen 1990 (2ª ed.),
p. 250.
(14) G. Cuscito, Cristianesimo antico ad Aquileia e in Istria, Trieste 1977,
pp. 93-97. Stefano Di Brazzano (p. 437, n. 24) dice che “Felice e Fortunato,
vicentini, prestavano servizio militare ad Aquileia”, ciò che non risulta dalla bibliografia citata.
(15) F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia, cit., p.969.
(16) Si veda la nota 2 a p. 147; S. Tavano, Tensioni culturali e religiose in
Aquileia, in Vita sociale, artistica e commerciale di Aquileia romana, “Antichità
Altoadriatiche” 29, 1987, pp. 211 ss.
(17). V. Peri, Chiesa e cultura religiosa, in Storia della cultura veneta, I,
Vicenza 1976, pp. 190-191; S. Tavano, Tensioni culturali, cit., pp. 214-215.
(18) G. Biasutti, Otto righe di Rufino, Udine 1970; V.Peri, Rufino e il simbolo della Chiesa di Aquileia. La tradizione culturale del simbolo apostolico
nella ’stilizzazione storica’ occidentale, in Aquileia romana e cristiana fra II e
V secolo, “Antichità Altoadriatiche” 47, 2000, pp. 223-243.
(19) Otto sono i nomi ricordati da Venanzio che ricorrono tra i dodici di
Parenzo, mentre sono dieci tra i venti di Ravenna.
(20) J. Šašel, Il viaggio, cit., pp. 372-379 e n. 50; L. Pietri, Venance
Fortunat, cit., pp. 737-739; cfr. VII, 8, vv.61-62.
(21) L.1, I, v.11: ma solido metallo sarebbe da interpretare quale “mosaico compatto” o “liscio” (anziché “massiccio”): è mosaico.
(22) S. Tavano, Le proporzioni nelle basiliche paleocristiane dell’alto
Adriatico, in ”Quaderni Giuliani di Storia”, 3, 1982/I, pp. 14-19.
(23) III, 11, vv.21-22: vetusta dovrebbe tradursi con ”decadente” non con
”antica”, cfr. pp. 212-213. Al passo I, 12, vv.3-4 (aula conruerat senio dilacerata suo) a Grado corrisponde senio fuscaverat aetas.
(24) A. Carlini, L’epigrafe musiva di Elia nella basilica di Sant’Eufemia a
Grado, in ”Civiltà Classica e Cristiana” I,2, agosto 1980, pp. 259-269.
(25) A proposito di citazioni, il Di Brazzano segnala regolarmente in nota
gli autori e le opere da cui Venanzio trasse spunti, idee o immagini: nel primo
carme dell’Appendice (v.169) ricorre un Christe fave votis, esattamente tratto
dal Carmen paschale di Sedulio (I, 351), uno degli autori da lui più usati; lo
stesso emistichio sarebbe stato ripreso nell’epigrafe dipinta del Tempietto
longobardo di Cividale: S. Tavano, Il Tempietto longobardo di Cividale, Ed.
longob., Udine 1990, p. 81.
(26) B. De Gaiffier, S. Venance Fortunat, évêque de Poitiers. Les témoignages de son culte, in “Analecta Bollandiana” 70, 1952, pp. 262-284.
(27) Come si è anticipato, lo stesso Venanzio si guardò bene dal ricordare le sue antiche simpatie.
(28) S. Tavano, in Patriarchi, cit., p. 144.
(29) L’esperienza personale è invece ben riflessa in II, 16, vv.139-156.
101
(30) Appunti fortunaziani, in Studi dedicati alla memoria di Paolo Ubaldi,
Vita e Pensiero, Milano 1937, pp. 363 ss.
(31) R.M. Harrison, Excavations at Saraçhane in Istanbul, Princeton Univ.
Press 1986.
(32) Ekphrasis, 374; C.Mango, The Art of the Byzantine Empire (3121453). Sources and Documents, Eglewood Cliffs 1972; S. Tavano, Singolarità
dell’architettura di Giustiniano, in “Arte in Friuli - Arte a Trieste” 5-6, 1982, pp.
65-88.
(33) M. Vieillard-Troiékouroff, Les monuments, cit.: qui si ragiona per tipi
su basi archeologiche anziché storico-formali. La visione di Fortunato appare superiore a quella di Gregorio e riflette un’attenzione non localistica, dal
momento che parte da una bella esperienza italiana (pp. 391-393 e passim);
v. anche L. Pietri, Pagina in pariete reservata: épigraphie et architecture religieuse, in Atti del Colloquio AIEGL, 86, 1988, pp. 137-157.
(34) Ma cfr. p. 513, dove si paragonano i dipinti sulle pareti ai moderni
quadri della Via Crucis, anziché al caso romano appena citato o ai mosaici
lungo le pareti di Sant’Apollinare Nuovo o gli affreschi più tardi a San Giorgio
(Reichenau). Si vedano inoltre: p. 198 per l’accenno ad una cupola probabilmente costolata; p. 218, per la galleria e per i mosaici del San Gereone di
Colonia.
(35) B. Patera, La letteratura sull’arte nell’antichità, Palermo 1975, pp. 93-97.
(36) S. Tavano, Singolarità, cit.
(37) E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, Firenze 1992
(ed. it.), p. 430.
(38) Ad esempio: S. Tavano, Considerazioni sui mosaici nella “Venetia et
Histria”, in Aquileia nella “Venetia et Histria”, “Antichità Altoadriatiche” 28,
1986, pp. 250-258.
(39) E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina
e nel Medioevo, Milano 1960, p. 69.
(40) L. Pietri, Venance Fortunat, cit., p. 749.
(41) Conf., VII, 17, 23.
(42) S. Tavano, Le cattedre di Grado e la cultura artistica del Mediterraneo orientale, in Aquileia e l’Oriente mediterraneo, “Antichità Altoadriatiche”
12, 1977, pp. 445-489; D. Gaborit-Chopin, in Il tesoro di San Marco
(Catalogo), Milano 1986, pp. 106-113.
(43) Byzance. L’art byzantin dans les collections publiques françaises,
Paris 1992, p. 326; E. Marocco, Il tesoro del Duomo di Grado, Fachin, Trieste
2001, pp. 20-23.
(44) H. Stern, Mosaïques des pavements préromans et romans en France, in ”Cahiers de Civilisation Médiévale”, 5, 1962, pp. 16-17.
(45) S. Tavano, La basilica vigiliana: mosaici e tipologia, in L’antica basilica di San Vigilio in Trento (c. J. Rogger, E. Cavada), Trento 2001, pp. 413-436.
(46) Chromatii Aquileiensis Opera, c. et st. R. Étaix-J. Lemarié, C.C., s.l.,
IX/A, 1974, Sermo XXXVII, 5-11 (p. 164).
(47) S. Tavano, La ”cattedra” di S. Marco e la stauroteca di Grado,
Gorizia 1975.
(48) J. Šašel, Il viaggio, cit.
(49) V. “Antichità Altoadriatiche” 32, 1988, pp. 261-266 e n. 27.
102
SOFIA BOESCH GAJANO
Università degli studi Roma Tre
L’agiografia
di Venanzio Fortunato
Premessa
Questa mia relazione ha la fortuna di essere stata pensata e pronunciata all’interno di un contesto storiografico,
che già da tempo dedica la sua attenzione a questo scrittore e che ha contribuito a risolvere molti problemi e a illuminare molti aspetti della sua biografia e della sua produzione.1 Posso riservarmi allora un compito limitato: una riflessione sulla fisionomia di agiografo di Venanzio Fortunato, a
partire dalla varietà dei generi letterari usati per celebrare i
santi, e qualche osservazione sul rapporto fra autore, personaggi, committenti e fruitori. Spero, pur nei limiti indicati,
di contribuire a meglio definire il posto spettante allo scrittore nella storia dell’agiografia.
1. Santo per meriti agiografici?
Venanzio Fortunato non ha avuto l’onore di una biografia.
Né in vita né in morte, colui che tanto aveva scritto e che
attraverso i suoi scritti tante relazioni aveva intessuto con
intellettuali in grado di tramandare memoria del suo itinerario culturale e religioso, è stato oggetto di una specifica
attenzione.
Si può forse osservare come molte sue inclinazioni,
conosciute attraverso la sua stessa testimonianza, non
dovessero risultare le più idonee per un’elaborazione agiografica: “le caratteristiche di uomo di mondo del poeta sono
ampiamente testimoniate, le sue doti di estroverso fascinatore, di brillante interlocutore, di facondo commensale
rimandano l’immagine di un uomo sensibile ai piaceri terreni anche dopo avere preso i voti, non alieno da cortigianerie
per mantenere privilegi, agli antipodi quindi di una figura
ascetica quale doveva essere quella di chi si considera
sulla terra solo transeunte per conseguire beni spirituali”2.
103
Questo non impedì l’emergere di un culto,3 le cui testimonianze evidenziano, come componente essenziale, la
sua attività di agiografo. Paolo Diacono si era recato a pregare sulla tomba del vescovo e in quell’occasione aveva
composto, su richiesta dell’abate di S.Ilario, un epitaffio:
sono proprio le sue doti di scrittore a emergere nel suo testo,
che, alle lodi proprie del genere, aggiunge quelle che sentiamo dettate da una ben informata consapevolezza della
sua ‘specializzazione’: “Cuius ab ore sacro sanctorum gesta
priorum/ Discimus: haec monstrant carpere lucis iter”.4 La
scrittura agiografica appare dunque in Paolo Diacono come
un elemento strutturante l’identità del personaggio. Anche
quando Alcuino celebra il vescovo, l’accento batte di nuovo
sulla produzione agiografica: “Fortunatus enim vir, decus
ecclesiae,/ plurima qui fecit sanctorum carmina metro,/
Concelebrans sanctorum carmina metro, concelebrans
sanctos laudibus hymnicidis”.5 I meriti agiografici hanno
stinto, per così dire, sulla fisionomia del personaggio, favorendone la fama sanctitatis: e a buon diritto.
Venanzio Fortunato ha infatti costruito con gli strumenti
ancora così ben padroneggiati della lingua e della cultura
classica un orizzonte agiografico, che, pur centrato su quella parte dell’Occidente che era divenuta la sua patria di elezione, non aveva perduto il senso di una dimensione geopolitica universale, capace cioè di abbracciare tutto il
mondo, dove si era diffusa la parola di Cristo e dove i santi,
da vivi e da morti, avevano lasciato ben visibili le loro tracce; e, cosa ancora più importante, aveva saputo immaginare e descrivere una perfetta corrispondenza fra questo orizzonte agiografico terrestre e l’orizzonte agiografico celeste:
terra e cielo si saldano nella rappresentazione di un unico
universo popolato da figure sante e angeliche.
Due sono i testi, che vorrei proporre a conforto di questa
affermazione. Il primo è il famosissimo passo conclusivo
della Vita Martini, con la descrizione del lungo viaggio dalla
Gallia all’Italia che l’autore fa idealmente compiere alla sua
opera, presentato come una sorta di percorso a ritroso del
viaggio da lui stesso compiuto quando aveva lasciato
Ravenna per la sua nuova patria, in un’audace simbiosi fra
se stesso e la propria opera. Questo viaggio è stato puntigliosamente ricostruito in tutte le sue tappe, puntando sulla
sua dimensione strettamente geografica e legando la scelta
dell’itinerario con i motivi che avrebbero spinto il letterato ad
abbandonare la patria: oltre al voto che avrebbe voluto compiere alla tomba di Martino, in ringraziamento di una guari104
gione, accreditata nell’opera come motivazione principale,
gli storici hanno cercato di individuare motivi personali o
politici legati al contesto in cui lo scrittore era vissuto e si era
formato.6 Il viaggio ha sicuramente il carattere di un abbandono e di una rinuncia definitiva all’Italia, come nota giustamente il Rosada: “solidale con le idee delle chiese scismatiche e soprattutto di Aquileia, Fortunato, per indole e cultura, non ebbe probabilmente l’animo e la forza per combattere la politica imperiale drasticamente ostile ai Tre Capitoli
e di conseguenza agli esiti del vecchio concilio di
Calcedonia. Pertanto la partenza è sin dal principio una
scelta di non ritorno, dal momento che è anche una scelta
di campo inespressa, che riconosce la propria debolezza a
resistere e a opporsi alle trasformazioni incombenti”. Così,
sempre secondo la suggestiva espressione dell’autore, si
può parlare un “itinerario/ non itinerario, in quanto la realtà
‘cartografica’ resta sullo sfondo e si mescola all’urgenza del
messaggio e del valore simbolico: un itinerario ‘ideologico’ e
poetico dunque, in larga misura dichiaratamente fittizio”.7
Questo itinerario si carica di significati proprio attraverso
i riferimenti ai santi. L’orizzonte all’interno del quale il poeta
colloca la sua vita e la vita della sua opera è un orizzonte,
dove passato e presente si uniscono per costituire il tessuto
di una geografia sacra che continua a unire Oriente e
Occidente, al di sopra – senza tenere conto, cioè – delle
nuove realtà politiche: Martino di Tours; il vescovo Germano,
suo contemporaneo, e l’antico vescovo e martire Dionigi di
Parigi; i santi vescovi Remigio di Reims e Medardo di
Soissons; ad Augusta la martire Afra; i martiri Canziani e il
martire Fortunato ad Aquileia – città per la quale non rinuncia all’affettuoso ricordo del vescovo Paolo –, i santi
Agostino e Basilio a Concordia, S. Giustina a Padova, presso il cui sepolcro si trovano gli affreschi relativi a Martino;
infine Vitale, Ursicino e Apollinare nella città di Ravenna, i
cui santuari sono degni di particolare venerazione, e ancora, a conclusione, Martino, con il piccolo santuario a lui dedicato, dove il poeta era stato guarito e da dove era cominciato il suo viaggio ‘di ringraziamento’. Ma in realtà il cerchio
non si chiude con il ritorno al luogo martiniano; piuttosto l’orizzonte si riapre con l’invito a diffondere i carmi in suo onore
verso l’Oriente: “vai poi in cerca degli amici”, dice ancora
rivolgendosi alla sua opera, “se parlerai con i miei compagni di studio, tu per la devozione meriterai il perdono: a
costoro io offro questo argomento, perché con la parola
armoniosa cantino splendidi carmi per le gesta di Martino e
105
con chiaro ingegno compongano versi da diffondere per
l’Oriente”.8
Se qui l’orizzonte rimane saldamente legato a una geografia ‘terrena’ e a una dimensione personale, nel carme III
del L.VIII il poeta lo estende dalla terra al cielo, così che
esso assume una valenza insieme geografica e teologica,
terrena e soprannaturale, non senza attenzione alle diverse
categorie di angeli e santi che sono ora raccolti insieme in
cielo, formando una schiera continuamente alimentata da
nuove presenze: patriarchi, profeti, apostoli e santi, guidati
da Pietro; nel pius ordo dei martiri primeggia Stefano; la vergine Maria guida una teoria femminile – Eufemia, Agata,
Giustina, Tecla, Paolina, Agnese, Basilissa, Eugenia –, che
si arricchisce di sempre nuove figure contemporanee del
poeta. Stabilendo una perfetta corrispondenza fra cielo e
terra, il poeta attribuisce poi a ogni terra o città un ruolo nell’incrementare la corte celeste: Venanzio costruisce anche
qui una geografia sacra, in questo caso di carattere universale, che abbraccia tutto l’orbe cristiano.9
Dalla terra al cielo e dal cielo alla terra: il poeta ha
costruito un universo agiografico che propone insieme una
teologia e una geografia della santità. Qualche merito ha
davvero acquisito per essere ricordato nella storia della santità cristiana.
2. Molte corde per uno stesso arco
L’educazione letteraria, com’è noto, ha permesso allo
scrittore e poeta di padroneggiare una molteplicità di generi. Le sue doti di scrittore in poesia e in prosa sono state
oggetto di molteplici autorevoli riconoscimenti, che non
richiedono ulteriori commenti: dal Tardi, che ne fa l’ultimo
grande rappresentante della poesia antica,10 a Luce Pietri,
che ricorda la sua vocazione di musicus poeta, incarnazione di diverse figure come Orfeo, Virgilio, Davide, e parla di
equilibrio fra obblighi professionali di poeta pubblico e esigenze intime di un artista che ubbidisce a un’ispirazione
superiore, e lega la scelta di rimanere in Gallia al desiderio
di risvegliare quei barbari alla civiltà come novello orfeo,11
fino a Marc van Uytfanghe, che ha recentemente e autorevolmente sancito che “la sua poesia nasce dalla vita e dall’esperienza diretta e, pur con alcune concessioni alla tradizione, presenta un carattere originale e personale”.12
La sua consapevolezza letteraria è ulteriormente prova106
ta proprio dalle frequenti dichiarazioni di inadeguatezza – un
topos usato da tanti autori –, che tocca forse il culmine nella
Vita Martini, dove non esita a evocare illustri pietre di paragone, Giovenco, Sedulio, Prudenzio, Paolino, Aratore,
Alcimo, per dichiararsi “povero d’intelligenza, piccola parte
della letteratura italica, appesantito per la feccia, modesto
nella parola, lento di raziocinio, torpido di mente, mancante
di abilità artistica, rozzo nella pratica, inesperto nel parlare,
a caccia di minimi dettagli di un po’ di grammatica”.13
Tra i generi letterari uno dei più praticati è il genere agiografico, all’interno del quale si sono volute distinguere in
maniera molto netta le opere in poesia, ritenute da più lungo
tempo degne di attenzione,14 e le opere in prosa, più recentemente studiate dal Collins15 e valorizzate in particolare da
Salvatore Pricoco, il quale ne ha messo in rilievo la consapevole discontinuità rispetto ai grandi modelli del passato,
la varietà dei destinatari, la diversa modulazione degli elementi propri della tradizione ascetico-monastica e vescovile, e soprattutto il carattere di “scritti d’occasione e su commissione”, in stretta analogia con i carmi.16
Proprio questo riferimento permette di introdurre preliminarmente il tema, che definirei della ‘pervasività’ dell’agiografia, cioè la dimensione agiografica di composizioni
appartenenti a generi letterari diversi. In altri termini: si ripropone anche nel caso di Venanzio il problema dell’identità
del testo agiografico, un problema che coinvolge largamente la produzione tardoantica e altomedioevale, imponendo
prudenza e duttilità nella definizione dei ‘generi’.17
La difficoltà di identificazione del genere letterario si
pone peraltro in modo acuto per tutta la produzione venanziana, proprio perché i modelli letterari classici hanno spesso contenuti, funzioni, destinatari nuovi. È quanto bene
mette in luce Paola Santarelli: “se per epitaffio intendiamo
dei versi scritti in occasione di una morte, e per elegia un
componimento poetico d’amore caratterizzato da un sentimento di contenuto dolore, di tristezza, di malinconia, e per
consolatio quella particolare espressione che si era venuta
codificando in poesia e in prosa per alleviare il dolore provocato da una morte e che per sua natura era condannata
a essere stereotipa, ebbene questi tre generi letterari nel
carme per Vilituta ci sono tutti ed è interessante vedere
come e in che misura si susseguono, si intersecano e si
sovrappongono”. “Libero dalle pastoie che l’ineluttabile
necessità di cristianizzare il genere aveva dato al pontefice
(Damaso)”, il poeta può avere “un rapporto più disinvolto
107
con i modelli classici di cui fruisce con maggiore autonomia,
mentre è il suo peculiare modo di essere cristiano a rendere elastico il riferimento ai modelli cristiani.”18 Ma non si tratta solo di modelli letterari. È la stessa configurazione del
personaggio celebrato a imporre rilevanti novità, aprendo la
strada alla sua ‘agiografizzazione’: la sua fisionomia prevede non solo l’esaltazione delle sue doti morali, ma anche
una loro proiezione aldilà della morte.
A questo esempio possono essere accostati tanti altri
carmi dedicati ai santi, a partire da quello citato sopra per
mostrare la costruzione di un orizzonte agiografico unificante il cielo e la terra, e, forse ancora più interessanti come
esempi di ‘sconfinamento’, quelli dedicati a personaggi
ancora in vita che finiscono per configurarsi come vere e
proprie piccole agiografie. Esemplare, fra i moltissimi, il
carme in onore del vescovo di Colonia Carentino, “decus
fidei, deitatis amice”, e ancora “vocis apostolicae sectator”,
“pater populi”.19 I carmina sono stati giustamente considerati una testimonianza fondamentale per le funzioni del vescovo nella Gallia merovingia: pastore d’anime, difensore del
suo popolo, intransigente paladino dell’ortodossia, caritatevole soccorritore dei bisogni dei poveri, solerte nell’opera di
civilizzazione;20 qui interessa sottolineare soprattutto la labilità del confine fra encomio e agiografia.
Circoscrivere la produzione agiografica del poeta trevigiano alle sole Vite dei santi risulta dunque limitativo e in
parte falsante per il giudizio sull’autore e per la storia dell’agiografia. Inserite in una più ampia dimensione – utilizzando
quell’idea di ‘pervasività’ sopra ricordata – esse acquistano
un significato ben più generale, evitando che il giudizio sia
legato esclusivamente alla loro dimensione ‘biografica’,
secondo l’interpretazione del Berschin,21 con il rischio, per
usare ancora la felice espressione di Giuseppe De Luca, di
cercare ‘foto per tessera’ in testi interessati a dare un ‘ritratto d’immaginazione’.22
3. L’identità del santo: realtà e tipologia
Oggetto di attenzione delle Vite sono personaggi antichi,
alcuni con un’autorevole tradizione al loro attivo, come nel
caso di Ilario, il grande vescovo di Poitiers,23 altri meno illustri, cui anche Venanzio non riesce a dare una vera identità
biografica, che non sia quella derivante dai miracoli compiuti: è il caso di Marcello, vescovo di Parigi, vissuto probabilmente alla fine del secolo IV, famoso soprattutto per il
108
miracolo della ‘cacciata’ del drago,24 e quel Severino, definito vescovo di Bordeaux e vissuto probabilmente nel secolo
V, di cui parla anche Gregorio di Tours, ma che malgrado
l’attenzione di ben due scrittori, non riesce a trovare una precisa consistenza storico-biografica.25 Si tratta anche di personaggi più recenti, come Albino vescovo di Angers, morto
nel 550,26 Paterno vescovo di Avranches, morto alla fine
degli anni 60 dello stesso secolo,27 Germano vescovo di
Parigi, morto nel 576.28 Vi sono infine personaggi contemporanei, come si è visto nei carmina, tra i quali si colloca il caso
eccezionale della regina Radegonda, per la cui fama di santità giocò un ruolo decisivo il prestigio dello scrittore.29
“In Venanzio colpisce l’assoluta indifferenza del cronista
di fronte alla veridicità di quello che narra, afferma Franca
Ela Consolino, con l’unica eccezione della Vita Germani,
dove di tanto in tanto assicura di avere assistito a questo o
quel miracolo. Perfino nel caso di S. Radegonda, accanto
alla quale egli visse per anni, è difficile cogliere l’eco di quella esperienza diretta che pure c’era stata. Proprio la Vita
Radegundis, paragonata ai carmi che il poeta compose per
lei, permette anzi di stabilire fino a che punto il genere letterario condizionasse la scelta degli elementi cui dare rilievo.
Nell’opera di Venanzio il condizionamento si avverte molto
forte nella diversità di atteggiamento verso il soggetto: alla
tensione affettiva e patetica che caratterizza i carmina si
oppone la fredda obbiettività delle vite”. E nelle Vite dei
vescovi la Consolino individua una griglia di topoi – nobiltà
di nascita, abbandono della famiglia, virtù, elezione vescovile voluta unanimemente dal popolo e rifiutata per umiltà
dal santo, vita ascetica, miracoli –, sostanzialmente “incapaci di comunicare informazioni effettive”, così da determinare la “completa perdita di identità del vescovo”.30
Venanzio ha certamente alcuni clichés letterari e agiografici che funzionano come passe-par-tout. Ma sarei più
cauta nel parlare, nel suo come in tanti altri casi, di consapevole costruzione di ‘modelli’. Mi pare vada riconosciuta
all’autore la capacità di intrecciare esperienze diverse -ad
esempio l’accento sull’esperienza monastica per Paterno o
piuttosto quella sulle funzioni del pastore di anime e di protettore del suo gregge o sulle doti oratorie di Germano di
Parigi –, e diversamente modulare virtù e miracoli – virtù
ascetiche distribuite a molti santi anche non coinvolti nell’esperienza monastica, come Severino, Marcello e Germano.
E ancora riconoscere la coraggiosa esperienza agiografica
rappresentata dalla Vita di Radegonda.31
109
Ma più che soffermarmi ulteriormente sui caratteri della
santità in Venanzio, su cui tanto è stato detto, vorrei spostare l’attenzione dal personaggio, apparentemente oggetto
principale della sua scrittura, alle modalità dell’approccio
dello scrittore e ai personaggi ‘comprimari’ evocati nel testo.
Caratteristica precipua del suo approccio è un’attualizzazione che distacca la sua scrittura agiografica dallo stile storico-narrativo. Va qui trovata probabilmente la ragione dell’indifferenza per i testimoni e per le modalità di trasmissione
dell’evento narrato, che risultano in definitiva come segno
del disinteresse dell’autore per la storia. Questo sembra
vero persino nel caso dei miracoli, che in genere rappresentano, come ha felicemente ricordato Gilbert Dagron,32 il
‘presente’ del santo, l’attualità sempre rinnovata della sua
‘presenza’ taumaturgica, rispetto alla biografia che si riferisce alla sua vita passata, conclusa: in Venanzio questi sono
parte di un discorso volto non tanto alla realtà di ciò che si
racconta, quanto alle necessità o al desiderio del ‘committente’. “Memini, vir apostolice, dice rivolgendosi al vescovo
Domiziano nella dedica della Vita Albini, cum ad urbem
quam Christo presule regitis vestris praesentandus obtutibus occurrissem, inter reliquia maturitatis consulta quae
sensus vester torrentis more mihi visus est inondare etiam
de sacratissimo viro Albino vestro antistite vos ferisse tenuiter mentionem ut eius vita, quae immarcescibilibus meritis
florere probatur caelestioribus impressa libellis ad aedificationem plebis humanis etiam fixa conderetur in chartis:
duplici beneficio populis consulitura, dum et in illo cernerent
admiranda quae colerent et in se respicerent quod unusquisque sagaciter emendaret id est dum apud unum tot praedicanda cognoscerent, apud se resecare vitia”.33
Venanzio pone le sue competenze letterarie al servizio di
una causa altrui. Il suo fine è tendenzialmente celebrativo e
celebrativo non solo e non tanto del santo oggetto della sua
narrazione, ma della committenza, o forse meglio di un contesto ecclesiastico, sociale, religioso e spesso anche politico, di cui i santi da vivi e da morti sono divenuti ormai struttura portante. Si spiegano così non solo il disinteresse già
ricordato per i dati biografici, ma anche i silenzi sulle malefatte e i crimini di quei personaggi alla cui corte viveva, o dei
loro predecessori, cui, era ben noto anche a Venanzio, i
santi si erano opposti o nei confronti dei quali avevano esercitato il loro potere di interdizione morale e le loro virtù taumaturgiche. Si spiega così il frequente apparire sulla scena
di personaggi che definirei di ‘comprimari’ dei santi: non
110
solo vescovi, ma anche re e regine, dal profilo virtuoso e
devoto, fino ai casi in cui i santi appaiono poco più di un pretesto per tessere le lodi dei re: è il caso di Medardo per
mezzo del quale egli rende omaggio, ancora una volta, al re
Sigeberto.34
Non il racconto di una storia, ma un testo funzionale a un
contesto. L’agiografia di Venanzio Fortunato – intesa come
produzione volta a esaltare, in varie ‘combinazioni’, pratica
delle virtù, funzioni religiose e sociali, prestigio ecclesiastico, taumaturgia di personaggi passati e presenti –va dunque considerata all’interno dell’universo, che il poeta aveva
scelto per la sua professione di letterato.
4. Committenti, destinatari e fruitori
Attraverso la scrittura Venanzio tesse una rete di relazioni, al centro della quale ritroviamo sempre l’autore stesso.
“Fortunatus enim per fulgida dona tonantis, ne tenebris crucier, quaeso feratis opem”: la conclusione del carme in
onore dei martiri agaunensi suona emblematico.35 La lode di
un santo diviene l’occasione per lodare un re e attraverso la
lode stabilire un rapporto privilegiato con il potere del sovrano.36 La Vita di un santo crea un legame privilegiato fra il
vescovo suo successore, committente dell’opera, e l’autore.
Questo tema presenta alcune varianti che meritano di essere ricordate.
Verso Martino il poeta ha un antico debito di gratitudine,
ben esplicitato alla fine dell’opera su cui mi sono soffermata
sopra; la riscrittura della sua Vita è un omaggio personale.
Ma il rapporto è per così dire riattivato attraverso due personaggi, Agnese e Radegonda, probabilmente le principali
committenti dell’opera, come propone S. Quesnel37 e attraverso l’amicizia con Gregorio di Tours: “questi libri che io
voglio offrire tramite voi al mio signore e pio signore Martino,
se io stesso ne ho la possibilità, mi curerò di trascrivere tutti
insieme sui quaderni che mi avete mandato: certamente gli
chiederò che la sua clemenza, rinvigorita da voi, non cessi
di intercedere per noi umili peccatori e suoi particolari devoti. Perdona, o dolce padre, perché a chi scrive la pioggia
caduta d’estate ha bagnato un così brutto scartafaccio.
Prega per me, o signore santo e mio dolce padre”. Una
‘triangolazione’, quella costituito da Martino, Gregorio e il
poeta, di cui si hanno altri esempi, come nel carme in onore
della santa Croce.38
111
L’importanza della committenza per tutta l’opera di
Venanzio è cosa ben nota – richiamata anche sopra a proposito dell’interpretazione di Salvatore Pricoco –, posta nei
suoi termini complessivi, insieme culturali e esistenziali, da
Luce Pietri: “Il est beaucoup plus qu’un courtisan, habile à
jouer sur les claviers des vanités ou des ambitions des puissants. Il est doté d’une sensibilité extremement receptive qui
lui a permis grace à une assimilation très rapide, de s’intégrer à cette société gallo-franque que lui eté etrangère, de
comprendre les represantants de son élite dirigeante, e, au
sens premier du terme, de sympatizer avec eux, c’est à dire,
de vibrer aux mêmes émotions et aux mêmes espoirs”; interpretando l’ideologia degli ambienti senatori della Gallia e il
loro attaccamento a una tradizione di cui si sentivano gli
eredi, ma apprezzando il nuovo mondo barbaro, Venanzio
diviene, secondo la studiosa, testimone della fusione incipiente fra due etnie, riassunta nell’immagine di Clodoveo
novello Mosè, che guida il popolo franco nuovo popolo eletto alla conquista della Gallia. Questa interpretazione non solo
porta la studiosa a negare il carattere di circostanza delle
opere religiose, rivendicando invece la sincerità dell’ispirazione, quasi novello Girolamo, o nuovo Davide, ma la induce
a vedere in lui il poeta ispirato dall’amore per la Gallia, per il
suo paesaggio, i suoi monumenti, gli amici, e soprattutto per
i santi, che diventano i suoi patroni d’elezione e addirittura,
nella sua interpretazione, i veri committenti di una produzione scritta essenzialmente a gloria di Dio.39
Se è vero, come ha osservato la studiosa, che il committente coincide quasi sempre con il destinatario, quasi sempre entrambi coincidono con il fruitore: il primo ‘fruitore’,
colui cui spetta il compito del passaggio dalla scrittura all’oralità per esigenze pastorali.40 Con le sue agiografie in prosa
– e propongo così di attenuare ulteriormente la netta distinzione fra agiografie in prosa e in poesia – Venanzio costruisce uno strumento, che sarà utilizzato da altri. Il riferimento
al popolo non è mai diretto, ma sempre mediato attraverso il
suo interlocutore. L’autore interagisce con il committente
che è anche il suo destinatario e colui, che ne diverrà il
primo fruitore: solo attraverso la sua mediazione l’esempio
potrà servire all’edificazione dei suoi fedeli.
Il vescovo di Poitiers Pascenzio, formatosi nella tradizione del vescovo Ilario, è “custode che si conforma in maniera
ferma al principio degli antichi ordinamenti e alle dottrine
della fede cattolica anche con il dedicarsi all’edificazione del
popolo amatissimo come un buon istruttore, affannandosi
112
non senza timore di Dio ad ingrandire in qualche modo il
tempio dell’edificazione spirituale”. Per amore del suo santo
predecessore il vescovo “si è degnato di stimolarmi continuamente perché sulle imprese del santissimo uomo Ilario
confessore della fede, il quale sin dalla stessa infanzia ti
formò dinnanzi ai suoi piedi come un giovane schiavo della
sua famiglia affinché tu dessi in cambio del dono accordatoti anche le parole, io ne raccontassi le circostanze, anche se
non interamente o solo in parte: affinché dunque risuoni alle
orecchie del suo gregge in qualche modo la voce e la vita
del carissimo pastore, ed egli approvi l’incarico e tu stesso
non tenga nascosto il sentimento di affetto”.41 La voce e la vita
del pastore antico rivivono attraverso la voce del pastore
contemporaneo, per il quale Venanzio ‘confeziona’ il suo prodotto con pochi materiali e con scarso interesse per quello
che il santo era davvero stato e aveva rappresentato.
Ma vi è uno scritto per il quale si potrebbe dire che il
committente coincida in realtà con l’autore stesso, mentre
destinatari e fruitori sono tanto ‘sfocati’ da far pensare che in
qualche misura la loro funzione sia ‘riassorbita’ nei primi: si
tratta, è evidente, della Vita di Radegonda. Nel numero di
coloro che Dio rende vigorose per la fede e che muoiono al
mondo, lo disprezzano e anticipano il Paradiso, vi è “colei di
cui ora tentiamo di portare in pubblico, così come conviene,
con un discorso personale, il corso della vita, affinché sia
illustrata la memoria lasciata nel mondo, della beatitudine
eterna di colei la cui vita è con Cristo”. Nella cura dei tanti
piccoli particolari volti a marcare l’eccezionalità del personaggio, sentiamo una partecipazione che in altri scritti
manca. Venanzio, con il suo scritto, “porta in pubblico”, trasferisce cioè dalla sua esperienza personale ‘privata’ al
‘pubblico’ ciò che conosce, risultando di fatto il committente stesso dell’opera e in definitiva il principale beneficiario.
“Ma sia bastevole una breve narrazione dei miracoli della
beata, affinché non venga a noia l’abbondanza, né si reputi
cosa molto breve quando nei miracoli la grandezza si possa
riconoscere dalla narrazione di pochi di essi, con quale
pietà, moderazione, bontà, dolcezza, umiltà, onestà, fede,
fervore ella abbia vissuto, così che ancora dopo la morte
accompagnino lei stessa i miracoli del trapasso alla beatitudine eterna”: questa conclusione, più che riferirsi a lettori
reali, sembra riaprire il dialogo fra autore-committente-devoto e la ‘sua’ santa, fondendo il racconto dei miracoli del trapasso con il trapasso stesso della santa alla beatitudine
eterna.
113
La produzione di Venanzio Fortunato è dominata dall’interesse per il ‘suo’ presente, al servizio del quale pone la
sua cultura: un interesse fatto certamente di ossequio verso
i potenti, di rapporti elitari, ma anche innegabilmente di sentimenti religiosi e di intensi rapporti umani.
Conclusioni
Ogni semplificazione rischia di snaturare i caratteri specifici di una scrittura, cui ogni autore affida compiti diversi,
soprattutto in un’età in cui i nuovi modelli letterari non sono
ancora definiti. E tuttavia mi pare si possa dire che la caratteristica precipua della produzione di Venanzio Fortunato sia
l’immersione nella contemporaneità, dimensione cui partecipano le diverse forme della sua scrittura agiografica: i testi
sono immersi in una rete di relazioni politiche, sociali, religiose, messa efficacemente in luce in questo convegno da
Cristina La Rocca. E qui sta anche la sua originalità.
La peculiarità con cui ha usato la sua cultura e le sue
indiscutibili competenze linguistiche, letterarie e stilistiche
gli assicurano un posto di rilievo nella storia della cultura fra
tardoantico e altomedioevo. Non vorrei usare giudizi generalizzanti, come quello di ultimo intellettuale romano o di
poeta per eccellenza della società merovingia. Si farebbe
un torto alla verità storica che necessita di maggiori sfumature interpretative. Gli si farebbe anche un torto limitando
l’interpretazione a un giudizio comparativo con altri grandi
scrittori a lui contemporanei, pur senza nascondere che non
si vede nella sua opera quell’impeto narrativo e quella prosa
efficace, che sono propri di Gregorio di Tours, e neppure
quell’originale progetto pastorale che è proprio dell’opera
agiografica di Gregorio Magno.
È invece vero che Venanzio ha adattato con grande perizia e grande consapevolezza gli strumenti della tradizione
classica a nuovi destinatari e a nuovi soggetti: tra questi i
santi, divenuti i nuovi protagonisti insieme umani e divini di
una visione del mondo capace di unire la terra e il cielo.
114
Note
(1) Oltre al convegno cui ho partecipato e da cui ho molto appreso, penso al convegno di studio del 1990, Venanzio Fortunato tra Italia e Francia,
Treviso 1993 (a molti dei saggi qui contenuti farò riferimento nel mio testo).
(2) Venantius Fortunatus, Epitaphium Vilithutae (IV, 26), a cura di P.
Santarelli, Napoli 1994, p. 15.
(3) Si veda: B. De Gaiffier, Venance Fortunat, évêque de Poitiers,
“Analecta Bollandiana”, 70(1952), pp. 262-284; I. Sartor, Venanzio Fortunato
nell’erudizione, nella tradizione e nel culto in area veneta, in Venanzio
Fortunato tra Italia e Francia, pp. 267-275; M. Van Uytfanghen, Venanzio
Fortunato, in Il Grande Libro dei Santi. Dizionario Enciclopedico, a cura di C.
Leonardi-A. Riccardi-G. Zarri, III, Cinisello Balsamo 1998, pp. 1918-1921.
(4) Cfr. R. Aigrain, Le voyage de Paul Diacre à Poitiers et l’épitaphe de
Saint Fortunat, “Bulletins de la Société des Antiquaires de l’Ouest”, 10 (1936),
pp. 233-236; e B. De Gaiffier, Venance Fortunat, in part. p. 264.
(5) Cfr. B. De Gaiffier, Venance Fortunat, p. 265; il testo è edito a cura di
E. Dümmler, in Monumenta Germaniae Historica, Poetae Latini, I, p. 326.
(6) Si veda in particolare M. Pavan, Venanzio Fortunato tra Venetia, Danubio
e Gallia Merovingia, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, pp. 11-23.
(7) G. Rosada, Il ‘viaggio’ di Venanzio Fortunato ad Turones: il tratto da
Ravenna ai Breonum Loca e la strada per Submontana Castella, in Venanzio
Fortunato tra Italia e Francia, pp. 25-57, citt. da pp. 45 e 46.
(8) La Vita Martini, è stata edita a cura di F. Leo, Opera Poetica, in
Monumenta Germaniae Historica, Auctores Antiquissimi, IV, 1, Berlin 19612;
l’edizione più recente è: Oeuvres, IV, Vie de Saint Martin, a cura di S.
Quesnel, Paris 1996; le citazioni in italiano sono tratte dalla traduzione
Venanzio Fortunato, Vita di San Martino di Tours, a cura di G. Palermo, Roma
1995, pp. 149-154.
(9) Venance Fortunat, Poèmes, a cura di M. Reydellet, II, Paris 1998,
L.VIII, III, pp. 129-146; si veda ora l’edizione con traduzione: Venanzio
Fortunato, Opera 1, a cura di S. Di Brazzano, Roma 2001.
(10) D. Tardi, Fortunat. Etude sur un dernier représentant de la poésie latine dans la Gaule mérovingienne, Paris 1927; si veda inoltre: U. Moricca,
Venanzio Fortunato, “Didaskaleion”, 5(1927), pp. 55-115; ID., Venanzio
Fortunato, in Storia della letteratura latina cristiana, I, 3, Torino 1932, pp. 228277; B. Brennan, The Career of Venantius Fortunatus, “Traditio”, 41 (1985),
pp. 51-78; numerosi saggi del volume Venanzio Fortunato tra Italia e Francia,
in particolare: U. Pizzani, La cultura in Italia e in Gallia nel sesto secolo, pp.
63-79; M. Reydellet, Tradition et nouvauté dans les Carmina de Fortunat, pp.
81-98; A.V. Nazzaro, Interstestualità biblico-patristica e classica in testi poetici di Venanzio Fortunato, pp. 99-134; J.W. George, Venantius Fortunatus: a
Latin Poet in Merovingian Gaul, Oxford 1992. Cfr. anche le riflessioni di L.
Navarra, Venanzio Fortunato, stato degli studi e proposte di ricerca, in La cultura in Italia fra tardo antico e alto Medioevo, Roma 1981, pp. 605-610.
(11) L. Pietri, Venance Fortunat et ses commenditaires: un poète italien
dans la société gallo-romaine, in Committenti e produzione artistico-letteraria
nell’alto medioevo occidentale, Spoleto 1992 (Settimane del Centro Italiano di
Studi sull’Alto Medioevo, XXXIX), pp. 729-754.
(12) M. Van Uytfanghen, Venanzio Fortunato, p. 1919.
(13) Vita Martini, trad.cit., p. 50-51.
(14) Cfr. bibliografia a n.11.
(15) R. Collins, Observations in Form, Language and Public of the Prose
Biographies of Venantius Fortunatus in the Hagiography of Merovingian Gaul,
in Columbanus and Merovingian Monasticism, a cura di H.B. Clarke - M.
Brennan, Oxford 1981, pp. 105-124.
(16) S. Pricoco, Gli scritti agiografici in prosa di Venanzio Fortunato, in
Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, pp. 175-193. Lo studioso, per la sua
analisi, si mantiene giustamente ancorato alla prudente identificazione di sette testi di sicura attribuzione: le Vite di Ilario di Poitiers, Germano di Parigi,
Albino di Angers, Paterno di Avranches, Radegonda, Marcello di Parigi, e
Severino di Bordeaux.
115
(17) Mi permetto di rinviare ad alcune mie considerazioni: S. Boesch
Gajano, L’agiografia, in Morfologie sociali e culturali in Europa fra antichità e
medioevo, Spoleto 1998 (Settimane del Centro Italiano di studi sull’alto medioevo, XLV), pp. 797-849.
(18) P. Santarelli, Introduzione a Epitaphium Vilithutae, p. 12.
(19) Venance Fortunat, Poèmes, III, XIV, p. 112.
(20) Per un’analisi degli attributi del vescovo nei carmi di Venanzio cfr.F.E.
Consolino, Ascesi e mondanità nella Gallia tardoantica. Studi sulla figura del
vescovo nei secoli IV-VI, Napoli 1979, pp. 143-167.
(21) W. Berschin, Biographie und Epochenstil im Lateinischen Mittelater,
I. Von der Passio Perpetuae zu den Dialogi Gregors des Grossen, Stuttgart
1986, pp. 267-287.
(22) G. De Luca, Introduzione alla storia della pietà, in “Archivio italiano
per la storia della pietà”, 1 (1962), p. 33.
(23) Vita S. Hilarii, a cura di B. Krusch, in Monumenta Germaniae
Historica, Auctores Antiquissimi, V, 2, Berolini 1885, pp. 1-7, cui segue Liber
de virtutibus S. Hilarii, alle pp. 7-11; trad. italiana: Venanzio Fortunato, Vite dei
santi Ilario e Radegonda, a cura di G. Palermo, Roma 1989. A un’analisi della Vita venanziana è dedicata la relazione di Y.-M. Duval presentata a questo
stesso convegno. Per un profilo del santo cfr. ivi, Introduzione, pp. 9-22; e M.
Simonetti, Ilario di Poitiers, in Il Grande libro dei santi, II, pp. 1100-1104.
(24) Vita Marcelli, a cura di B. Krusch, ed.cit., pp. 49-54. Per gli scarsi
elementi biografici cfr. la voce di A.M. Raggi, in Biblioteca Sanctorum, VIII,
Roma 1966, coll. 668-671. Per l’interpretazione dell’episodio del drago, cfr. il
saggio famoso di J. Le Goff, Cultura ecclesiastica e cultura folklorica nel
Medioevo: S. Marcello di Parigi e il drago, in ID., Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino 1977, pp. 209-255.
(25) Vita S. Severini episcopi Burdigalensis, a cura di W. Levison, in
Monumenta Germaniae Historica, Scriptores Rerum Merovingicarum, VII,
Hannoverae 1920, pp. 205-224.
(26) Vita Albini, a cura di B. Krusch, ed.cit., pp. 25-33.
(27) Vita S. Paterni, ivi, pp. 33-37.
(28) Vita S. Germani, ivi, pp. 11-27. Sul vescovo cfr.la voce di I.
Gualandri, in Il grande Libro dei Santi, II, pp. 789-790.
(29) Vita Radegundis, a cura di B. Krusch, ed. cit., pp. 38-49. trad. it. Vite
dei santi Ilario e Radegonda di Poitiers, pp. 93-147. A Radegonda, oggetto di
due diverse biografie, quella di Venanzio e quella di Baudonivia, è stata dedicata molto attenzione da parte della storiografia. Ricordo in particolare le
pagine di J. Fontaine, Hagiographie et politique, de Sulpice Sévère à
Venance Fortunat, “Revue d’Histoire de l’Eglise de France”, 62 (1976), pp.
113-140, e di F.E. Consolino, Due agiografi per una regina: Radegonda di
Turingia fra Fortunato e Baudonivia, “Studi Storici”, 29 (1988), pp. 143-159; P.
Santorelli, La “Vita Radegundis” di Baudonivia, Napoli 1999; nonché la relazione tenuta in questo convegno da M. Cristiani.
(30) F.E. Consolino, Ascesi e mondanità, pp.83-84.
(31) Rinvio alle osservazioni di S. Pricoco, Gli scritti agiografici in prosa.
(32) Vie et miracles de Sainte Thècle, a cura di G. Dagron, Bruxelles
1978 (Subsidia Hagiographica, 62), p. 20.
(33) Vita Albini, pp. 27-28.
(34) Poèmes, L.II,XVI, pp. 72-80.
(35) Poèmes, L.II,XIV, p. 71.
(36) I carmina offrono innumerevoli esempi, soprattutto nel L.VI, che bene mostrano come le regine possano venire lodate per le loro virtù insieme religiose e regali.
(37) Cfr. Introduzione a Vita Martini, p. XV.
(38) Poèmes, L.II, III, pp. 52-53.
(39) L. Pietri, Venance Fortunat, p. 748.
(40) Sull’oralità nella cultura altomedioevale cfr. M. Banniard, ‘Viva voce’.
Communication écrite et communication orale du IVe au IXe siècle en
Occident latin, Paris 1992, dove peraltro i riferimenti a Venanzio sono pochissimi.
(41) Vita Hilarii, pp.1-2; trad. it., pp. 55-56.
116
MARTA CRISTIANI
Università di Roma - Tor Vergata
Venanzio Fortunato e Radegonda
I margini oscuri di un’amicizia spirituale
Esiste o non esiste la dulcedo, la douceur de vivre, la
dolce vita nella Gallia merovingia? Nel mondo descritto dal
rozzo ma efficace latino di Gregorio di Tours, in cui “senso e
non-senso” sembrano inestricabilmente connessi1, in cui
ogni razionalità politica, istituzionale e persino “provvidenziale” sembra costantemente sopraffatta dalla vitalità, dalla
volontà di potenza individuale? Mentre dai Carmina di
Venanzio Fortunato procede una teoria di santi vescovi,
morti o viventi, e quando sono viventi una delle glorie maggiori è quella di costruire o restaurare edifici sacri (Venanzio
è un poeta delle architetture), ma anche, come nel caso di
Leonzio II di Bordeaux2, alcune splendide villae di modello
evidentemente romano, ove la natura è sapientemente
dominata dall’arte, ove il regno degli uomini si sostituisce a
quello dei lupi:
“Hic referunt nutrisse lupos deserta tenentes.
Intulit hic homines, expulit unde feras”3.
Anche quando si tratta di laici, uomini e donne, celebrati negli epitaffi4, si sottolinea il dolce, “pacifico”, o “blando”
eloquio5, la capacità di un giovane6 di dominio di sé, o di
conquistare il placitus amor del sovrano7; la nobiltà e generosità, secondo il modello classico, attribuite a un certo
Avolo, probabilmente di nobiltà romana:
“Nobilitate potens, animo probus, ore serenus
plebis amore placens, fundere promptus opes
non usurae avidus; licet esset munere largus”8.
L’illustre Orienzio, frequentatore abituale dei palazzi del
principe, oltreché “consiliis habilis regalique intimus aulae”,
è “vir sapiens, iustus, moderatus, honestus, amatus”9.
È noto che Ernst Robert Curtius, forse con qualche insofferenza per tanta nobile moderazione, ha facile giuoco nel
contestare un incauto storico che aveva invocato la continuità dell’ideale di kalokagathía in età medievale, e in particolare in età merovingia, sottolineando che la dulcedo esi117
ste in quest’epoca solo in forma letteraria e retorica, e precisamente esiste solo nei testi di Venanzio Fortunato10.
L’editore dei Carmina nella collana “Les belles Lettres” ritiene che non tutto, anche se molto, può ridursi a formula retorica e difende il senso della verità del sentimento di amicizia
nell’opera poetica di Venanzio11.
La questione non è di poco conto perché, per lo storico,
equivale a chiedersi fino a che punto si può ricostruire qualcosa che si avvicina all’esperienza vissuta, a partire dai testi
letterari, e in particolare, fino a che punto il linguaggio talvolta intenso dei sentimenti e dell’eros può lasciare intravedere qualcosa dell’interiorità individuale, delle passioni reali,
che sono l’oggetto cui lo storico avrebbe comunque l’ambizione di avvicinarsi. D’altra parte, fino a che punto il linguaggio dell’intensità amorosa può essere usato asetticamente, senza avvertire il riverbero della sua fiamma, come
Dante, che di formule letterarie era certo un conoscitore,
esemplarmente insegna nell’episodio di Francesca?
Gli spostamenti e il dominio dei popoli “migranti e pirateggianti”12 nelle aree delle civiltà stanziali di origine mediterranea hanno certo prodotto esperienze brutali, sottratte a
ogni mediazione letteraria, ma anche degli incontri vissuti ai
vertici delle due società, negli spazi delle grandi mediazioni
politiche, non abbiamo le testimonianze che avremmo tanto
desiderato, perché Boezio non ci racconta nulla dei suoi
rapporti, dall’esito drammatico, con Teodorico, né
Cassiodoro ci svela i segreti personali dei suoi equilibri
diplomatici. L’incontro e l’ amicizia fra un letterato sicuramente di nobile origine, il cui essere letterato è per così dire
“sostanziale”, forse investito di qualche funzione di osservatore politico imperiale presso le corti franche13, e una delle
grandi personalità femminili dell’aristocrazia franca, come
Radegonda, è sicuramente un angolo di osservazione privilegiato per comprendere qualcosa della fascinazione che
forme diverse di civiltà possono esercitare nei loro rapporti
reciproci.
Partito verso l’autunno del 565 dall’Italia, secondo un itinerario descritto due volte, non senza discordanze14,
Venanzio si ritrova a Metz la primavera del 566, per le nozze
di Sigeberto con la principessa visigotica Brunilde, nell’autunno dello stesso anno a Parigi, dove incontra il santo
vescovo Germano. Infine, dopo un breve soggiorno a Tours,
e un viaggio fino ai Pirenei nell’estate del 567, si stabilisce
nella città di Poitiers, dove Radegonda, principessa turingia,
figlia del re Bertario, aveva fondato il suo monastero fra il
118
552 e il 553, dopo essersi liberata del legame del matrimonio con il re Clotario, figlio di Clodoveo, che aveva sconfitto
il suo popolo e massacrato la sua famiglia. Quello che nell’agiografia femminile può essere un “topos”, il matrimonio
imposto a una giovane donna dalla volontà della famiglia o
determinato da una serie di circostanze15, nella vita di
Radegonda, che conosce per esperienza diretta la violenza
dei tempi, corrisponde alla verità storica: condotta come
ostaggio alla corte del vincitore, dove riceve una buona
educazione16, nel 538 Clotario, che ha già altre due mogli e
forse una terza17, decide di sposarla a Vitry, nell’Artois, ma il
matrimonio avviene a Soissons, dopo una inutile fuga di
Radegonda18. La Vita di Venanzio descrive Radegonda desiderosa del matrimonio mistico, “plus participata Christo,
quam sociata coniugio”19, che sfugge con tutte le astuzie il
letto coniugale20 e la tavola comune21, ma evita prudentemente di descrivere la vera personalità di Clotario, cui l’entourage non manca di far notare di avere accanto una
monaca piuttosto che una regina “habere se potius iugalem
monacham quam reginam”22. L’accento di Venanzio non è
evidentemente sul desiderio di libertà che la ribellione ai
doveri coniugali potrebbe esprimere, ma sul contrasto fra il
gelo del corpo votato alla penitenza e l’ardore dello spirito,
“ut solo calens spiritu, iaceret gelu penetrata, tota carne
praemortua, non curans corporis tormenta mens intenta
paradiso”23. Il poema De virginitate, nella notte di penitenza
della vergine consacrata, che si consuma in lacrime nel
desiderio dello sposo, non manca di cogliere il dettaglio di
raffinata sensualità del marmo che si riscalda alla pressione
di un corpo che si raggela: “marmore iam tepido frigida
membra premens”24.
Mentre il gelo della vocazione ascetica caratterizza la
vita della sposa, il racconto dell’ infanzia, scritto da Venanzio
in forma di lettera che Radegonda stessa avrebbe indirizzato al cugino Amalafredo, sul modello delle Heroides di
Ovidio, evoca tutte le seduzioni, le ansie, le tenerezze innocenti degli amori infantili:
“Ricordati almeno quello che dai tuoi primi anni,
Amalafredo, ero allora, io Radegonda, per te,
quanto un tempo, nella tua dolce infanzia, tu mi abbia
amato,
nato dal fratello del padre, affettuoso parente.
Quel che per me il padre defunto, la madre poteva
essere,
una sorella, un fratello, eri tu solo.
119
Sollevata da tenere mani, restavo attaccata a te
nei carezzevoli baci,
incantata, io piccola, dal tuo sereno parlare.
Non passava ora, che da me non ti portasse,
ora corrono secoli, e non ricevo da te una parola.
Tumultuosi affanni rivolgevo nel cuore trafitto
...................................................................................
se ti affrettavi eri per me sempre lento.
Dava segno la sorte che di te, o caro, avrei presto
mancato;
amore che non sia propizio non può avere durata.
L’ansia mi tormentava, se una sola dimora
non ci accoglieva”25.
Ovviamente, la natura e le convenzioni diverse dei testi,
racconto agiografico e testi poetici, implicano una diversa
prospettiva e un diverso sguardo dell’autore, che nella Vita
traduce al femminile alcuni elementi simbolici e operativi del
grande modello di santità martiniano, di cui Venanzio stesso
ripercorre, in versi, l’itinerario spirituale, dopo Sulpicio
Severo e Paolino di Périgueux. Nel gesto di Martino, di spogliarsi del mantello, come sottolinea Venanzio in uno dei suoi
poemi, il riparare qualcuno dal freddo aumenta il calore
della fede, “dum tegit algentem, plus calet ipse fide”26. Nella
Vita di Radegonda il gesto simbolico e mistico della spoliatio27, inteso probabilmente nel senso paolino dell’abbandono
dell’uomo vecchio, è compiuto abitualmente dalla regina
nella sua vita profana: ogni qualvolta, “quotiens”, le fanciulle del seguito lodavano l’abbigliamento da idolo barbarico,
di cui qualche sepolcro femminile merovingio ha restituito la
ricchezza, il velo di lino orientale, intessuto di fili d’oro e ricamato di gemme, “lineum savanum, auro vel gemmis ornatum”, Radegonda si dirigeva alla chiesa più vicina per
deporre sull’altare il prezioso tessuto28.
A differenza del gesto di Martino, gesto “della recluta,
che copre il suo re, dell’uomo che ricopre il suo Dio”, come
si esprime Venanzio in un altro dei suoi poemi29, la spoliazione di Radegonda è una liberazione dai segni del potere
e della ricchezza, che trova il suo compimento nella liberazione dal “peso” della ricchezza dell’appannaggio reale,
percepito attraverso il pagamento delle decime, con la sua
distribuzione ai poveri: “Sic, ne premeretur a sarcina, quod
acceperat erogabat”30. Nell’amplificazione di Venanzio,
“a...munificentia nec ipse se abscondere potuit heremita”31,
l’eremita più nascosto non si salva dalla prodigalità di
Radegonda, che esercita del resto una delle funzioni, non
120
prive di implicazioni politiche, nelle quali le donne dell’aristocrazia franca possono esercitare una loro autonomia: la
santità della regina Ultrogoda (511-558), moglie di
Childeberto I, sembra avere le sue motivazioni in un’abile
politica di mediazione con il mondo monastico32.
Una vera cerimonia di spoliazione è solennemente
descritta da Venanzio quando Radegonda, dopo la morte
del fratello, abbandona definitivamente la vita coniugale e
impone al vescovo Medardo di consacrarla a Dio, anzi,
come sottolinea Claudio Leonardi, “manca poco che si autoconsacri”33, con il grado, ancora esistente in epoca merovingia, di diaconessa34. Quello che Venanzio prudentemente non dice, è che Clotario, il marito di Radegonda, aveva
fatto uccidere il fratello, come Gregorio, che racconta trame
shakespeariane nello spazio di poche righe, esplicitamente
afferma: “Chlothacharius ...Radegundem...in matrimonio
sociavit, cuius fratrem postea iniuste per homines iniquos
occidit”35.
Venanzio, del truce dramma, sottolinea l’elemento provvidenziale, perchè induce Radegonda a una vita integralmente religiosa36, preceduta dal rituale di abbandono dei
segni del potere:
“Allora, spogliata del nobile abbigliamento, con il quale
era solita, nelle feste più solenni, avanzare da regina,
accompagnata dalla pompa regia, lo pone sull’altare e in
segno di onore ricopre di molteplici doni, porpore, gemme,
ornamenti, la mensa della gloria divina. Il peso di una cintura d’oro fatta a pezzi lo dona per le necessità dei poveri.
Similmente, avvicinandosi un giorno alla cella del santo
Giumerio, dell’insieme di cui si ornava da regina, la beata
fece, per usare un linguaggio barbaro, un fagotto (stapio), e
affidò al santo altare quello di cui avrebbe potuto godere:
camicie, maniche, cuffie, fibbie, tutte d’oro, alcune ornate di
gemme tutto intorno. Poi, un giorno in cui aveva dovuto
adornarsi lussuosamente, nell’uso mondano, recandosi alla
cella del venerabile Datdone, qualunque cosa aveva potuto
indossare, nel suo rango di donna ricca, dopo i doni offerti
all’abate, conferisce tutto al cenobio“37.
Una cerimonia analoga, distinta dal gesto caritatevole,
che imita veramente il gesto martiniano, di donare gli indumenti ai poveri38, si ripete all’arrivo di Radegonda alla basilica di S. Martino a Tours:
“Da qui arrivata a Tours con una felice navigazione,
quale discorso potrebbe adeguatamente dire...quanto si
dimostrò munifica? Che cosa fece, piangente, mai stanca di
121
lacrime, negli atri, nelle cappelle, nella basilica di San
Martino...dove, dopo aver fatto celebrare la messa, decora
il sacro altare di un ornamento composto dalle vesti e dai
gioielli, di cui si copriva a palazzo nelle occasioni più eleganti”39.
Nella persona di Radegonda la regalità barbarica depone di fronte a Cristo, quindi di fronte alla chiesa, i segni delle
proprie liturgie profane, con una simbologia di grande forza
spirituale, e tuttavia di ridotta incidenza politica, perché è la
regina, non il re, a compiere un rituale di umiliazione/purificazione, che probabilmente è piuttosto un rituale di liberazione da un atroce passato, dal lusso di schiava regale, in
un itinerario di conquista dell’individualità, di una regalità
interiore.
In uno dei poemi che accompagnano l’invio di piccoli
doni a Radegonda, fra i più ricchi di grazia, in un’opera poetica di occasione, Venanzio si augura che i fiori oggetto del
dono non si limitino a spandere il loro profumo, ma possano
ornare la chioma dell’amica, dopo la fine della penitenza
quaresimale, che la tiene lontana:
“Et licet egregio videantur odore placere,
plus ornant proprias te redeunte comas”40.
Lo scambio, fra Venanzio e Radegonda, di semplici
doni, fiori, frutta, latte, vino, o più elaborati cibi che deliziano
il palato, quale è descritto nei poemi dell’VIII e dell’XI libro,
sembra delineare un’atmosfera che non è poi così lontana
dalla originaria concezione epicurea dell’amicizia, di cui è
elemento essenziale il condividere serenamente i più semplici piaceri che offre l’esistenza, nonostante il disprezzo del
mondo, che assicura i regni celesti:
“Regali de stirpe potens Radegundis in orbe,
altera cui caelis regna tenenda manent
despiciens mundum meruisti adquirere Christum”41.
Nella Vita, tuttavia, la pratica delle più umili funzioni di
servizio alla comunità e la cura dei poveri scivola, nelle
descrizioni di Venanzio, su quel piano inclinato che la santità femminile percorrerà fino in fondo, nel gusto del contatto con la corporeità più sordida, in una sorta di ricerca di
abiezione fisica. È vero che i lavori domestici, soprattutto
femminili, non evitano contatti sordidi, ma Venazio ne accentua, per così dire, il realismo dei “fetori di sterco”42, per sottolineare, ovviamente, la virtù della nova Martha43, di cui
sono stati individuati i modelli agiografici44. Martino stesso,
122
peraltro, diviene servo del servitore che gli è stato attribuito
nella vita militare45.
È vero che la cura dei malati, cui Radegonda sembra
dedicarsi con un interesse che deriva forse dalla tradizione
germanica di una pratica femminile di cura, implica il contatto con gli aspetti più ripugnanti della corporeità, ma
Venanzio, nel momento stesso in cui attribuisce alla sua protagonista, fin dall’infanzia, una notevole preoccupazione
dell’igiene altrui46, si sofferma su questi contatti con la putredine, i vermi, le croste, con una evidente compiacenza verbale, quando decrive le attività dei giorni che Radegonda
riserva alla cura dei poveri: “capita lavans egenorum, defricans, quidquid erat, crustam, scabiem, tineam, nec purulenta fastidiens, interdum et vermes extrahens, purgans
cutis putredines...Ulcera vero cicatricum, quae cutis laxa
detexerat aut ungues exasperaverant, more evangelico,
oleo superfuso, mulcebat morbi contagium”47.
In realtà, anche se Venanzio recupera il “topos” agiografico del bacio al lebbroso (di sesso femminile)48, il suo racconto testimonia una precisa e “razionale” volontà organizzativa nella cura dei malati, per i quali, nella condizione di
regina, aveva già disposto una sorta di ospedale49. Qualche
pratica igienica (il bagno caldo, l’olio versato sul capo) è
presente anche in due veri e propri miracoli di guarigione50,
a testimonianza di una vocazione medica, che attraverserà
del resto la civiltà monastica in tutta la sua storia e sarà all’origine delle istituzioni di cura.
I compiacimenti letterari del biografo, che in realtà, con
le sue immagini di mani femminili a contatto con la materia
sordida dei corpi sporchi e malati, crea l’archetipo della
santa regina al servizio dei poveri, raggiungono talvolta, nei
poemi, risultati di grande raffinatezza e suggestione sottilmente erotica, come quando Venanzio coglie la traccia delle
dita dell’amica sulla superficie del latte appena scremato,
contenuto nella brocca che ha ricevuto in dono:
“Aspexi digitos per lactea munera fixos
et stat picta manus hic ubi crama rapis.
dic, rogo, quis teneros sic sculpere conpulit ungues”?51
D’altra parte lo stesso autore, che all’aristocrazia franca
presta volentieri il gesto moderato e il parlare grave e sereno di aristocrazie educate alla filosofia, mentre affida ai suoi
poemi il compito etico ed estetico di educare ai buoni sentimenti52, quando affronta il tema degli esercizi di penitenza
praticati da Radegonda, soprattutto durante la quaresima,
sembra abbandonare ogni criterio di moderazione e descri123
ve il suo infliggersi il supplizio di anelli di ferro intorno al collo
e alle braccia, di catene strette intorno al corpo sulle quali
cresce la carne53.
Poiché, come è stato osservato, “il rito crudele di cerchiare collo e braccia con anelli di ferro era una pratica
espiativa di origine germanica, riservata ai parricidi e a
quanti fossero colpevoli della morte di consanguinei”54, quali
oscure viltà o connivenze nell’orrore, quali rimorsi fraterni
avrebbero dovuto espiare, se non appartengono all’invenzione letteraria, le penitenze di Radegonda?
Il più “acceso” dei fantasmi che Venanzio proietta sulla
persona dell’amica è quello del marchio prodotto dal ferro
incandescente in forma di croce, che Radegonda stessa si
imprime sul corpo, “a se ut fieret martyra”, in una esperienza estrema di penitenza, al limite del martirio, che è l’oggetto di desiderio55: “Sic, spiritu flammante, membra faciebat
ardere”56. Le bruciature che Radegonda si infligge, in una
progressione verso l’eccesso (adhuc aliquid gravius), usando un bacino di bronzo pieno di carboni ardenti producono
quelle piaghe purulente che la sua attività di volenterosa
infermiera si adoperava a curare negli altri57: anche se per
Venanzio l’attività di cura e le ferite inflitte al proprio corpo
sono due aspetti diversi di un’attitudine penitenziale, sul
piano della coerenza psicologica è difficile attribuire tanta
violenza nell’aggressione alla corporeità a chi ha esperimentato la pratica del sollievo alla malattia.
La precisa ragione teologica di questa volontà di martirio è che il merito più grande, il fondamento stesso della
santità cristiana, è il superamento della natura, tanto più evidente quanto più la natura è debole, come avviene nella
corporeità femminile, “all’interno della quale” Cristo celebra
le sue più gloriose vittorie, come Venanzio afferma nel prologo della Vita: “in quarum visceribus cum suis divitiis ipse
rex habitator est Christus”58. Sottolineo che Venanzio segue
strettamente, come sarebbe evidente da una analisi minuziosa degli epitaffi, una linea di ortodossia che possiamo
anche definire moderatamente “semipelagiana”, riconoscendo sempre il valore dei meriti ai fini della conquista
della vita eterna. La superiorità rispetto alle passioni degli
uomini rendeva Martino “estraneo alla natura”, (extra naturam hominis indebatur)59, ma per Venanzio la più alta vittoria
sulla natura si manifesta quando “il barbarico” e il femminile
sono congiunti in una sola persona, come Venanzio riconosce esplicitamente nell’epitaffio di Vilithuta:
124
“Sanguine nobilium generata Parisius urbe
Romana studio, barbara prole fuit.
Ingenium mitem torua de gente trahebat,
uincere naturam gloria maior erat”60.
Il contagio del mondo, nella pratica femminile della santità, deve essere fisiologicamente espulso con le pratiche
forti della mortificazione, come Venanzio si esprime ancora
nel prologo della Vita: “Quae mortificantes se saeculo,
despecto terrae consortio, defecato mundi contagio, non
confidentes in lubrico, non stantes in lapsu, quaerentes vivere Deo, ad gloriam Redemptoris sunt copulate paradiso”61.
Venanzio, che in numerosi testi dimostra di possedere
l’arte di cui sarà maestro Bernardo di Clervaux, l’arte che
chiamerei di “erotizzare l’ascesi”, quando scivola, nel linguaggio della penitenza, “in qualche torbido compiacimento”62, esprime forse soprattutto la fascinazione che esercita
l’”estraneità” barbarica di Radegonda, in un’epoca e in un
contesto in cui la possibilità di un ritorno alla natura appare
verosimilmente una minaccia reale, per un uomo che distilla
nei suoi versi le grazie di un’educazione cittadina, che ha
orrore delle selve abitate dai lupi e delle paludi del “selvaggio” fiume del Gers63, che ama la natura della villa romana
disciplinata dall’agricoltura.
Mentre il santo Marcello affronta nella forma del drago
l’alterità irriducibile della natura, per affermare il dominio cristiano dell’uomo, secondo l’interpretazione ormai celebre
che ne ha dato il Le Goff64, Radegonda deve esercitare su
se stessa la ferocia guerriera necessaria a sconfiggere il
drago della naturalità femminile per accedere a quell’ordine
della storia, nel quale peraltro l’insieme della sua attività
politico-religiosa la colloca di pieno diritto.65
L’educazione letteraria di Venazio, utilizzata in funzioni
diplomatiche molteplici all’interno della nobiltà franca, in
quello che il Reydellet definisce “projet esthétique”66, dispiega molte delle sue seduzioni nella complessità delle esperienze vissute, in quello che appare, dalla lettura dei testi, il
cerchio volontariamente chiuso dell’amicizia con
Radegonda e la giovane badessa Agnese. Per la consacrazione di Agnese, scelta da Radegonda come badessa del
monastero di Poitiers, per motivi che potrebbero non essere
unicamente dettati dalla pratica dell’umiltà, forse non del
tutto privi di implicazioni politiche, Venanzio scrive il De virginitate67, illuminato dallo scintillio delle molte pietre preziose, evocate a celebrare la gloria celeste della santità virginale. Per festeggiare il compleanno della stessa Agnese,
125
Venanzio si rivolge a Radegonda come madre spirituale di
una figlia, che “tibi non uterus natam, sed gratia fecit”68, e
conclude con un augurio comune, che una duratura salute
“teneat vos corpore iunctas, rursus in aeterno lumine iungat
amor”69. Riconoscendo Radegonda come madre e Agnese
come sorella, Venanzio afferma esplicitamente, in versi ben
noti, la natura spirituale dell’amore:
“Mater honore mihi, soror autem dulcis amore,
quam pietate fide pectore corde colo,
caelesti affectu, non crimine corporis ullo:
non caro, sed hoc quod spiritus optat amo”70.
La conclusione del testo spinge il tema della fraternità e
maternità spirituale fino alla metafora di un parto gemellare
dal casto ventre di di Radegonda e di un comune nutrimento dallo stesso seno71, il che significa evocare comunque
intense e primordiali emozioni, che ispirano, in un altro testo,
l’augurio di mantenere questa unità di affetti e di persone
oltre la morte, nella vita futura e forse, con un accenno fuggevole, nello stesso sepolcro:
“Nos neque nunc praesens nec vita futura sequestret,
sed tegat una salus et ferat una dies.
Hic tamen, ut cupio, vos tempora longa reservent,
ut soror et mater sit mihi certa quies”72.
Nel 589, due anni dopo la morte di Radegonda, nel
monastero di Sainte-Croix, una rivolta è guidata da due principesse reali, Clotilde e Basina, che dopo la fuga dal monastero organizzano una vera e propria banda armata (e non
credo si abbiano molti esempi di bande armate nella storia
del monachesimo femminile), come ci informa Gregorio di
Tours73, che avanza qualche prudente spiegazione sui motivi della rivolta, senza chiamare direttamente in causa
Radegonda.
Insieme alla ferocia del vivere, che non risparmia i monasteri abitati da nobili e fiere fanciulle, sicuramente esiste in
età merovingia la dolcezza, ma anche la complessità, l’ambiguità del vivere, nei rapporti personali e nei rapporti fra
culture: grazie all’opera di Venanzio, di questa complessità
la letteratura ha continuato a essere parte essenziale.
126
Note
(1) Senza sollevare la questione del metodo storico di Gregorio, cfr. G.
Vinay, Senso e non-senso nella ‘Storia dei Franchi’ di Gregorio di Tours, in Alto
medioevo latino. Conversazioni e no, Napoli, 1978, pp. 37-63.
(2) Leonzio II, cui sono dedicati i Carmina, I, 14-20 (Venance Fortunat,
Poèmes, éd. M. Reydellet, I, Paris, 1994, edizione cui si farà riferimento, pp.
33-46; traduzione italiana: Venanzio Fortunato, Opere, I, a cura di S.
Brazzano, Aquileia, 2001), succede a Leonzio I sulla cattedra di Bordeaux intorno al 579: cfr. K.F. Stroheker, Der senatorische Adel im spätantiken Gallien,
Tübingen, 1948, Darmstadt, 1970, n. 219, p. 188; E. Griffe, Un évêque de
Bordeaux au VIe siècle: Léonce le Jeune, “Bulletin de littérature eccésiastique”, LXIV (1963), pp. 63-71.
(3) Carmina, I, 18, p.44.
(4) Ibid., IV, 16-28, pp. 147-163. Poiché agli epitaffi (in realtà veri e propri elogi funebri) è interamente dedicato il libro IV, il problema se di un certo
numero di testi sia stato fatto un uso epigrafico è stato posto a più riprese.
Notevole è in ogni caso l’utilizzazione epigrafica di versi di Venanzio nei secoli successivi: su tutta la questione cfr. R. Favreau, Fortunat et L’epigraphie,
in AA.VV., Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, “Atti del Convegno
Internazionale di Studi” (Valdobbiadene 17 maggio 1990 - Treviso 18-19 maggio 1990), Treviso, 1993, pp. 161-173.
(5) Carmina; IV, 16, vv. 6-8, p. 147; 18, vv. 7-8, p. 149.
(6) Ibid., IV, 17, vv. 5- 6, p. 148.
(7) Ibid., IV, 19, vv. 5- 6, p. 150.
(8) Ibid., IV, 21, vv. 7-9, p. 151. Sul personaggio, cfr. Stroheker, op.cit., n.
63, p. 156 (in realtà non si hanno notizie).
(9) Carmina; IV, 24, vv. 7-9, p. 153.
(10) Cfr. E.R. Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter,
Bern, 1948; traduzione ital.: Letteratura europea e Medio Evo latino, Firenze,
1992, 1995, 1997, pp. 458-459, in polemica con S. Singer, Germanisch-romanisches Mittelalter, Leipzig-Zürich, 1935, p. 98, erroneamente ispirato, come sottolinea il Curtius, da un’opera che ha segnato a suo tempo un rilevante progresso degli studi: R. Koebner, Venantius Fortunatus. Seine
Persönlichkeit und seine Stellung in der geistigen Kultur des MerowingerReiches, Leipzig-Berlin, 1915. Per una monografia recente, cfr. J.W. George,
Venantius Fortunatus. A Poet in Merovingian Gaul, Oxford, 1992. Sul linguaggio di Venanzio cfr. E. Clerici, Note sulla lingua di Venanzio Fortunato,
“Rendiconti dell’Istituto Lombardo” (classe di Lettere, Scienze morali e storiche), CIV, Milano, 1970, pp. 219-251; R. Collins, Observations on the Form,
Language and Public of the Prose Biographies of Venantius Fortunatus in the
Hagiography of Merovingian Gaul, in Columbanus and Merovingian
Monasticism, ed. H.B. Clarke-M. Brennan, Oxford, 1981, pp. 105-124.
(11) Cfr. Venance Fortunat, Poèmes, éd. Reydellet, cit., I, Introduction,
pp. LVI-LVII.
(12) Cfr. G. Tabacco, I processi di formazione dell’Europa carolingia, in
Nascita dell’Europa ed Europa carolingia: un’equazione da verificare,
“Settimane di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo”, XXXIII,
Spoleto, 1981, pp. 16 ss.
(13) Cfr. su questo punto, J. Šašel, Il viaggio di Venanzio Fortunato e la
sua attività in ordine alla politica bizantina, “Antichità altoadriatiche”, XIX
(1981), pp. 359-375; Reydellet, Introduction, cit., pp. XVI-XVII.
(14) Cfr. Carmina, praefatio, 4, I, p.4; Vita Martini (Venance Fortunat, Vie
de Saint Martin, éd. S. Quesnel, Paris, 1996), IV, vv. 630-680, pp. 98-100. Sul
viaggio, cfr. M. Pavan, Venanzio Fortunato tra ‘Venetia’, Danubio e Gallia
Merovingica, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, cit., pp. 11-22; G.
Rosada, Il “viaggio” di Venanzio Fortunato ‘ad Turones’: il tratto da Ravenna
ai ‘Breonum Loca’ e la strada ‘per Submontana Castella’, ibid., pp. 25-57.
(15) Cfr. E. Giannarelli La tipologia femminile nella biografia e nell’autobiografia femminile del IV secolo, Roma, 1980, p. 61, n. 58.
127
(16) Cfr. Venantius Fortunatus, De vita sanctae Radegundis libri duo, 2,
ed. B. Krusch, MGH, Script. rer. merov., II, p. 365 (traduzione italiana:
Venanzio Fortunato, Vite dei Santi Ilario e Radegonda di Poitiers, a cura di G.
Palermo, Roma, 1989): “Beatissima igitur Radegundis natione barbara de regione Thoringa, avo rege Bessino, patruo Hermenfredo, patre rege
Bertechario...regio de germine orta, celsa licet origine, multo celsior actione:
Quae cum summis suis parentibus brevi mansisset tempore, tempestate barbarica Francorum victoria regione vastata, vice Israhelitica exit et migrat de
patria. Tunc inter ipsos victores, cuius esset in praeda regalis puella, fit contemptio de captiva...Quae veniens in sortem praecelsi regis Chlotarii, in
Veromandensem ducta, Adteias in villa regia nutriendi causa custodibus est
deputata. Quae puella inter alia opera, quae sexui eius congruebant, litteris
est erudita”.
(17) Cfr. S. Fonay Wemple, Women in Frankisch Society. Marriage and
the Cloister 500 to 900, Philadelphia, 1981, p. 38: “At least two of Clothar wives, Ingund and Aregund, and possibly also Chunsinna and Radegund, were maried to him at same time”. Gregorio di Tours racconta che quando
Ingonda chiede al marito di occuparsi del matrimonio della sorella, Clotario
decide che il migliore dei mariti è lui stesso (cfr. Gregorius Turonensis,
Historiarum libri decem, IV, 3, ed. B. Krusch, MGH, Script. rer. merov., I, pp.
136-137) .
(18) Cfr. Y. Labande-Mailfert, “Les débuts de Sainte-Croix”, in Histoire de
Sainte -Croix de Poitiers, “Mémoires de la Société des Antiquaires de L’Ouest”
4e Série, XIX (1986-87), p. 29.
(19) Vita Radegundis, 3, p. 366.
(20) Ibid., 5, pp. 366-367: “Item nocturno tempore cum reclinaret cum
principe, rogans se pro humana necessitate consurgere, levans, egressa cubiculo, tam diu ante secretum orationi incumbebat, iactato cilicio, ut solo calens spiritu, iaceret gelu penetrata...leve reputans quod ferret, tantum ne
Christo vilesceret. Inde regressa cubiculum, vix tepefieri poterat vel foco vel
lectulo”.
(21) Ibid., 7, p. 367.
(22) Ibid., 5, p. 367.
(23) Ibid. Secondo un’argomentata interpretazione, la Vita di Radegonda
sarebbe centrata, fino al limite estremo, sul modello ascetico, per cui la descrizione della vita di corte registra soprattutto il conflitto fra gli obblighi del
rango e il regime di contrizione che la protagonista desidera praticare nelle
forme più severe: cfr. S. Pricoco, Gli scritti agiografici in prosa di Venanzio
Fortunato, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, cit., pp. 175-193.
Diversamente, il carattere attivo della santità di Radegonda è sottolineato anche nel racconto di Venanzio: cfr. C. Leonardi, Fortunato e Baudonivia, in Aus
Kirche und Reich. Studien zu Theologie, Politik und Recht im Mittelalter,
“Festschr. f. F. Kemp”, hrsg.v. H. Mordek, Sigmaringen, 1983, pp. 23-32.
(24) Carmina, VIII, 3, v. 212, éd. Reydellet, II, p. 138. Sul testo cfr. M.I.
Campanale, Il de uirginitate di Venanzio Fortunato (Carm. 8, 3, Leo), un epitalamio mistico, “Inuigilata lucernis. Rivista dell’Istituto di Latino” (Università di
Bari), II (1980), pp. 75-128.
(25) De excidio Thoringiae, ed. F. Leo, Carmina, Appendix, MGH, Auct.
Ant., IV, p. 272, vv. 47-63: “vel memor esto, tuis primevis qualis ab annis, /
Hamalafrede, tibi tunc Radegundis eram, / quantum me quondam dulcis dilexeris infans/ et de fratre patris nate, benigne parens. / Quod pater extinctus
poterat, quod mater haberi, /quod soror aut frater tu mihi solus eras. /prensa
piis manibus heu blanda per oscula pendens / mulcebar placido famine parva tuo./ vix erat in spatium, quo te minus hora referret; / saecula nunc fugiunt,
nec tua verba fero. / volvebam rabidas inliso in pectore curas, /.........cum festinabas iam mihi tardus eras. / sors erat indicium, quia te cito, care, carere/
inportunus amor nescit habere diu. /anxia vexabar, si non domus una tegebat” (Venanzio Fortunato, Opere, cit, pp. 624-625: ho proposto una diversa
traduzione per recuperare un andamento ritmico). Su questo testo, cfr. W.
Bulst, Radegundis an Amalafred, in Biblotheca docet. Festschrift C. Wehmer,
Amsterdam, 1963, pp. 369-380; F.E. Consolino, L’elegia amorosa nel De ex-
128
cidio Thoringiae di Venanzio Fortunato, in La poesia cristiana in distici elegiaci, “Atti del Convegno Internazionale” (Assisi, 20-22 marzo 1992), Assisi,
1993, pp. 241-254; M. Pisacane, Il De excidio Thoringiae di Venanzio
Fortunato, “Giornale italiano di Filologia”, XLIX (1997), pp. 177-208.
(26) Carmina, I, 5, v. 8, éd. Reydellet, I, p.24.
(27) In una tradizione esegetica, rappresentata soprattutto da Gregorio
di Nissa, gli abiti di cui Adamo ed Eva si rivestono dopo il peccato rappresentano la corporeità mortale, “sovrapposta” alla perfezione originaria della
natura umana nel disegno divino (cfr. Gregorius Nyssenus, De hominis opificio, 16-18, PG, XLIV, col. 185 ss.; cfr. anche Maximus Confessor, Ambigua,
PG, XCI, coll. 1353-1356).
(28) Vita Radegundis, 9, p. 368: “Illud quoque quam prudenter totum pro
sua salute providebat inpendere, quotiens, quasi mavortem novum, linteum
savanum, auro vel gemmis ornatum, more vestiebat de barbaro, a circumstantibus puellis si laudaretur pulcherrimum, indigna se adiudicans tali componi linteolo, mox exuens se vestimento, dirigebat loco sancto, quisquis esset in proximo, et pro palla ponebatur divinum super altare”.
(29) Carmina, I, 13, vv. 7- 8, éd. Reydellet, I, p. 70: “Martini domus est
Christum qui vestit egentem,/ regem tiro tegens et homo iure Deum”.
(30) Vita Radegundis, 3, p. 366: “Igitur iuncta principi, timens, ne Deo degradasset, cum mundi gradu proficeret, se sua cum facultate elemosinae dedicavit. Nam cum sibi aliquid de tributis accideret, ex omnibus quae venissent ante dedit decimas quas recepit. Deinde quod supererat monasteriis dispensabat et, quo ire pede non poterat, transmisso munere, circuibat”.
(31) Ibid.
(32) Cfr. Fonay Wemple, op. cit., pp. 61-62. Per un’ampia rassegna della pratica femminile della liberalitas, dall’età imperiale all’età di Radegonda,
cfr. F.E. Consolino, Sante o patrone? Le aristocratiche tardoantiche e il potere della carità, “Studi Storici”, VI (1989), pp. 969-991.
(33) Cfr. Leonardi, Fortunato e Baudonivia, cit., pp.25-26: “E quando lascia il marito... allora Radegonda si presenta al vescovo Medardo e di fronte
alla sua esitazione a consacrarla religiosa (lei una donna sposata e moglie
del re!), manca poco che si auto-consacri, certo mostra un’autorità meta-vescovile”.
(34) Per la storia del diaconato femminile, cfr. Fonay Wemple, op. cit., pp.
137-141 (sul diaconato di Radegonda, cfr. p. 273, n. 73).
(35) Cfr. Gregorius Turonensis, Historiae, III, 7, ed. B. Krusch, MGH,
“Script. rer. merov.”, I, p. 105.
(36) Cfr. Vita Radegundis, 12, p. 368: “Et quoniam frequenter aliqua occasione, Divinitate prosperante, casus ceditur ad salutem, ut haec religiosius
viveret, frater interficitur innocenter”. Il tema della morte di una persona cara
(spesso il marito o la moglie), all’origine della conversione alla vita ascetica,
è tradizionale nella letteratura patristica: cfr. Giannarelli, op.cit., pp. 57-59. Cfr.
Pricoco, op. cit., p. 181: “La storia del matrimonio e della consacrazione di
Radegonda... è una tragedia vera e propria... Ma l’approccio di Fortunato a
questa vicenda eccezionale è riduttivo. Il dramma domestico dei rapporti con
il re e la Corte è guardato da un solo punto di vista, quello delle difficoltà incontrate dalla giovane regina per mettere in atto le quotidiane pratiche ascetiche, mentre il dramma politico culminato nell’uccisione del giovane fratello
di Radegonda resta del tutto in ombra”.
(37) Cfr. Vita Radegundis, 13, p. 369: “Mox indumentum nobile, quo celeberrima die solebat, pompa comitante, regina procedere, exuta ponit in altare et blattis, gemmis, ornamentis mensam divinae gloriae tot donis onerat
per honorem. Cingulum auri ponderatum fractum dat opus in pauperum.
Similiter accedens ad cellam sancti Iumeris die uno, quo se ornabat felix regina, composito, sermone ut loquar barbaro, stapione, camisas, manicas, cofias, fibulas, cuncta auro, quaedam gemmis exornata per circulum, sibi profutura santo tradidit altario. Inde procedens ad cellam venerabilis Datdonis
die, qua debuit ornari praestanter in saeculo, quidquid indui poterat, censu
divite femina, abbate remunerato, totum dedit coenobio”.
(38) Cfr. ibid., 3, p. 366: “Apud quam nec egeni vox inaniter sonuit, nec
129
ipsa eam surda praeteriit, saepe donans indumenta, credens sub inopis veste Christi membra se tegere, hoc se reputans perdere, quod pauperibus non
dedisset”.
(39) Ibid., 14, p. 369: “Hinc felici navigio Turonis adpulsa, quae suppleat
eloquentia...quantumque se monstravit munificam? Quid egerit circa sancti
Martini atria, templa, basilicam, flens, lacrimis insatiata ...ubi, missa revocata,
vestibus et ornamento, quo se clariori cultu solebat ferre palatio, sacro componit altario”.
(40) Carmina, VIII, 8, vv. 17-18, éd. Reydellet, II, p.151.
(41) Ibid., VIII, 5, vv. 1-3, p. 148.
(42) Cfr. Vita Radegundis, I, 23, p. 372: “Nam de officiis ministerialibus
nihil sibi placuit, nisi prima serviret...Ergo suis vicibus scopans monasterii plateas, simul et angulos, quidquid erat foedum, purgans et ante sarcinans,
quod aliis horret videre, non abhorrebat evehere. Secretum etiam purgare
opus non tardans, sed occupans, ferens foetores stercoris, credebat se minorem sibi, si se non nobilitaret vilitate servitii. Ligna subportans brachiis, focum flatibus forcipibus admonens, cadens nec laesa se retrahens”.
(43) Ibid., 17, p. 370: su questo tema, cfr. Leonardi, Fortunato e
Baudonivia, cit., p. 23.
(44) Cfr. F.E. Consolino, Due agiografi per una regina: Radegonda di
Turingia tra Fortunato e Baudonivia, “Studi Storici”, XXIX (1988), pp. 143-159.
Non affrontiamo qui il problema dei contrasti (particolarmente accentuati da
É. Delaruelle, Sainte Radegonde et la chrétientè de son temps, in Études mérovingiennes, Poitiers, 1953, pp. 65-74) e discordanze fra le due Vitae, scritte con intenti e prospettive politico-religiose diverse.
(45) Cfr. Sulpicius Severus, Vita Martini, II, 5, éd. J. Fontaine, SCh,
CXXXIII, pp. 254-256.
(46) Cfr. Vita Radegundis, I, 2, p. 365, in cui, prima di nutrire i coetanei
poveri con i resti della ricca mensa, li sottopone a opportune e sicuramente
necessarie abluzioni: “Iam tunc id agens infantula, quidquid sibi remansisset
in mensa, collectis parvulis, lavans capita singulis, conpositis sellulis, porrigens aquam manibus, ipsa inferebat, ipsa miscebat infantulis”.
(47) Ibid., I, 17, p. 370.
(48) Ibid., I, 19, pp. 370-371: “Hanc quoque intremescendam qua peragebat dulcedine? Cum leprosi venientes, signo facto, se proderent, iubebat
adminiculae, ut, unde vel quanti essent, pia cura requireret. Qua sibi renuntiante, parata mensa... scola subsequente, intromittebatur furtim, quo se nemo perciperet. Ipsa tamen mulieres variis leprae maculis conprehendens in
amplexu, osculabatur et vultum, toto diligens animo. Deinde, posita mensa,
ferens aquam calidam, facies lavabat, manus, ungues et ulcera et rursus administrabat, ipsa pascens per singula”. Anche in questa situazione, propizia
all’esercizio del miracolo, come avviene nella Vita di Martino (cfr. Sulpicius
Severus, Vita Martini, cit., XVIII, 13, pp. 280-283; Gregorius Turonensis,
Historiae, cit., VIII, 33, pp. 401-403), l’accento cade comunque sulle pratiche
medico-igieniche. Sul tema particolarmente rilevante del rapporto fra santità
e malattia, cfr. C.L.P. Trüb, Heilige und Krankheit, Stuttgart, 1978.
(49) Cfr. Vita Radegundis, I, 4, p. 366: “Adhuc animum tendens ad opus
misericordiae, Adteias domum instruit, quo, lectis culte conpositis, congregatis egenis feminis, ipsa eas lavans in termis morborumque curans putredinem, virorum capita diluens, ministerium faciens, quos ante lavarat, eisdem
sua manu miscebat, ut fessos de sudore sumpta potio recentaret. Sic de vita
femina nata et nupta regina, palatii domina pauperibus serviebat ancilla”.
Sulle condizioni di vita contemporanee cfr. E. Salin, Les conditions de vie au
temps de Radegonde et de Fortunat d’après le témoignage des sépultures,
in Études mérovingiennes, cit., pp. 269-272.
(50) Cfr. Vita Radegundis, I, 29, pp. 373-374; I, 35, p.375.
(51) Carmina, XI, 14, ed. Leo, MGH, Auct. Ant., IV, p. 264.
(52) Nella continuità “di lunga durata” delle tradizioni culturali, il compito
di “direzione di coscienza”che si può rintracciare nell’opera poetica di
Venanzio, sarà svolto, al più alto livello, dalla corrispondenza di Alcuino. Su
questo tema mi sia consentito rinviare a M. Cristiani, Le vocabulaire de l’en-
130
seignement dans la correspondance d’Alcuin, in Vocabulaire des écoles et
des méthodes d’enseignement au moyen âge, “Actes du colloque (Rome 2122 octobre 1989), éd. O. Weijers, Turnhout, 1992, pp. 13-32.
(53) Cfr. Vita Radegundis, I, 25, pp. 372-373: “Itaque post tot labores,
quas sibi poenas intulerit, et ipse qui voce refert perhorrescit. Quadam vice,
dum sibi latos tres circulos ferreos diebus quadragesimae collo vel brachiis
nexuit, et tres catenas inserens, circa suum corpus dum alligasset adstricte,
inclusit durum ferrum caro tenera supercrescens”.
(54) Pricoco, op. cit., p. 182, con riferimento a H. Platelle, La pénitence
des parricides, “Sacris erudiri”, XX (1971), pp. 145-161.
(55) A questo tema assegna una funzione narratologica dominante il
Pricoco, op. cit., p. 182: “è il tema squisitamente monastico, e martiniano, del
martirio all’irreale del passato, del santo che sarebbe stato martire se fosse
vissuto in altra epoca e che ora sostituisce a quello inferto dal persecutore il
martirio volontario delle rinunzie e dei patimenti”.
(56) Cfr. Vita Radegundis, I, 26, p. 373: “Item vice sub altera iussit fieri laminam in signo Christi oricalcam, quam accensam in cellula locis duobus
corporis altius sibi inpressit, tota carne decocta. Sic, spiritu flammante, membra faciebat ardere”.
(57) Ibid., I, 26, p. 273: “Adhuc aliquid gravius in se ipsa tortrix excogitans una quadragesimarum... iubet portare aquamanile ardentibus plenum
carbonibus. Hinc, discendentibus reliquis, membris trepidantibus, animus armatur ad poenam, tractans, quia non essent persecutionis tempora, a se ut
fieret martyra. Inter haec, ut refrigeraret tam ferventem animum, incendere
corpus deliberat, adponit aera candentia, stridunt membra crementia, consumitur cutis, et intima, quo attigit ardor, fit fossa. Tacens tegit foramina, sed
computrescens sanguis manifestabat, quod vox non prodebat in poena”
(58) Ibid., I, 1, p. 364.
(59) Cfr. Vita Martini, cit., XXVII, 1, p.314.
(60) Carmina, IV, 26, vv. 14-16, éd. Reydellet, I, p. 156. Per un’edizione
commentata, cfr. Venanzio Fortunato, L’epitafio di Vilithuta, ed. Santarelli,
Napoli, 1978.
(61) Cfr. Vita Radegundis, I, 1, p. 364.
(62) Pricoco, op. cit., p. 181.
(63) Cfr. Carmina, I, 21, De Egircio flumine, éd. Reydellet, I, pp. 46-48. Su
questo testo, cfr. F. Della Corte, Venanzio Fortunato poeta dei fiumi, in
Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, cit., pp. 137-147.
(64) Vita Sancti Marcelli, ed. B. Krusch, MGH, Script. rer. merov., II, pp.
49-54. Cfr. J. Le Goff, Cultura ecclesiastica e cultura folklorica nel Medioevo:
San Marcello di Parigi e il drago, in Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino, 1977, pp. 51-90.
(65) Sui significati storico-politici delle iniziative religiose femminili in età
merovingia, cfr. M. Cristiani, La sainteté féminine du haut moyen âge.
Biographie et valeurs, in Les fonctions des Saints dans le monde occidentale (IIIe-XIIIe siècle), “Actes du colloque“ (Rome, 27-29 octobre 1988), École
Française de Rome, 1991, pp. 385-434.
(66) Cfr. Carmina, éd . Reydellet, I, Introduction, pp. LII.
(67) Ibid., VIII, 3, vol. II, pp. 129-146.
(68) Ibid., XI, 3, v. 3, ed. Leo, cit., p. 259.
(69) Ibid., vv. 15-16.
(70) Ibid., XI, 6, vv. 1-4, p. 260.
(71) Ibid., vv. 8-12.
(72) Ibid., XI, 7, vv. 9-12, p. 261.
(73) Cfr. Historiae, IX, 39-43. Cfr. 40, p. 466: “Pectavi regressi sunt (le religiose ribelli) et se infra basilica sancti Helari tutaverunt, congregatis secum
furibus, homicidis, adulteris omniumque criminum reis, stabilientes se ad bellum atque dicentes, quia: ‘Reginae sumus nec prius in monastyrio nostro ingrediemur, nisi abbatissa eiciatur foris’“.
131
YVES-MARIE DUVAL
Università di Parigi X
Francia
La Vie d’Hilaire de Fortunat de Poitiers:
du docteur au thaumaturge
Lorsque Paul Diacre passa à Poitiers à la fin du VIIIè siècle, il composa pour le tombeau de Venance Fortunat une
épitaphe métrique qu’il a insérée dans son Histoire des
Lombards avec un résumé de sa biographie, “pour que ses
concitoyens n’ignorent pas complètement sa vie1”. Les renseignements que donne Paul Warnefrid sont tirés en bonne
partie de l’œuvre même de Fortunat, comme il le reconnaît.
On notera qu’il s’intéresse au prosateur autant qu’au poète
et que son épitaphe célèbre Fortunat pour ses Vies de
saints et leur valeur parénétique: “Cuius ab ore sacro sanctorum gesta priorum / Discimus. Haec monstrant carpere
lucis iter”2. Dès cette fin du VIIIè siècle en effet, et a fortiori
dans les siècles suivants, l’œuvre en prose de Fortunat jouit
d’une vogue qui, – la Vita Martini et les Hymnes sur la Croix
étant à mettre à part – n’a été éclipsée par ses vers qu’au
XIXè siècle, lorsqu’on a su faire sortir de leur poussière toutes les personnes auxquelles Fortunat avait écrit ces “poèmes de circonstance”, et non plus se contenter de puiser
dans ses poèmes comme dans une carrière de matériaux...
Comme on prête facilement aux riches, on lui a durant ces
siècles attribué un certain nombre de Vies de saints qui ne
lui appartiennent assurément pas3, mais pour lesquelles il a
pu fournir une sorte de module, de point de départ au
moins, bien qu’il ait eu lui-même des modèles et en tout cas
des lectures.
Je voudrais m’arrêter ici à un “point de départ” dans
l’œuvre même de Fortunat. En effet, la Vie d’Hilaire est vraisemblablement la première Vie que Fortunat ait accepté d’écrire à la demande d’un évêque. Outre quelques épisodes
surprenants pour nous, elle est loin d’être simple à comprendre dès qu’on en regarde un peu le détail, qu’on essaye
de la situer dans le contexte de la carrière de Fortunat ou
qu’on la compare à ses autres Vies4. Il vaut donc la peine
non seulement d’entendre les raisons et les buts avoués de
133
son entreprise, mais aussi d’examiner comment celle-ci a
été menée avec les renseignements dont il disposait ou qu’il
a pu rassembler, pour découvrir, voire deviner, les traits de
la figure d’Hilaire qu’il veut dresser devant le peuple de
Poitiers, deux cents ans après la mort de son évêque.
***
Bien que j’aie rappelé la notice que Paul Diacre lui consacre, je ne reviendrai pas ici sur les circonstances et les
raisons de la peregrinatio de Fortunat depuis Ravenne vers
la Gaule franque en 565, ni même sur ses étapes entre Metz
et Tours5. Nous ne pouvons reconstruire ce dernier itinéraire, en pointillé, qu’en essayant d’ordonner en une série aussi
continue que possible les allusions de tout genre disséminées sans ordre dans son œuvre, en les recoupant avec
les indications chronologiques, elle aussi éparses, que l’on
trouve en particulier dans l’Histoire des Francs de Grégoire
de Tours. La question qui se pose dans le cas présent est
de savoir si, dans sa marche vers l’ouest depuis Metz, puis
Paris, Fortunat, après Tours, s’est d’abord rendu à Poitiers, y
a résidé quelque temps, ou s’il a continué à descendre la
vallée de la Loire jusqu’à Angers. La seule Vie qui pourrait
en effet disputer à la Vie d’Hilaire sa priorité absolue est
celle de saint Aubin d’Angers. Dans la Lettre-Préface de
cette Vita Albini, Fortunat déclare à l’évêque Domitianus que
celui-ci, lors de la visite qu’il lui a faite à Angers, lui a parlé
de son prédécesseur et lui a demandé d’écrire sa Vie6.
D’après sa Préface, Krusch place cette Vie en tête des productions en prose de Fortunat. On peut se demander si ce
n’est pas, au contraire, l’existence de la Vie d’Hilaire qui a
suscité la demande de Domitianus et l’intervention de
Fortunat, dans des conditions que j’évoquerai tout à l’heure.
La Vie d’Aubin ne peut en effet qu’être antérieure à la
mort de Domitianus, située en 569, à en croire Krusch7, mais
qui pourrait dater de quelques années plus tard comme on
va le voir. La Vie d’Hilaire, quant à elle, est dédiée à l’évêque
de Poitiers, Pascentius, dont Grégoire de Tours rapporte
qu’il a succédé à Pientius de par la volonté du roi de Paris,
Caribert8. Ce dernier meurt à la fin de 567 et, dès 569, au
moment où la relique de la vraie Croix demandée à la Cour
de Constantinople arrive à Poitiers, c’est Marovée qui est
déjà l’évêque de la cité et qui refuse, d’après le même
Grégoire, de faire la déposition solennelle de la relique dans
le monastère de Radegonde9. Or, c’est l’attitude de Marovée
qui a dû conduire Radegonde à demander l’appui des évê134
ques de la région, au nombre desquels se trouve encore
Domitianus10, d’après la lettre transcrite par Grégoire de
Tours.
Nous sommes ainsi dans les années 567-568, en des
temps politiquement troublés, que la Vie d’Hilaire semble
ignorer complètement. On sait que Fortunat s’abstient d’évoquer avec trop de précision les drames politiques qui se
déroulent autour de lui11. Je proposerai cependant de mettre
en rapport l’importance donnée par Fortunat à l’histoire
d’Abra, la fille d’Hilaire, avec la présence à Poitiers d’Agnès
et Radegonde12. Il ne fait guère de doute en tout cas que la
venue de Fortunat à Poitiers s’explique plus par la présence
de Radegonde en cette ville depuis une quinzaine d’années
que par l’existence même du tombeau d’Hilaire, le maître de
Martin cher à Fortunat, aussi renommé qu’ait déjà pu être ce
tombeau.
Voilà donc, faute de précisions données par le récit
même du biographe, les coordonnées chronologiques,
péniblement tracées, de la rédaction de cette Vie. Venonsen au peu que Fortunat livre lui-même sur le contexte de son
entreprise. Il écrit, nous dit-il, à la requête de l’évêque de
Poitiers, qui est un ancien moine de St-Hilaire13. Le (nouvel)
évêque entend, nous dit-on, “instruire son troupeau en lui
faisant entendre la voix et la vie de son plus antique
pasteur14”. Mais il convient de ne pas être trop long. Fortunat
invoque tout aussitôt – et longuement, bien entendu – son
maigre talent15, mais aussi la lassitude (fastidium) qu’il veut
éviter à son auditoire en étant trop long16. Il reviendra dans
la conclusion de la Vita sur la brièveté de son récit, quitte à
reconnaître, dans la Préface du Liber de uirtutibus sancti
Hilarii dédié en un second volet au même Pascentius, qu’il
n’a pu, à cause de leur éloignement dans le temps, atteindre les nombreux miracula accomplis par Hilaire durant sa
vie ou durant les années qui ont suivi sa mort, ce qui le contraint à se limiter à des miracula accomplis, dit-il, “au temps
présent” – avec l’espoir d’en obtenir d’analogues dans le
futur17. La liste de ces miracula ne sera cependant ni bien
longue, ni tout à fait contemporaine18, même si Fortunat dira,
une nouvelle fois, s’interrompre pour ne pas provoquer la
lassitude des auditeurs19.
Bien qu’elles relèvent en partie du topos comme les
déclarations d’incompétence, ces excuses et justifications
sont précieuses dans la mesure où ces œuvres de commande, que Fortunat place cependant au dessus des
panégyriques et thrènes des grands, y compris pour les
135
récompenses qu’elles lui vaudront dans le ciel20, sont
rédigées pour l’auditoire que constitue la communauté locale elle-même, celle qui s’approche du tombeau du
Confesseur, et non pas pour un public monastique ou
savant, comme l’étaient ceux de la Vita Antonii d’Athanase
ou, malgré ses dénégations, ceux de la Vita Martini de
Sulpice Sévère. On aura aussi entendu l’aveu du panégyriste: il ne dispose guère de matériaux pour élever un monument à la gloire de celui qu’on lui demande de célébrer.
Comment va-t-il donc s’y prendre pour raconter la vie
d’Hilaire?
Quelle que soit sa date relative de composition, commençons par une comparaison avec les conditions dans
lesquelles fut écrite la Vita Albini mentionnée plus haut. Il a
fallu que l’évêque Domitianus envoie auprès de Fortunat un
homme qui avait bien connu Aubin, mort en 550, pour lui
fournir, oralement, la matière de son récit21. Dans le cas
d’Hilaire, mort depuis deux siècles, Fortunat, qui se plaint
dans cette même Préface de l’”oubli du temps”22, aurait pu
essayer de reconstituer sa vie à l’aide des indications fournies par ses œuvres. Celles-ci étaient certainement présentes à Poitiers, au monastère St-Hilaire ou à la cathédrale,
sinon déjà auprès de Radegonde. Mais ceci eût été un vrai
“travail de Bénédictin”, qui, de fait, ne serait pas entrepris
avant les Mauristes ou Lenain de Tillemont. Fortunat dit certes grand bien de l’œuvre écrite d’Hilaire. Sans donner leurs
titres, il vantera son De Trinitate et ses Tractatus
Psalmorum23; mais il n’exploite en rien les indications de ses
ouvrages à caractère historique qui devaient alors subsister
de façon plus complète que maintenant24, ni même les
œuvres qui pouvaient en dériver, comme le De uiris illustribus de Jérôme25 ou l’Historia ecclesiastica de Rufin26. La
seule œuvre qu’il cite explicitement est une lettre qu’Hilaire
aurait écrite à sa fille Abra durant son exil, dont il déclare
qu’elle est précieusement conservée – pro munere – à
Poitiers27. J’aurai à y revenir. Pour le reste, il s’est contenté,
comme Krusch l’a noté avec un certain dépit28, d’utiliser,
pour la partie centrale de sa Vie, ce que Sulpice Sévère
avait écrit d’Hilaire, mais aussi de Martin ou au sujet de
Martin, dans ses Chroniques et dans sa Vita Martini.
Il ne suffit pas de relever sèchement la chose. Il convient
d’examiner comment ces quelques données sont agencées
pour constituer un canevas chronologique, à l’intérieur
duquel Fortunat insère divers tableaux qui présentent
d’Hilaire un double portrait, que Sulpice ne lui fournissait
136
pas avec la même netteté, et qui permettent de rapprocher
Hilaire de Martin, la gloire et la lumière incontestée de la
Gaule.
***
Hilaire est d’abord un docteur. Fortunat le laisse entendre de façon quasi paradoxale dans la présentation de la
vie laïque de son héros dont je parlerai plus loin.
L’enseignement, qu’il nous détaille29, mais dont ne voit pas
très bien comment il a pu être concrètement formulé, lui a
non seulement valu d’être choisi comme évêque de sa cité,
mais l’a rendu célèbre au delà de la Gaule30. Ce sont précisément la qualité et la vigueur de cet enseignement qui vont
entraîner son exil, une fois qu’il sera devenu évêque et qu’il
affrontera l’hérésie arienne “au temps de Constance”.
Fortunat cite certes quelques noms des adversaires
d’Hilaire, Valens (de Mursa) et Ursace (de Singidunum),
mais curieusement, il tait celui de Saturninus d’Arles, que
Sulpice, comme Hilaire, rendait responsable du triomphe de
l’erreur; de même, il mentionne (à tort) comme contemporains l’exil d’Hilaire et ceux de Denys de Milan et d’Eusèbe
de Verceil. En réalité, ces “précisions” diverses ne sont là
que pour donner un peu de “couleur locale”. Fortunat n’a ni
le dessein, ni la capacité, de reconstituer le déroulement
exact des événements. Seule lui importe la stature d’Hilaire
devant l’hérésie: “L’hérétique, écrit-il, ne pouvait parvenir à
rien devant l’invincible éloquence d’Hilaire31”. Et de poursuivre: “L’ennemi de la foi espérait pouvoir déployer quelques
nuages devant l’éclat de la doctrine catholique si un tel
homme – Hilaire – était chassé en exil et ne prenait pas part
au combat. Car, comme il a été dit, l’adversaire (de la foi
chrétienne) qui voulait lutter avec lui était comme muet et
boiteux: il ne pouvait ni parler ni courir, mais, comme un
nageur en pleine mer, il était englouti dans les flots de son
éloquence32”! Hilaire part donc pour l’exil, en Phrygie33.
Fortunat connaît le lieu d’exil d’ Hilaire par Sulpice, et c’est
encore à ce dernier qu’il devra la précision qu’Hilaire se
trouvait “dans sa quatrième année d’exil34” lorsque
Constance décida de réunir les évêques orientaux à
Séleucie.
Le biographe “meuble” ces trois années par le seul épisode de la lettre à Abra dont les qualités formelles sont indiquées, mais sans insistance35. Le narrateur ménage l’intérêt
de ses auditeurs; il les fait explicitement attendre36. Il reviendra plus loin sur la facundia et l’eloquentia du père, lorsque
celui-ci sera devant sa fille à son retour à Poitiers. De même
137
insère-t-il durant le trajet qui mène Hilaire de Phrygie à
Séleucie d’Isaurie le récit de la conversion soudaine d’une
jeune fille païenne et de toute sa famille, en scindant les indications sur la présence d’Hilaire à Séleucie que fournissait
Sulpice. Celui-ci ignorait tout de cette conversion et de cet
unique contact de l’évêque avec les païens37. Il soulignait en
revanche l’étrangeté par laquelle Hilaire, un exilé, un occidental, avait été contraint par les magistrats de Constance
d’assister au concile des évêques orientaux, et il y voyait la
marque de la Providence divine: “A ce que je présume, écrivait-il, c’est par la volonté divine (Dei nutu) qu’il advint que
l’homme le plus instruit des choses divines fut présent lorsqu’on allait discuter de la foi38”. Le biographe reprend l’indication, en exaltant encore davantage le docteur. Après avoir
dit, en réduisant, et embellissant, le récit de Sulpice,
qu’Hilaire fut “très bien accueilli par tous”, il continue: “ car,
la miséricorde divine produisait sur la scène du monde, où
on allait décider de la foi, un homme des plus compétent et
reconnu pour sa science unique39”.
Le récit du concile de Séleucie, qui simplifie encore celui
de Sulpice, est mené en laissant entendre qu’Hilaire prit
bonne part à la découverte et à la condamnation des ennemis de la foi comme à l’élaboration même des “décrets (du
Concile) fondés sur l’Ecriture”40, ce qui dépasse de beaucoup ce que nous savons, tout en résumant une information
de Sulpice concernant les ariens condamnés. Hilaire
accompagne alors les légats envoyés à Constance, comme
Sulpice le disait un peu plus loin, mais de peur, selon
Fortunat, que “l’erreur qui avait été condamnée n’exhale à
nouveau son souffle (mauvais) contre les dogmes de la religion41”. C’est bien ce qui va se passer, mais que l’on ne peut
guère comprendre de son récit, puisqu’il omet de dire que
les condamnés ont, de leur côté, envoyé une délégation à
Constantinople. Lui-même s’aperçoit de l’obscurité de son
récit et il déclare renoncer à raconter42, comme l’avait fait
Sulpice, les événements de Rimini et de Constantinople43. A
nouveau tout l’intérêt se concentre sur la seule personne
d’Hilaire. En trois appels à l’empereur, celui-ci demande à
être confronté à ses adversaires44. L’indication était brièvement fournie par son devancier45. Fortunat non seulement la
dramatise46, mais il y voit la raison même du retour d’Hilaire
en Gaule: les hérétiques préfèrent l’éloigner – à nouveau,
peut-on dire – plutôt que d’avoir à se mesurer à lui. “Effrayés
par la conscience de leur faute – car, si l’empereur octroyait
à Hilaire la possibilité de discuter, ils reconnaissaient qu’ils
138
seraient écrasés par sa force de discussion –, Valens et
Ursace demandent à Constance, dont l’esprit était prisonnier d’une cause mauvaise, de forcer le bienheureux à revenir dans les Gaules, en disant que, lui présent, les machinations des hérétiques ne pourraient aboutir47”.
Hilaire est donc, grâce à ce prétexte, contraint de regagner la Gaule, ce qui est beaucoup plus fort même que la
version du retour d’Hilaire présentée par la Chronique de
Sulpice48. Celle-ci taisait par ailleurs les nouvelles conditions
politiques qu’Hilaire avait trouvées à son arrivée en
Occident et qui lui avaient permis, par une série de conciles, de ramener à la foi de Nicée les évêques occidentaux
trompés à Rimini. L’usurpation de Julien en Gaule, la mort
de Constance et, bientôt, la mort de Julien lui-même, avaient
beaucoup facilité cette action. Fortunat connaît-il encore,
deux siècles plus tard, le déroulement des événements qui
lui permettrait de compléter la présentation de Sulpice ? On
peut en douter. Plutôt qu’un récit des événements, ce retour
forcé lui donne surtout l’occasion de peindre les sentiments
d’Hilaire, et, à cause de son affrontement – supposé – avec
Constance, de développer l’idée qu’Hilaire aurait voulu
devenir martyr. Il ne lui a manqué que la main du bourreau49.
***
C’est ici que se produit un tournant, ou plutôt un changement de source50. Fortunat recourt désormais à la Vita
Martini, à laquelle il n’avait emprunté jusqu’ici qu’une seule
indication, en la faisant d’ailleurs passer de Martin à
Hilaire51. Le détail de ce qui va suivre est assez complexe,
contient plusieurs “erreurs”, sans fournir au lecteur ou à l’auditeur – attentif ou averti – les renseignements nécessaires
à la compréhension de la situation véritable de Martin et
d’Hilaire, qui vont être rapprochés de diverses manières.
Mais le but recherché par le biographe d’Hilaire n’est pas
douteux.
Sulpice racontait que Martin, installé durant l’exil
d’Hilaire dans l’île ligure de Gallinaria, avait appris le retour
de son évêque et sa venue à Rome; il avait essayé de l’y
rejoindre, ne l’avait pas trouvé, et s’en était venu à Poitiers
où il avait été bien accueilli par Hilaire52. Fortunat ne reprend
qu’une partie de ces renseignements53 et il transforme le
mécompte et la déconvenue de Martin en une sorte d’éloge
d’Hilaire. “Martin, dit-il, qui, encore catéchumène, mérita de
voir le Christ vêtu de sa chlamyde, ne serait pas venu avec
empressement à la rencontre d’Hilaire s’il n’avait vu d’avan139
ce que son esprit était plein des mystères sacrés. Il n’est
pas étonnant que celui qui a d’abord vu Dieu dans un pauvre ait par la suite reconnu qu’il habitait en personne en son
docteur54”.
Voilà pour le docteur, que nous retrouverons encore un
peu plus loin dans une autre entreprise d’enseignement,
auprès de sa fille. Dans l’intervalle, Fortunat met en scène
deux miracula d’Hilaire qui ont un rapport plus ou moins
étroit avec Martin et qui semblent avoir pour but de faire
rejaillir sur Hilaire ce que l’auditeur sait des signa de Martin.
Le docteur devient thaumaturge.
Le premier épisode est le plus curieux. Sulpice racontait
que, durant son séjour sur l’île de Gallinaria évoqué plus
haut, Martin avait failli mourir en mangeant imprudemment
de l’hellébore55. L’île était peut-être dangereuse, elle était
cependant habitable, au moins par des ascètes. Fortunat,
qui n’a aucunement parlé encore de Gallinaria elle-même,
rapporte qu’en passant à la hauteur de cette île, durant son
retour vers Poitiers, Hilaire apprend des habitants du voisinage – sur la côte donc – que d’énormes serpents infestaient l’île et la rendaient inaccessible — et donc inhabitable, devrait-on conclure56. L’“homme de Dieu” s’y rend,
précédé de la Croix, qui met en fuite les serpents. Son bâton
fixe bientôt une limite à ne pas dépasser à ces serpents qui
ne supportent ni la vue ni la voix d’Hilaire57. D’après le commentaire enthousiaste de Fortunat, il ne fait aucun doute que
ces serpents dérivent en droite ligne du Serpent de la
Genèse. Hilaire, “serviteur du second Adam”, le Christ, commande aux serpents, et il transforme l’île, sinon en Paradis,
au moins en un lieu habitable, débarrassé de ses poisons.
Le seul “lien” que cet épisode inattendu présente avec la
Vita Martini est l’endroit même où les faits se déroulent de
part et d’autre: Gallinaria. En ce lieu, Martin avait failli mourir en absorbant un poison mortel; Hilaire, quant à lui, voit
“les poisons s’enfuir immédiatement devant lui”, ce qui marque implicitement une certaine supériorité, pour qui connaît
la vie de Martin, mais ce qui annonce aussi, pour nous, l’épisode célèbre du dragon de Paris dans la Vie de saint
Marcel58.
Au retour d’Hilaire à Poitiers s’instaure un autre parallèle
avec Martin, qui trouve cette fois un fondement apparemment plus solide dans la Vie de Martin, que Fortunat complète d’ailleurs, sans aucunement le souligner, par une information précieuse. L’une des très rares indications originales
et valides de la Vita Hilarii concerne en effet la localisation
140
de l’ermitage de Martin lorsqu’il rejoint Hilaire à Poitiers
après son retour en Gaule: Fortunat est le premier à donner
le nom de Locoteiacum, qui a donné Ligugé en français
actuel. Sulpice avait narré la résurrection que Martin avait
bientôt opérée en cet endroit sur son compagnon, un catéchumène mort sans baptême59. Fortunat le rappelle60 avant
d’évoquer une résurrection opérée, cette fois, par Hilaire. Il
remplace toutefois le catéchumène adulte par un nourrisson, un infans. La théologie et la mentalité chrétiennes ont
évolué depuis la fin du IVè siècle. L’enfant est, selon,
Fortunat, “condamné à une double mort: non seulement il
avait perdu la vie présente, mais il n’était pas exempt du
châtiment du siècle futur61”. Le “challenge” Hilaire/Martin est
d’abord le fait de la mère de l’enfant. Celle-ci provoque en
effet Hilaire en disant: “Alors qu’il ne faisait que commencer,
Martin a rappelé à la vie un catéchumène mort. Toi, qui es
évêque, rends, je t’en prie, mon fils, soit à ma personne, soit
au baptême!” Et elle poursuit: “Toi qu’on appelle le Père du
peuple, fais que j’aie, moi, le nom de mère”62. Le “uir Dei”
s’exécute – en public, à la différence, notable, de Martin –,
selon un schéma biblique qui ne peut toutefois être appliqué
à la lettre, à cause de la taille du nourrisson63. La réanimation, ici dépeinte dans sa progression64, est parallèle à celle
que Fortunat décrira, quelques années plus tard, dans la
résurrection précisément du catéchumène de Ligugé de sa
Vita Martini en vers65! Plus que les étapes de cette réanimation, il convient de noter ici la manière dont l’ensemble de
l’épisode souligne la force de la prière et la confiance
d’Hilaire dans le Christ, le véritable auteur du miracle. Bien
que la prière n’ait encore été mentionnée qu’une seule fois66
dans cette Vita, Hilaire est dit à ce moment “recourir à ses
armes habituelles – ad consueta arma recurrens67”.
L’évêque “se prosterne jusqu’à terre” et Fortunat ajoutera
plus loin qu’il met son espoir dans le Christ68. Le mot oratio
est employé deux fois dans cet épisode et preces une fois.
Je cite; “L’évêque resta prosterné jusqu’à ce que tous deux
se relèvent en même temps: le vieillard de sa prière, l’enfant
de la mort – senex de oratione, infans de morte69”. Et de
poursuivre dans l’exaltation: “La voilà la vie qui mérite d’être
louée, elle qui, par ses prières, a chassé la mort du corps
d’autrui, a dépouillé le Tartare en tirant son espoir du Christ!
La mort n’a pu maintenir ses droits là où Hilaire a fait pénétrer la force de (sa) prière70”. C’est le point d’orgue. Le narrateur affirme aussitôt qu’il est incapable de célébrer l’exploit d’Hilaire par des paroles, et, par une de ces lourdes
141
transitions dont il est et sera coutumier, il revient à la suite de
l’histoire d’Abra, qu’il avait remise: “Mais maintenant, il nous
faut rappeler ce que nous avons promis plus haut: comment
il mit le comble à ses autres miracles par le miracle que
voici71”. La mort d’Abra sera de fait dite supérieure à cette
résurrection.
L’épisode romanesque des noces d’Abra se déroule en
trois temps, dont le premier se passe durant l’exil d’Hilaire.
Bien que nous sachions aujourd’hui que certains évêques
exilés étaient restés en relations avec leurs communautés,
c’est par une “révélation de l’Esprit Saint”, selon Fortunat, et
non par une lettre arrivant de Poitiers, qu’Hilaire apprend
que sa fille est recherchée en mariage par “un jeune homme
à la fois de haute naissance, de grande richesse et de grande beauté – nobilissimus, praediues, pulcherrimus”, selon
les valeurs suprêmes de l’époque72. Le “père de famille”
antique, qui, selon Fortunat, avait, par “sa prière continuelle”, prévu pour elle un autre époux, céleste, écrit à sa fille en
lui promettant un époux plus noble, plus beau, plus riche,
mais aussi, plus sage, plus doux, plus chaste, etc73. Selon
Fortunat, cette lettre subsistait de son temps à Poitiers, et il
l’avait trouvé “assaisonnée d’un juste sel et comme arrosée
d’huiles parfumées”74. Celle qui nous est parvenue a beau
être bien écrite, elle n’est assurément pas de la main
d’Hilaire, ne correspondant ni à sa situation d’exilé ni tout à
fait à ce que Fortunat rapporte des promesses et des conseils du père à sa fille75. En effet, le père de la lettre est, non
pas en exil, mais parti en voyage à la recherche, pour sa
fille, du vêtement et de la perle inestimables que détient un
très beau jeune homme... Quoi qu’il en soit, chacun – mais
non Abra – a pu deviner que l’époux décrit par l’Hilaire de la
Vita ne peut être que le Christ. Mais, s’il ne s’étonne pas
qu’Abra ait pu attendre et faire confiance à son père pour le
si beau parti qui lui était promis, le lecteur ou l’auditeur –
antique ou moderne – ne peut imaginer comment l’affaire va
se conclure.
Nous voici au troisième acte, où vont s’entrelacer le
thème de l’éloquence et celui de la prière qui, selon
Fortunat, rendent Hilaire capable de miracles supérieurs
même à celui d’une résurrection. De retour donc à Poitiers,
Hilaire “s’adresse à sa fille, autant qu’il le pouvait, avec la
douceur d’un père et l’éloquence d’un orateur. Que dis-je, il
s’adresse à elle, lui dont nous n’osons à peine comparer l’éloquence à celle d’aucun autre, si ce n’est à quelqu’un qui
serait rempli de l’Esprit Saint?76” Abra confirme aussitôt son
142
souhait d’être unie rapidement à l’époux que son père lui
prépare. Comble – pour nous – de l’étonnement, c’est par la
prière – intentus orationibus – que le pius pater obtient que
sa fille rejoigne son époux céleste… par la mort77; il en ira de
même pour la mère d’Abra. Grâce à la même prière – assidua oratione –, il la fait “passer avant lui dans la gloire”, en
quittant “les crimes de ce monde78”.
Que penser de cet épilogue? Comparer Abra et sa mère
à Agnès et Radegonde est assurément exagéré, ou beaucoup trop précis, et plus encore si on voulait reconnaître
Fortunat dans cet Hilaire. On ne peut cependant ne pas songer aux poèmes que Fortunat composera quelques années
plus tard, pour Agnès en particulier, en louant la virginité et
ses avantages79. Cet épisode de la mort d’Abra et de sa
mère tient en tout cas à cœur à Fortunat, puisqu’il le prolonge en une série de paradoxes qui font de cette double mort,
ou plutôt de ce double passage à la Vie, le climax de sa biographie: “O gloire de cette mort, s’écrie-t-il, qui est préférable à la vie, puisque ce qu’elle a enlevé à la terre, elle l’a
transféré au ciel. En vérité, mourir dans ces conditions –
comme Abra – fut plus, à mon avis – ut ego considero – que
ressusciter (comme le nourrisson de naguère). On est en
effet assuré de son salut lorsqu’on n’est pas souillé par les
péchés. Combien de gens désireraient, en livrant leurs
biens avec leur vie, se procurer un tel passage, s’ils
venaient à trouver le marchand? Quelle différence y a-t-il
entre le mystère d’un petit enfant ramené à la vie et celui
d’une fille morte en ces conditions – l’enfant, il l’a ressuscité
pour le baptême; sa fille, il l’a envoyée vers le Royaume – si
ce n’est que, chez l’enfant, il restait encore la perspective de
commettre des fautes, tandis que sa fille avait terminé sans
tache sa vie80?” Et, après avoir narré le sort analogue de la
mère d’Abra, Fortunat conclut: “Qui pensera qu’un tel
homme a aimé le Seigneur en méprisant ainsi l’affection de
son épouse et de sa fille? Pourtant, on aperçoit qu’il les a
aimées davantage, en ce qu’il les a fait lui-même passer
dans la lumière sans fin81!” Voilà sans doute l’iter lucis dont
parlera Paul Diacre!
Si je comprends bien, il y a là, dans l’affirmation et le
jugement propre de Fortunat, une sorte d’inclusion, qui m’invite, avant de nouer avec lui la gerbe de sa conclusion, à
revenir au début, si curieux et si caractéristique, de sa Vie
d’Hilaire. Le saint n’a pas eu, dans sa jeunesse, d’épreuves
à traverser comme Germain ou Marcel; il n’a pas eu à gravir peu à peu les degrés ecclésiastiques; il n’a pas non plus
143
mené d’abord une longue vie de moine, comme Aubin ou
Germain. Il est passé sans transition d’une vie de laïc, exemplaire à n’en pas douter d’après ce qui est dit, à celle d’évêque de sa cité. Ce laïc est en effet présenté d’emblée
comme digne d’être évêque, ou plutôt comme préparé par
Dieu à devenir le “prêtre irrépréhensible de son temple82”.
Son élection, dont Fortunat ne sait sans doute pas plus que
nous, se fait “avec l’accord de la faveur populaire ou plutôt
sur la proclamation de l’Esprit de Dieu” et il est dit qu’”il était
depuis longtemps destiné aux mystères sacrés83”. Si l’action
divine est ainsi rappelée plusieurs fois, la réponse d’Hilaire
n’est guère moins soulignée. Je cite l’espèce d’envolée lyrique qui clôt ce premier tableau et qui contient cette affirmation de l’amour du Christ dont on a le pendant dans le jugement final porté par Fortunat sur la conduite d’Hilaire à l’égard de sa fille et de sa femme: “O le laïc on ne peut plus
parfait, que les prêtres eux-mêmes désirent imiter, lui pour
qui vivre n’était autre que craindre le Christ avec amour et
l’aimer avec crainte, lui que ceux qui le suivent courent à la
gloire, ceux qui le fuient courent à leur punition, car les
récompenses sont pour celui qui lui fait confiance et les châtiments pour celui qui s’oppose à lui84”.
Il me reste à conclure cette lecture rapide. Je le ferai
avec le biographe ou le panégyriste lui-même. Les traits les
plus profonds de la personnalité d’Hilaire que Fortunat a
voulu rendre sont sans doute cet amour du Christ, dont le
nom revient souvent, et son recours à la prière, dont on a vu
l’importance dans les épisodes les plus marquants – et les
moins assurés – de son récit; les plus apparents qu’il ait
tracés, ou les plus frappants pour son auditoire, n’en restent
pas moins la force de sa parole et de son écriture – ce qui
ne nous surprend pas –, mais aussi la puissance de ses
actes, analogue ou parallèle à celle de Martin, avons-nous
pu découvrir85. Si l’on y prête attention, ces deux derniers
aspects sont tour à tour exposés à trois reprises dans la
cauda de cette Vie. Je me contenterai de citer les trois mouvements de cette dernière page, qui me semble contenir ce
que j’ai essayé de faire apparaître: “Qui pourrait parvenir à
passer en revue l’abondance de son génie débordant et qui
serait capable d’égaler ses paroles avec ses propres paroles? Avec quelle majesté n’a-t-il pas composé ses livres sur
la Trinité indivise? Avec quelle élévation n’a-t-il pas dévoilé
un à un les mystères du poème de David? Quelle intelligence dans ses exposés! Quelle profondeur dans ses explica144
tions! Quelle éloquence dans son écriture! Quelle puissance admirable! Il était riche dans ses raisonnements, fin dans
ses conclusions; il avait, comme dit le prophète(!), l’astuce
du serpent, sans perdre la grâce et la simplicité de la colombe. Sel d’un esprit plein de saveur, source d’éloquence, trésor de science, lumière de (la) doctrine, défenseur de
l’Eglise, combattant de ses ennemis. Quand on lit ses paroles, on croit non qu’il parle, mais qu’il tonne! C’était là
dépasser les autres hommes en sagesse que de parler de
la religion avec tant de sûreté86” – Voilà pour le “docteur”,
son œuvre écrite et orale. Mais Fortunat continue:”Mais si on
veut le découvrir lui-même, qu’on se souvienne de ses exils,
qu’on considère ses mérites, qu’on relise ses volumes,
qu’on pèse ses paroles, qu’on recense les miracles qu’il
accomplit chaque jour – signa cotidiana percenseat87”. Pas
de doute que, dans cette nouvelle approche, la dernière
phrase introduise un élément nouveau, et important. Le dernier couplet est du même ton: “Tant qu’il vécut en ce monde,
ou bien il écrivit des ouvrages sur la foi de l’Eglise, ou bien
il combattit et écrasa les crimes des hérétiques, ou bien il
accorda à qui les lui demandait les secours de ses miracles”. A quoi il ajoute: “Ceux-ci, grâce à ses prières, se continuent jusqu’à aujourd’hui, de par la volonté du Seigneur88”.
Fortunat n’ira pas plus loin. Après ces trois couplets il avoue
son incapacité, qu’il avait déjà proclamée en commençant.
Ecoutons cependant cette ultime déclaration: “Ma langue ne
suffit pas à dire dans le détail comme il le mériterait tout ce
que l’Esprit Saint a opéré et dit par son intermédiaire89”. Dire,
faire. Voilà les deux clés. L’œuvre même d’Hilaire et la
Chronique de Sulpice mettaient en lumière le docteur. En le
présentant en référence au Martin de Sulpice, Fortunat a
inséré dans son récit quelques épisodes qui rendaient
moins inattendue l’action thaumaturgique de l’évêque. Le
Liber de uirtutibus Hilarii était au moins en germe dans sa
Vita. Mais surtout les deux “lumières” de la Gaule étaient
rapprochées. Dès son Histoire des Francs Grégoire de
Tours entérinera cette parenté90.
145
Note
(1) Paul. Diac, Historia Langobardorum, 2, 13 (ed. L. Bethmann et G.
Waitz, MGH SRLI s.VI-IX, Hannover, 1964, pp. 79-81:”…ne eius uitam sui
ciues penitus ignorarent” (p. 81, l. 5).
(2) Ibid., v. 5-6. L’épitaphe, disparue, est reprise également par Marc
Reydellet, en tête de son édition des Poèmes (v. infra, n. 5).
(3) Dans son édition des œuvres en prose de Fortunat, B. Krusch n’a retenu, outre la Vie de Radegonde, que cinq Vies d’évêques, rangeant un certain nombre d’autres Vies parmi les “opuscula Venantio Fortunato male attributa”. De divers côtés, on s’est, depuis ce “filtrage” sévère, prononcé en faveur de l’attribution à Fortunat de la Vita Seuerini, inconnue de Krusch, et de
la Vita S. Medardi qu’il jugeait indigne du poète savant. Je n’y reviens pas ici.
(4) Cette Vita Hilarii a déjà retenu l’attention à l’époque moderne, soit
pour elle-même (V. Messana, Note sulla Vita Sancti Hilarii di Venanzio
Fortunato, “Augustinianum”, 24, 1984, pp. 201-211), soit au milieu des autres
Vies composées par Fortunat (S. Pricoco, Gli scritti agiografici in prosa di
Venanzio Fortunato, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, edd. T. Ragusa
- B. Termite, Treviso, 1993, pp. 175-193; D. Fiocco, L’immagine del vescovo
nelle Vitae sanctorum di Venanzio Fortunato, “Augustinianum” 41, 2001, pp.
212-230). Avec celle de Radegonde, cette Vita a été traduite, avec le Liber
de uirtutibus S. Hilarii qui en forme le second volet, par G. Palermo dans la
Collana di testi patristici, n° 81, Roma, 1989. D’après son Introduction et son
annotation, l’auteur me semble chercher à présenter Hilaire lui-même et son
œuvre, plutôt que la Vie de Fortunat. Je voudrais m’intéresser ici à cette Vie
seule, en essayant de montrer comment, en utilisant une documentation vieille de deux siècles, Fortunat l’adapte pour donner d’Hilaire une image qui le
rapproche du ”bienheureux Martin”.
(5) Sur cet itinéraire, voir, de façon générale, en dernier lieu, Judith W.
George, Venantius Fortunatus. A Poet in Merovingian Gaul, Oxford, 1992, p.
28-30; M. Reydellet, Venance Fortunat, Poèmes, t. I, livres I-IV, CUF, Paris,
1994, pp. VIII-XIV. Ce dernier attire l’attention sur la mention par Fortunat de
sa vision des Pyrénées couvertes de neige en juillet (Praefatio, 4 - p. 4), ce
qui semble supposer que Fortunat serait descendu immédiatement jusqu’aux
Pyrénées et même serait allé dès ce moment en Galice auprès de Martin de
Braga. Un tel périple, s’il se plaçait dès 568, diminuerait encore le temps que
Fortunat a pu passer auprès de l’éphémère évêque de Poitiers, Pascentius,
le commanditaire de la Vita Hilarii. J.W. George (p. 31) place cette descente
jusqu’aux Pyrénées un peu plus tard.
(6) Vita S. Albini, 1, 1 (MGH AA 4,2, p. 27-28). Le c. XI, 25 (MGH AA 4,1,
p. 268-269), s’il s’adresse à Radegonde et à ses sœurs, est écrit à un moment où Fortunat est déjà à Poitiers et se rend à Angers pour la fête de saint
Aubin, invité par Domitianus (v. 9-10). J. W. George (p. 32) place ce voyage
après 570, et conséquemment la Vita Albani. Rien n’assure cependant que
Fortunat n’ait participé qu’une seule fois à la commémoration d’Aubin.
(7) Prooemium, p. XIII. Krusch se contente de situer la Vita Hilarii entre
565 et 573 (ibid., p. VII).
(8) Greg. Tur., Historia Francorum, 4, 18 (ed. B. Krusch et W. Levison,
MGH SRM I, 1, Hannover, 1965, p. 151, l. 10-16).
(9) Ibid., 9, 40 (p. 464).
(10) Ibid., 9, 39 (p. 460). On notera que cette réponse mentionne déjà l’usage de la Règle de Césaire par le monastère de Poitiers.
(11) A propos du passage de la princesse wisigothe par Poitiers, à un
moment où elle était encore arienne, l’élégie sur la mort de Galeswinthe consacre 6 vers à l’éloge d’Hilaire (c. VI, 5, 217-222). Les thèmes sont proches
de ceux de la Vita: Hilaire est ore tonante loquax (v. 218); il est connu partout
dans le monde (v. 219-220), où il répand la foi dans les esprits (mentibus)
comme le soleil sur les montagnes (montibus). On retrouve un éloge analogue en c. VIII, 1, 13-20. Mais il n’est question, ni d’un côté ni de l’autre, des
miracula d’Hilaire. On remarquera que Fortunat déclare avoir été présent de-
146
puis peu à Poitiers lors du passage de la princesse (c. VI, 5, 223: nouus).
(12) La consécration d’Agnès, qui sera l’occasion du c. VIII, 3, est postérieure; mais on peut penser que l’exaltation de la virginité n’est pas chose
nouvelle pour Fortunat (Voir aussi le c. VIII, 4). Le poète prend le relais
d’Ambroise et de Jérôme, qu’il connaît bien.
(13) Vita Hilarii, 1, 2 (p. 1, l. 8-11). Sur les erreurs provoquées dans les listes épiscopales de Poitiers par cette allusion aux relations entre Hilaire et
Pascentius, voir Krusch, p. V-VI; L. Duchesne, Fastes épiscopaux de
l’Ancienne Gaule, II, Paris 1910, p. 80. Duchesne place l’épiscopat de
Marovée après 585 (p. 80, 83), ce qui n’est pas acceptable.
(14) Ibid. (l. 12-14):”dum sui gregis auribus uox quodam modo et uita pastoris antiquissimi resonaret…”
(15) Ibid., 2, 3-4. Mais d’où tire-t-il (ut audio) que Jérôme, ce “torrent d’éloquence”, aurait refusé d’écrire la Vie d’Hilaire, dépassé par son sujet? Alors
que Jérôme compare Hilaire au Rhône impétueux, Fortunat voit en Hilaire
l’Euphrate et en Jérôme le Nil (ibid., l. 20).
(16) Ibid., 2, 5 (p. 3, l. 3-6)
(17) Liber de uirtutibus S. Hilarii, 2, 5 (p. 8, l. 8-14).
(18) En tout, 9 miracula, qui touchent en majorité des proches de la
Basilique, d’une manière ou d’une autre. Le plus ancien et le plus célèbre, qui
sera repris par Grégoire de Tours (Historia Francorum, 2, 37), est le prodige
que Clovis, à la veille de la bataille de Vouillé contre l’arien Alaric, aperçoit venant à lui depuis la basilique d’Hilaire. Fortunat ne manque pas de signaler
que Clovis s’apprête à combattre une “nation hérétique” et que si Hilaire intervient, c’est qu’il croit combattre Alaric comme il a combattu Constance
(Liber, 7, 20 et 23).
(19) Liber, 13, 37-38 (p. 11, l. 17-22). Sur ce topos du fastidium, v., par
ex., Paulin de Milan, Vita Ambrosii, 1 et 19.
(20) Liber, 1, 3 (p. 7, l. 22 - p. 8, l. 5).
(21) Vita Albini, 2, 3-4 (p. 28, l. 10-19).
(22) Ibid, 2,2 (p. 28, l. 8-10).
(23) Vita Hilarii, 14, 50 (p. 6, l. 35-37). Le De Trinitate est également mentionné par ses “deux fois six livres” dans le c. II, 15, 19-20. Un peu plus haut
dans la même pièce, il a fait allusion (v. 13-14) à la vision d’Etienne en Actes
7,55. On trouve de fait une allusion -rapide- à cette vision dans le De Trinitate,
3, 17 (ed. P. Smulders, CC 62, p. 88, l. 36-37).
(24) Je pense en particulier au Liber aduersus Valentem et Vrsacium historiam Ariminensis et Seleuciensis synodi continens cité par Jérôme (De uiris illustribus, 100 - v. la note suivante), dont nous ne connaissons plus, vraisemblablement, que des fragments. Fortunat mentionnera les noms de
Valens et Ursace (5, 15 et 8, 28), mais à travers le résumé de Sulpice Sévère.
Le poète qu’ il est ne fait pas la moindre allusion aux Hymnes d’Hilaire…
(25) HIER, De uiris illustribus, 100 (ed. A. Ceresa Gastaldo). Celui-ci donne le nom de Saturninus d’Arles et mentionne le synode de Béziers à la suite
duquel Hilaire fut exilé en Phrygie, ce qui correspond davantage à la réalité
historique que la présentation de Fortunat. Grégoire de Tours pour sa part
consultera la Chronique de Jérôme quand il évoquera la lutte d’Hilaire contre
l’hérésie (Historia Francorum, 1, 38 ).
(26) Rufinus Aquil., Historia ecclesiastica, 10, 21 et32 (ed Th Mommsen,
GCS 9, 2, p. 988 et 994). Imprécis sur les circonstances de l’exil, celui-ci consacre une belle page à l’action d’Hilaire à son retour.
(27) Vita Hilarii, 6, 19 (p. 3, l. 15-17).
(28) Prooemium, p. VI: “Pleraque quae de s. Hilario retulit, e Sulpicio
Severo hausit… Praeter fabulas Fortunatus nihil noui de S. Hilario memoriae
tradidit… Itaque, quae exstat Vita, e Sulpicio, epistulis fictis (sc. Ad Abram)
fabulisque consarcinata, multum abest quin Fortunati laudem extollere possit”. Krusch a transcrit soigneusement dans son Apparatus fontium la plupart
des passages empruntés ou démarqués de Sulpice.
(29) Vita Hilarii, 3,11 (p. 2, l. 24-27).
(30) Ibid., 4, 12-13 (p. 2, l. 27-34).
(31) Ibid., 5, 15 (p. 3, l. 3-4).
147
(32) Ibid., 5, 16 (p. 3, l. 4-8). Je ne vois pas à quoi se réfère le “comme il a
été dit”. En revanche, même si elles sont peu cohérentes, les images des joutes de l’éloquence, outre leur ascendance profane, reprennent les images d’une certaine militia Christi déjà appliquée à Hilaire. Celui-ci a été présenté comme un “signifer belligerator (…) inter haereticos gladios” (5, 14 - p. 2, l. 37).
(33) Ibid., 5, 17 (p. 3, l. 8) et 7, 21 (l. 30-31).
(34) Ibid. (l. 30-31). Cf. Sulpice Sévère, Chroniques, 2, 42, 1 (ed.
Ghislaine de Senneville-Grave, SC 441, p. 322, l. 4).
(35) Ibid., 6, 18-20 (p. 3, l. 10-27) avec ce début: “Qui dum ad locum peruenisset optabilem, nobis tacendum non est quod illi concessum est”.
Remarque rare chez les biographes anciens qui d’ordinaire marquent peu le
progrès de leurs héros: Pour Fortunat, Hilaire, “quantum pro nomine Christi
longius discedebat de solo proprio, tantum merebatur fieri uicinior caelo” (5,
17 - p. 3, l. 9-10). On trouvera plus loin souligné son désir du martyre.
(36) “Sed qualiter ad illum sponsum peruenerit, locus in sequenti seruatur”, déclare-t-il à la fin de ce premier épisode.
(37) Alors que Martin avait affronté les païens au long de son épiscopat,
cette mention d’ une jeune fille païenne, qui se convertit spontanément, entraîne sa famille et suivra Hilaire jusqu’à Poitiers, est unique dans cette Vie. Jamais
Hilaire n’a affaire aux païens chez Fortunat. Mais au VIè siècle, le biographe lui
fait éviter les Juifs et les hérétiques, au temps même de sa vie laïque (Vita, 3,
9 -p. 2, l. 18-21). Cela n’est certainement pas sans intention à l’égard de ses
contemporains – les évêques nommés ensuite? On notera que cette absence
de rapports concerne la vie la plus ordinaire: manger avec eux, les saluer, appuyée sur “l’exemple” de David (cf. Ps 25, 4-6?). La jeune Florentia reconnaît
en Hilaire un “seruus Dei” et le proclame, à la manière dont les démons pressentent la divinité du Christ dans les Evangiles. Nous ne savons rien de cette
jeune fille qui demande aussitôt le baptême. Le fait qu’elle quitte sa famille pour
suivre son “père” spirituel n’est sans doute pas sans intention de la part de
Fortunat. Pense-t-il aux jeunes filles qui entourent Radegonde?
(38) Chroniques, 2, 42, 1 (p. 322, l. 10-12).
(39) Vita Hilarii, 8, 24 (p. 4, l. 4-6).
(40) Ibid., 8, 25 (p. 4, l. 6-8): “Hinc post examinationem agnitis hostibus
et oppressis, decretis in scriptura conditis, prospera gerens synodi dirigitur
ad imperatorem legatio…”. Je me demande s’il ne faut pas plutôt lire: propera (legatio). Fortunat passe sous silence les soupçons qu’Hilaire dut dissiper
devant les Orientaux concernant la foi des Occidentaux, accusés de
Sabellianisme (Chroniques, 2, 42, 2). Le c. II, 15, 5-18 félicite Hilaire d’avoir
défendu la foi diuinis tantum uocibus (v. 18) contre le poison des Grecs qui
s’appuie sur la sagesse du monde. Il est donc vraisemblable que les décisions du Concile ne sont pas ici simplement “mises par écrit”.
(41) Le récit de Fortunat utilise, développe, réduit, articule, amplifie, etc,
les données suivantes de Sulpice: 1) “Repertique prauae haeresis auctores
atque ab ecclesiae corpore auulsi. In eo numero fuere Georgius ab
Alexandria etc…Sed confecto synodo, decreta ad imperatorem legatio quae
gesta insinuaret…” (2, 42, 3); 2) Après un long récit des tractations de Rimini
(2, 43-45, 1): “Aderat ibi (à Constantinople) tum Hilarius a Seleucia legatos
secutus, nullis certis de se mandatis, opperiens imperatoris uoluntatem, si
forsitan redire ad exilium iuberetur” (2, 45, 2). Si Fortunat signale bien, comme Sulpice, l’absence de consignes impériales, il met en valeur l’intelligence
et le courage d’Hilaire en lui faisant pressentir une manœuvre des hérétiques.
Mais il a oublié de dire avec Sulpice que les condamnés avaient, eux aussi,
envoyé une délégation à Constance.
(42) Vita Hilarii, 8, 26 (p. 4, 1. 10): “Sed disserere longum est qualiter…”
(43) Chroniques, 2, 43-45.
(44) Vita Hilarii, 8, 27 (p. 4, l. 14-16).
(45) Chroniques, 2, 45, 2 (p. 328, 13- 330, l. 16).
(46) Vita Hilarii, 8, 26 (p. 4, l. 16, 17): “…ne ueritatem falsitas obumbraret, ne aequitati iniquitas praeualeret, ne imperator Deo resisteret, ne fidei
perfidia rebellaret”! Sulpice se contentait de dire: “Id uero Ariani maximo opere abnuere” (2, 45, 2).
148
(47) Ibid., 8, 28 (p. 4, l. 18-21). Fortunat parle ici de machinamenta; il a
parlé plus haut de fraus haeretica (l. 11) de compositus fucus (l. 14) de mendacium (l. 13), et sans doute de composita mentitio (plutôt que mentio) (l. 10).
(48) “Ad Gallias compulsus reuertitur”, écrit Fortunat (8, 29). Sulpice disait: “Postremo quasi discordiae seminarium et perturbator Orientis redire ad
Gallias iubetur, absque exilii indulgentia”(2, 45, 2 - p. 330, l. 17-19). La Vita
Martini, 6, 7 parle au contraire de “repentir” de l’empereur qui accorde à
Hilaire “l’autorisation” de rentrer. Ici encore, Fortunat a choisi et durci la situation, à la gloire de “l’athlète du Christ” (8, 27 - p. 4, l. 12-13).
(49) Vita Hilarii, 8, 30-32 (p. 4, l. 23 - p. 5, l. 2). Et de conclure: “Igitur,
sanctissimam animam etsi gladius persecutoris non abstulit, palmam tamen
martyris non amisit”. Cf. Vita Albani, 18, 50 (p. 33, l. 12-14).
(50) La Chronique signalait simplement ensuite la mort d’Hilaire “cinq
ans après son retour en Gaule” (2, 45, 4 - p. 332).
(51) En Vita Hilarii, 7, 21 (p. 3, l. 28), Fortunat emprunte un début de
phrase à la Vita Martini, 6,4, où elle concerne le retour de Martin dans sa patrie, après sa première rencontre avec Hilaire et son ordination comme exorciste (ibid., 5, 2). A suivre Fortunat, Martin n’a pas encore rencontré Hilaire et
il ne sera ordonné exorciste que postea (Vita Hilarii, 9, 33- p. 5, l. 4).
(52) Vita Martini, 6,7-7,1 (ed. J. Fontaine, SC 133, p. 266).
(53) Vita Hilarii, 9, 33 (p. 5, l. 3-6). Noter la manière d’introduire Martin:
“Tunc beatus Martinus aeque meritorum lumen non absconsum…”
(54) Ibid., 9, 34 (p. 5, l. 6-9).
(55) Vita Martini, 6, 5-6 (p. 266). Notons que Martin repousse ici par la
prière le danger qui le menace.
(56) Vita Hilarii, 10, 35 (p. 5, l. 10-13), avec cette insérende: “Illud etiam
nobis non conuenit tam nobile praeterire miraculum”. Fortunat a-t-il lu la Vita
Honorati, 15, 2-4? Hilaire d’Arles raconte que l’île où Honorat se retire avec
ses compagnons était pleine de serpents et que les habitants des environs le
dissuadaient de s’y rendre. Honorat passe sur l’île, confiant en la parole du
Christ, et “cedit turba serpentium” (ed. M.D. Valentin, SC 235, p. 110).
(57) Vita Hilarii, 10, 36-37 (p. 5, l. 13-19). “Praecedente crucis auxilio”,
est-il dit. A part le signe de la croix que la jeune Florentia implore sur elle (Vita
Hilarii, 7, 22), c’est le seul usage de la Croix dans cette Vita.
(58) Vita Marcelli, 10, 40-48 (p. 53-54), où le bâton de Marcel (§46, 48)
exerce la même puissance que celui d’Hilaire. Comparer surtout Vita Hilarii,
10, 36 (p. 5, l. 14): “…uir Dei sentiens sibi de bestiali pugna uenire uictoriam…” et Vita Marcelli, 10, 45 (p. 53, l. 33): “Beatus Marcellus intellegens se
de cruento hoste triumphum adquirere…”.
(59) Vita Martini, 7, 1 (p. 266). Concernant le lieu de l’ermitage de Martin,
Sulpice, qui écrit loin de Poitiers, dit: “haut longe ab oppido”.
(60) Vita Hilarii, 12, 41 (p. 5, l. 30, 31): “Itaque beatum Martinum in vico
Locoteiaco dum praecepisset consistere, uirtute diuina meruit ibi mortuum
suscitare”. La syntaxe est suffisamment elliptique pour que l’on puisse hésiter à première lecture sur le sujet de meruit.
(61) Vita Hilarii, 12, 42 (p. 5, l. 31-33).
(62) Ibid., 12, 43 (p. 5, l. 33-6, l. 4). On notera ce titre de “père du peuple”, plus propre au VIè siècle qu’au IVè, même s’il est attiré ici, comme souvent
chez Fortunat, par le goût de l’antithèse. A comparer avec la prière à Martin
de la mère de l’enfant mort du pays des Carnutes, dans la Vita Martini, 3, 175186 de Fortunat (en particulier, v. 185: “ne sit matris mihi nomen inane”).
(63) Chez Sulpice, Martin s’enfermait avec le cadavre et, en priant, le
couvrait de son corps (Vita Martini, 7,3), à l’instar d’Elie avec l’enfant de la
veuve de Sarepta. Autre exemple dans la Vita Ambrosii, 28 de Paulin de
Milan.
(64) Vita Hilarii, 12, 44 (p. 6, l. 5-9).
(65) Vita Martini, 1, 170-175 (ed. S. Quesnel, p. 13-14).
(66) Vita Hilarii, 6, 18 (p. 3, l. 14): “interuentu orationis assiduae”, au sujet
d’Abra. Voir ci-dessous.
(67) Ibid., 12, 44 (p. 6, l. 5): “Vir Dei, spectante populo, ad consueta arma recurrens, in terram prosternitur…” Cf. Vita Albani, 11,31 (p. 30, l 31sq.):
149
“…tum pontifex se ad nota arma conuertens…”, avec un recours au signe de
la Croix..
(68) Ibid. (l. 11-12): “…spem habens de Christo”.
(69) Ibid., 12, 45 (p. 6, l. 9-10). Cf. Vita Radegundis, 37, 86 (p. 48, l. 1819): “surgit haec (= Radegonde) ab oratione, resurgit illa (la petite fille morte)
de funere et se tunc releuat uetula cum reuixisset infantula”. Cette résurrection est explicitement rapprochée par Fortunat de la “manière” de Martin
(“more beati Martini”, 84).
(70) Ibid. (l. 10-12).
(71) Ibid. (l. 13-14): “… qualiter miracula reliqua hoc miraculo cumulauit”.
Le mot miraculum avait été employé pour l’épisode de Gallinaria (10, 35 - v.,
supra, n. 56).
(72) Vita Hilarii, 6,18 (p. 3, l. 11-14).
(73) Ibid., 6, 18-19 (l. 14-23).
(74 Ibid. (l. 16-17): “sufficiente sale conditam et uelut aromaticis unguentis infusam”.
(75) Ep. Accepi litteras tuas (PL 10, c. 549-552 = CSEL 65, pp. 237-244).
(76) Ibid., 13, 46 (p. 6, l. 15-18).
(77) Ibid., 13, 47 (l. 20-23).
(78) Ibid., 13, 49 (l. 29-31).
(79) Voir le long c. VIII, 3, et aussi le suivant.
(80) Vita Hilarii, 13, 48 (p. 6, l. 23-29).
(81) Ibid., 13, 50 (p. 6, l. 32-34).
(82) Ibid., 3, 8 (p. 2, l. 13-16): “Coniugem habens et filiam, ita plenitudine Domini uenerabiles animos ecclesiasticae regulae tradidit informandos ut,
adhuc in laicali proposito constitutus, diuino nutu pontificis gratiam possideret, ita se ipsum propria disciplina cohercebat intentus, quasi futuram speciem indicans ut irreprehensibilis in templo Christi praepararetur sacerdos”.
“Animos informare” et “disciplina se cohercere” sont les seules allusions de
cette Vita à une ascèse. “Irreprehensibilis” est sans doute une allusion à 1 Tim
3, 2, qui concerne les qualités requises de l’évêque.
(83) Ibid., 4, 12 (p. 2, l. 29-31). Que penser de l’élection de Pascentius,
décidée par Caribert?
(84) Ibid., 3, 10 (p. 2, l. 21-24).
(85) Le c. II, 15 mentionné plus haut (n. 23 et 40) ne fait aucunement allusion aux miracula d’Hilaire. Dans l’ Eglise de Nantes, où se trouvent, semble-t-il, de ses reliques, Hilaire est “associé” à Martin, mais d’une manière
générale: “Dextera pars templi meritis praefulget Hilarii,/ compare Martino
consociante gradum. // Gallia sic proprios dum fudit ubique patronos/ quos
hic terra tegit, lumina mundus habet” (c. III, 7, 51-54). Comparer ce que dira
Grégoire de Tours (infra, n. 90), et le progrès.
(86) Vita Hilarii, 14, 50-51 (p.6, l. 34 -p. 7, 2). Pour la comparaison avec
le tonnerre, outre la n. 11, voir Jérôme, Ep. 49, 13, 4, au sujet de l’apôtre Paul:
“quotienscumque lego, uideor mihi non uerba audire sed tonitrua”.
(87) Ibid., 15, 52, (p. 7, l. 2-4).
(88) Ibid. (l. 4-6).
(89) Ibid., 15, 53 (p. 7, l. 7-8).
(90) Historia Francorum, 1, 38-39 (p. 27). Après avoir parlé de l’exil
d’Hilaire et de son œuvre écrite à l’aide de la Chronique de Jérôme, fait mention de son retour d’exil grâce à Sulpice (§38), Grégoire poursuit en évoquant
Martin, avant de revenir de manière significative à Hilaire, donnant d’après
Jérôme la date de sa mort: “Tunc iam et lumen nostrum exoritur, nouisque
lampadum radiis Gallia perlustratur. Hoc est eo tempore beatissimus Martinus
in Gallias praedicare exorsus est, qui Christum, Dei filium, per multa miracula uerum Deum in populis declarans, gentilium incredulitatem auertit. Hic
enim fana destruxit, haeresem oppressit, ecclesias aedificauit et, cum aliis
multis uirtutibus refulgeret, ad consummandum laudes suae titulum tres mortuos uitae restituit. Quarto Valentiniani et Valentis anno sanctus Hilarius apud
Pictauos, plenus sanctitate et fide, multis uirtutibus editus, migrauit ad caelos.
Nam et ipse legitur mortuos suscitasse” (la romaine est de moi, ainsi que la
“normalisation” du texte). Grégoire a lu Fortunat et il entérine son rapproche-
150
ment d’Hilaire avec Martin. On peut se demander s’il ne le prolonge pas, en
faisant, inversement, rejaillir sur Martin la gloire d’Hilaire. La “prédication” de
Martin et ses “miracles” prouvent que le Christ est “vraiment Dieu”; ce faisant,
Martin ne convertit pas seulement les païens, il “écrase l’hérésie” – arienne à
n’en pas douter, pour Grégoire.
151
DAVIDE FIOCCO
Seminario di Belluno
L’immagine del vescovo nelle biografie in prosa
di Venanzio Fortunato
Scorrendo le raccolte bibliografiche inerenti a Venanzio
Fortunato, si nota come la quasi totalità degli studi si sia
concentrata sulla produzione poetica: i Carmina e la Vita
Sancti Martini1; Fortunato è infatti considerato dalla critica
contemporanea soprattutto come poeta. Nel medioevo,
invece, era conosciuto soprattutto come agiografo: le biografie in prosa gli fruttarono grande fama2; poi vennero sempre più trascurate dalla critica.
In tempi recenti non sono mancati gli studi, ma sono rari.
Nel 1970 J. Le Goff pubblicò uno studio su un unico paragrafo della Vita S. Marcelli3; nel 1979 F.E. Consolino dedicò
alle Vitae alcune pagine di un saggio sulla figura del vescovo nella Gallia tra il IV ed il VI secolo4. Nello stesso anno L.
Navarra constatava però: “uno studio esauriente che investa
l’intero suo corpus agiografico non è ancora stato fatto”5. Nel
1984 V. Messana analizzò la Vita S. Hilarii6. Nel 1990 S.
Pricoco elaborò un quadro d’insieme molto sintetico7. Lo studio più specifico sulla lingua e sulle finalità di questi testi è
uscito dalla penna di R. Collins, la cui analisi si è di fatto limitata alla Vita S. Germani8.
Questa parte delle opere fortunaziane resta quindi un
campo aperto per la ricerca; il presente intervento presenta
il frutto di un’analisi che si è concentrata sull’insieme di questi scritti, cercando in esse il modello episcopale, ossia l’immagine di vescovo che vi appare. Infatti i santi raccontati dal
Nostro furono quasi tutti vescovi. Di qui alcune domande:
Fortunato segue un progetto nel proporre tale figura episcopale? C’è un nesso tra la figura episcopale delle Vitae e la
situazione della Chiesa nei regni merovingi del secolo VI?
153
1. Venanzio Fortunato in Gallia
È un problema per gli studiosi stabilire il motivo per cui
nell’autunno del 565 Fortunato abbia lasciato l’Italia per raggiungere i regni merovingi e non tornare più in patria. Il
poeta si giustifica con la devozione a San Martino, dal quale
avrebbe ottenuto la guarigione da un’oftalmia9, ma la critica
diffida di questa giustificazione e tenta altre spiegazioni. La
tesi che sembra aver maggior credito cerca un’implicazione
del poeta nella questione dei Tre Capitoli: Fortunato sarebbe fuggito da una situazione compromettente10.
Un’altra tesi lo ritrae come un wandering bard deciso a
trovare in Gallia un mecenate11: approdato a Metz al momento giusto, Fortunato si sarebbe servito delle nozze del re
Sigiberto (primavera del 566) come tribuna per farsi pubblicità di fronte alla nobiltà gallo-romana, avida dei fasti della
romanitas12. L’ipotesi però non convince: infatti il patronato
cercato nelle corti, venne di fatto dagli episcòpî, in modo
particolare da quello di Tours; inoltre non tiene conto del
prudente e censurato coinvolgimento del Nostro nelle vicende merovinge.
Interessante, ma molto criticata, è la tesi proposta da
J. Šašel e rilanciata da M. Rouche13: il poeta sarebbe stato
un emissario del potere imperiale, inviato nei gangli del
potere merovingio, per istradare secondo i progetti politici
bizantini i quattro figli di Clotario (Sigiberto, Chilperico,
Gontramno e Cariberto) e interessarli nella resistenza contro
i potenti Longobardi, che ormai si affacciavano sulla scena
internazionale.
Quale che sia il motivo di questo trasferimento, è indubbio che Fortunato si sia inserito nella vita politica ed ecclesiastica dei regni merovingi.
Rimandando il pellegrinaggio a Tours, stabilì la sua residenza a Poitiers, presso il monastero di Radegonda. E attorno a Radegonda, troviamo Gregorio di Tours e altri vescovi
di estrazione gallo-romana (perfino nel nome, come è stato
notato da J. Fontaine14), simpatizzanti per la linea politica di
Sigiberto e rispettosi della gerarchia ecclesiastica. È interessante come nel 569, appoggiata dal re Sigiberto,
Radegonda stesse trattando con l’imperatore Giustino per
avere reliquie della Croce (per le quali Fortunato compose i
famosi inni Crux fidelis e Vexilla regis15).
Sull’altro versante, invece, troviamo l’oscuro re
Chilperico, ostile alla linea del vescovo Gregorio e incline al
sopruso nei suoi confronti (basti ricordare il tentativo di rove154
sciare Gregorio di Tours nel sinodo di Berny-Rivière del
58016). Nella stessa congrega possiamo inserire anche il
vescovo di Poitiers Maroveo (nome di ascendenza barbarica), che nel 569 aveva declinato l’invito di introdurre nel
monastero di Radegonda la reliquia della croce17.
Va senz’altro sottolineata l’unità di intenti tra Gregorio,
Fortunato e Radegonda verso la stessa causa. Il Reydellet
la riassume con queste parole: “la grandezza dell’episcopato e la gloria del regno di Metz che si chiamerà più tardi
Austrasia”18. Certo, è difficile valutare i risultati di questa
causa comune. Nel 575 infatti Sigiberto veniva fatto assassinare dal fratello Chilperico19; ma la vedova Brunechilde,
reggente per conto del giovane figlio, trovò l’appoggio della
corte di Bisanzio e di una parte dei vescovi gallici, che fecero quadrato contro Chilperico.
Ad ogni modo, in questo quadro può cambiare il modo
di guardare a Fortunato e alla sua produzione letteraria: non
è “un poeta d’occasione”, secondo un pregiudizio che risale lontano20, ma diventa un acuto utilizzatore della sua arte,
anche con le Vitae dei santi, come vedremo sotto.
2. Le Vitae sanctorum
Il corpus di testi agiografici attribuito a Venanzio
Fortunato comprende 13 biografie21, ma l’editore B. Krusch
accettò l’attribuzione soltanto per quelle di Ilario22, Germano,
Albino23, Paterno, Radegonda, Marcello24; a queste H.
Quentin aggiunse la Vita S. Severini25. Gli altri sei testi (Vita
S. Amantii, Vita S. Remedii, Vita S. Medardi, Vita S. Leobini,
Vita B. Maurilii e la Passio Ss. Mm. Dionysii, Rustici,
Eleutherii) vennero pubblicati come Opuscola Venantio
Fortunato male attributa26. Molti insistono perché la questione sia ridiscussa27, tanto più che il criterio del Krusch è spesso soltanto stilistico; la soluzione del problema è ben lontana, ma lo sguardo panoramico sull’insieme di questi induce
a posizioni meno drastiche.
Le più forti perplessità sorgono per l’attribuzione della
Vita S. Remedii, dove le testimonianze medievali tradiscono
pesanti interventi posteriori28. La Vita S. Leobini va sicuramente fissata in epoca carolingia29. Nella Vita B. Maurilii
notiamo soltanto elementi di somiglianza con le altre30. La
Passio Ss. Mm. Dionysii, Rustici, Eleutherii esorbita dal
nostro interesse. Però per la Vita S. Medardi e per la Vita S.
Amantii il giudizio si fa più cauto31.
155
Le Vitae si presentano come una serie di episodi raccolti in uno schema costante:
a. il solenne prooemium, composto in latino ricercato,
con una sofisticata sintassi, che evidenzia la capacità letteraria dell’Autore, attento ai canoni della migliore tradizione
retorica32.
b. La narratio rerum gestarum è la sezione più consistente. Sorvolando sui loci a persona della retorica antica
(genus, natio, institutio…), Fortunato corre verso le gesta,
che diventano “una descrizione fitta, ma per lo più rapida e
scolorita, delle operazioni taumaturgiche”33, talora ripetitive.
Lo stile di questa sezione è paratattico, il periodare è semplice, adatto a un uditorio definito «omnium populorum
catervas»34, scarsamente acculturata, per raggiungere la
quale Fortunato accetta di «agnosci rusticus»35 per il suo linguaggio popolare. Attraverso le Vitae questa plebs veniva
esortata a confidare nel patrono: in ciò consisteva l’aedificatio plebis, non certo nell’edificazione morale, data l’inimitabilità della taumaturgia36.
c. L’epilogus si presenta in varie forme nelle Vitae: può
narrare la morte del santo o gli episodi prodigiosi che l’hanno accompagnata; la sepoltura, i miracoli operati dal santo
dopo la morte oppure occorsi presso la tomba; altre volte l’esortazione a confidare nella protezione del santo. Spesso le
ultime parole sono una dossologia che esige l’Amen37, segno
di un probabile uso liturgico dei testi: secondo il parere dei
critici è infatti “incontestabile… che le Passioni e le Vite fossero lette nelle celebrazioni liturgiche delle feste dei santi”38.
Fissando l’obiettivo sulla narratio, colpisce la preponderanza di episodi che narrano prodigi, quadretti, il più delle
volte collegati in maniera piuttosto artificiosa. Pure lo schema adottato per ogni episodio è ripetitivo:
a. Breve frase di collegamento: «nec illud omitti convenit…»39, ecc.
b. Resoconto dell’episodio, in una decina di righe.
c. Amplificatio del fatto, attraverso vari espedienti: la
comparatio con un episodio evangelico o storico40, la ratiocinatio41, o le paronomasie, tanto care a Fortunato42.
M. Heinzelmann43 ha chiarito come, sullo sfondo dell’opera agiografica di Gregorio di Tours, siano da intravedere
raccolte – scritte e/o orali – di miracoli avvenuti presso la
tomba del santo, finalizzate al prestigio del santuario più che
alla gloria del santo. Non è inverosimile questa ulteriore
comunanza tra Fortunato e l’amico Gregorio44.
Alle radici dell’opera fortunatiana possiamo dunque ipo156
tizzare una prolificazione di racconti prodigiosi riguardanti le
più eminenti figure ecclesiastiche merovinge. A volte
Fortunato intervenne in maniera sommaria (come nella Vita
S. Germani, dove una settantina di episodi sono cuciti in un
quadro biografico sbiadito); altre volte con un quadro narrativo più denso (come nella Vita S. Marcelli, dove i miracoli
segnano le tappe della carriera clericale del santo, o nella
Vita S. Paterni, contrassegnata da un cammino di ricerca
ascetica).
3. Il modello agiografico
Non mancano gli studi sull’evoluzione del modello agiografico45. Qui basti ricordare che la letteratura agiografica
conobbe, nel suo sviluppo, diversi modelli, primo fra tutti il
modello martiriale, tipico degli Acta e delle Passiones46.
Finito il periodo delle persecuzioni, con l’avvento del
monachesimo nacque un nuovo modello monastico, rischiarato ancora dal modello martoriale; il martirio venne però
sostituito con la fuga dal mondo e la mortificazione del
corpo47; divennero invece sempre più abbondanti i racconti
taumaturgici e gli esorcismi48. La prima testimonianza di
questo nuovo genere si ebbe nella Vita Antonii49.
L’Occidente cristiano recepì questo modello, ma ne temperò alcuni aspetti eremitici, spingendo il santo nel mondo.
La testimonianza più importante si ebbe nei testi che Sulpicio
Severo dedicò a Martino di Tours50: prima monaco e poi
vescovo, unì l’ascesi al ministero apostolico. Martino fu asceta, lottò contro il demonio, combatté le resistenze del culto
pagano, desiderò il martirio, operò prodigi…; ma, in quanto
vescovo, predicò e guarì gli ammalati, difese il popolo, ecc.
Due biografie del secolo V (la Vita Ambrosii e la Vita
Augustini)51, suggellano il passaggio al modello monasticovescovile: il vescovo, pur dedito all’ascesi, cura l’edificazione della Chiesa52; all’elemento prodigioso viene invece concesso poco spazio53.
Quindi le agiografie dell’ambiente di Lérins conducono a
compimento questa convergenza fra il modello monastico e
quello episcopale: la vita monastica diviene preludio alla vita
apostolica e viene completamente accantonata la taumaturgia54.
Anche nei regni germanici il modello monastico-vescovile ebbe continuità, ma riprese in maniera sproporzionata la
taumaturgia. Inoltre trasferì nelle mani dei vescovi il patro157
nato delle città, finora riservato ai martiri: il vescovo diviene
il defensor civitatis55, che intercede per la sua città, da vivo
e da morto, perché le reliquie del santo diventano garanzia
di un rapporto fiduciario tra il vescovo e la sua città.
Quest’ultimo è il contesto letterario nel quale va situato il
modello agiografico episcopale delle Vitae di Fortunato.
4. L’immagine episcopale nelle Vitae: elementi di sintesi
1. Prendendo in considerazione le biografie in prosa di
Fortunato, sia quelle di certa attribuzione, sia quelle dubbie
o spurie, contiamo oltre 350 episodi, che intendiamo ora
catalogare secondo le tipologie più ricorrenti.
Pare subito evidente il predominio del modello ascetico-monastico. Il santo vescovo delle Vitae è un uomo di
preghiera, consumato nel digiuno e nella penitenza. Anzi, è
modello di ascesi fin dalla fanciullezza (locus pueri senis).
Questo vale sia per i monaci poi chiamati all’episcopato
(Paterno, Albino, Germano), sia per gli altri; anzi proprio la
pratica ascetica sembra imporli come candidati all’episcopato56.
L’ascesi circonda il santo di un’aura angelica (8 volte): la
sua orazione è un colloquio con i santi del paradiso: è questo un locus martiniano57.
La mortificazione del corpo è in tutte le Vitae continuazione del martirio (locus martyrii sine cruore: 9 volte): «est
novum non morte sed carnis mortificatione martyrium»58.
Germano, per esempio, pratica una tale penitenza «ut,
domestico tormento superato corpore, de se triumphatum in
pace factus martyr adquireret»59. Danno corpo al modello
ascetico anche altri elementi, come la tentazione contro la
castità60, la lotta contro l’idolatria imperversante nelle campagne (12 volte)61.
Ma soprattutto due aspetti del modello ascetico si sviluppano in maniera sproporzionata: la lotta contro il diavolo
(29 episodi) e la taumaturgia (una settantina di episodi: 14
risurrezioni, una ventina di prodigiose liberazioni di prigionieri, vari interventi nei confronti della comunità o dei singoli). Passare in rassegna la tipologia dei miracoli e degli esorcismi risulterebbe tedioso62. È invece interessante cogliere
alcuni particolari che accompagnano l’attività taumaturgica.
In alcuni casi, questa è preparata dalla pratica ascetica.
Per Albino il primo miracolo scaturisce dal progresso ascetico: «in tantam vitae claritatem pervenit, ut eius devotum
158
servitium mundo Dominus per miracula testaretur»63. Ma le
virtù del santo si manifestano anche prima della consacrazione64: questo rientra nel locus pueri senis, nel senso che il
giovane santo agisce prodigiosamente perché in futuro sarà
vescovo.
È invece più rilevante il fatto che la taumaturgia, connaturale al modello monastico, nelle Vitae diventi quasi una
prerogativa episcopale: infatti la maggior parte dei miracoli
è raccontata dopo l’ascesa del santo al sacerdozio, sicché
l’Autore sembra trovarsi a suo agio quando, completata la
carriera dell’ordine sacro, può finalmente virtutes narrare.
Nella Vita S. Germani, per esempio, i primi otto prodigi si
situano dopo l’istituzione abbaziale; ma il testo raggiunge il
suo “regime normale” dopo la consacrazione episcopale,
proponendo di seguito 55 miracoli. Nella Vita S. Hilarii, la
madre di un piccolo bambino morto prematuramente rammenta al santo le prerogative del ministero, proclamando:
«Martinus adhuc incipiens cathecuminum mortuum revocaverit, tu pontifex redde, rogo, filium aut mihi aut baptismo»65.
In Paterno l’ascesa gerarchica fa progredire le virtutes: «diaconus et presbyter institutus, quantum dignitas creverat,
tantum se virtutibus honorabat»66. Nella Vita S. Marcelli si
sottolinea come il santo, ancora suddiacono, abbia potuto
risanare un vescovo: «O meritum subdiaconi, qui vocem
restituit sacerdoti et versa vice quod accipere debuit hoc
indulsit…»67.
Pure la ritualità degli episodi prodigiosi viene a confermare questa “sacralità” della taumaturgia, in quanto è evidente l’utilizzo di gesti liturgici: la preghiera (36 volte), il contatto con oggetti propri del santo (12 volte), i segni di croce
(32 volte), l’olio benedetto (26 volte), le vesti sacre rimandano tutti alla liturgia68.
2. Il vescovo delle Vitae è anche pastore, ma quasi
esclusivamente per la sua attenzione verso i poveri (10
episodi), per l’ispirazione che risale ancora a Martino: come
lui, il giovane Medardo (locus pueri senis) dona gli indumenti a un cieco e il cibo ai poveri69.
Il prestigio del vescovo sa ottenere anche dai potenti l’attenzione verso i miseri: Paterno suggerisce al re
Childerberto misure in favore dei poveri70; tra Germano e il re
si gareggia in generosità, «ut sacerdos locupletaretur regalibus thesauris, et in regem floreret gratia sacerdotis»71;
quanti ottengono dal santo un miracolo destinano preziosi o
denaro ai poveri72.
159
Il ministero pastorale non sembra invece andare oltre
questa attenzione ai poveri. Viene fatta menzione della predicazione, ma sempre in sezioni poco significative, come
l’epilogo, dove è la retorica a imporre questo luogo comune.
Contiamo invece diversi episodi, nei quali il vescovo
risana persone punite per aver violato il riposo festivo73, insistenza che tradisce una preoccupazione “pastorale”, confermata nei sinodi del tempo74. A risanare – e quindi riconciliare – questi malcapitati, sui quali è caduta la “vendetta divina”, interviene naturalmente il vescovo.
3. Non devono passare in ombra soprattutto gli episodi
(una ventina), nei quali il santo benefica la sua città: al vescovo della Vitae possiamo ben collegare il titolo di defensor
civitatis, pur coniato dalla critica contemporanea75.
Per esempio, è suggestiva l’interpretazione che J. Le
Goff ha dato della vittoria di Marcello sul drago: il vescovo
diviene “il capo di una comunità urbana, non nelle sue funzioni spirituali di pastore…”; la vittoria sul drago rappresenta simbolicamente l’insediamento in una zona paludosa,
bonificata per l’intraprendenza del vescovo76. Questa chiave
ermeneutica permette di leggere anche altri episodi, nei
quali il vescovo interviene a placare incendi, a salvare naufraghi77, ecc.
Il ruolo di defensor civitatis continua anche dopo la
morte. Così Severino, invocato dai fedeli di Bordeaux, mette
in fuga i Goti, che lasciano sul campo tende e bottino; e
ancora ottiene condizioni meteorologiche favorevoli al raccolto78.
A questi episodi pare sottesa una rivendicazione. Nei
territori merovingi infatti, data l’instabilità del quadro politico,
il vescovo diventava il più stabile centro di gravitazione della
città e poteva pretendere la leadership. La cosa incontrava
naturalmente resistenze, delle quali dà testimonianza anche
Gregorio di Tours ponendo sulla bocca dell’avverso
Chilperico: «nulli nisi soli episcopi regnant; periet honor
noster et translatus est ad episcopos»79. Sfrondato dei toni
della polemica, il passo pare significativo.
Questi interventi del vescovo in favore della sua città,
raccontati da Fortunato e pubblicamente proclamati davanti al popolo, onoravano davvero come defensor civitatis il
vescovo (sì il santo, ma anche il suo successore!).
L’agiografia concorreva così a rafforzare nell’ambito cittadino la dignità episcopale.
160
4. Nelle Vitae si contano 17 episodi nei quali il santo
ottiene dal potere civile la liberazione dei prigionieri (un
locus ancora martiniano80). Molto spesso gli interventi del
vescovo sovvertono l’ordine costituito, minacciando la morte
al funzionario che non obbedisce al vescovo81. Un episodio
particolarmente intenso è quello del conte Nicasio, ridotto in
fin di vita per aver differito la liberazione di alcuni prigionieri; la preghiera di Germano lo ristabilisce in salute e il conte
ringrazia donando al santo la cintura d’oro e la spada, simboli del suo potere82. Pure in questi episodi possiamo intravedere la rivendicazione di un potere contestato.
5. In altri 23 episodi il santo vescovo è in relazione con
il potere civile, che affronta in posizione di superiorità.
La regina Radegonda, in fuga dal marito, aveva incoraggiato il vescovo Medardo a procedere alla sua consacrazione diaconale, protestando la superiorità del potere
religioso su quello civile: «si me consecrare distuleris et plus
hominem quam Deum timueris, de manu tua, pastor, ovis
anima requiratur»83.
Pure nella Vita S. Hilarii troviamo episodi di forte tensione tra il vescovo e il potere dell’ariano Costanzo (il locus sine
cruore martyrii trova spazio qui, anziché nell’abituale riferimento all’ascesi)84. Ma il confronto fra Ilario e il potere politico continua, con diverso segno, dopo la morte del santo,
quando appoggia Clodoveo contro le truppe ariane di
Alarico85.
Nella Vita Albini, è il cavallo del re Childeberto a bloccarsi perché il re non si sottragga alla riverenza dovuta al
vescovo86. Si sottolinea come presso il vescovo Albino non
ci sia stata «ulla regum potentumque personalis acceptio»,
quando condannò un caso di incesto, nel quale si può leggere la vicenda del re Cariberto87.
Lo stile del vescovo Germano nei confronti del potere
politico è riassunto in una sentenza: «sacerdos Christi solitus erat de ipsis quoque regibus triumphare»88. E gli esempi
non mancano, collegati soprattutto alla taumaturgia, che
dotava il vescovo di autorevolezza anche di fronte al potere
politico.
6. Contiamo infine una dozzina di episodi, in cui il santo
interviene a risanare persone punite perché avevano violato
la proprietà ecclesiastica. Non pecchiamo in malizia, pensando che questi episodi proclamavano una protezione divi161
na sulla proprietà della Chiesa, minacciando vendetta contro ogni usurpazione.
Nella Vita S. Medardi vari malandrini vengono puniti finché, pentiti, non ottengono il perdono dal santo89. Episodi
del genere sono il leitmotiv della Vita S. Amantii (di dubbia
attribuzione): cinque episodi narrano la punizione di ladri,
che tentano il furto nella proprietà di Amanzio90; ma anche
dopo la morte il santo interviene tre volte a ristabilire la giustizia violata91. Un episodio analogo ricorre anche nella Vita
S. Germani92.
La ricorrenza di questi episodi sembra creare una sorta
di “recinto” attorno alla proprietà ecclesiastica, che evidentemente subiva contestazioni; è ancora Gregorio di Tours a
porre sulla bocca di Chilperico parole significative in proposito: «ecce divitiae nostrae ad eclesias sunt traslatae […]»93.
5. Conclusione
All’inizio di questa rassegna si annotava la predominanza del modello ascetico. Ora però possiamo aggiungere
che il vescovo delle Vitae (e il suo successore di riflesso) si
propone come defensor civitatis, cerca spazi di libertà e di
autonomia, rivendica i propri diritti di fronte a ogni potere.
Se si supera il pregiudizio col quale è comunemente liquidata la figura di Fortunato, come “poeta di occasione”, anche
le biografie possono diventare funzionali a un progetto. In
Gallia Fortunato si affiancò a Gregorio di Tours, a Radegonda,
ai vescovi che seguivano la linea politica di Sigiberto, li
appoggiò e li difese contro ogni prepotente. Anche attraverso le Vitae, si mirava a chiedere libertà per i vescovi, esaltandone il ruolo agli occhi del popolo e dei potenti.
Si potrebbero leggere nello stesso senso anche i numerosi Carmina, nei quali Fortunato decanta le iniziative sociali, le virtù e gli onori dei vescovi: potevano essere anche
questi mezzi per perorare una causa94. Attorno al vescovo
infatti non c’era solo una folla osannante: per esempio, l’inno De Leontio episcopo tradisce la realtà di un “golpe”95.
Anche l’adventus di Gregorio a Tours è cantato dal poeta
per circondare il presule del consensus omnium; in realtà,
Gregorio era stato imposto a Tours dal re Sigiberto96.
Le referenze di Fortunato, il genere letterario ispirato ai
canoni classici, la declamazione dei Carmina, la loro iscrizione su lapidi potevano promuovere quest’ideale episcopale presso il popolo e presso i potenti, affascinati da ogni
richiamo ai fasti della classicità.
162
Le medesime referenze dell’autore, il genere letterario
più popolare, la pubblica declamazione delle Vitae ottenevano lo stesso effetto. Il poeta di Valdobbiadene aveva trovato mezzi efficaci per sostenere la causa dei vescovi,
causa che egli aveva sposato.
Note
(1) Per i Carmina [Carm.] faremo qui riferimento all’edizione italiana del
Corpus Scriptorum Ecclesiae Aquileiensis, presentata durante il convegno:
Venanzio Fortunato, Opere/1 [CSEA VIII/1], a cura di S. Di Brazzano, Roma
2001. Consideriamo tra le opere poetiche anche i quattro libri della Vita Sancti
Martini [VM]: MGH AA IV/1,293-370.
(2) B. De Gaiffier, S. Venance Fortunat, évêque de Poitiers. Le témoignages de son culte, «Analecta Bollandiana» 70 (1952), pp. 262-284. Cfr. le testimonianze raccolte dal Luchi in PL 88,52-58.
(3) Vita sancti Marcelli [V.Marc.] X.40-50: MGH AA IV/2,53-54. J. Le Goff,
Cultura clericale e tradizioni folkloristiche nella civiltà merovingia, in Tempo
della Chiesa e tempo del mercante e altri saggi sul lavoro e la cultura nel
Medioevo, a cura di J. Le Goff, Torino 1977, pp. 209-255.
(4) F.E. Consolino, Ascesi e mondanità nella Gallia tardoantica. Studi sulla figura del Vescovo nei secoli IV-VI, Napoli 1979, pp. 82-87.
(5) L. Navarra, Venanzio Fortunato: stato degli studi e proposte di ricerca, in La cultura in Italia fra tardo antico e alto medioevo, Atti del Convegno
tenuto a Roma, Consiglio Nazionale delle Ricerche, dal 12 al 16 novembre
1979, Roma 1981, II, p. 607.
(6) V. Messana, Note sulla Vita sancti Hilarii di Venanzio Fortunato,
«Augustinianum» 24 (1984), pp. 201-211.
(7) S. Pricoco, Gli scritti agiografici in prosa di Venanzio Fortunato, in
Venanzio Fortunato tra Italia e Francia…, pp. 175-193.
(8) R. Collins, Beobachtungen zu Form, Sprache und Publikum der
Prosabiographien des Venantius Fortunatus in der Hagiographie des römischen Gallien, «Zeitschrift für Kirkengeschichte» 92 (1981), pp. 16-38.
(9) VM I,42-44: MGH AA IV/1,296. Carm. VIII 1,21-22: CSEA VIII/1,422.
Paulus Diac., Historia Langobardorum II.13: MGH srl,79.
(10) R. Koebner, Venantius Fortunatus: Seine Persönlichkeit und seine
Stellung in der geistigen Kultur des Merowingerreiches (Beiträge zur
Kulturgeschicte des Mittelalters und der Reinassance 22), Leipzig-Berlin
1915, pp. 13.125. Cfr. Rosada G., Il “viaggio” di Venanzio Fortunato Ad
Turones: il tratto da Ravenna ai Breonum Loca e la strada per submontana castella, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia…, pp. 43-45. I regni merovingi erano più sicuri per gli ecclesiastici che non si assoggettavano alla linea
imperiale e romana: il vescovo Nicezio di Treviri protestò presso Giustiniano
163
per la condanna dei Tre Capitoli (Epistulae Austrasicae 7: MGH Epp. III, 118122: CCL 117, 417-418). Nel 556 papa Pelagio chiedeva a Sapaudo di Arles
e al re Childeberto I (+ 558) l’allineamento di quelle Chiese alle scelte romane sulla questione (Epist. 6; Pelagius, Epistulae quae supersunt (556-561):
PLS IV 1286-1289).
(11) J.W. George, Venantius Fortunatus. A Poet in Merovingian Gaul,
Oxford 1992, p. 24. Brennan B., The career of Venantius Fortunatus,
«Traditio» 41 (1985), pp. 49.54.
(12) Carm. VI 1 e 1a: CSEA VIII/1,328-339. Cfr. J.W. George, Venantius…,
pp.40-43. B. Brennan, The image of the Frankish kings in the poetry of
Venantius Fortunatus, «Journal of Medieval History» 10 (1984), p. 6. Cfr.
Idem, The image of the Merovingian bishop in the poetry of Venantius
Fortunatus, «Journal of Medieval History» 18 (1992), pp. 116.
(13) J. Šašel, Il viaggio di Venanzio Fortunato e la sua attività in ordine alla politica bizantina, Antichità Altoadriatiche 19, Udine 1981, pp. 359-375. M.
Rouche, Autocensure et diplomatie chez Fortunat à propos de l’élégie sur
Galeswinthe, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia…, pp. 149-160.
(14) J. Fontaine, Hagiographie et politique de Sulpice Sévère à Venance
Fortunat, in La christianisation des pays entra Loire et Rhin (IVe-VIIe siècles),
«Actes du Colloque de Nanterre 3-4 maggio 1974», «Revue d’Histoire de l’Église de France» 62 (1975) p. 139.
(15) Carm. II 1-6: CSEA VIII/1,146-159.
(16) Carm. IX 1: CSEA VIII/1,464-473: Ad Chilpericum regem quando synodus Brinnaco habita est. Analisi in J.W. George, Venantius…, 48-57. Cfr. B.
Brennan, The image of the Frankish kings, pp. 6-7. Idem, The career, pp. 7475. Idem, The image of the Merovingian bishop, pp. 137.
(17) Intervenne Eufronio di Tours, cugino e predecessore di Gregorio.
Gregorius Tur., Historia Francorum IX.40: MGM srm I/1,393.
(18) M. Reydellet, Tradition et nouveauté dans les Carmina de Fortunat,
in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia…, p. 84.
(19) Gregorius Tur., Historia Francorum IV.51: MGH srm I/1,186-187.
(20) W. Meyer, Der Gelegenheitsdichter Venantius Fortunatus,
Abhandungen der Königlichen Gesellschaft der Wissenschaften in Göttingen,
«Phil.-hist. Klasse», N.F. n. 4.5, Berlin 1901.
(21) MGH AA IV/2,1-54 (Prooemium, V-XXI). Per la Vita sancti Germani
[V.Germ.] il Krusch dispose anche una nuova edizione in MGH srm VII, pp.
372-418 (con un testo critico tanto fedele alla paleografia da risultare talora
incomprensibile).
(22) La paternità fortunatiana della Vita sancti Hilarii [V.Hil.] è oggi comunemente accettata dagli studiosi. Nei codici la Vita è sempre seguita dal
Liber de virtutibus Sancti Hilarii [Virt.Hil.], che raccoglie una serie di miracoli
accaduti attorno alla tomba di Ilario. L’attribuzione del Liber è discussa, oggi
più che in passato, quando (non senza ragione) era comune riconoscere a
Fortunato il Liber più che la Vita. Sia M.A. Luchi (Praemonitio: PL 88,437-440)
che B. Krusch (Prooemium: MGH AA IV/2.VI-VII) annotano le ipotesi di studiosi del ‘700, secondo i quali Venanzio Fortunato o un Fortunato di Vercelli
avrebbero rivisto una V.Hil., scritta da un tal Giusto, presbitero contemporaneo a Ilario, e conservata negli archivi di Poitiers. Poi Fortunato avrebbe aggiunto il II libro, raccogliendo i miracoli avvenuti presso il sepolcro. Cfr. B. De
Gaiffier, S. Venance Fortunat, pp. 262-284.
V. Messana, Note sulla Vita sancti Hilarii, p. 210, nt. 67: «Il Liber de virtutibus sancti Hilarii mi sembra semanticamente distante dalla Vita Hil., sotto l’aspetto sia linguistico che storico-contenutistico. Simile a un centone di mirabilia, più che a V.F. – ma la mia è solo un’impressione – esso farebbe pensare, per via dello stile, per es. a Gregorio di Tours». L’osservazione è pertinente, in quanto Gregorio diede grande rilievo ai miracoli occorsi presso il sepolcro dei santi; ma questo aspetto è tutt’altro che trascurato da Fortunato:
vd. Carm. VI 5: CSEA VIII/1,348-367 (elegia sulla morte di Gelesuintha); Vita
sancti Albini [V.Alb.] XX,57-58: MGH AA IV/2,32; Vita sancti Severini [V.Sev.]
6-9: MGH srm VII,222-224.
(23) Questa biografia è considerata come la prima cronologicamente;
164
pur nel locus retorico, cogliamo come significativa la titubanza dell’Autore:
«Quod cum ego meae exiguitatis conscius attingere trepidarem… incongruum esse persensi, quod a me infra doctorum vestigia latitante res alta requireretur…» (V.Alb. III-IV.6: MGH AA IV/2,28).
(24) A questo testo fa riferimento lo stesso Fortunato in un Carmen per
dedicare la Vita a Radegonda. App. Carm. XXII,15-18: CSEA VIII/1,656.
(25) Attestata da Gregorio di Tours (Gregorius Tur., Liber de gloria confessorum 44: MGH srm I/2,775: «Vita tamen huius, postquam haec scripsimus, a Fortunato presbytero conscriptam cognovimus»), era ritenuta perduta. Venne identificata da H. Quentin, La plus ancienne vie de saint Seurin de
Bordeaux, «Fs. Léonce Couture», Toulouse 1902, pp. 23-63. Cfr. W. Levison,
Prooemium: MGH srm VII,207-208.
(26) MGH AA IV/2,55-105.
(27) L. Navarra, Venanzio Fortunato: stato degli studi, p. 608. N.
Scivoletto, Commento conclusivo e proposte, in Venanzio Fortunato tra Italia
e Francia…, p. 243.
(28) Gregorio di Tours conosce questa Vita sancti Remedii [V.Rem.], ma
non ne indica l’autore (HF II.31: MGH srm I/1,93) Sorprende come il Krusch,
collaborando nel 1884 con W. Arndt all’edizione della HF, attribuisca il liber a
Fortunato («A Venantio Fortunato confectus»: n. 2) per cambiare opinione
l’anno dopo nel redigere le Opera pedestria di Fortunato.
(29) C. Deremble-Manhes, con argomenti assai convincenti, ha fissato
l’origine della Vita sancti Leobini [V.Leob.] in epoca carolingia, in un contesto
di restaurazione della vita cenobitica. Infatti l’osservanza della regola monastica percorre insistentemente il testo, con una certa diffidenza verso la gerarchia ecclesiastica («…nulli episcoporum te obsequiis obliges, quia inter
malos bonus multos invenies detractores»: V.Leob. III.8-9: MGH AA IV/2,74).
C. Deremble-Manhes, Saint Lubin, mutation d’un thème du temps carolingien
au vitrail de Chartres, in Les fonctions des saints dans le monde occidental
(III-XIII siècle), Actes du Colloque organisé par l’École Française de Rome
avec le concours de l’Université de Rome «La Sapienza», 27-29 octobre
1988, Roma 1991, pp. 295-317.
(30) Alcuni episodi ricordano quelli analoghi della Vita S. Martini e della
Vita S. Hilarii. Vita sancti Maurilii [V.Maur.] V.19-22: MGH AA IV/2,86-87; cfr. VM
III,97-120: MGH AA IV/1,333. V.Maur. XXV.127-128: MGH AA IV/2,98; cfr. VM
I,155-178: MGH AA IV/1,300-301; cfr. V.Hil. XII.41-45: MGH AA IV/2,5-6.
V.Maur. XXIII.121-123: MGH AA IV/2,97; cfr. VM III,296-325: MGH AA
IV/1,340-341.
(31) Il Krusch (MGH AA IV/2,XXV-XXVI) negò a Fortunato la paternità della Vita sancti Medardi [V.Med.] perché, dal confronto col carme De S.
Medardo (Carm. II 16: CSEA VIII/1,174-183), rilevava sproporzioni di spazio e
altre incongruenze (per esempio, durante la sepoltura del santo, in Carm. II
16,67-76: CSEA VIII/1,178 è un cieco a guarire; in V.Med. XII.30: MGH AA
IV/2,71 è un sordo). Si tende a rivedere questa posizione, notando come un
codice del sec. VII, il Codex Monacensis latinus 3514, congiunga significativamente questa Vita con il carme (… con tanto di chiusa: «Fortunatus praesbiter conposuit haec vita vel actus sancti Medardi»). Invece, la struttura, le
tematiche e lo stile della Vita Sancti Amantii [V.Aman.] lasciano qualche perplessità, ma non mancano richiami all’usus scribendi di Fortunato, come le allitterazioni, le amplificationes e i temi tipici delle altre Vitae. Colpisce soprattutto la variazione degli ultimi tre episodi, brevi, segnati da abbondanti allitterazioni e soprattutto dalla frase: «dicam iterum miraculum quod ipsa Rutena
urbe teste conspexi» (V.Aman. XIV.93: MGH AA IV/2,63).
(32) Rimando qui al successivo intervento di P. Santorelli, Le prefazioni
alle Vite in prosa di Venanzio Fortunato.
(33) S. Pricoco, Gli scritti agiografici in prosa, p. 184.
(34 V.Med. I.2: MGH AA IV/2,67.
(35) V.Alb. IV.8: MGH AA IV/2, 28. R. Collins, Beobachtungen, pp. 23-24:
rileva le innovazioni morfologiche e lessicali presenti nelle Vitae; è difficile valutare quanto queste dipendano dai copisti e quanto dalla penna di
Fortunato.
165
(36) Possono essere estese a Fortunato le osservazioni appuntate da S.
Boesch-Gajano per Gregorio di Tours: «Tre elementi mi sembrano caratterizzare la produzione agiografica di Gregorio: l’attualità degli episodi narrati…;
l’episodicità…; l’assenza di uno scopo di edificazione, nel senso di una presentazione di un modello di vita e di esempi di virtù». S. Boesch-Gajano, Il
santo nella visione storiografica di Gregorio di Tours, Atti del XII Convegno
storico internazionale dell’Accademia Tudertina sul tema «Gregorio di Tours»,
Todi 1977, p. 29.
(37) V.Marc. X.50: MGH AA IV/2,54; V.Alb. XX.59 = MGH AA IV/2,33;
V.Germ. LXXVI: MGH srm VII,418; V.Sev. 9: MGH srm VII,224; V.Aman.
XVII.100: MGH AA IV/2,64; V.Med. XV.37: MGH AA IV/2,73; V.Leob. XXVII.88
MGH AA IV/2,82; V.Maur. XXX.148: MGH AA IV/2, 101. Passio Ss. Mm.
Dionysii, Rustici et Eleutherii 33: MGH AA IV/2,105. Vd. anche V.Hil. XVI: PL
88,448; Virt.Hil. XIII: PL 88,454; V.Rem.: PL 88,532. Vita Radegundis [V.Rad.]
XXXIX: PL 88,512. Rimane esclusa solo la Vita sancti Paterni [V.Pat.].
(38) S. Pricoco, Gli scritti agiografici, p. 190 (nt. 18). Cfr. B. De Gaiffier,
La lecture des Actes des martyres dans la prière liturgique en Occident,
«Analecta Bollandiana» 72 (1954) pp. 134-166.
(39) V.Germ. VII: MGH srm VII,377. Ancora: «nec illud omittendum est
quod miraculum factum est…» (V.Med. VIII.23: MGH AA IV/2,70); «nec illud
tam fidele mysterium oblivione noxia subtrahatur…» (Virt.Hil. XI.30: MGH AA
IV/2,10); «est operae praetium illud memoriae tradere…» (V.Germ. XXIII:
MGH srm VII,386); «Illud etiam nobis est factum memorabile recensendum»
(V.Alb. XII.33: MGH AA IV/2,30); «illud etiam merito memoriae non fraudatur»
(V.Pat. XVII.17: MGH AA IV/2,37); «inseratur operi res tam digna miraculo»
(V.Rad. XXXI.73: MGH srm II,374); «inseratur huic operi illud caeleste miraculum…» (V.Leob. X.29: MGH AA IV/2,76).
(40) V.Marc. VI,23: MGH AA IV/2,51: «quod praecessit in Galilaea, successit in Gallia», cioè che l’acqua si cambiasse in vino (Gv 2,1-12). V.Marc.
X.49: MGH AA IV/2,54 dove la cacciata del drago viene comparata con un
analogo episodio riferito a papa Silvestro: Cfr. J. Le Goff, Cultura clericale, pp.
215.224-225.
(41) Virt.Hil. X.29: MGH AA IV/2.10: la paralitica guarita parla per la prima volta chiedendo il latte perché la guarigione fu per lei una rinascita.
V.Germ. XXII: MGH srm VII,385-386: il fraudolento acquirente del cavallo del
santo, trova morto il cavallo e lo trascina fuori dalla stalla – versa vice – legato per i piedi. V.Germ. LXIII: MGH srm VII,411: «melius reddit post vulnera,
quam quod natus fuerat per naturam».
(42) V.Germ. XXIII: MGH srm VII,386: «Id actum est, ut cuius incurrerat
de contemptu periculum, sentiret tactu remedium».
(43) In epoca merovingia possiamo individuare nella raccolta di episodi
(Episodenerzählung) un vero genere letterario. M. Heinzelmann, Une source
de base de la littérature hagiographique latine: le recueil de miracles, in
Hagiographie, culture et sociétés. IVe-XIIe siècles, Actes du Colloque organisé à Nanterre et à Paris. 2-5 mai 1978, a cura del Centre de Recherches sur
l’Antiquité Tardive et l’Haute Moyen Âge. Univ. de Paris X, Paris 1981, p. 243.
(44) Va però osservato che Fortunato concluse la sua prima opera (la Vita
sancti Albini) sette anni prima che Gregorio intraprendesse la sua attività
agiografica: cfr. R. Collins, Beobachtungen, pp. 16.19.
(45) Cfr. Leonardi C., I modelli dell’agiografia latina dall’epoca antica al
medioevo, in Passaggio dal mondo antico al Medioevo: da Teodosio a
Gregorio Magno, Atti del Convegno internazionale (Roma, 25-28 maggio
1977), a cura dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1980, pp. 435-476.
Cfr. Idem, L’agiografia latina dal tardantico all’altomedioevo, in La cultura in
Italia fra tardo antico e altomedioevo, Atti del Convegno tenuto a Roma, CNR
12-16 novembre 1981, p. 657. Cfr. A.M. Orselli, Modelli di santità e modelli
agiografici nell’occidente latino, «Augustinianum» 39 (1999), pp. 169-185.
(46) Cfr. The Acts of the Christian Martyrs, a cura di H. Musurillo, Oxford
1972. Acta Cypriani: CSEL 3/III, CX-CXIV.
(47) Leonardi C., I modelli dell’agiografia, p. 444. Cfr. P. Brown, Il filosofo
e il monaco: due scelte tardoantiche, in Storia di Roma. 3/1. Età tardoantica.
166
Crisi e trasformazione, a cura di A. Momigliano - A. Schiavone, Torino 1993,
pp. 882-886.
(48) M. Van Uytfanghe, La controverse biblique et patristique autour du
miracle, et ses répercussions sur l’hagiographie dans l’Antiquité tardive et
l’haut Moyen Âge latin, in Hagiographie, culture et sociétés…, p. 211.
(49) Athanasius, Vita Antonii: SCh 400, Paris 1994.
(50) Sulpicius Sev., Vita S. Martini: SCh 133 (commento a cura di J.
Fontaine, in SCh 134-135, 1968-1969). Dialogi: CSEL 1,152-216.
(51) Vita di Cipriano, Vita di Ambrogio, Vita di Agostino, a cura di A.A.R.
Bastiaensen – Chr. Mohrmann., Milano 1975, pp. 54-241.
(52) C. Leonardi, L’agiografia latina dal tardantico all’altomedioevo, p.
658.
(53) Nella Vita Ambrosii la taumaturgia ha ancora spazio, molto meno nella Vita Augustini. Cfr. L. Cracco Ruggini, Il miracolo nella cultura del tardo impero: concetto e funzione, in Hagiographie, culture et sociétés. IVe-XIIe siècles, Actes du Colloque organisé à Nanterre et à Paris. 2-5 mai 1978, a cura
del Centre de Recherches sur l’Antiquité Tardive et l’Haute Moyen Âge. Univ.
de Paris X, Paris 1981, pp. 161-204.
(54) M. Van Uytfanghe, La controverse biblique et patristique, p. 215: il
Sermo de vita sancti Honorati «traduit les réserves très nettes du monachisme rhodanien vis-à-vis de la thaumaturgie. Ici également le ton est polémique. Honorat n’avait point besoin de miracles pour être un vrai saint…: maiusque tibi gaudium erat quod merita et virtutes tuas Christus scriberet quod signa homines notarent» (Hilarius Arel., Vita S. Hon. 37,2: SCh 235,168-169).
Cfr. F.E. Consolino, Ascesi e mondanità, p. 58.
(55) A.M. Orselli, Il santo patrono cittadino: genesi e sviluppo del patrocinio del vescovo nei secoli VI e VII, in Agiografia altomedievale, a cura di S.
Boesch-Gajano, Bologna 1976, pp. 86-88.
(56) V.Pat. VI.14: MGH AA IV/2,29: «ab ipsis annis infantiae maturae vitae frena suscepit…»; V.Alb. VI.15-16: MGH AA IV/2,29: «in ieiuniorum parcitate praecipuus, in vigiliarum delectatione propensus, in orationis assiduitate
laudabilis… hoc solum habens cum homine commune quod natus est».
V.Germ. III: MGH srm VII,374: «abba ad sanctum Synphorianum merito dignus adsciditur».
V.Hil. III.8: MGH AA IV/1,2: «coniugem habens et filiam ita plenitudine
Domini venerabiles animos ecclesiasticae regulae tradidit informandos…»;
V.Marc. IV.14: MGH AA IV/2,50: «Sed cum Christo pauper iste regnavit, qui in
humilitatis conversatione, in caritatis ubertate, in castitatis lumine, in ieiuniorum pinguedine… et positus in corpore quasi nihil de carne portaret». V.Sev.
4: MGH srm VII,221: «habitans in terris amicus esset et angelis…»; V.Aman.
I.5: MGH AA IV/2,55: «fuit in vigiliis laudabilis, in ieiuniis fortis…»; V.Rem. II.4:
MGH AA IV/2,64: «studebat teneros annos morum maturitate vincere…»;
V.Med. III.8: MGH AA IV/2,68: «teneros aetates annos libratis pacientiae moribus temperaret».
Secondo R. Collins, Beobachtungen, p. 32, questo aspetto sarebbe soltanto un luogo comune, mentre Fortunato si preoccuperebbe soprattutto di
definire il vescovo, lasciando in penombra il monaco.
(57) Cfr. VM III,410-414; 430-450; 455-509: MGH AA IV/1,343-345.
(58) V.Aman. VIII.57: MGH AA IV/2,60.
(59) V.Germ. LXXV: MGH srm VII,417.
(60) V.Pat. VI.18-19: MGH AA IV/2,34. Vd. anche V.Leob. X.32: MGH AA
IV/2,76.
(61) Dopo il 313, il paganesimo persistette ancora a lungo nelle classi senatorie e nelle campagne: cfr. A.H.M. Jones, Lo sfondo sociale della lotta tra
paganesimo e cristianesimo, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel
secolo IV, a cura di A. Momigliano, Torino 19752, pp. 20-43. Nei documenti dei
Concili della Gallia si trovano diversi interventi contro le pratiche pagane:
Conc. Aurelianense A. 541, can.10: CCL 118/A, 136; Conc. Turonense A. 567,
can.18: CCL 118/A,182; can. 23 (22): CCL 118/A,191.
(62) A titolo di esempio contiamo una ventina di guarigioni di ciechi, circa 15 risurrezioni, altrettante guarigioni di mani rattrappite, una dozzina di pa-
167
ralitici risanati, una decina di febbricitanti. In circa venti episodi il santo interviene a ristabilire in salute persone punite da Dio per un’offesa al santo o alla legge divina. Poi guarigioni di muti (4), sordi (3), persone con una serie di
malattie (3), due idropici, due persone morse da serpenti, un lebbroso, un’emorroissa…
(63) V.Alb. VII.18: MGH AA IV/2,29.
(64) Medardo predice il futuro ad un compagno (V.Med. II.5-7: MGH AA
IV/2,68). Germano vanifica i tentativi di aborto della madre (V.Germ. I: MGH
srm VII,372).
(65) V.Hil. XII.43: MGH AA IV/2,6.
(66) V.Pat. X.31: MGH AA IV/2,35.
(67) V.Marc. VIII.35: MGH AA IV/2,52.
(68) Cfr. R. Collins, Beobachtungen, pp. 26-27. J. Fontaine rileva un’ascendenza martiniana nell’uso del signum crucis: J. Fontaine, Hagiographie et
politique de Sulpice Sévère à Venance Fortunat, in La christianisation des pays
entra Loire et Rhin (IVe-VIIe siècles), Actes du Colloque de Nanterre 3-4 maggio 1974, «Revue d’Histoire de l’Église de France» 62 (1975), pp. 135-136.
(69) V.Med. II.5: MGH AA IV/2,68. Cfr. VM I.50-67: MGH AA IV/1,297. Cfr
anche V.Rad. 3: MGH srm II,366.
(70) V.Pat. XV.44-45: MGH AA IV/2,36.
(71) V.Germ. XIII: MGH srm VII,382.
(72) V.Germ. XLVII: MGH srm VII,402. V.Germ. LX: MGH srm VII,409.
(73) V.Germ. XXXV: MGH srm VII,394; V.Germ. LI: MGH srm VII, 404.
(74) Concilio di Orléans: Conc. Aurelianense A. 538, can. 31 (28): CCL
118/A,125; Conc. di Mâcon: Conc. Marisconense A. 585, can. 1: CCL 118/A,
239-240; Sinodo di Auxerre: Syn. Dioc. Autissiodorensis A. 561-605, can. 16:
CCL 118/A,267. Conc. di Chalon-sur-Saône: Conc. Cabillonense A. 647-653,
can. 18 CCL 118/A, 307.
(75) Per A.M. Orselli, Il santo patrono cittadino, pp. 86-88: defensor civitatis è un ruolo coniato dalla critica moderna; però nella V.Alb. troviamo una
corrispondenza lessicale di questo attributo: in defensione civium (V.Alb.
IX.25: MGH AA IV/2,30).
(76) J. Le Goff, Cultura clericale, p. 217. V.Marc. X.40-50: MGH AA
IV/2,53-54.
(77) V.Germ. IV: MGH srm VII,375; cfr. V.Rem. V.14-15: MGH AA IV/2,6566; V.Leob. XIX.63-65: MGH AA IV/2,79. Cfr. V.Maur. X.43-46: MGH AA
IV/2,89.
(78) V.Sev. 6.8-9: MGH srm VII,222-224.
(79) Gregorius Tur., Historia Francorum VI.46: MGH srm I/1,286-287. Sul
passo, vedi bibliografia in B. Brennan, The image of the Merovingian bishop,
p. 118.
(80) Cfr. Sulpicius Sev., Dialogi II (III),4: CSEL 1,201-202. VM IV,98-157:
MGH AA IV/1,351-353.
(81) V.Alb. XII.33-35; 44-46: MGH AA IV/2,30-31; V.Aman. II.7-11: MGH
AA IV/2,55-56; V.Maur. IX.34-42: MGH AA IV/2,88-89; V.Germ. XXX: MGH srm
VII,390; LXI: MGH srm VII,409; LXXII: MGH srm VII,415.
(82) V.Germ. XXXI: MGH srm VII,391.
(83) V.Rad. 12: MGH srm II,368.
(84) V.Hil. VIII.24-30: MGH AA IV/2,4.
(85) Virt.Hil. VII.20-VIII.23: MGH AA IV/2,9-10.
(86) V.Alb. XIV.38-40 = MGH AA IV/2,31.
(87) Gregorius Tur., Historia Francorum IV.26: MGH srm I/1,160-162. Cfr.
can. 11 (10) del Concilio di Orléans del 538: «De incestis coniunctionibus…»
(CCL 148/A,118-119). Il concilio fu sottoscritto anche da Albino (ivi, p. 127).
(88) Cfr. VM III.209-246: MGH AA IV/1,337-338.
(89) V.Med. IV.11-VI.20; VIII.23: MGH AA IV/2,69-71.
(90) Il pesce rubato ai servi di Amanzio non si lascia cucinare. I falsi poveri che nottetempo rubano in chiesa rimangono accecati. L’orto del santo diventa una trappola per il ladro introdottosi. Il miele rubato diventa pece.
V.Aman. IV.26-31; V.41-VII.53: MGH AA IV/2,57-60.
(91) Blocca il cavallo di chi aveva derubato una vedova; libera un uomo
168
ingiustamente accusato di omicidio; infrange davanti al popolo i ceppi di un
altro innocente. V.Aman. IV.26-31; V.41-VII.53: MGH AA IV/2,57-60.
(92) Il santo in preghiera ottiene che un orso faccia razzia nella proprietà
ecclesiastica che un tal Cariulfo aveva occupato: V.Germ. V: MGH srm VII,376.
(93) Gregorius Tur., Historia Francorum VI.46: MGH srm I/1,286-287. Cfr.
Idem, Liber de gloria confessorum: MGH srm I/2,795.
(94) Cfr. B. Brennan, The image of the Merovingian bishop, pp. 115-139.
Idem, “Episcopae”: Bischop’s Wives Viewed in Sixth-Century Gaul, «Church
History» 54 (1985), pp. 311-323. J.W. George, Venantius Fortunatus, pp. 6779; 106-131. Cfr. anche M. Donnini, Coordinate spazio-temporali per una microagiografia vescovile negli epitaffi di Venanzio Fortunato, in Venanzio
Fortunato tra Italia e Francia…, pp. 247-258.
(95) Carm. I 16: CSEA VIII/1,132-137: «agnoscat omne saeculum / antistitem Leontium / Burdegalense praemium / dono superno redditum. /
Bilinguis ore callido crime fovebat invidum, / ferens acerbum nuntium / hunc
iam sepulchro conditum». L’inno continua contestando le sacrileghe pretese
di chi usurpa l’episcopato.
(96) Carm. V 3: CSEA VIII/1,292-295. Ad cives Turonicos de Gregorio episcopo. Cfr. Gregorius Tur., Historia Francorum V.49: MGH srm I/1, 242.
Eufronio aveva proposto come successore l’arcidiacono Riculfo che tentò di
screditare lo “straniero” Gregorio. Cfr. B. Brennan, The career, p. 70. Sulla cerimonia dell’adventus vd. P. Brown, Potere e cristianesimo nella tarda antichità, Bari 1995, pp. 18-19; 163.
169
ANTONIO V. NAZZARO
Università degli studi di Napoli “Federico II”
La Vita Martini di Sulpicio Severo e la parafrasi
esametrica di Venanzio Fortunato
Alla cara memoria
di Pasquale Gargiulo
1. Premessa
Mi corre l'obbligo di precisare che il termine parafrasi è
impiegato in questa relazione in senso tecnico a indicare un
preciso genere letterario, e nel contempo di mettere in guardia il lettore contro le due estreme e fuorvianti interpretazioni, cui il termine pure si presta; e cioè l'interpretazione riduttiva, per cui la parafrasi s'identifica con un meccanico esercizio retorico, e l'interpretazione estensiva, per cui la parafrasi finisce con il qualificare ogni tipo di testo che si sviluppa da e su un altro testo, ivi compresi commentari esegetici1 e traduzioni.2 In quest'accezione estensiva e a-tecnica la
parafrasi, come la parodia, finirebbe con il qualificare ogni
scrittura letteraria.
La parafrasi può ascriversi al terzo tipo di trascendenza
testuale, quello della metatestualità, che Genette definisce
come la relazione, più comunemente detta di «commento»,
che unisce un testo a un precedente testo, allo scopo di
chiarirlo, spiegarlo, commentarlo.3 E non c'è dubbio che
questo genere poetico nasca e si sviluppi a partire da altri
testi (biblici o agiografici), che sono presupposti necessari
per la sua intelligenza. La comprensione della parafrasi
come fenomeno metatestuale agevola l'intelligenza sia dei
singoli componimenti, sia, più in generale, di questo genere
poetico nuovo, sorto non dalla giustapposizione di due
distinte tradizioni culturali (la tradizione dell'epos grecoromano e la tradizione giudeo-cristiana dell'interpretazione
scritturistica), ma dal loro libero e fecondo interagire.
171
2. Parafrasi agiografica
Accanto alla parafrasi biblica, composta nel verso epico
di Omero e di Virgilio, ma anche – specie in àmbito bizantino – nel giambo, abbiamo la parafrasi di testi agiografici.
Per la parafrasi biblica, liquidata circa cinquant'anni fa
da E.R. Curtius come «un genere ibrido e intimamente
falso»4 e bollata, un decennio più tardi, da Ch. Mohrmann
come opera di mediocri versificatori pedanti, priva di ispirazione religiosa,5 e sul vivace dibattito sviluppatosi in quest'ultimo ventennio, specie in ordine alla definizione come
genere della parafrasi biblica e del rapporto che in essa giocano il «classico» e il «cristiano» mi permetto di rinviare al
mio contributo Poesia biblica come espressione teologica:
fra tardoantico e altomedioevo, in Bibbia e poesia in età
medievale e umanistica, a cura di F. Stella, Firenze, Edizioni
del Galluzzo, 2001, pp. 119-53. Così come per una panoramica sulla parafrasi agiografica, in lingua greca e latina,
nella tarda antichità rinvio al mio contributo apparso in
Scrivere di santi. Atti del II Convegno di studio dell'AISCA
(Napoli, 22-25 ottobre 1997), a cura di G. Luongo, Roma,
Viella, 1998, pp. 69-106.
In questa sede mi limito a qualche considerazione di
carattere generale.
L’esercizio della parafrasi poetica di testi non biblici
doveva essere assai diffuso tra il V e il VI secolo, se
Fortunato propone a Gregorio di mettere in versi la sua raccolta di miracoli martiniani6 e Gregorio a conclusione della
Historia Francorum, dopo aver enumerato le sue opere,
ancorché composte in uno stile piuttosto rustico, scongiura
i successori di non farle cancellare o riscrivere e li esorta a
lasciarle integre così come le hanno ricevute. Qualcuno dei
successori, se vorrà, potrà versificarne qualche parte, a
condizione che lasci immutata l'opera.7
Lo stretto rapporto intercorrente tra le due forme di parafrasi cristiana (la biblica e l'agiografica) è legato al rapporto
di continuità esistente tra i loro due ipotesti: la Scrittura e le
Vite dei Santi. Tale rapporto è chiaramente affermato da
Sulpicio, che nella chiusa della Vita reclamava per il suo
scritto la stessa fede che si deve alla parola di Dio e nei
Dialogi giungeva ad affermare che il non credere ai miracoli di Martino equivale a rinnegare il Vangelo.8 Nella scia di
Sulpicio ritroviamo Paolino di Périgueux, che nel proemio del
I libro del suo poema martiniano sottolinea la continuità della
sua parafrasi con l’epopea biblica (1, 1-10).
172
Non c'è dubbio che l'esempio più significativo di parafrasi esametrica di testi agiografici della tarda antichità sia
quello legato all'agiografia martiniana inaugurata da
Sulpicio Severo.
3. Agiografia martiniana
Sulpicio Severo, avvocato e scrittore di professione, ci ha
lasciato, in una prosa d'arte raffinata, che riecheggia Sallustio
e Cicerone, una biografia dell'asceta-vescovo Martino, nato a
Sabaria, capitale della Pannonia Prima nel 316 o 317 e morto
a Candes l'8 novembre 397.9 Convertitosi all'ascetismo dopo
la morte della moglie, Sulpicio decide di diventare il biografo
e il difensore dell'ancor vivo vescovo di Tours.
La Vita Martini apparve nel 397, qualche mese prima
della morte del vescovo: è cronologica fino all'episcopato,
tematica in seguito. Nel corso del 397/98 scrive tre lettere a
Eusebio, Aurelio e alla suocera Bassula, alla quale descrive
la morte edificante del vescovo e il trionfale trasferimento
delle spoglie mortali a Tours, dove furono deposte in un’umile sepoltura. Sei anni dopo la pubblicazione della Vita,
Gallo, monaco di Marmoutier, incaricato da Sulpicio di estrarre dagli atti martiniani una scelta di miracoli, raccolse a caso
una trentina di fatti meravigliosi senza preoccupazioni cronologiche o compositive e li presentò al suo committente, che li
utilizzò sotto forma di dialoghi e li scandì in tre momenti.
A differenza della Vita, i Dialogi sono animati da uno spirito di competizione (bisognava provare che l'Occidente non
aveva nulla da invidiare all'Oriente in materia di santità e di
miracoli), e da uno spirito polemico (che raggiunge i toni del
pamphlet) contro i membri del clero, che non avevano disarmato nemmeno dopo la pubblicazione della Vita.
Su Martino calò ben presto il silenzio, durato per più di
mezzo secolo nella letteratura cristiana delle Gallie: tale
silenzio è invocato dal Babut come prova del fatto che
Martino era un monaco o un vescovo qualunque, inventato
da Sulpicio Severo, che avrebbe composto la Vita come una
sorta di centone sulla versione evagriana dell'atanasiana
Vita di Antonio,10 ed è, invece, spiegato dalla Mohrmann con
una specie di damnatio memoriae, che avrebbe colpito chi
in vita ebbe molti nemici, soprattutto nel clero.11
Solo trent'anni dopo la morte, Martino ebbe sul luogo
della sepoltura – grazie al suo successore Brizio (398-442)
– un santuario, che divenne il punto di partenza di un culto
173
che crescerà sotto l'azione congiunta dell'alto clero e dei
pellegrini, ma anche dell'arte, della letteratura e dell'iconografia, motore e riflesso della devozione popolare.12
Fu, però, il vescovo Perpetuo (459-488/89), succeduto a
Eustochio (successore di Brizio), a dare un vero impulso al
culto martiniano, che contribuisse anche a promuovere i
diritti di Tours come sede metropolitana. Egli sostituì il primo
santuario con una sontuosa basilica, fatta erigere nel suburbium, la cui architettura richiamava quella delle basiliche
orientali e per la consacrazione ufficiale (4 luglio 471 o 472)
chiese a Paolino di Périgueux e a Sidonio Apollinare epigrammi che ne ornassero le pareti.13 Nello stesso tempo,
organizzò l'anno liturgico e il calendario della diocesi, inscrivendo Martino tra i santi di Tours e aggiungendo all'11
novembre, anniversario della depositio, il 4 luglio, anniversario dell'ordinazione episcopale. Perpetuo compose, inoltre, come testimone oculare, una raccolta di undici miracoli
operati da Martino dopo la sua morte. Per effetto di quest'attività di promozione, Tours, la città di Martino (Pul. Petr.
5, 295), divenne un'attrazione per i pellegrini degna di essere paragonata a Gerusalemme.
4. Agiografia martiniana e sue riscritture poetiche
L’agiografia, che, grazie soprattutto alla Vita Martini e ai
Dialogi, aveva da tempo cominciato a imporsi come principale alternativa al Testo sacro, non tarderà ad avvalersi della
poesia per raggiungere un pubblico sempre più vasto e
consentire una migliore partecipazione alla celebrazione del
santo. La funzione didattica inerisce, dunque, alla versificazione dei testi sulpiciani, compiuta, sessant'anni più tardi,
appunto sul modello delle «parafrasi» bibliche.14
Tra il 463 e il 470 Vita e Dialogi furono parafrasati nel
metro dell'epica classica da Paolino, figlio di un retore di
Périgueux, nel quadro dell'operazione di propaganda religiosa intrapresa da Perpetuo, probabilmente incoraggiato
dal successo dei Carmina Natalicia di Paolino di Nola in
onore di san Felice, e, un secolo più tardi, da Venanzio
Fortunato, su richiesta del vescovo di Tours, Gregorio, il
dedicatario del poema,15 o, più verisimilmente, su sollecitazione di Agnese e Radegonda, alle quali è indirizzata la prefazione in distici elegiaci.16
A Gregorio di Tours, che inizia l'Historia Francorum con
la creazione del mondo e la chiude significativamente con
174
Martino, si devono i quattro libri (in prosa) De uirtutibus
sancti Martini Episcopi.
Eletto vescovo di Tours, Gregorio, desideroso di continuare l'opera di Eufronio e di promuovere la città come grande centro di pellegrinaggio, si diede a raccogliere i miracoli compiuti da Martino dall'inizio del secolo, una sorta di continuazione del VI libro di Paolino. Lavorò a questo progetto
dal 573 al 591 e, successivamente, pubblicò i quattro libri.
Nel prologo del primo libro de uirtutibus egli cita come suoi
predecessori Sulpicio Severo, Paolino (che identifica con
Paolino di Nola) e Fortunato.17
A questi quattro autori (Sulpicio, Paolino, Fortunato,
Gregorio) – che per Ghiberto di Gembloux sono una sorta di
quattro evangelisti – si deve la formazione del canone definitivo intorno a S. Martino.18
4.1. Il De uita S. Martini di Paolino di Périgueux
Paolino di Périgueux, nato nei primi anni del 400 – come
è lecito desumere dal v. 20 del De uisitatione nepotuli sui
composto tra il 470 e il 473, dove il poeta fa riferimento alla
sua grauis senecta – è l'autore del poema esametrico in 6
libri De uita S. Martini, destinato forse alla pubblica lettura.
Paolino, probabilmente prete, se non addirittura vescovo di
Périgueux, è stato confuso nella tarda antichità e nel Medio
Evo con l'omonimo vescovo di Nola.19
I libri I-III (vv. 1570) e IV-V (vv. 1546) sono la parafrasi
rispettivamente della Vita Martini e dei Dialogi di Sulpicio
Severo, mentre il VI (vv. 506) è la versificazione di un opuscolo (andato perduto) di Perpetuo sui miracoli operati presso la tomba del santo. Ai miracoli di Martino sono anche
dedicati un'iscrizione di 25 esametri, De orantibus, e il citato carme De uisitatione nepotuli sui (80 esametri).
A. Huber ha avanzato l' ipotesi che Paolino si sarebbe
segnalato all'attenzione di Perpetuo con l'invio dei primi cinque libri della sua opera parafrastica e il vescovo gli avrebbe inviato, per la versificazione, il suo opuscolo (andato perduto) sui miracoli operati post mortem da Martino. Ultimata
l'opera, Paolino avrebbe inviato a Perpetuo il VI libro insieme
con una lettera, che è l'attuale prologo all'intera opera.20
Quest'ipotesi è stata persuasivamente confutata da A.H.
Chase, secondo il quale Perpetuo avrebbe inviato a Paolino
una copia della Vita sulpiciana, nella nuova revisione fatta a
Tours, con la richiesta di una parafrasi metrica; il poeta
avrebbe composto i libri I-III e forse il primo prologo come
introduzione e dedica; successivamente, qualcuno, con
175
ogni probabilità lo stesso Perpetuo, gli avrebbe inviato una
copia dei Dialogi, come il poeta spiega nel proemio del libro
IV (vv. 1-13); infine, il vescovo avrebbe inviato al poeta il suo
opuscolo sui miracoli del santo, che fornisce la materia al VI
libro.21
Con la sua opera parafrastica, definita ora translatio22, ora
transcripta oratio23, Paolino compie – grazie anche a una
robusta intertestualità classica e virgiliana24 – un'inedita operazione sul piano letterario: trasforma il racconto sulpiciano in
poema epico e contribuisce – in sintonia con le intenzioni e
le direttive di Perpetuo – allo sviluppo del culto martiniano e
alla valorizzazione della cristiana città di Tours, se è vero che
– come ha osservato Luce Pietri – il parafraste traspone l'opera sulpiciana dans une tonalité plus tourangelle.25 Paolino,
insomma, non deve più preoccuparsi di ricercare documenti e provarne l'autenticità per difendere Martino, ma deve
pensare solo a diffondere nel mondo la gloria, ormai stabilita, del santo patrono, come afferma nell’epistola in prosa a
Perpetuo che funge da prologo del poema, completando e
attualizzando l'opera sulpiciana. Il poeta aquitano mostra in
questo luogo di aver coscienza dei limiti dell’operazione
parafrastica, che, lungi dal conseguire un vero rinnovamento
del soggetto, si limita a un'amplificazione formale attraverso
l'ornatus e il poeticus color, conveniente in un'epopea e
degna di un eroe.26 Le difficoltà della versificazione di una
prosa, qual è quella del modello, sono ben presenti a Paolino
là dove teme che le costrizioni del metro possano indebolire
il senso. Il tono della riscrittura esametrica è naturalmente
diverso da quello della prosa poetica del modello: all'apologetica subentra il panegirico, alla polemica l'illustrazione.
4.2. Il De uita S. Martini di Venanzio Fortunato
Venanzio Fortunato,27 ancor prima di ricevere la richiesta
di Gregorio di versificare il suo De uirtutibus s. Martini, compose il De uita s. Martini (2243 esametri), per ringraziare il
santo per la guarigione agli occhi ottenuta per sua intercessione.28 Quest'opera privilegia i miracoli di Martino, che
dovevano soddisfare le esigenze dei contemporanei più che
le vicende della vita del santo, ampiamente note.
Fortunato riscrive nel metro di Virgilio in gran fretta (cursim) e con scarsa cura in mezzo a futili occupazioni (impolite inter friuulas occupationes sulcarem) la sulpiciana Vita
Martini nei primi due libri (il primo libro fino al cap. 18 e il
secondo dal cap. 19 alla fine) e i Dialogi negli ultimi due,
con ogni probabilità nel 575, dall'inizio dell'anno fino al
176
tempo della mietitura, come egli stesso dichiara nell'epistola dedicatoria a Gregorio.29
Il dossier martiniano utilizzato – non sappiamo se letto a
Ravenna, ad Aquileia o a Poitiers – si limita alla Vita e ai
Dialogi II e III, vale a dire al racconto di Gallo. Quanto alle
Epistulae, è dubbio che le abbia lette; non si sarebbe altrimenti lasciato sfuggire l'occasione di parafrasare la morte
edificante del santo.
Anche nella produzione poetica di Fortunato (nei
Carmina come nella Vita) è operante la presenza della poesia classica, e in particolare virgiliana.30
5. Contenuto del poema venanziano
Nella scia di Sulpicio, che dedica l'opera a Desiderio,
Paolino e Fortunato dedicano le loro riscritture rispettivamente a Perpetuo e a Gregorio, vescovi di Tours.
La biografia sulpiciana si apre con un proemio (cap. 1),
nel quale lo scrittore giustifica la necessità della sua opera
agiografica e si conclude – dopo la topica professione di
modestia – con l'appello al lettore a prestar fede al suo racconto. Il prologo sulpiciano, che non ha riscontro in Paolino,
è sostituito da Fortunato con un prologo in 21 distici elegiaci
indirizzato ad Agnese e Radegonda, che esordisce con la
metafora del nauta rudis, costretto ad affrontare una pericolosa navigazione31, e termina con la richiesta di intercessione
delle due donne, perché Martino assecondi con i suoi soffi le
sue vele (v. 36 flatibus ille suis ut mea uela iuuet) e a Cristo
di donargli la parola poetica (39 et de Verbo poscite uerba).
Paolino apre il suo libro con un proemio di dieci versi, nei
quali presenta Martino come l'apostolo della Gallia (1, 1-10).
Più ampio e complesso il proemio di Fortunato, che, dopo
aver evocato la discesa di Cristo agli Inferi e l'ascensione al
cielo con le anime liberate, integrando così la vicenda di
Martino nella storia della salvezza, si preoccupa di definire
la sua collocazione nella tradizione poetica cristiana:
Quae conuersatus dedit ad miracula terris
multa, euangelici reserante uolumine libri,
hebraicus cecinit stilus, atticus atque latinus,
prosaico digesta situ, commune rotatu.
Primus enim, docili distinguens ordine carmen,
maiestatis opus metri canit arte Iuuencus.
Hinc quoque conspicui radiauit lingua Seduli
paucaque perstrinxit florente Orientius ore
martyribusque piis sacra haec donaria mittens,
177
prudens prudenter Prudentius immolat actus.
Stemmate, corde, fide pollens Paulinus et arte
uersibus explicuit Martini dogma magistri.
Sortis apostolicae quae gesta uocantur et actus,
facundo eloquio sulcauit uates Arator.
Quod sacra explicuit serie genealogus olim,
Alcimus egregio digessit acumine praesul32.
Fortunato – che rivendica le sue origini italiane (1, 26
Italae quota portio linguae) – si presenta come l’erede, non
solo di Orienzio e Prudenzio (autore del Peristephanon), ma
anche, e soprattutto, di parafrasti dell'AT (Avito), dei Vangeli
(Giovenco33 e Sedulio), degli Atti degli Apostoli (Aratore),
nonché del suo immediato predecessore, Paolino, che
hanno cantato i tanti prodigi operati da Cristo nella sua vita
terrena e narrati nelle lingue ebraica, greca e latina in prosa.
Nella scia di Aratore, Fortunato, al pari di Paolino, scegliendo come eroe non Cristo, ma il suo discepolo, Martino,
si muove con una maggiore libertà nell'atto della creazione
poetica.
La convenzionale professione di modestia (vv. 26-35) –
che ci informa sulla istruzione liberale compiuta a Ravenna
– si chiude con versi, che riflettono la compiaciuta aspirazione a collegarsi e a continuare una così benemerita ed
elevata tradizione poetica:
Scilicet inter tot sanctorum culmina uatum,
flumina doctorum et gemmantia prata loquentum,
nullo flore uirens, ego tendam texere sertam,
mellis et inrigui haec austera absinthia miscam?34
Nonostante la dichiarata povertà linguistica e poetica,
Fortunato è costretto a sciogliere con quest'opera il suo voto
di gratitudine al Santo, che gli ha guarito una perniciosa
malattia agli occhi (1, 40-44).
Inizia a questo punto la parafrasi della narratio sulpiciana, che Venanzio, nella scia di Aratore, scompone – in
omaggio alla tendenza ellenistica alla miniaturizzazione – in
una ottantina di medaglioni, la cui estensione varia dai 2 agli
80 versi35. Li passo rapidamente in rassegna, con la dovuta
attenzione all'ipotesto (Sulp. Mart. o dial.) e alla riscrittura
del predecessore Paolino di Périgueux.
5.1. Sulpicio dedica quattro brevi paragrafi (Vita 2, 1-4)
alle origini e all'infanzia di Martino, trattato come un personaggio storico, accennando al paganesimo dei genitori che
erano di rango non umile (non infimis) e fornendo precise
indicazioni topografiche (la città natale Sabaria in Pannonia
178
e la città di Pavia in Italia, dove è stato educato) e cronologiche (Costanzo e Giuliano). Paolino (1, 11-23), omettendo
le indicazioni cronologiche, fa di Martino un personaggio
della Gallia anche del suo tempo. Il parafraste aquitano sottolinea la diversa nobiltà di Martino rispetto al padre attraverso un elaborato ossimoro (bene degener). Nei cinque
versi dedicati all'ipotesto sulpiciano (1, 45-49) Fortunato
passa sotto silenzio la fede pagana dei genitori per non
sporcare l'immagine del santo e introduce il lettore al suo
racconto:
Ergone dignus ero Martini gesta beati,
Pannoniae geniti qua clara Sabaria uernat,
adtrectare manu trepida uel pangere lingua?
Non eget ille meis tenebris, quia luce coruscans,
Gallica celsa pharus, fulgorem extendit ad Indos.36
Al prosaico verbo scribere impiegato da Sulpicio (1, 7
uitam scribere) Fortunato sostituisce pangere, un verbo
poetico fortemente connotato sul piano della sacralità, che
significa “celebrare” e comporta l'idea di perennità. Il nesso
pangere lingua è lo stesso con il quale Fortunato apre l'inno
in onore della santa croce (Pange lingua). Fortunato vuole
cantare i Martini gesta: con il termine gesta, che esprime il
tono laudativo ed epico del poema, il poeta si situa nella
linea di Giovenco (praef. 19 Christi uitalia gesta) e di Ilario
(Hymn. 1, 71); peraltro, poco prima Fortunato aveva presentato la sua opera come un'epopea agiografica e un panegirico (1, 43 huius pontificis solui praeconia uerbis).
Sulpicio giustifica il servizio militare prestato da Martino
per più di ventiquattro anni (dal 331/32 al 356), con il carattere ereditario dell'arruolamento dei figli dei veterani; tale
arruolamento avrebbe interrotto l'evoluzione spirituale del
giovane, che, all'età di dodici anni, aspirava al catecumenato e, all'età di quindici, alla vita nel deserto (Vita 2, 5-8).
Alla giustificazione sulpiciana Paolino (1, 24-53) aggiunge
un'energica uituperatio del padre e, invertendo l'ordine cronologico dell'ipotesto, presenta Martino come miles Christi
prima ancora di essere soldato del mondo. Fortunato omette la menzione dell'arruolamento di Martino, sia perché ritiene noto l'episodio, sia perché non avverte l'esigenza di
difendere davanti all'opinione gallo-romana un personaggio
compromesso dalla carriera militare.
Sulp. Vita 3 (divisione del mantello, apparizione di Cristo
e battesimo) è parafrasato con ampiezza da Paolino (1, 54139), che rispetta l'ordo narrationis dell'ipotesto e, in termini
179
essenziali, da Fortunato (1, 50-67), che senza accennare
alla condizione di soltato di Martino e al suo battesimo,
descrive il paesaggio ricoperto dal gelo e si sofferma con
variazioni sulla veste (vv. 50-67)37.
Martino rifiuta il donativo per i servizi di guerra, scatenando l'ira di Giuliano, e affronta senza armi il nemico, che
chiede la pace (Sulp. Vita 4). Il dettagliato racconto di
Sulpicio è parafrasato in trentanove versi da Paolino (1, 14078), che drammatizza la narratio con l'impiego dell'oratio
recta e delle interrogationes e la epicizza con reminiscenze
virgiliane38, ed è, invece, abbreviato in soli dieci versi da
Fortunato (1, 68-77), che riduce l'azione a un semplice
gesto: il santo in preghiera.
I primi tre paragrafi del cap. 5 della Vita, parafrasati da
Paolino (1, 179-90), sono omessi da Fortunato.
Martino converte un brigante sulle Alpi (Sulp. Vita 5, 4-6).
Fortunato (1, 78-87) abbrevia la riscrittura paoliniana (1,
191-212), con la quale pure esibisce interessanti punti di
contatto, specie nell'impiego di antitesi e nell'uso del paradosso. Nella pericope venanziana, che si conclude con due
esametri trimembri (86-87 Seruantur simul, ille fide, hic corpore uiuens./Ambo ualent, dum nemo cadit. Sic uicit uterque) spicca l'interessante gioco paronomastico
praedo/praeda (v. 84 atque suus praedo Martini praeda fit
ultro) – probabilmente mutuato da Aratore (2, 1164 Praedo
uenis sed praeda iaces) – che sottolinea l'inversione dei
ruoli.
Martino, tentato dal diavolo apparsogli in sembianze
umane nelle vicinanze di Milano, lo mette in fuga (Sulp. Vita
6, 1-2). Fortunato (1, 88-103) segue da vicino sia l'ipotesto
sulpiciano, sia la parafrasi in un numero quasi pari di versi
del suo predecessore (1, 213-27), dal quale mutua il complesso gioco paronomastico del trimembre verso 99 Ne
timeam timidum, timor est deus, arma timentum (~ Paul. 1,
225-26 metuens Dominum, contemno periclum/ ne timeam,
timor ille facit)39. Efficace è, altresì, il Wortspiel umbra/obumbrat al v. 103 Sic umbra fugit quem Christus obumbrat, che
punta sull'ambivalenza di umbra (la nociva ombra del diavolo contrapposta all'ombra protettrice di Cristo)40.
L'accenno sulpiciano alla conversione della madre e al
persistente paganesimo del padre (Vita 6, 3) è sviluppato in
dieci versi da Paolino (1, 228-37) e in appena quattro versi
da Fortunato (1, 104-107), che tace del padre. Il paradosso
della madre partorita dal figlio, coniato a conclusione dell'episodio da Paolino, attento a sottolineare il valore teologico
180
del passo41, è portato all'estremo da Fortunato, che lo sostituisce alla narrazione.42
Sulp. Vita 6, 4 e 7 (che parla della lotta di Martino contro
gli ariani, diffusi soprattutto nell'Illiria, ma anche in Gallia,
dopo l'allontanamento di Ilario, e del suo eremitaggio a
Milano, da cui è cacciato da Aussenzio) è parafrasato da
Paolino (1, 238- 59) e da Fortunato (1, 123-48). La retractatio venanziana è un vero e proprio elogio di Ilario, che è
anche un omaggio a Poitiers dove il poeta visse dal 567,
costruito con un'interessante enumeratio: il poeta italiano
passa dal ritmo ternario del v. 126, dove il vescovo è chiamato bucina, tuba e praeco, al ritmo binario e quaternario,
dove come termini di confronto sono introdotti l'elettro e l'oro
e i fiumi Po, Rodano, Nilo, Danubio (con allusione ai quattro
fiumi del Paradiso e ai 4 Vangeli). Nell'elogio Fortunato ricorre a un copioso impiego di termini della luce e delle pietre
preziose, mostrando la sua preferenza per quello che
Roberts definisce «jeweled Style»43: le parole si valorizzano
le une con le altre grazie a un “montaggio” che si avvicina al
procedimento degli orafi, che mettono insieme e decorano
l'una con l'altra le pietre di un gioiello. L'effetto estetico prodotto dal parallelismo e dall'antitesi trova significativi riscontri nell'arte dell'orefice.
Del racconto sulpiciano (Vita 6, 5-6) del volontario esilio
insieme con un prete nell’isola Gallinaria, dove con la preghiera sfugge alla morte per avvelenamento provocato dal
consumo di elleboro, Paolino sviluppa in venticinque esametri il motivo della vittoria della preghiera sul veleno della
pianta con considerazioni sulle virtù della medicina (1, 26084), mentre Fortunato dedica allo stesso motivo solo sei esametri (1, 149-154); anche in questo caso l'essenziale retractatio venanziana si conclude con un paradosso (et uiuente
uiro intra se sua mortua mors est).
Alla fondazione di un asceterio a 8 Km a sud di Poitiers
(attuale Abbazia di Ligugé) (Sulp. Vita 6, 7 - 7, 1) Fortunato
dedica solo quattro versi (1, 155-58) contro i tredici di
Paolino (1, 285-97), che a questo punto inserisce una richiesta di ispirazione, sviluppando una critica alle Muse e ad
Apollo, e conclude con una professione di modestia affettata, che serve a sottolineare la distanza tra l'autore e il lettore, al quale impone il rispetto per il protagonista del suo risibile canto (1, 298-316).
Al racconto della resurrezione di un catecumeno (Vita 7,
2-7) Paolino dedica un'ampia riscrittura nella quale insiste
sull'utilità del miracolo (1, 317-65), che è più del doppio di
181
quella di Fortunato (1, 159-78), tramata da antitesi e paradossi e marcata da una sorprendente sententia paradossale Ipse iterum post se uiuens, idem auctor et heres (176),
ricalcata su Sedul. 4, 290 Ipse sibi moriens et postumus
extat et haeres.44
L'episodio della resurrezione dello schiavo di Lupicino
(Sulp. Vita 8) è riscritto in un numero quasi pari di versi dai
due parafrasti, Paolino (1, 366-86), che si sofferma sull'importanza sociale di Lupicino, e Fortunato (1, 179-201).
Il resoconto dell'elezione di Martino a vescovo di Tours –
osteggiato dal vescovo Defensor45 – che occupa l'intero
capitolo 9 della Vita sulpiciana è concisamente parafrasato
da Fortunato in diciotto versi (1, 202-19) contro i sessantanove versi, che Paolino (2, 15-83) dedica all'episodio, con il
quale egli – dopo un proemio di 14 versi incentrato sulla
metafora della scrittura come navigazione46 – apre il secondo libro.
La fondazione di un asceterio (la futura Abbazia di
Marmoutier) sulla riva destra della Loira a due miglia a est
di Tours, a una distanza che consentiva a Martino di coniugare i doveri episcopali con gli ideali ascetici, in un paesaggio appartato che Sulpicio descrive alla stregua del
deserto dell'Alta Tebaide, e la vita che ivi conducevano
circa ottanta monaci, dediti alla preghiera e alla copiatura di
libri (Sulp. Vita 10), sono inspiegabilmente linquidate da
Fortunato in tre versi (1, 220-22); mentre il suo predecessore non s'era lasciata sfuggire l'occasione di sviluppare l'ipotesto (2, 84-155).
Al racconto del falso martire smascherato da Martino,
che pone così fine al suo culto (Sulp. Vita 11), Paolino dedica una parafrasi, drammatizzata dall'impiego del discorso
diretto, che è cinque volte superiore (2, 156-221) a quella
essenziale, e, per ciò stesso, più efficace, di Fortunato (vv.
220-234).
Con il segno della croce Martino immobilizza un funerale pagano e con lo stesso segno lo rimette in marcia (Sulp.
Vita 12): Paolino (2, 222-50) e Fortunato (1, 235-248) utilizzano entrambi le antitesi presenti nell'ipotesto. La scena
paoliniana termina con una sententia paradossale dal forte
spessore soteriologico (v. 250 ius habuit uincire uagos, dissoluere uinctos); in Fortunato è da registrare un'interessante
personificazione del segno della croce.
Un pino abbattuto cade – per effetto del segno di croce
e contro ogni legge di natura – dalla parte opposta, salvando Martino e convertendo i pagani (Sulp. Vita 13). L'episodio
182
è riscritto da Paolino in un numero di versi quasi triplo (2,
251-334) rispetto a quello di Fortunato (1, 249-279), che
conclude con una sententia monostica Maiorem generans
fructum cum decidit arbor. Fortunato riprende più di un termine e di una movenza stilistica da Paolino, che impreziosisce la riscrittura con reminiscenze virgiliane (Aen. 2, 627-31
e 6, 282) e con un'apostrofe a Martino relativa a questa sorta
di giudizio divino e alla clemens uictoria che ha trasformato
i pagani in fratelli.
Martino con la preghiera allontana le fiamme appiccatesi a una casa (Sulp. Vita 14, 1-2): entrambe le riscritture
metriche ruotano intorno al paradosso dei venti messi in
fuga dalle fiamme, sviluppato con consimili immagini (Paul.
2, 335-60 ~ Ven. Fort. 1, 280-98).47
L'episodio della distruzione del tempio pagano a
Levroux grazie all'intervento degli angeli, sollecitato dalle
preghiere e dalla penitenza di Martino (Sulp. Vita 14, 3-7), è
amplificato da Paolino (2, 361-429) in un numero quasi triplo
di versi rispetto a Fortunato (1, 299-324), che vivacizza la
narratio con un discorso diretto di undici versi rivolto dai due
angeli della milizia divina al vescovo.
Durante l'operazione di abbattimento di un tempio, un
pagano, mentre sta per colpire Martino con la spada, perde
l'equilibrio e cade (Sulp. Vita 15, 1-2): Paolino, attribuendo la
caduta dell'aggressore a una sorta di intervento soprannaturale che ha paralizzato la sua mano, sviluppa un'amplificazione barocca movimentata dal susseguirsi di brevi interrogationes (2, 430-67); Fortunato (1, 325-44), mantenendosi
più aderente all'ipotesto sulpiciano, conclude il suo medaglione con una sententia monostica moraleggiante, giocata
sull'antitetica sorte toccata all'inops e al superbus (344 Dum
uice diuersa stat inops, ruit ille superbus).
Martino si salva, grazie al fatto che il coltello, sfuggendo
dalla mano dell'assassino, si perde nell'aria (Sulp. Vita 15, 34): in un numero pari di versi l'episodio è riscritto da Paolino
(2, 468-75) e da Fortunato (1, 345-353), che conclude anche
questo medaglione con una sententia monostica di carattere moraleggiante (353 Inuita haec pietas quae perdidit unde
noceret). Sul piano retorico-formale va segnalato l'olodattilico verso 347 dum rapit eripitur rapienda rapina rapaci, la cui
efficacia deriva dalla figura etymologica e dall'incessante
succedersi della sillaba allitterante /ra/.
Il cap. 15 della Vita sulpiciana, che si conclude con il
paradossale atteggiamento dei pagani cooperanti alla
distruzione dei loro templi, è parafrasato in quattro versi da
183
Paolino (2, 476-79), che sviluppa il concetto della blanda
azione esercitata dal vescovo sui duri cuori dei pagani e
contrappone alla vecchia notte del peccato la luce della
dottrina, e in sette versi da Fortunato (1, 354-60), che recupera il paradosso sulpiciano dei contadini che abbattono i
loro templi.
La guarigione della giovane paralitica di Treviri, che
occupa tutto il cap. 16 della Vita, è riscritta in cinquantanove versi da Paolino (2, 480-538) e in sessantotto versi da
Fortunato (1, 361-428), che ripristina l'oratio recta del
modello.
L'episodio della guarigione dello schiavo di Tetradio
(Sulp. Vita 17, 1-4) è parafrasato da Paolino in trentaquattro
versi, di cui i primi cinque costituiscono una sorta di transizione (2, 539-72) e da Fortunato in ventuno versi (1, 429449): entrambi i pafrasti giocano sulla doppia salvezza del
padrone convertito, il cui nome è omesso da Paolino, e del
suo schiavo liberato dal demonio.
Martino libera un cuoco dal demonio, che è evacuato
con un flusso del ventre (Sulp. Vita 17, 5-7): Paolino (2, 573601) e Fortunato (1, 450-471) riscrivono l'episodio in una
maniera molto simile per numero di versi, immagini e lessico (Paul. 2, 586-87 Diffugiunt trepidi nec quisquam obsistere contra/audet ~ Ven. Fort. 1, 455 Terga dabant socii nec
quisquam ire obuius audet). Fortunato fa registrare i
seguenti scarti rispetto al predecessore: il gioco etimologico
sul nome di Martino (458 Martius ergo calybs, Martinus belliger armis), che allude alla sua professione militare; la ripresa dall'ipotesto dell'apostrofe di Martino al demonio; la riflessione finale, sotto forma di esclamazione, sulla via di fuga
del demonio (471 Tale iter arreptum sic te decet ire, uiator).
Martino costringe un indemoniato a confessare che la
diceria di una prossima invasione barbarica è opera di dieci
demoni (Sulp. Vita 18, 1-2): l'episodio è parafrasato in un
numero pari di versi dai due parafrasti (Paul. 2, 602-16 ~
Ven. Fort. 1, 472-486).
La guarigione di un lebbroso (Sulp. Vita 18, 3) è parafrasata in diciotto versi da Paolino (2, 619- 36), che per la transizione da un episodio all'altro utilizza il topos della modestia affettata (617-18 Iam uero ut tantae pietatis gesta
retexam,/ nec mens sufficiet sterilis nec pagina uilis) e in
quattordici versi da Fortunato (1, 487-500), che gioca sul
paradosso del lebbroso divenuto estraneo a se stesso e
descrive le sue sofferenze attraverso un'interessante enumeratio, nella quale per undici volte ricorre il costrutto di un
184
aggettivo al nominativo con un sostantivo all'ablativo48. A differenza di Paolino, Fortunato elimina dalla scena i testimoni
che assistono al miracolo e che hanno la funzione di divulgarne la conoscenza.
A conclusione della guarigione del lebbroso, Venanzio,
nella scia di Paolino (2, 637-49), sviluppa delle riflessioni
sotto forma di esclamazioni, sul potere di Martino che con
un gesto di pace mette fine agli assalti della malattia (1, 501504) e sulla sua fede che rende bello ciò che è ripugnante
(1, 506 foedere fida fides formosat foeda fidelis: si noti il
gioco di parola incentrato sull'antitesi tra formosat e foeda e
l’allitterazione in /f/ che caratterizza il verso). Segue l’enumeratio dei luoghi, che hanno avuto la fortuna di fruire del
suo passaggio, del suo sguardo e delle sue mani (505-10).
Il libro si conclude con l'ingegnoso accostamento simbolico tra la saliva del bacio di Martino e l'acqua del
Giordano.
5.2. Il II libro si apre con un breve proemio (vv. 1-10),
consistente nella ripresa della metafora nautica: l'alleggerimento del peso dell'imbarcazione, esplicitamente ricondotto al completamento del primo libro, rende più lieve il compito del poeta-nauta, che invoca lo Spiritus alteuolans, perché gonfi le vele della sua ispirazione con una brezza favorevole e conceda una felice navigazione alla nave che trasporta un prezioso carico, Martino49.
Segue la parafrasi delle virtù taumaturgiche di Martino:
al potere miracoloso delle frange del vestito del Santo (Sulp.
Vita 18, 4) i due parafrasti dedicano rispettivamente tre
(Paul. 2, 650-52) e otto versi (Ven. Fort. 2, 11-18); alla guarigione della figlia di Arborio mediante l'applicazione sul petto
di una lettera del Santo (Sulp. Vita 19, 1-2) Paolino (2, 65389) dedica un numero di versi quasi doppio rispetto a
Fortunato (2, 19-37), che offre un saggio del suo virtuosismo
nel trasformare la nube che protesse Mosè dal tizzone
ardente (Ex 24, 15) e gli Ebrei dall'eccessivo calore del
deserto (Ex 13, 217) nella rugiada trasudante dalla lettera di
Martino, che estingue la fiamma della febbre quartana; alla
guarigione dell'occhio di Paolino di Nola (Sulp. Vita 19, 3)
Paolino (2, 690-702) dedica tredici versi, i cui ultimi tre sono
una preghiera a Martino per ottenere un consimile beneficio,
mentre Fortunato dedica sei versi (2, 38-43).
Alla guarigione di Martino a opera di un angelo (Sulp.
Vita 19, 4) Paolino dedica ventiquattro versi (2, 703-26) contro i quattordici di Fortunato (2, 44-57).
185
Alla partecipazione di Martino al banchetto offerto in suo
onore dall'usurpatore Massimo (Sulp. Vita 20) Paolino, dopo
il proemio al terzo libro in otto versi, nel quale fa professione
di modestia (il suo flauto è indegno di cantare la gloria di
Martino), dedica più del doppio dei versi (3, 9-143) di
Fortunato (2, 58-121): entrambi i pafrasti sviluppano l'ipotesto con ekphraseis e amplificazioni poetiche. Degna di nota
è la lunga enumeratio di paesi, venti e fiumi che ritroviamo
in Fortunato (vv.72-79); il catalogo geografico, di ascendenza alessandrina, utilizzato da Sidonio Apollinare, consente
di inserire nomi esotici dal forte impatto evocativo50.
Un numero quasi pari di versi Paolino (3,144-51) e
Fortunato (2,122-31) dedicano alla conversazione di Martino
con gli angeli (Sulp. Mart. 21,1).
Il racconto del diavolo, che si vanta dell’uccisione di un
carrettiere (Sulp. Vita 21,2-5), è riscritto in cinquantadue
versi da Paolino (3,152-203) e in trenta versi da Fortunato (2,
132-161)51.
Ai travestimenti del diavolo (Sulp. Vita 22,1-2) Paolino
dedica ventiquattro versi con una critica degli dei pagani (3,
204-27) contro i diciassette di Fortunato (2,162-178).
Le provocazioni del diavolo sulla presenza a Marmoutier
di milites convertiti e altri peccatori (Sulp. Vita 22, 3-6) sono
sviluppate dai due parafrasti in un numero quasi uguale di
versi e con l'impiego di interrogationes e sententiae (Paul. 3,
228-59 ~ Ven. Fort. 2,179-221).
Il racconto dello smascheramento del falso profeta
Anatolio (Sulp. Vita 23) è parafrasato da Paolino (3, 260-362)
in un numero quasi doppio di versi rispetto a Fortunato (2,
222-277).
Entrambi i parafrasti, omesso il racconto dei falsi profeti
in Spagna e in Oriente (Sulp. Vita 24, 1-3), riscrivono l'episodio della falsa parusia di Satana (4-8) in un numero di
versi, che, in questo caso, vede Fortunato (2,278-357) superare Paolino (3, 363-410). La riscrittura di Paolino è tramata
da interrogationes e da un'apostrofe al diavolo che assume
l'andamento di una uituperatio, là dove la più ampia parafrasi di Fortunato contiene l'amplificatio in oratio recta del
botta e risposta tra il Santo e il diavolo.
Il racconto della visita di Sulpicio a Martino e dell'accoglienza riservatagli dal santo, che gli propone come esempio Paolino di Nola (Sulp. Vita 25,1-5), è omesso da Paolino
e fedelmente riscritto da Fortunato (2, 358-390)52.
L'esposizione sulpiciana delle qualità intellettuali, morali
e religiose di Martino (Vita 25, 6 - 27, 5) sono riscritte in qua186
rantotto versi da Paolino (3, 411-58) e in cinquantaquattro
versi da Fortunato (2, 391-445), che si sofferma sulla dolcezza del carattere e soavità dell'eloquio e sul suo amore
totalizzante per Cristo53.
La conclusione sulpiciana (Vita 27, 6-7), omessa da
Paolino, è sostituita da Fortunato con la descrizione della
militia celeste e del trionfo di Martino in cielo (2, 446-467),
che spiritualizza la figura del santo sulla cui milizia terrena il
poeta italiano sorvola.
Il libro termina con una interessante, ancorché tradizionale, professione di modestia:
Cuius prosaicus cecinit prius acta Seuerus,
uersibus intonuit Paulinus deinde beatus,
aequiperare ualens inlustris uterque relator
materie uicti sed et ipsi carmine cedunt .
Luminibus tantis ego nubilus inseror audax,
e minimis minimus, de magno maxima temptans,
qui pede subtitubo, balbutio faucis anhelo,
et, rudis eloquio, carpo quod condere certor54
e con una preghiera a Martino, affinché lo perdoni di averlo
celebrato con la colpevole lingua (v. 476 Da ueniam, quia te
cecinit rea lingua relatu55) e nel giorno del giudizio interceda
in suo favore presso il Signore (2, 477-490).
Già in Paolino di Nola il topos dell'oratore timoroso di non
essere all'altezza del suo soggetto si trasforma in quello dell'autore che si riconosce peccatore. Solo il sentimento di
umiltà rende il poeta cristiano degno della grazia e dell'ispirazione divina. Nella creazione poetica ispirata la misteriosa
collaborazione della grazia divina si coniuga con la libertà
umana dell'artista. Il poeta-peccatore, che osa parlare delle
cose celesti grazie al dono di Cristo, si situa agli antipodi del
poeta classico che ricorre invano alle Muse e al sordo
Apollo.56
5.3. La metafora della navigazione ritorna variata e arricchita all'inizio del III libro (vv. 1-23), che è in effetti un nuovo
inizio. Dopo le difficoltà affrontate nella stesura dei primi due
libri, il poeta è atteso da un impegno maggiore, che è quello di parafrasare il racconto del monaco Gallo, protagonista
dei Dialogi di Sulpicio Severo. Fortunato, riservandosi il più
modesto ruolo di spettatore che durante la navigazione
canta le gesta del santo, assegna a Gallo, a Martino e a
Cristo il compito di condurre felicemente in porto l'imbarcazione:
187
Remiget hic Gallus, Martinus uela gubernet,
flamina Christus agat portum quibus unda reducat.
Nunc quoque gesta sacri, dum nauigo, nauta loquatur57.
Improntate a non minore manierismo sono le lambiccate
metafore che tramano la praefatio di Paolino al IV libro (120): il parafraste, accingendosi alla riscrittura dei Dialogi,
nell'ambito della modestia affettata giustifica il suo progetto
poetico con la pigrizia dei lettori, ai quali offre l'acqua torbida (turbida pocula) della sua parafrasi in vece dell'acqua
viva e fresca (frigus) dell'opera di Sulpicio; e per risparmiare loro un viaggio lungo e faticoso consiglia di fermarsi nel
frutectum del suo commentario invece di entrare nel nemus
sulpiciano.
Martino, ricoperto un povero infreddolito con la sua tunica, celebra la messa, durante la quale un globo di fuoco
appare sulla sua testa (Sulp. dial. II 1-2,1-2): mentre nella
parafrasi dell'episodio Paolino (4, 21-95) impiega settantacinque versi – marcati da una serie di interrogazioni retoriche – e conclude con l'esortazione a Martino a proseguire
nelle sue azioni miracolose, Fortunato (3, 24-73) impiega
cinquanta versi, nei quali si sofferma sul paesaggio stretto
nella morsa del ghiaccio e conclude con l'apostrofe al diues
pauper.
La guarigione di Evanzio e dello schiavo morso da un
serpente (Sulp. dial. II 2, 3-7) è riscritta in un numero quasi
uguale di versi da Paolino (4, 96-149) e da Fortunato (3, 74
-120), che si mantiene più fedele all'ipotesto specie nella
descrizione della piaga e della fuoriuscita del veleno.
Il drammatico episodio del pestaggio subito da Martino
a opera dei soldati di scorta al carro del fisco e del prodigioso irrigidirsi delle mule che si rifiutano di avanzare (Sulp.
dial. II 3) è riscritto da Paolino (4, 150-244) in un numero di
versi quasi triplo rispetto a Fortunato (3, 121-52), che dipende in qualche punto dal suo predecessore.
La dichiarazione di Sulpicio (dial. 2, 4, 1-3) – secondo
cui prima dell'episcopato la uirtus di Martino era superiore –
è omessa sia da Paolino (4, 245-53), che a questo punto
inserisce un'invocazione a Martino (mea Musa)58 e contrappone due fonti di ispirazione: le acque della fonte Castalia e
quelle battesimali del Giordano59, sia da Fortunato. Tale
omissione si spiega ovviamente con l'intento dei due agiografi di non attentare alla reputazione del vescovo.
Martino evangelizza una folla di pagani e risuscita un
bambino presso Chartres (Sulp. dial. II 4, 4-9): la riscrittura
di Paolino (4, 254-91), che assume nel finale una coloritura
188
ecclesiologica, è per estensione inferiore a quella di
Fortunato (3, 153- 208), che amplifica l'ipotesto con l'aggiunta dell'interessante metafora di Martino, agricola spiritalis.
L'episodio dell'incontro di Martino con l'imperatore
Valentiniano (Sulp. dial. II 5, 5-10) è parafrasato in cinquantatré versi da Paolino (4, 292- 344) e in trentotto versi da
Fortunato (3, 209-46).
L'episodio di Martino alla corte di Massimo (Sulp. dial. II
6-7) è riscritto da Paolino (4, 345-418) in un numero di versi
più che triplo rispetto a Fortunato (3, 247-268): entrambi i
parafrasti sfumano la connotazione biblica – presente nell'ipotesto – della moglie di Massimo, che ricorda la sposa di
Salomone e serve Martino come Marta e lo ascolta come
Maria. Degne di nota in Paolino sono le apostrofi all'imperatrice e a Martino, nonché la considerazione sull'uguaglianza
di uomini e donne dinanzi alla grazia.
Omessa la polemica di Sulpicio con alcune donne (dial.
II 8, 1-5), Paolino (4, 419-52) e Fortunato (3, 269-78) riscrivono l'episodio delle vergini che venerano la paglia del letto
di Martino (Sulp. dial. II 8, 6-8).
All'episodio del filo di paglia, che libera un posseduto
(Sulp. dial. II 8, 9) Paolino dedica dodici versi (4, 453-64) e
Fortunato diciassette (3, 279-95) con un'ingegnosa comparazione tra un filo di paglia e una punta di ferro.
All'episodio della liberazione di una giovenca posseduta
dal diavolo (Sulp. dial. II 9, 1-4) Paolino dedica ventitré versi,
ivi compresa l'apostrofe al demonio (4, 465-87) e Fortunato
ventotto (3, 296-323).
Il breve paragrafo sulpiciano (dial. II 9, 5) – relativo a
Martino che si salva da un incendio – è parafrasato da
Fortunato in due soli esametri (3, 324-25), mentre è tralasciato da Paolino, che inserisce qui otto versi nei quali fa
professione di modestia e chiede l'ispirazione poetica a
Martino (4, 488-96).
Paolino (4, 497-519) parafrasa in ventitré versi il paragrafo sulpiciano relativo al salvataggio di un leprotto inseguito dai cani (dial. II 9, 6), utilizzando il vocabolario dell'epica e facendo ricorso alle interrogationes retoriche, e sviluppa l'episodio, concentrando l'attenzione soprattutto sui
molossi intenti alla battuta di caccia. Fortunato (3, 326-367),
viceversa, in un'amplificatio poetica – in questo caso di
maggiori dimensioni (42 versi) –, costruita con le migliori
risorse retoriche (enumerazioni, parallelismi, comparazioni e
immagini ardite60), ricrea la scena dal punto di vista del
leprotto. La narratio poetica si conclude con una sententia
189
monostica (v. 362 Hic fugit, ille redit, nullus perit, ecce salutem), che esprime il compiacimento di Fortunato per il mancato spargimento di sangue, e con una conclusione sulla
bontà del Santo, che, in mancanza di uomini, ha fatto provare a una bestiola gli effetti del suo potere miracoloso.
Sulpicio (dial. II 10) con l'intenzione apologetica di
mostrare che il biografato era capace di battute di spirito,
ricorda familiaria illius uerba spiritualiter salsa: la pecora
tosata suggerisce l'immagine del povero che si riveste della
tunica toltale; un porcaro nudo e infreddolito rappresenta
Adamo; i tre aspetti del prato (brucato dalle pecore, saccheggiato dai porci, fiorito) simboleggiano il matrimonio, la
fornicazione e la verginità. Il testo sulpiciano è riscritto in settantaquattro esametri da Paolino di Périgueux (4, 520-93),
che sviluppa un'ampia ekphrasis del prato fiorito, e in venti
esametri da Fortunato (3, 368-387), che lo segue con una
maggiore fedeltà.
Martino convince un soldato, che ha abbracciato la vita
monastica, a vivere separato dalla moglie (Sulp. dial. II 11):
Paolino (4, 594-639) dedica all'episodio quasi un triplo dei
versi dedicati da Fortunato (3, 388-404).
L'episodio della vergine consacrata, che, avendo fatto
voto di non vedere mai più uomo in vita sua, si rifiutò di ricevere Martino (Sulp. dial. 2, 12, 1-10), è efficacemente parafrasato da Paolino (4, 640-63) ed è omesso da Fortunato,
che, dopo essersi giustificato con l'impossibilità di raccontare tutto (3, 405-408), sviluppa in sei versi (3, 409-14) l'accenno agli angeli in visita a Martino, contenuto nel successivo § 12.
Fortunato, mutando l'ordine del racconto sulpiciano,
parafrasa, prima, dial. II 13, 8 ( un angelo informa Martino
delle decisioni assunte nel Sinodo di Nîmes, al quale s'è
rifiutato di partecipare) (3, 415-429), e, dopo, l'episodio
(anch'esso omesso da Paolino) delle visioni di Agnese, Tecla, Maria e degli apostoli Pietro e Paolo (dial. II 13, 1-7). Il
poeta italiano amplifica l'ipotesto con l'impiego dell'ekphrasis delle pietre preziose e delle nazioni, la cui enumerazione
dà l'impressione della loro inesauribilità (3, 430-508).
Omessa la sezione relativa all'Anticristo (dial. II 14, 1-4),
Paolino (4, 664-73) termina il quarto libro con l'elogio dell'umiltà di Martino e Fortunato conclude il terzo libro con la gloria di Martino nel regno di Dio e, con la richiesta di ottenergli dal Signore l’indulgenza per i suoi peccati (3, 509-528).
190
5.4. La metafora della navigazione ritorna, variata, nel
proemio del IV libro insieme con il tema bucolico del pastore sdraiato sull'erba: il poeta affaticato si riposa in un rus
amoeniferum (4, 4) tra gigli rose e viole61. Esortato da Gallo,
riprende, quindi, la navigazione, già per tre quarti compiuta
(v. 13 Fluctibus in trifidis tribus ii nauta libellis) sotto la guida
della storia di Martino. A questa metafora segue la professione di modestia: Fortunato è un cesellatore maldestro, ma
l'argomento del canto è una collana bella in sé, anche senza
le bellezze dell'arte (vv. 1-27). Anche il corrispondente quinto libro di Paolino si apre con un proemio (5, 1-17), nel quale
la professione di modestia si esprime attraverso le immagini
della lingua impacciata e balbettante, che introducono alla
guarigione della giovane muta operata da Martino. Il topos
della modestia affettata assolve qui la funzione di sottolineatura della continuità tematica tra l'episodio raccontato e l'espressione dell'umiltà: due muti, il poeta e la giovane, attendono il soccorso di Martino.
L'episodio della guarigione della dodicenne di Chartres
muta dalla nascita (dial. III 2, 3-8) è parafrasato da Paolino
(5, 18-100) in un numero di versi più che triplo rispetto a
Fortunato (4, 28-51). L'accenno sulpiciano all'esitazione di
Martino, che si sente impari al compito di guarire la fanciulla (§ 4 imparem se esse tantae moli), è sviluppato da Paolino
con una serie di considerazioni sulla scrupolosa modestia
del vescovo, sulla cui bocca viene posto un discorso rivolto
all'implorante padre della fanciulla (vv. 48-59). Questo
accenno è cancellato da Venanzio, che mostra il vescovo
pronto a offrire l'aiuto del suo amore e della sua carità (v. 31
nec differt Martinus opem pietatis amicam).
Al racconto dei due miracoli relativi all'olio benedetto da
Martino (l'olio della moglie di Avitiano, che, pur traboccando
dal vaso, non cade, e il vaso visto da Sulpicio cadere a terra,
senza rompersi (Sulp. dial. III 3,1-6), Paolino (5,101-240)
dedica una parafrasi che è quattro volte più ampia di quella
di Fortunato (4, 52-86). In particolare, la parafrasi si apre
con un'aggiunta sull'abitudine dei fedeli di conservare l'olio
benedetto nei luoghi santi (5, 101-45) e si chiude con l'elogio di Sulpicio (vv. 195-213), al quale deve la materia del
suo canto. Nella prima aggiunta il parafraste aquitano, inserendo Tours in una geografia del miracolo, compara Tours ai
luoghi santi della Palestina. Al confronto la parafrasi di
Fortunato si caratterizza per essenzialità e aderenza al
modello.
I due parafrasti ricreano – in un numero quasi uguale di
191
versi – la scena del cane che al sentire il nome di Martino
smette di importunare con i suoi latrati i protagonisti dei dialoghi (Sulp. dial. III 3, 7-8). Paolino (5, 241-52) presenta un
uomo, che, aggredito da un cane inferocito (diri molossi), lo
ammansisce pronunciando il nome di Martino; Fortunato (4,
87-97) – più fedele al dettato sulpiciano – parla di discepoli
di Martino importunati durante un viaggio dai latrati di un
cane (anche qui molossus), che da uno di questi viene
messo a tacere nel nome di Martino.
Le riscritture metriche di Paolino di Périgueux (5, 253397) e Fortunato (4, 98-157) dell'episodio di Martino, che
dissuade il conte Avitiano dal torturare i prigionieri e lo induce a fuggire (dial. III 4) sono state da me comparativamente analizzate in un ampio contributo, al quale mi permetto di
rimandare il lettore.62
Omessa da entrambi i parafrasti la condanna sulpiciana
dell'incredulità (dial. III 5), l'episodio di Martino che esorcizza gli indemoniati, che interrogati dicono di chiamarsi Giove
o Mercurio (dial. III 6), è parafrasato da Paolino (5, 398-432)
in un numero di versi più che doppio rispetto a quello di
Fortunato (4, 158-172), che si tiene all'essenziale, conservando con una variazione i nomi con cui si presentano gli
indemoniati (Iouem stolidum e Anubem63), e conclude con
una sententia monostica, nella quale Martino è chiamato
con un efficace ossimoro tortor pius.
All'episodio della liberazione della campagna dei Senoni
dal flagello della grandine (dial. III 7) Paolino dedica un
numero doppio di versi (5, 433-79) rispetto a Fortunato (4,
173-194); il confronto, in particolare, delle ekphraseis dei
danni prodotti dalla grandine (quella di Paolino, che si
distende per ben ventitré versi ed è impreziosita da reminiscenze virgiliane, e quella più sobria di Fortunato contenuta
in sette versi) mostra la differenza tra la scrittura barocca del
poeta aquitano e l'essenzialità del poeta italiano.
Martino scaccia con un'insufflazione un diavolo che era
seduto alle spalle di Avitiano (post tergum ipsius daemonem
mirae magnitudinis adsidentem [… ] qui ceruici tuae taeter
incumbit (dial. III 8, 1-3). Dopo una parentesi di otto versi (5,
480-87), nei quali pur timoroso di proseguire nell'ambizioso
compito il poeta aquitano dichiara l'intenzione di continuare
per rispetto dei lettori e degli ascoltatori, che non avrebbero
capito il suo improvviso silenzio, riscrive l'episodio (5, 488527), amplificandone i vari dettagli, dalla presentazione dell'orribile e insanguinato diavolo che preme con il suo peso
sul malcapitato (uidet horrentis tetrique cruentam / daemo192
nis insani speciem ceruice reclinis, /innexam toto pronam
decumbere nisu) (504-06); allo sviluppo attraverso due
discorsi diretti del botta e risposta tra il conte e il vescovo e
al recupero, infine, da parte del giudice, liberato del suo giudice (sine iudice iudex), di più miti sentimenti. Nella scia
della parafrasi paoliniana si pone Fortunato (4, 195-209),
che rispetto al predecessore impiega circa un terzo di versi
per presentare il diavolo inequivocabilmente accampato sul
collo del conte (vd. a es. 4, 206-207 et ceruice sedens inuasa sedilia liquit./ Libertate noua surgunt colla Auitiani).
Anche nella riscrittura dell'episodio della distruzione ad
Ambois di una torre pagana mediante una tromba d'aria
propiziata dalle preghiere di Martino (dial. 3, 8, 4-7)
Fortunato (4, 210-232) si pone nel scia del predecessore
(entrambi concludono la pericope con l'elogio di Martino). Il
poeta italiano impiega meno della metà dei versi impiegati
da Paolino (5, 528-81), che amplia a dismisura l'ekphrasis
della torre e della tromba d'aria, nonché i mezzi soprannaturali dispiegati dal Santo.
Grazie alle preghiere di Martino una colonna, cadendo
dal cielo, rovina sulla statua di un idolo posto sulla cima di
una colonna, che va in frantumi (Sulp. dial. III 9, 1-2). Paolino
nella parafrasi dell'episodio (5, 582-607) trasforma la colonna caduta dal cielo in una colonna di fuoco, che avvolge
con la fiamma sulfurea la colonna pagana e la riduce in polvere. Tale trasformazione obbedisce all'intento – peraltro
dichiarato – di legare in un dittico le due miracolose distruzioni: la prima operata mediante l'acqua e la seconda
mediante il fuoco. Fortunato nella sua più breve parafrasi (4,
233-50), tornando a Sulpicio, parla della colonna che, scendendo dal cielo e attraversando dolcemente le nubi, si
abbatte sulla colonna pagana, mandando in frantumi colonna e statua: la falsa divinità subisce la collera della vera divinità. La pericope termina con un'interessante riflessione sul
vantaggioso riuso delle rovine dei templi pagani nell'edificazione delle Chiese cristiane.64
L'accenno alla guarigione di una donna emorroissa che
tocca la veste di Martino, a immagine della donna evangelica (Sulp. dial. III 9, 3), è brevemente trattato da Paolino (5,
608-15), che riprende il riferimento evangelico e spiega che
si tocca Cristo, quando si toccano le membra di un santo,
ed è, invece, più ampiamente trattato da Fortunato (4, 25171), che tronca con la concisione pudica dei predecessori e
sviluppa in modo manieristico il tema del flusso del sangue,
ricorrendo all'ardita metafora del naufragio e del diluvio.
193
Martino intima a un serpente, che nuotava nella sua direzione, di tornare indietro (Sulp. dial. III 9, 4). Paolino (5, 61636) dedica alla retractatio dell'episodio ventuno versi – di cui
la metà all'ekphrasis del serpente – e aggiunge altri quattordici versi, nei quali applica a se stesso la storia del serpente e chiede a Martino di guidarlo al bene. Più stringata è la
retractatio di Venanzio (4, 272-283), che si muove nella scia
del predecessore. Sarebbe interessante esaminare la presenza di Verg. Aen. 3, 203-11 in Paolino65 e in Fortunato.
All'episodio della pesca miracolosa per il pasto pasquale di Martino (Sulp. dial. III 10, 1-5) Paolino dedica un'ampia
parafrasi (5, 651-94), che collega il miracolo operato da
Martino con quello evangelico narrato da Luca (5, 2- 11)66;
più stringata è la riscrittura di Fortunato (4, 284-304), che
conclude con un paradosso: il pesce, che con una perifrasi
preziosistica è chiamato praeda natatilis, alla vita preferisce
la morte per fornire il pasto pasquale a Martino.
Arborio vede le dita di Martino ricoperte di pietre preziose, mentre consacra l’Eucaristia, e sente il loro tintinnio
(Sulp. dial. III 10, 6): Paolino (5, 695-708) impiega la metà
dei versi di Fortunato (4, 305-330), che amplifica il motivo
dei gioielli e costruisce con una serie di interrogationes un
elogio retorico di Martino: la pericope si conclude con una
sententia monostica (v. 330 Est, homo, quod stupeas ubi
nectit gratia telas) sul legittimo stupore dell'uomo dinanzi
alle creazioni della grazia.
In tre lunghi capitoli (dial. III 11-13) Sulpicio racconta la
posizione di Martino a Treviri sull'eresia dei Priscillianisti e
sugli eccessi della persecuzione; riferisce l'apparizione dell'angelo venuto a consolare Martino e a consigliargli di
comunicare con Itacio, il responsabile della morte di
Priscilliano, nell'interesse della Chiesa di Spagna; e accenna, infine, al venir meno della sua uirtus. Nella sua sbrigativa parafrasi (5, 709-31) Paolino – interessato alle questioni
politiche più che a quelle teologiche e dommatiche – omette il ruolo svolto dal vescovo nell'affaire priscillianista, probabilmente in linea con le direttive di Perpetuo di tralasciare
gli avvenimenti che avevano messo Martino in una posizione delicata, e concentra l'attenzione sull'apparizione dell'angelo a Martino, a cui aggiunge una sofisticata comparazione tra l'annunzio di Gabriele a Zaccaria e l'esortazione
dell'angelo a Martino. Al primo toccò in sorte un figlio e al
secondo la grazia, che risplende con un accrescimento di
luce e di potenza (clarius adiecta uirtutum luce coruscans)
(v. 731). Fortunato (4, 331-86), dopo aver giustificato l'ad194
breuiatio dell'ipotesto sulpiciano che occupa novantatré
righi nell'ed. Halm (CSEL 1, 1866)67, non si sottrae al compito di dar conto per sommi capi dell'affaire priscillianista e
amplifica il discorso dell'angelo, aggiungendo alle sue esortazioni il motivo topico dell'utilità della sofferenza. Il distico
finale (Vlterius synodo neque se permiscuit insons/uirtutisque suae damnis noua lucra parauit) rende fedelmente il
senso del § 6 di Sulpicio (Nullam synodum adiit […] imminutam ad tempus gratiam multiplicata mercede reparauit).
L'accenno all'energumeno guarito da Martino prima di
varcare la soglia del monastero (dial. III 14, 1) è sbrigativamente parafrasato da Paolino (5, 732-35), che si limita a parlare in generale degli ossessi guariti dal vescovo ed è, invece, sviluppato da Fortunato (4, 387-401), che indugia in una
serie variata di antitesi tra l'hostis e il uir Dei.
L'invocazione da parte di un mercante egizio, non ancora cristiano, del Dio di Martino placa una tempesta (dial. III
14, 1-2): Paolino (5, 736-86) amplifica poeticamente il motivo della tempesta, avvalendosi del riuso di citazioni virgiliane, ovidiane e giovenchiane; Fortunato (4, 402- 25) riscrive
il modello con una certa fedeltà (cf. 415 Aegyptius unus ~
Aegyptius negotiator; 417 Martini deus, eripe nos ~ Deus
Martini, eripe nos), senza rinunciare al riuso di Virgilio e di
Lucano.
Martino, pregando e digiunando per sette giorni e sette
notti, libera dalla peste (lues) la casa di Liconzio, che lo
ricompensa con una grossa somma di denaro, che viene
impiegata per il riscatto dei prigionieri (Sulp. dial. III 14, 3-6):
Paolino (5, 787-856), che non manca di dichiarare la sua
inadeguatezza a cantare il prodigio, punta nella riscrittura
dell'episodio sull'ekphrasis della lues che decimava la casa
di Liconzio, alla quale sono riservati ben ventidue versi.
Fortunato (4, 426-88) in una riscrittura un po' più breve limita a soli cinque versi la descrizione della malattia, e lascia
ampio spazio a due discorsi diretti: la richiesta di aiuto (cinque versi) e il rendimento di grazie di Liconzio (ventuno
versi). Il miracolo è collegato ai miracoli evangelici della
resurrezione della figlia di Giairo, capo della Sinagoga di
Cafarnao (Mt 9, 18-19; 23-26) e della guarigione del servo di
un centurione (Lc 7, 9; Mt 8, 10).68
L'episodio di Martino, che dalla sua cella vede attraverso il muro un monaco svestito davanti a un braciere e ne rimprovera l'impudicizia (Sulp. dial. III 14, 7-9), omesso da
Paolino, è riscritto da Fortunato (4, 489-519), che con un
cumulo impressionante di interrogationes (se ne contano
195
ben dieci in trentuno versi) sfida docti sophistae, doctiloqui
e diserti a spiegare razionalmente il fenomeno della penetrabilità dei corpi reso possibile al vescovo da Cristo.
Sulpicio (dial. III 15) riferisce che un giorno Brizio, un
novizio educato a Marmoutier da Martino e destinato a succedergli sulla cattedra episcopale, istigato da due demoni,
si scagliò contro il vescovo con ingiurie di ogni genere. In
particolare, gli rimproverava di essere stato da giovane un
soldato e di essere ora un monaco esaltato e un vecchio
fanatico. Rientrato in sé il giovane novizio, chiede e ottiene
il perdono dal vescovo, che, ricordando l'episodio, soleva
dire: Si Christus Iudam passus est, cur ego non patiar
Brictionem? Paolino, di sua iniziativa o dietro consiglio di
Perpetuo che inseriva Brizio nel calendario dei santi locali,
omette la parafrasi di questa pagina, che tramanda le tensioni esistenti tra il veterano, giunto tardi alla Chiesa, e il
novizio formato nel monastero e proveniente da un ambiente più elevato, e documenta l'esistenza se non di un vero
partito anti-martiniano, certamente di un'opposizione in
seno alla comunità di Marmoutier. Nel doveroso rispetto del
modello sulpiciano prosegue, invece, la parafrasi di
Fortunato (4, 520-571), che, pur seguendo all'inizio il modello, anche nel suo tenore letterale, se ne allontana bruscamente, riducendo l'alterco tra i due a uno scontro tra il
vescovo e un giovane sotto l'influenza del demonio. Il medaglione si conclude con l'elogio dell'ex-soldato, divenuto
miles Christi, che trionfa con le armi della pace, apre il cuore
misericordioso alle parole del supplice, e riammette nella
comunità il colpevole pentito. L'immagine del vescovo, che
non s'adira contro nessuno e perdona tutti, esclude Martino
dal novero degli asceti intransigenti.
Paolino termina la parafrasi del terzo dialogo sulpiciano
con un breve elogio di Martino, nel quale, accennando ai
pellegrinaggi presso la sua tomba, stabilisce una linea tra i
miracoli operati da vivo e la fede vissuta e praticata dai contemporanei (5, 857-70) e avanza la richiesta di gloria letteraria (871-73 Quam precor ut miseri manifeste in corde poetae / semper adesse uelis, ut, cum meditatio carmen / finierit, teneat transcripta oratio laudem). Fortunato eleva, invece, l'ultimo panegirico a Martino, presentato come il rappresentante delle virtù proprie di un vescovo modello (4, 572593); chiede al Santo di intercedere per la sua salvezza (4,
594-620) e, dopo aver fatto professione di modestia (il suo
libro è come una veste mal tessuta che non conviene al
Santo)69 rivolge un propempticon ad libellum, che ricorda
196
l'ultima epistola del libro I di Orazio, l'elegia proemiale dei
Tristia di Ovidio, e, soprattutto, l'ultimo dei carmi di Sidonio
Apollinare.70
Il libretto, partendo da Tours dove si trova la tomba di
Martino, che sarà generoso con quella che è una sua creatura,71 si rechi in Italia, a Ravenna, rifacendo a ritroso l'itinerario da lui stesso percorso anni prima nel viaggio alla volta
della Gallia72, e inviti i suoi antichi sodales ravennati a far
conoscere attraverso componimenti in greco le gesta del
Santo in Oriente (4, 621- 712).
Il poema si chiude, come si era aperto, nel nome di
Cristo (1, 1 Altithronus postquam repedauit ad aethera
Christus73 e 4, 712 Et quo Christus habet nomen, Martinus
honorem)74.
6. Saggio di analisi intertestuale (Sulp. Seu. Vita 21, 4 ~
Paul. Petr. 3, 187- 200~ e Ven. Fort. 2, 157-60).
A mo' d'esempio vi propongo l'analisi della riscrittura
metrica, operata dai nostri due parafrasti, di Sulp. Vita 21, 4
(il carrettiere, trovato in fin di vita, rivela di essere stato incornato da un bue), tratta dal mio contributo del 1999:
Ita haud longe a monasterio iam paene exanimis inuenitur. Extremum tamen
spiritum trahens, indicat fratribus causam mortis et uulneris: iunctis scilicet
bubus dum dissoluta artius lora constringit, bouem sibi excusso capite inter
inguina cornu adegisse. Nec multo post uitam reddidit.Videris quo iudicio
Domini diabolo data fuerit haec potestas.75
Il commosso racconto «d'une belle histoire tragique»76,
legata a un incidente che doveva essere piuttosto diffuso nei
paesi in cui quest'animale era adibito al tiro77, termina con
una notazione stranamente pessimistica sul potere dato da
Dio al diavolo. La frase, improntata all'Apocalisse (6, 8
nomen illi Mors […] et data est illi potestas; cf. anche 9, 3;
13, 5 e 7) e volutamente trascurata dai parafrasti, allude ai
poteri eccezionali sul mondo conferiti da Dio a Satana per
una durata limitata. L'ingiusta morte del carrettiere – contro
la quale nulla ha potuto il santo – trova la sua spiegazione (e
giustificazione) nelle convinzioni millenariste dell'agiografo.
Questo paragrafo è profondamente rielaborato da
Paolino con addizioni originali e sviluppi poetici, che non trascurano nessun dettaglio dell'ipotesto sulpiciano:
Nec mora quin praesens iam coniectura probetur.
Seminecem egressi non longe a limine cernunt
extrema efflantem miserum spiramina uitae.
197
190 Ille tamen leto languentia lumina soluens
uix singultantis praeciso murmure linguae
adtraxit tenuem glaciali a pectore uocem,
uulneris exponens causas. Nam forte iuuencus,
dum resoluta artis stringuntur uincula loris,
195 liberior ceruice uaga dominoque rebellis
mollia tartareo transfoderat inguina cornu.
Quae postquam exposuit pressoque ommutuit ore,
tum fessum leto posuit caput, oraque et artus
perfudit croceus glaciali corpore pallor.
200 Hoc fine interiit78
La parafrasi di questo brano – nel quale l'accorto impiego dell'amplificatio per congeriem79 è certamente finalizzato
alla pubblica declamazione del poema – è meritevole di
un'attenta analisi.
La sintetica informazione di Sulpicio circa il ritrovamento
del quasi esanime carrettiere non lontano dal monastero è
parafrasata attraverso la ripresa quasi letterale nel v. 188
(dove metri causa il sostantivo limine sostituisce monasterio;
cernunt sostituisce il passivo inuenitur e iam paene exanimis
è sostituito con seminecem, un sostantivo che occorre nei
poeti classici nella stessa sede metrica80).
Il particolare del carrettiere che, esalando l'ultimo respiro,
rivela ai monaci la causa della ferita (Extremum tamen spiritum trahens rimanda a Phaedr. 1, 21, 4 Leo quum iaceret spiritum extremum trahens) è poeticamente sviluppato nei vv.
189-93, nei quali è dato scorgere un interessante intertesto
virgiliano. L'immagine del moribondo che scioglie nella morte
gli occhi illanguiditi (v. 190 Ille tamen leto languentia lumina
soluens) è ricreata su Verg. Aen. 10, 418 ut senior leto canentia lumina soluit: languentia ha tutta l'aria di essere una glossa di canentia (biancheggianti nell’agonia), termine di non
immediata comprensione, così spiegato da Seru. ad Aen. 10,
418 Dicuntur enim pupillae mortis tempore albescere.
Quanto alla sobria descrizione sulpiciana della scena
della fatale incornata al carrettiere, Paolino riusa, adattandoli
al contesto, i singoli termini della frase dissoluta artius lora
constringit; esprime la sensazione di libertà dell'animale,
parafrasando excusso capite con l'emistichio liberior ceruice uaga e con l'additio di dominoque rebellis che sottolinea
l'insofferenza dell'animale aggiogato; qualifica inguina con
mollia e cornu con tartareo, che allude al diavolo, l'ispiratore dell'incornata.
Il poeta non rinuncia, quindi, al piacere di indugiare nella
descrizione della morte del carrettiere, che, rivelate le cause
della sciagura, ammutolì con le labbra serrate (v. 197 pressoque obmutuit ore) come la Sibilla (Verg. Aen. 6, 155) e
198
reclinò il capo spossato dalla morte (v. 198 tum fessum leto
posuit caput), come Camilla (Verg. Aen. 11, 830 et captum
leto posuit caput), mentre un pallore giallastro tinse il volto e
le membra sul corpo irrigidito81. I vv. 198 ss. oraque et artus
/ perfudit croceus glaciali corpore pallor sono efficacemente modulati su Verg. Aen. 7, 458 s. ossaque et artus / perfudit toto proruptus corpore sudor: al sudore che bagna Turno,
svegliato dalle minacciose parole di Alletto, il poeta aquitano accosta il pallore che bagna il corpo senza vita del carrettiere. La presenza virgiliana conferisce a questa pagina
una patina epica, che non doveva certo dispiacere agli
ascoltatori (e lettori) del poema agiografico.
Rispetto all'efficace retractatio paoliniana che si distende in quattordici esametri, Fortunato versifica in soli quattro
versi l'ipotesto sulpiciano, selezionando i dati essenziali di
una narratio che considera nota al lettore:
Semianimem inueniunt missi, suprema gementem,
indicat atque necem, dum adhuc super halitus errat,
quod sua laxato taurus foret inguina cornu
explicitaque fide uitam cum uoce reliquit82.
Anche la breve parafrasi venanziana è tramata da intertesti virgiliani, che, privi come sono di particolari valori connotativi, operano al livello superficiale o discorsuale del
brano: l'attacco del v. 157 semianimem rimanda a Verg.
Aen. 4, 687 (stessa sede metrica) e la clausola suprema
gementem a Verg. Aen. 11, 865 extrema gementem; il
secondo emistichio del v. 158 dum adhuc super halitus errat
è modellato su Verg. Aen. 4, 684 extremus si quis super halitus errat83; nel secondo emistichio del v. 160 uitam cum uoce
reliquit il parafraste rovescia sintatticamente il secondo emistichio di Verg. Aen. 6, 735 cum lumine uita reliquit.
7. Conclusione
Lo sviluppo della parafrasi agiografica martiniana è
strettamente legato all'evoluzione del contesto storico in
Gallia tra il IV e il VI secolo e all'emergere di un nuovo spirito religioso, che fa del santo un protettore dotato di una
potestas non più soltanto spirituale, ma anche temporale. Il
contesto storico-religioso spiega la differenza tra la narratio
sulpiciana e la riscrittura dei due parafrasti, che sono portatori di una diversa ideologia politica, riflettono una diversa
spiritualità e obbediscono a diversi disegni poetici.
199
Il racconto di Sulpicio agevolava lo slittamento verso l'epopea di cui forniva gli elementi essenziali: una materia
«storica», o considerata tale, e già entrata nella leggenda;
fatti sufficientemente lontani per avvicinarsi al mito e sufficientemente attuali per essere popolari; un eroe dal destino
eccezionale, successore degli Apostoli; i mirabilia; gli interventi di Dio, degli angeli, di Satana.
Di qui prendendo l’abbrivo, i due parafrasti – la cui opera
si pone comunque come il prolungamento del modello e
contribuisce non meno di esso a diffondere la conoscenza
dei mirabilia del santo e a edificare il pubblico dei fedeli –
seguono rotte diverse e giungono a porti diversi.
Di Martino Sulpicio aveva privilegiato il taumaturgo e
l'uomo d'azione invece del vescovo e del predicatore.
Paolino mette in rilievo la fragile umanità di Martino, attribuendogli una psicologia umana e ristabilendo il contesto
terreno della sua esistenza. Interessato alle questioni politiche più che a quelle teologiche e dommatiche, il poeta aquitano fa di Martino il modello del vescovo-patronus, difensore dei deboli e degli oppressi, la cui uirtus è viva e operante tra i contemporanei.
Paolino vuol contribuire allo sviluppo del culto martiniano
a Tours, nella cui pratica gioca un ruolo significativo, e ha nel
contempo di mira il conseguimento dell'alloro poetico. La
sua opera si presenta come una vera e propria epopea
agiografica, alla cui costruzione concorrono in pari misura la
Scrittura, l'innodia martiriale e l'epos virgiliano. Elabora l'ipotesto sulpiciano con notevole enfasi e l'arricchisce con frequenti digressioni morali e descrizioni minute, originate dai
più insignificanti dettagli. Rivolgendosi ai fedeli, che vuole
edificare, e ai lettori pigri, ai quali vuole offrire la testimonianza dello storico, attualizza – in virtù di uno slancio spirituale nuovo e grazie all'aggiunta di un sesto canto dedicato
ai miracoli compiuti alla sua epoca – la narratio sulpiciana. Il
che non significa che tutti gli scarti dall'ipotesto sulpiciano si
debbano spiegare con eventuali indicazioni di Perpetuo.
Fortunato si sofferma, invece, sulle qualità carismatiche
di bontà e d'indulgenza di Martino, preferendo quella carità
sociale, che egli loda spesso negli epitafi dei vescovi. A differenza del predecessore, che dedica un intero libro alla
carriera pre-episcopale del santo, Fortunato più che ai dettagli della sua precedente vita come soldato, laico e monaco è interessato a sottolineare il ruolo di vescovo.
Minimizzando o ignorando l'opposizione episcopale a
Martino, ne sottolinea il potere di guarigione e lo trasforma
200
in un doctor che dispensa la medicina con la parola.
Martino, insomma, non è più il monaco contestato dal clero,
ma è il mediatore celeste, che i vescovi del suo tempo debbono imitare.
A differenza del predecessore, il poeta italiano ha di mira
un'opera poetica, che si affianchi, senza sostituirla, alla narratio sulpiciana, che egli suppone nota al lettore e da cui
seleziona gli episodi, che – in linea con il gusto estetico della
tarda antichità – pone senza preoccupazioni cronologiche o
formule di transizione, l'uno accanto all'altro, proprio come
prima di lui avevano fatto Sedulio con il Paschale Carmen e
Aratore con l'Historia Apostolica, o come egli stesso farà
nelle Vitae in prosa84. Il che spiega l'essenzialità della parafrasi: ciascun combattimento spirituale di Martino, miles
Christi, rappresenta una variante della lotta generale del
bene contro le forze del male, rappresentate dal potere, dall'eresia, dai pagani, dalla morte o dalla malattia. I gesta di
Martino si stagliano nitidi nell'eroico verso virgiliano senza
l'ammanto talora soffocante delle amplificazioni retoriche e
senza l'estenuante ‘preziosismo’ di certe descrizioni sidoniane. Il poema di Fortunato – che con Gregorio ha contribuito a fare di Martino il patrono della dinastia merovingia –,
pur essendo legato al contesto della città di Tours, non è una
versione attualizzata dell'opera sulpiciana. In esso il poeta
italiano esprime una devozione personale per Martino e,
partecipando anche della celebrazione ufficiale del santo,
ne tesse il panegirico.
La rassegna del contenuto dei due poemi e l'analisi comparativa – effettuata nei miei due saggi ricordati, di cui ho qui
riprodotto solo un modesto specimen – tra i due parafrasti,
così diversi tra loro per epoca storica, ambiente e formazione culturale (l’uno vescovo di una piccola città dell’Aquitania
e l’altro chierico di vocazione tardiva ancora legato alla composizione di versi leggeri) consente di far giustizia di una
consolidata tradizione critica risalente all'Ebert, che alla presunta semplicità di Paolino contrappone a torto una fastidiosa pretensiosità di Venanzio85. In quest'ottica importa notare
non tanto come la parafrasi di Paolino abbia paradossalmente un carattere già medievale e Fortunato si presenti,
invece, ancora come uomo dell'antichità86, quanto piuttosto
come le operazioni parafrastiche di Paolino e di Fortunato
attingano entrambe validità e originalità dalla diversa reazione alle attese dei committenti e, di conseguenza, dal diverso contributo che i due poeti hanno recato alla costruzione e
allo sviluppo dell'agiografia martiniana.
201
Non è inopportuno riassumere qui le differenze sopra
rimarcate tra i due poeti, in ordine sia alla concezione che
alla pratica della parafrasi; tali differenze si spiegano con il
diverso atteggiamento poetico e spirituale con cui essi
accostano l'ipotesto sulpiciano, piuttosto che con l'esistenza di dossiers diversi su cui i due avrebbero lavorato.87
Premesso che Paolino e Fortunato non aggiungono al
testo sulpiciano episodi nuovi, ma solo nuovi elementi, che
arricchiscono il poema agiografico con i motivi propri del
panegirico e della preghiera, possiamo tranquillamente
affermare che le loro parafrasi obbediscono agli opposti
principi retorici dell'amplificatio e dell'adbreuiatio.
Il principio dell'amplificatio è costantemente seguito da
Paolino, che sviluppa in 3116 esametri i due testi sulpiciani
( ai miracoli postumi raccolti da Perpetuo sono dedicati i 506
esametri del VI libro). Il poeta aquitano amplifica 66 episodi
su 70, dando risalto agli avvenimenti che hanno un significato politico; abbrevia – come s'è visto – il solo episodio
della persecuzione dei Priscillianisti. Dell'amplificatio egli si
serve per dare un'unità spirituale agli episodi della vita di
Martino, per insistere sul loro senso morale e spirituale e
inserire gli avvenimenti del passato in una storia sacra unificata dalla Grazia. L'utilitas è il principio-guida della sua
composizione, cui è subordinata la dulcedo dei versi.
Moltiplicando le esclamazioni e le apostrofi rare nel
modello, il poeta aquitano fa risuonare come un catecheta le
gesta di Martino. Spiegando il testo originale secondo il
metodo dei grammatici antichi e dei commentatori della
Scrittura e aggiungendo epiteti e perifrasi, ekphraseis o sententiae, che accentuano il carattere edificante della narratio,
egli dà un'interpretazione lirica di un racconto essenzialmente drammatico. Il poema paoliniano è il risultato di un
esercizio spirituale, nel corso del quale l'autore medita ciascun dettaglio di una scena, sottolineando le analogie tra la
vita di Martino e quella di Cristo. La quasi generale omissione di nomi propri mira a conferire un valore generale a fatti
particolari e attenua la distanza tra il lettore e il contesto storico, nel quale si è svolta la vita di Martino, dalle cui gesta
egli ricava insegnamenti morali e spirituali. La scrittura del
poema, che conserva gli accenti della predicazione, è
caratterizzata dalla copia uerborum, che ha la funzione di
dispiegare sotto gli occhi del lettore la totalità di senso di
un'opera, che celebra la uirtus sempre attiva di Martino.
Il principio dell'adbreuiatio è, invece, privilegiato da
Fortunato, che abbraccia la materia in 2243 esametri, non
202
mancando talora di affermare che la sua parafrasi ha fretta
di giungere alla conclusione.88 Egli sviluppa 46 episodi su
70, omettendo la riscrittura di episodi difficilmente collocabili
in un panegirico.
Fortunato riduce all'essenziale il nucleo narrativo dell'ipotesto e accelera il ritmo della narratio, sopprimendone i
dettagli secondari e astenendosi da considerazioni edificanti o patetiche. Il poeta italiano, che ricerca le raffinatezze
dell'ekphrasis e dell'enumeratio, privilegia – come s'è visto –
le sententiae (in genere monostiche), che concludono i singoli autonomi episodi della narratio, condensandone il significato ed esprimendolo con maggior energia, allo scopo di
colpire e persuadere il lettore anche attraverso l'impiego di
antitesi e paradossi. Nelle sententiae di conclusione
Fortunato non manca di valorizzare le immagini visive.
Nel trattare ciascun episodio come un'unità isolata e nel
semplificare il contenuto narrativo fino a ridurre l'azione a un
semplice gesto, egli mette in opera un'estetica che richiama
– come hanno dimostrato Roberts e Labarre – le arti visive
della sua epoca, fa sfoggio di una grande invenzione verbale e impiega una scrittura dal forte spessore metaforico,
che si sforza di esprimere l'indicibile e di cogliere l'universale nel particolare.
Note
(1) La labilità dei confini tra parafrasi e commentari è stata più volte rilevata; vd. Quint. inst. 1, 9, 2 et breuiare quaedam et exornare saluo modo poetae sensu; Aug. conf. 1, 17, 27 ed Erasm. Roterod. epist. 1255, 38-39, (edd.
P.S. Allen - H.M. Allen, V, Oxford 1924, p. 6 ) Nam et paraphrasis commentarii genus est; Id. epist. 1274, 36-39, (ibid. p. 47) Est enim paraphrasis non
translatio, sed liberius quoddam commentarii perpetui genus, non commutatis personis.
(2) C. Moreschini (Storia della letteratura cristiana antica greca e latina,
I, Brescia, Morcelliana, 1995, p. 581) ha osservato che la parafrasi tardoantica non si distingue molto dall'adattamento in latino di opere della letteratura
pagana.
(3) Cf. G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, trad. it. di
R. Novità, Torino, Einaudi, 1997 (I ed.: Paris 1982), pp. 6-7.
(4) Cf. E. R. Curtius, Letteratura Europea e Medio Evo latino, ed. it. a cura di R. Antonelli, Firenze 1992, p. 513: «La storia della salvezza cristiana, così com'è presentata dalla Bibbia, non tollera di essere calata in una forma
203
pseudo-antica. In tal caso, infatti, non solo perde la sua impronta così singolare, efficace e piena di autorità, ma viene anche falsata dall'impiego di un
genere preso a prestito dalla classicità antica e dalle formule convenzionali,
linguistiche o metriche, richieste appunto da tale genere. Il fatto che, ciò nonostante, l'epica biblica abbia potuto godere di tanto favore, si spiega con l'esigenza di una letteratura religiosa che potesse contrapporsi a quella classica; si giunge così ad una soluzione di compromesso».
(5) Cf. Ch. Mohrmann, (Études sur le latin des Chrétiens. II. Latin chrétien et médiéval, Roma 1961, pp. 219-20): «Ces paraphrases épiques des récits bibliques sont dépourvues d'inspiration religieuse, et l'on comprend la
déception du lecteur moderne devant le traitement infligé à la Bible par la médiocre technique de versificateurs pédants».
(6) Cf. Ven. Fort. uita Mart. epist. ad Greg. 2 Cum iusseritis ut opus illud,
Christo praestante, intercessionibus domni Martini, quod de suis uirtutibus
explicuistis, uersibus debeat digeri, id agite ut mihi ipsum relatum iubeatis
transmitti. Nel corso del lavoro citerò il poema venanziano secondo Venance
Fortunat, Vie de saint Martin. Texte établi et traduit par Solange Quesnel,
Paris, Les Belles Lettres, 1996 e terrò anche presenti le versioni italiane di G.
Palermo (Roma, Città Nuova Ed., 1985) e S. Tamburri (Napoli, D'Auria, 1991).
(7) Cf. Greg. Tur. Hist. Franc. 10, 31, 18 (ed. M. Oldoni, Fondazione
Lorenzo Valla 1981, vol. II, pp. 608-10) Quos libros licet stilo rusticiori conscripserim, tamen coniuro omnes sacerdotes Domini, qui post me humilem
ecclesiam Turonicam sunt recturi […] ut numquam libros hos aboleri faciatis
aut rescribi, quasi quaedam eligentes et quaedam pratermittentes, sed ita
omnia uobiscum integra illibataque permaneant, sicut a uobis relicta sunt […]
Sed si tibi in his quiddam placuerit, saluo opere nostro, te scribere uersu non
abnuo.
(8) Sulp. Seu. Vita 27, 6-7 De cetero, si qui haec infideliter legerit, ipse
peccabit […] paratumque, ut spero, habebit a Deo praemium, non quicumque legerit, sed quicumque crediderit e dial. 1, 26, 5 Nam cum dominus ipse
testatus sit istiusmodi opera, quae Martinus impleuit, ab omnibus fidelibus esse facienda, qui Martinum non credit ista fecisse, non credit Christum ista
dixisse.
(9) Sul monaco-vescovo Martino e la biografia sulpiciana si veda la monumentale opera di J. Fontaine in tre volumi pubblicati nelle Sources
Chrétiennes: vol. I. Introduction, texte et traduction (SCh 133 [Paris 1967]);
vol. II. Commentaire (SCh 134 [Paris 1968]); vol. III. Commentaire (suite) et index (SCh 135 [Paris 1969]). Utile è, altresì, Sulpicio Severo, Vita di Martino, in
Vita di Martino, Vita di Ilarione, In memoria di Paola. Introduzione di Ch.
Mohrmann, testo critico e commento a cura di A.A. R. Bastiaensen e J.W.
Smit, traduzioni di L. Canali e C. Moreschini, Fondazione Lorenzo Valla 1975.
Sulla prosa sulpiciana efficace è il giudizio di J. Fontaine (Naissance de la
poésie dans l'occident chrétien, Paris 1981, p. 268): «Son sens du récit et du
découpage des scènes, son goût du mouvement, ses inflexions pittoresques
ou dramatiques, son style à la fois dense et fleuri, sont autant de qualitès d'une prose d'art que l'on pourrait aussi bien appeler une prose poétique».
(10) Cf. E.C. Babut, Saint Martin de Tours, Paris s. d. [ma 1912], pp. 73
e 108. Martino è considerato dal suo agiografo come il pendant latino di
Antonio, anche se per l'asceta-vescovo il rapporto tra «vita attiva» e «vita
contemplativa» è più equilibrato.
(11) Cf. Mohrmann, Introduzione, p. XVI.
(12) Le gesta e i miracoli di Martino hanno avuto una larga diffusione in
Gallia, prima e, poi, in tutta la cristianità. In Italia più di cinquanta comuni portano il suo nome. Moltissime le chiese a lui dedicate, circa 1. 600 nella sola
Francia. In Italia, a esempio, portano il suo nome la Chiesa di San Martino ai
Monti, fatta edificare a Roma da papa Simmaco (498-514); il duomo di Lucca
(VI sec.); l’abbazia di San Martino delle Scale, vicino Palermo, fondata da
Gregorio Magno.
(13) Cf. Quesnel, Venance Fortunat, p. XXI.
(14) Sono valide anche per le parafrasi agiografiche le motivazioni
espresse da Sedulio nell'epistola a Macedonio (CSEL 10, 5) Multi sunt quos
204
studiorum saecularium disciplina per poeticas magis delicias et carminum
uoluptates oblectat. Hi quicquid rhetoricae facundiae perlegunt, neglegentius
adsequuntur, quoniam illud haud diligunt: quod autem uersuum uiderint blandimento mellitum, tanta cordis auiditate suscipiunt, ut in alta memoria saepius
haec iterando constituant et reponant. Il rapporto di scambio tra parafrasi bibliche e agiografiche non è, naturalmente, a senso unico; per C.P.E. Springer
(The Gospels Epic in Late Antiquity, the “Paschale Carmen” of Sedulius,
Leiden 1988, passim) Paolino di Périgueux è il più antico imitatore di Sedulio;
Sedulio e Giovenco sono imitati anche da Fortunato.
(15) Cf. A.H. Chase, The Metrical Lives of St. Martin of Tours by Paulinus
and Fortunatus and the Prose Life of Sulpicius Severus, «Harv. St. Class.
Phil.» 43 (1932), p. 57.
(16) Cf. Quesnel, Venance Fortunat, p. XV.
(17) Cf. Greg. Tur. uirt. s. Mart. 1 prol. (MGH RSM 1, 586): Vtinam Seuerus
aut Paulinus uiuerent, aut certe Fortunatus adesset, qui ista discriberent!
(18) Cf. R. van Dam, Images of Saint Martin in Late Roman and Early
Merovingian Gaul, «Viator» 19 (1988), p. 2 .
(19) Cf. Greg. Tur. uirt. s. Mart. 1, 2 (MGH RSM 1, 586s.) Paulinus quoque beatus Nolanae urbis episcopus post scriptos uersus de uirtutibus eius,
quae Seuerus conplexus est, quinque libros illa conprehendit miracula, quae
post eius gesta sunt transitum, id est in sexto operis sui libro; vd., anche, glor.
conf. 108 (MGH RSM 1, 818); Guibert De Gembloux, Lettres 14 (ed. Derolez,
p. 209): «Precor etiam magnopere quatinus opusculum beati Paulini Nolani
episcopi, sex libellis de beatissimo patrono nostro Martino, qui ei oculum lesum reddidit, uersifice editum […] nobis ad transcribendum […] mittere non
abnuatis». L'equivoco dura sino al 1589, quando François Juret pubblica il
poema parafrastico sotto il nome di Paolino di Nola. L'editore nelle note della
seconda edizione dell'epistolario di Simmaco (Paris 1604) riconoscerà di essere stato tratto in errore dalla testimonianza di Gregorio di Tours.
(20) Cf. A. Huber, Die poetische Bearbeitung der Vita S. Martini, Kempten
1901, pp. 15-20.
(21) Cf. Chase, The Metrical Lives, pp. 55 ss. Su Paolino e la composizione della sua opera si veda S. Labarre, Le manteau partagé. Deux métamorphoses poétiques de la Vie de saint Martin chez Paulin de Périgueux (Ve
s.) et Venance Fortunat (VIe s.), Paris, Études Augustiniennes, 1998, pp. 1428. Nel corso del lavoro citerò il poema paoliniano secondo il testo critico stabilito da M. Petschenig in CSEL 16 (1886) e terrò anche presente Oeuvres de
Paulin de Périgueux, revus sur plusiers manuscrits et traduits pour la premiere fois en français par E.-F. Corpet, Paris 1849.
(22) Cf. Paul. Petr. uita Mart. 4, 1 Finierat sumptum translatio coepta uolumen, /percurrens sancti pura exemplaria libri. M. Roberts (Biblical Epic and
Rhetorical Paraphrase in Late Antiquity, Liverpool 1985, p. 83) ritiene che, come in Sedul. epist. ad Maced. (CSEL 10, 172 fidem translationis esse corruptam) translatio ha qui il significato di «paraphrase». Non sfugga, inoltre,
che l'impiego dell'agg. sanctus accosta il liber sulpiciano a un libro sacro.
Insomma, l'uso del termine rivela che Paolino ha coscienza di compiere lo
stesso programma letterario.
(23) Cf. Paul. Petr. uita Mart. 5, 872-73 cum meditatio carmen / finierit, teneat transcripta oratio laudem.
(24) Sull'intertestualità classica (Lucrezio, Virgilio, Ovidio, Stazio,
Claudiano) di Paolino ha recentemente richiamato l'attenzione Th. Gärtner,
Zur christlichen Imitationstechnik in der ‘Vita Sancti Martini’ des Paulinus von
Petricordia, «Vig. Chr.» 55 (2001), pp. 71-85. Sulla presenza del Mantovano
nel poeta aquitano si veda A.V. Nazzaro, Paolino di Périgueux, in
Enciclopedia Virgiliana, III, Roma 1987, pp. 960-62.
(25) Cf. L. Pietri, La ville de Tours du IVe au VIe s siècle: naissance d'une
cité chrétienne, Paris 1983, p. 737s.
(26) Cf. Paul. Petr. uita Mart. prol. 2 De sancti atque apostolici doctoris et
domini meritis atque uirtutibus tam splendidam ad nos misistis historiam, ut
rectissime, si ita iussisset uestra benedictio, ad totius orbis notitiam perueniret. Verum his me inhaerere uestigiis et posse aliquid adicere quasi expolitius
205
censuistis, cum multo maius sit conperta promere quam prolata transcribere.
(27) Un quadro preciso della figura e dell'opera del poeta italiano con
una selezionata bibliografia è stato delineato da B. Clausi, Venanzio
Fortunato, in Patrologia a cura di A. Di Berardino, IV, Genova, Marietti, 1996,
pp. 315-34. Sull'epopea agiografica di Fortunato vd. anche Francine MoraLebrun, L'Enéide médiévale et la Chanson de geste, Paris 1994, pp. 84-94.
(28) Cf. Ven. Fort. vita Mart. 1, 40-44 e 4, 686-87. Chase (The Metrical
Lives, p. 57) ritiene committente Gregorio; Fontaine (Naissance, p. 270) pensa, invece, ad Agnese e Radegonda.
(29) Cf. Ven. Fort. uita Mart. epist. ad Greg. 3 De uita eius uir disertus
domnus Sulpicius sub uno libello prosa descripsit et reliquum quod dialogi
more subnectit, primum quidem opus a me duobus libellis et dialogus subsequens aliis duobus libellis conplexus est, ita ut breuissime iuxta modulum
paupertatis nostrae in quatuor libellis totum illud opus uersu in hoc ter bimenstre spatium, audax magis quam loquax, nec efficax, cursim, inpolite,
inter friuulas occupationes sulcarem. Per la datazione del poema l'epistola a
Gregorio fornisce come terminus post quem l'accessione del vescovo alla
cattedra episcopale di Tours alla morte di Eufronio, avvenuta nel settembre
573, mentre il terminus ante quem si ricava dalla menzione in uita Mart. 4,
636s. di Germano vescovo di Parigi ancora vivente. Essendo Germano morto il 5 aprile 576, la Vita deve essere stata composta tra il 573 e il 576, durante
l'estate (al § 1 dell'epistola dice in opere messium, id est in ipsa messe). Il
che esclude sia il 576 che il 573, avendo Gregorio preso possesso della carica nel mese di settembre.
(30) Cf. A.V. Nazzaro, Intertestualità biblico-patristica e classica in testi
poetici di Venanzio Fortunato, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia. Atti
del Convegno Internazionale di Studi Valdobbiadene-Treviso 17-19 maggio
1990, Provincia di Treviso 1993, pp. 99-135. Si veda, anche, la mia voce
Venanzio Fortunato, in Enciclopedia Virgiliana, V, Roma 1990, pp. 477-78.
(31) Questa metafora è finemente analizzata nelle sue ascendenze classiche e negli sviluppi venanziani da C. Braidotti, Una metafora ripetuta: variazioni sul tema nautico nella “Vita S. Martini” di Venanzio Fortunato, «Giorn.
It. Filol.» 45 (1993), pp. 107-19.
(32) Ven. Fort. uita Mart. 1, 10-25: «I numerosi prodigi operati durante il
soggiorno terreno da Cristo per lo stupore degli uomini, rivelati dai libri dei
Vangeli, furono celebrati in ebraico, in greco e in latino, redatti in forma prosaica e in un linguaggio corrente. Il primo, in effetti, che, distinse il testo sacro in linee regolari e utilizzò la tecnica del verso per cantare l'opera della
maestà divina fu Giovenco. In seguito brillò la lingua dell'insigne Sedulio, precetti concisi condensò Orienzio in una lingua fiorita e il prudente Prudenzio
prudentemente dedicò ai pii martiri in una santa offerta i poemi che raccontano i loro atti. Paolino segnalandosi per la nobiltà di nascita e di cuore, per
la fede e il talento, sviluppò in versi l’insegnamento del maestro Martino. Il
poeta Aratore solcò con eloquenza abbondante quelli che si chiamano gesta
e atti dell'ordine degli Apostoli. Il vescovo Alcimo con egregio acume ordinò
ciò che già l'autore della Genesi aveva svolto nel seguito del libro sacro».
L’accenno all'ascendenza illustre (stemmate) è la spia dell’errore in cui è incorso anche Venanzio. Nobiltà di nascita, purezza di cuore, fede e capacità
artistica sono le doti che garantiscono la riscrittura paoliniana della dottrina
del maestro Martino. Tale elogio conviene certamente più al nobile poeta di
Bordeaux, anch’egli miracolato da Martino, che all'oscuro poeta di Périgueux.
La metafora del testo agiografico (vd. supra, n. 29) o biblico come terra, che
è dissodata con i solchi dell'esametro per renderla più fertile, è interessante
ai fini della comprensione della parafrasi come fenomeno letterario.
(33) Nella presentazione di Giovenco (vv. 14-15) echeggiano le parole di
Hier. epist. 70, 5 (CSEL 54, 707-08) Iuuencus presbyter sub Constantino historiam Domini Saluatoris uersibus explicauit nec pertimuit Euangelii maiestatem sub metri leges mittere.
(34) Ven. Fort. uita Mart. 1, 36-39: «E certamente tra queste vette di poeti sacri, tra questi fiumi di dottori e questi prati smaglianti di perle di dicitori,
io, che non verdeggio di nessun fiore, dovrei tentare di intrecciare una ghir-
206
landa e dovrei mescolare questi amari assenzi al miele irriguo?». Con gemmantia prata (v. 37) Fortunato ricrea l'immagine che Sidonio Apollinare impiega per la poesia di Stazio (carm. 9, 229 pingit gemmea prata siluularum).
(35) Il 5% dei medaglioni va da 61 a 80 versi; il 13% è al di sotto di 10
versi; il 18% va da 21 a 30 versi; il 23% va da 31 a 60 versi; il 39% va da 10
a 20 versi.
(36) Ven. Fort. uita Mart. 1, 45-49: «Sarò dunque degno di trattare con
mano tremante o di celebrare con la parola le gesta del beato Martino, originario della Pannonia dove è fiorente l'illustre Sabaria? Egli non ha bisogno
delle mie tenebre, perché risplendente di luce, potente faro della Gallia,
estende il fulgore fino agli Indi». L'agg. clara e il verbo uernat – così come
l'agg. fecunda in Paolino (1, 11) – sottolineano la fecondità spirituale della
Pannonia, che ha dato i natali al santo. La metafora del faro contribuisce a
sottolineare la dimensione ecumenica della sua influenza.
(37) Sull'episodio della divisione del mantello – nel quadro di una più generale analisi comparativa delle due riscritture poetiche – si veda Labarre, Le
Manteau partagé, pp. 147-59. Vedi, anche, Gärtner, Zur christlichen
Imitationstechnik, pp. 72-74 (sui vv. 79-83).
(38) L'immagine dell'alba (vv. 168-69 et iam prima nouo spargebat lampade terras/ orta dies) è il risultato della contaminazione di due immagini virgiliane (Aen. 4, 6 Postera Phoebea lustrabat lampade terras e 7, 148-49 postera cum prima lustrabat lampade terras / orta dies).
(39) Errato è il tentativo di traduzione di Mora-Lebrun, L'Enéide médiévale, p. 91, n. 41: «afin que je ne craigne pas le (démon) craintif, ma crainte
est le Dieu de ceux qui craignent les armes».
(40) Eccessivamente severo è il giudizio di R. van Dam (Images of Saint
Martin, p. 9), per il quale le sententiae monostiche che concludono, come in
questo caso, le pericopi, «often became clumsy puns».
(41) Cf. Paul. Petr. uita Mart. 1, 232-35 O tanto partu felix enixaque natum/per quem nata deo est, unoque et mater et infans/facta puerperio!genetrix generanda beato/ante utero peperit per quem nunc orta lauacro est; si veda il pertinente commento di Labarre, Le manteau partagé, pp. 137-38.
(42) Cf. Ven. Fort. uita Mart. 1, 104-07 Interea matrem gentili errore resoluens, / illa istum mundo, hic illam generauit Olympo/ decrepitamque senem
sancto facit amne renasci/ et meliore sinu generant sua uiscera matrem; si veda anche per questi il penetrante commento di Labarre, Le manteau partagé,
pp. 140-41.
(43) Cf. M. Roberts, The Jeweled Style. Poetry and Poetics in Late
Antiquity, Ithaca-London 1989, p. 139.
(44) Roberts (The Jeweled Style, pp. 139- 42) ritiene che nella parafrasi
della resurrezione del catecumeno Fortunato si è direttamente ispirato a quella di Lazzaro di Sedul. Pasch. carm. 4, 271-90. Per lo studioso il contenuto
spirituale del miracolo di Sedulio è più evidente, Fortunato utilizza dettagli visivi per intensificare la risposta emotiva al miracolo che descrive Sedulio;
questi, insomma, si appella alla mente, Fortunato all'occhio.
(45) La citazione di Ps 8, 3 (nella versione della Vetus Latina in uso nella
liturgia gallo-romana) consente a Sulpicio e ai due parafrasti un facile gioco
di parole su defensor e Defensor, su cui vd. Labarre, Le Manteau partagé,
p. 225.
(46) Si tratta di una metafora piuttosto complicata, che non viene ripresa,
come avviene in Fortunato, negli altri esordi: il nuovo soggetto che egli imprende a trattare è un temibile nouum pelagus; gli atti di Martino monaco costituiscono la riva; le gesta di Martino vescovo sono l'alto mare, nel quale sia
pure con paura il poeta si addentra, confortato dal favorevole soffio del Santo.
(47) Non sarebbe infruttuoso un confronto tra questi due brani con Paul.
Nol. carm. 28, 69-85 e 120-48. Non mi pare inutile segnalare la sorprendente
immagine barocca delle fiamme, assimilate a uccelli, che mordono le piume
del vento (vv. 289-90).
(48) Un esametro costituito da tre membri in parallelismo (490 uir maculis uarius, cute nudus, uulnere tectus) è seguito da due esametri quadrimembri, con il chiasmo tra le coppie di membri (491-92 tabe fluens, gressu aeger,
207
inops uisu, asper amictu, /mente hebes, ore putris, lacerus pede, uoce refrictus). Questa pagina è stata analizzata da M. Roberts (St. Martin and the
Leper: Narrative Variation in the Martin Poems of Venantius Fortunatus, «The
Journ. of Med. Lat.» 4 (1994), pp. 82- 100) in relazione sia all'ipotesto sulpiciano che alle altre sue riscritture dell'episodio del lebbroso. Non è da trascurare la presenza in questa pagina del brano in cui Sedulio (Pasch. carm.
3, 26-32 ) descrive la guarigione del lebbroso operata da Cristo.
(49) Lo Spiritus alteuolans è l'equivalente cristiano di Nettuno (cf. Verg.
Aen. 7, 23 Neptunus uentis impleuit uela secundis).
(50) M. Roberts (Martin meets Maximus: The Meaning of a Late Roman
Banquet, «REAug.» 41 (1995), pp. 91-111) in una finissima analisi della riscrittura metrica di questo episodio da parte dei due parafrasti ha messo in
evidenza come essi s'inseriscano nelle tradizioni letterarie del banchetto antico e si riferiscano ai modelli del banchetto reale e imperiale offerti dai panegirici. Paolino, più attento al contesto sociale, interpreta le relazioni tra patroni e clienti attraverso la tradizione satirica della cena.
(51) Su Vita Martini 21, 2- 5 e le riscritture metriche di Paolino di
Périgueux (3, 160-203) e Venanzio Fortunato (2, 141-61) vd. il mio contributo
La parafrasi agiografica nella tarda antichità, in G. Luongo (ed.), Scrivere di
santi. Atti del II Convegno di Studio dell'AISCA, Napoli, 22-25 ottobre 1997,
Roma, Viella, 1998, pp. 88-99.
(52) Cf. Ven. Fort. uita Mart. 2, 376-78 Qui pater inlustris Paulini gesta
beabat / floruit Italiae quo post antistite Nola, /qua regio Campana sedet rectore superno. («Il padre Martino celebrava le virtù del nobile Paolino, sotto il
quale vescovo, guida superiore, fiorì poi in Italia Nola, dove si stende la regione della Campania»). La Quesnel (op. cit., p. 45) ha ben colto il doppio
senso inerente a rector: governatore della regione (quale appunto era stato in
gioventù Paolino) e governatore spirituale della Campania.
(53) Negli ultimi versi (2, 440-45) della pericope Fortunato sottolinea il carattere cristocentrico della vita di Martino: Vir cui Christus amor, Christus honor, omnia Christus / flos, odor, esca, sapor, fons, lux, uia, gloria Christus. /
Huius in affectu insertus, solidatus, adultus/ ac uelut arbor agri secus est ubi
cursus aquarum,/ flore, comis, foliis et fructu perpete gaudens,/ ornata aeternae fert poma perennia uitae. («L'eroe per il quale Cristo era amore, Cristo
era onore, Cristo era ogni cosa, Cristo era fiore, profumo, cibo, sapore, sorgente, luce, via, gloria. Nel suo amore era radicato, consolidato, alimentato e
come l'albero piantato nel campo accanto a un corso d'acqua, che gode continuamente di fiori, chioma, fogliame e frutti, egli produce i mirabili perenni
frutti della vita eterna»). Si noti la ripetizione epiforica di Christus e la reminiscenza al v. 344 di Ps 1, 3.
(54) Ven. Fort. uita Mart. 2, 468-75: « Per primo Severo cantò le tue gesta in un racconto in prosa e più tardi il beato Paolino le intonò in versi, entrambi illustri biografi capaci di sollevarsi fino a te, ma vinti dall'argomento anch'essi cedono nel canto. Io ho l'audacia di inserirmi nuvoloso tra così grandi luci, il più umile degli umili, tentando il canto delle imprese eccezionali di
un grande, io che vacillo con il piede e balbetto per l'affanno della lingua, e
rozzo nell'eloquio gusto ciò che mi sforzo di costruire». Quesnel, Venance
Fortunat, 141 ha opportunamente osservato che il v. 471 è parafrasi di Sulp.
Seu. uita Mart. 24, 1 uicti materiae mole succumbimus e anche per carmine,
che può riferirsi solo a Paolino, il poeta italiano tiene presente il citato luogo
sulpiciano, che così continua ut inertes poetae extremo in opere neclegentes.
(55) Il v. 476 assimila l'errore estetico al peccato morale, che si consuma
quando il poeta è incapace di raggiungere l'altezza del soggetto sacro.
(56) Cf. Paul. Nol. carm. 15, 32-33 munere Christi / audeo peccator sanctum et caelestia fari; vd., anche, A.V. Nazzaro, Il proemio della Laus sancti
Iohannis (Carm. VI) di Paolino di Nola, «Vichiana» IV Ser., 1 (1999), p. 60.
(57) Ven. Fort. uita Mart. 3, 21-23: «A questo punto remi Gallo, Martino
governi le vele, Cristo diriga il soffio dei venti grazie ai quali l'onda mi conduca in porto. Ora, mentre io navigo, il nocchiero racconti pure le gesta del santo». Questo proemio – nel quale il poeta attraverso la metafora della navigazione trova il modo per sottolineare la modestia del suo ruolo nell'impresa
208
poetica – corrisponde al proemio del quarto libro di Paolino (vv. 1-20), nel
quale il poeta aquitano dichiara di voler proseguire la sua operazione parafrastica, definita come translatio, con la coscienza che lo stile energico e luminoso dell'originale perderà il suo vigore attraverso la versificazione.
(58) Questa è la congettura di Th. Wopkens, recepita dal Petschenig; i
mss. tramandano uia uersa, lez. accolta da E.-F. Corpet (Oeuvres de Paulin
de Périgueux, Paris 1849), che traduce: «Grâce à toi, j'ai changé de route et
d'inspiration» (p. 111).
(59) Evidente appare il legame con Iuuenc. praef. 25-27. Entrambi i parafrasti, dopo l'inuocatio dell'introduzione, sono soliti inserirne altre nel corso
dell'opera, allo scopo o di ornare la narrazione o di esprimere un atto di fede.
(60) I cani, di cui Martino arresta la corsa, si muovono quasi cancri (3,
359).
(61) Idillico è il paesaggio, che ricorda il cielo, soggiorno delle vergini,
immaginato altrove da Venanzio (carm. 8, 3, 30 ista legit uiolas, carpit et illa
rosas./Pratorum gemmas ac lilia pollice rumpunt).
(62) Cf. A.V. Nazzaro, L'agiografia martiniana di Sulpicio Severo e le parafrasi epiche di Paolino di Périgueux e Venanzio Fortunato, in M.L. Silvestre
-M. Squillante (edd.), Mutatio rerum. Letteratura Filosofia Scienza tra tardo antico e altomedioevo, Napoli, La città del Sole, 1997, pp. 301-46.
(63) Anubis è il dio egizio dalla testa di cane (cf. Verg. Aen. 8, 698 latrator Anubis).
(64) Cf. Ven. Fort. Mart. 4, 249-50 Quae subuersa suis genuerunt lucra
ruinis/ac resoluta feris creuerunt templa fauillis. Si notino i due efficaci esametri leonini.
(65) Sulla presenza dell'episodio virgiliano in Paul. Petr. 5, 619-36 rimando a Gärtner, Zur christlichen Imitationstechnik, pp. 81-83.
(66) M. Roberts (The Jeweled Style, pp. 136-37) adduce i vv. 678-83 come esempio di «jeweled style» e ne analizza l'influenza ausoniana.
(67) Cf. Ven. Fort. Mart. 4, 331-32 Historiae nobis oritur hic longior ordo,/
sed breuiore uia data per conpendia curram.
(68) A proposito del v. 487, che è mutuato tal quale da Paolino (v. 857) e
mal integrato nella frase, la Quesnel, Venance Fortunat, p. 165, insinua il dubbio che esso sia stato inserito per errore da un copista.
(69) Sulla metafora della tessitura cf. Labarre, Le manteau partagé, pp.
67-70.
(70) Per questo carme – oltre che per una storia dell'apostrofe al libro nell'antichità – si veda, ora, Sidonio Apollinare, Carme 24, Propempticon ad libellum. Introd. trad. e comm. a cura di Stefania Santelia, Bari, Edipuglia,
2002.
(71) Cf. Ven. Fort. uita Mart. 4, 634 Scit nihil esse meum, sua sed sibi dona recurrunt: Martino è così il donatore e il donatario del libretto.
(72) Sul viaggio compiuto da Venanzio si vedano M. Pavan, Venanzio
Fortunato tra Venetia, Danubio e Gallia Merovingica, in Venanzio Fortunato tra
Italia e Francia, Treviso 1993, pp. 11-23 e G. Rosada, Il “viaggio” di Venanzio
Fortunato ad Turones: il tratto da Ravenna ai Breonum Loca e la strada per
Submontana Castella, ibid., pp. 25-57. Sui motivi di questo viaggio (Venanzio
clericus uagans, pellegrino, agente bizantino?) cf. Labarre, Le manteau partagé, pp. 33-35.
(73) Vd.Quesnel, Venance Fortunat, p. 7.
(74) Ven. Fort. uita Mart. 4, 712: «Dovunque si sente il nome di Cristo, si
sente la gloria di Martino».
(75) Sulp. Seu. Vita 21, 4: «Così non lontano dal monastero viene trovato
quasi esanime. Tuttavia, nell' esalare l'ultimo respiro, rivela ai fratelli la causa
della ferita mortale: mentre stava stringendo le redini allentate ai buoi che erano sotto il giogo, un bue liberò di scatto la testa dal giogo e gli affondò un corno nell'inguine. E dopo non molto tempo rese la vita. Vedi tu per quale giudizio del Signore al diavolo è stato dato questo potere».
(76) La qualità formale del brano è stata efficacemente rilevata da
Fontaine (SCh 135, 959s.): «rapidité du style et des expressions militaires, technique de reprise du vocabulaire expressif d'un récit à l'autre, propriété
209
exacte des verbes de mouvement, densité obtenue par le style indirect et le
relief discret de l'ordre des mots».
(77) Le incornate dei buoi sono oggetto di disposizioni legali sia presso
i Giudei (exod 21, 28) che presso i Romani (Iust. inst. 4, 9).
(78) Paul. Petr. uita Mart. 3, 187-200: «E si verifichi ormai senza indugi
questa congettura. Allontanatisi non di molto dai loro confini, vedono il poveretto mezzo morto mentre esalava gli ultimi soffi di vita. Egli, tuttavia, mentre
scioglieva nella morte gli occhi illanguiditi, con un mormorio della lingua singhiozzante spezzato dai rantoli riuscì a emettere dal gelido petto un filo di voce ed esporre le cause della ferita. Un giovenco, mentre si accingeva a regolare le redini del giogo allentate stringendo le corregge, liberando con movimento ondulatorio la testa e ribellandosi al padrone, con il tartareo corno
aveva trafitto il molle inguine. Dopo aver raccontato ciò, ammutolì, serrando
le labbra, e allora reclinò il capo spossato dalla morte, mentre un pallore giallastro tinse il volto e le membra sul corpo irrigidito. Di questa fine morì».
(79) Cf. Quint. inst. 8, 4, 26-27 Potest adscribi amplificationi congeries
quoque uerborum ac sententiarum idem significantium. Nam etiam si non per
gradus ascendant, tamen uelut aceruo quodam adleuantur. La congeries,
che si realizza attraverso il moltiplicarsi di un solo fatto, si distingue dal synathroismòs, che si realizza attraverso l'accumulo di più fatti.
(80) Cf., tra gli altri, Verg. Aen. 5, 275 seminecem liquit saxo lacerumque
uiator (in questo caso è l'animale vittima della crudeltà dell'uomo) e Sil. 10,
454-457 confossus pectora telis, / seminecem extremo uitam exhalabat in auras / murmure deficiens iam Cloelius oraque nisu / languida uix aegro et dubia ceruice leuabat: al di là dell'impiego di seminecem, non è improbabile
che il luogo siliano possa costituire il modello della pagina paoliniana.
(81) Il nesso glaciali corpore rimanda a Ou. met. 9, 582 obsessum glaciali frigore corpus.
(82) Ven. Fort. uita Mart. 2, 157-60: «I monaci incaricati lo trovano mezzo
vivo, mentre esalava con gemiti gli ultimi respiri e, mentre ancora erra un alito di vita, spiega la sua morte: il toro, liberato un corno, gli ha trafitto l'inguine. Resa testimonianza alla verità dell'accaduto, lasciò la vita insieme con la
voce».
(83) L'intertesto virgiliano conferma la lez. errat contro la congettura iret
di Leo.
(84) La scomposizione del racconto sulpiciano comporta un affievolimento della grandezza epica; cf. H. Junod-Ammerbauer, Studien zur Vita
Sancti Martini des Venantius Fortunatus (diss.), Vienna 1966, p. 159.
(85) Cf. E. Ebert, Histoire Générale de la Littérature du Moyen Age en
Occident (trad. fr.), I, Paris 1883, 573-76; D. Tardi, Fortunat. Étude sur un dernier représentant de la poésie latine dans la Gaule Mérovingienne, Paris
1927, p. 184-87; L. Pietri, La ville de Tours, p. 74ss. Generico è anche il giudizio di R. Martin e J. Gaillard (Les genres littéraires à Rome, Paris 1981, p.
84 e 91), che, poco entusiasti di Giovenco e Sedulio, considerano la Vita
Martini di Fortunato la sola vera epopea della letteratura latina cristiana, anche se parzialmente fallita.
(86) Cf. Fontaine, Naissance de la poésie, p. 271: «Par un chassé-croisé
chronologique, qui n'a rien d'isolé en ces ‘temps de transition’, c'est Fortunat
qui, par tous ces traits, s'avère encore un homme de l'Antiquité, et c'est le
long sermon de Paulin qui a déjà l'aspect le plus médiéval».
(87) Di quest'avviso è il Chase, The Metrical Lives, p. 58.
(88) Cf. Ven. Fort. uita Mart. 4, 520-21 Quod superest etiam memoretur
honore patroni,/consummanda suo properat quia pagina textu.
210
GIOVANNI POLARA
Università degli studi di Napoli “Federico II”
I carmina figurata di Venanzio Fortunato
Le scuole italiane che Venanzio poté frequentare alla
metà del VI secolo erano ancora serie ed efficienti, e svolgevano bene il loro compito di garantire un minimo di mobilità sociale e di dare ai giovani una buona professione attraverso gli sperimentati studi classici, soprattutto quelli letterari, che costituivano da più di mezzo millennio il piatto forte
di una formazione che aveva avuto non pochi meriti nell’assicurare all’impero un ceto dirigente capace di farlo durare
così a lungo. Quello stesso Giustiniano che aveva voluto la
completa distruzione del popolo ostrogoto tributava un non
piccolo elogio al suo più grande re quando, nel 554, dichiarava di ispirarsi ai provvedimenti di Teoderico per quanto
riguardava l’organizzazione della scuola a Roma1, mentre le
notizie di cui disponiamo, grazie ad Ennodio, sulle scuole
lombarde e ancor più quelle che Aratore e lo stesso
Cassiodoro2 ci tramandano sulle scuole di Ravenna dimostrano la loro capacità di attrarre allievi non solo da tutta
l’Italia settentrionale, ma anche dalla Gallia.
La forza di queste scuole era soprattutto nella loro capacità di fornire agli studenti, proprio grazie a quei consolidati
e sperimentati programmi, la possibilità di attrezzarsi a
molte diverse professioni e di essere pronti ad adeguarsi, di
volta in volta, alle necessità della vita: solo le arti del trivio –
la grammatica, la retorica e la dialettica – potevano garantire tanta flessibilità, e perfino l’ultimo Cassiodoro, quello che
nella seconda metà del secolo scriveva le Institutiones, non
poteva che elogiarne le straordinarie potenzialità pratiche e
professionalizzanti, di fronte alle caratteristiche divinamente
teoriche, ma sostanzialmente un po’ troppo astratte, di quelle del quadrivio, tutte figlie della matematica. E senza dubbio la straordinaria fertilità di scrittore, la versatilità letteraria
e la sorprendente disponibilità a parlare bene di tutti o quasi
i potenti che incontrava sulla sua strada devono molto agli
studi ravennati; ma nella scuola Venanzio acquisì anche una
competenza (come la chiamano quelli che pensano che sia
211
possibile avere competenze che non siano anche e in primo
luogo conoscenze) che non avrebbe mai creduto potesse
tornargli utile, e invece gli risolse un difficile problema e gli
garantì un posto di primo piano nella storia di un genere letterario strano ma meno irrilevante di quanto comunemente
si creda.
Che nella scuola si insegnassero i carmi figurati, quella
specie di complicatissime parole crociate che all’epoca di
Costantino avevano goduto di un particolare prestigio con
Optaziano Porfirio, può sembrare oggi al di là di qualsiasi
credibilità, e qualunque professore si illudesse di rinverdire
la tradizione non produrrebbe altro risultato che l’intasamento delle linee del telefono azzurro; eppure perfino nel IX
secolo – una delle non poche età che vengono gratificate
del titolo di Rinascita o Rinascimento – Incmaro vescovo di
Reims poteva rimproverare all’omonimo e odiato nipote,
vescovo di Laon, che le sue pessime inclinazioni erano risultate evidenti già quando era ragazzino, perché non sapeva
fare bene i carmi figurati che lo zio gli assegnava come
compito3. Sembra, purtroppo, che né all’uno né all’altro dei
due Incmari si riferisca il divertente epigramma riportato nel
terzo volume dei Poetae Latini aevi Carolini, che Traube riteneva indirizzato contro il maggiore Incmaro e Cappuyns,
invece, pensava che fosse scritto da lui contro il nipote4; ma
le altre notizie che abbiamo sui due sono più che sufficienti
per farci concludere che insegnare o imparare, più o meno
bene, a comporre carmi figurati non fosse garanzia di buon
carattere e vita specchiata: non è tuttavia questo che per il
momento ci interessa, ma la prova – e questa è sicura – di
una continuità dello studio dei carmi figurati, da Costantino
a Carlo Magno e ai suoi immediati discendenti, ai fini della
formazione dei futuri intellettuali5.
A dire il vero, Venanzio nega esplicitamente di conoscere suoi possibili predecessori nel genere letterario, di cui
pretenderebbe di essere in qualche modo il primus auctor,
e in questo modo vorrebbe far credere che la sua poesia
figurata non nasce dalla lettura del testo di Optaziano e da
un’imitazione piuttosto fedele delle sue tecniche, ma piuttosto da una personale e originale meditazione su quel passo
dell’ars poetica di Orazio in cui pittori e poeti vengono accomunati nella licenza che viene loro concessa di osare cose
nuove6. È una bugia assolutamente motivata e giustificabile,
perché l’esaltazione della novitas che contraddistinguerebbe una delle sue poesie figurate, quella inviata al vescovo
Siagrio di Autun7, serviva a far crescere il valore del dono e
212
a facilitare dunque il conseguimento dell’onestissimo scopo
che esso si proponeva, cioè la liberazione di uno schiavo di
proprietà del vescovo8, ma è comunque una bugia: le tre
composizioni che abbiamo sono costruite infatti fin nei minimi particolari secondo il modello optazianeo, con il quadrato formato da un numero dispari di versi, ognuno dei quali
contenente un numero di lettere esattamente uguale a quello dei versi stessi. Due su tre, poi, corrispondono pienamente alla struttura prediletta da Optaziano, quella con 35
versi di 35 lettere, mentre la terza – proprio il carme per
Siagrio – si differenzia di pochissimo, adottando un 33 per
33 che si dichiara motivato dall’intenzione di usare, simbolicamente, il numero degli anni di vita del Cristo, che liberò
l’umanità dalla schiavitú del peccato; in un caso, infine, la
figura stessa ricalca, sia pure in maniera un po’ semplificata, quella di un carme del poeta costantiniano9, con una
coincidenza che non può essere assolutamente casuale e
garantisce una sicura derivazione del testo di VI secolo da
quello del IV.
Ma anche se da Optaziano sono ripresi il genere e, insieme con questo, varie tipologie di formule e di tecniche
espressive, Venanzio è comunque un innovatore, e i suoi
carmi meritano attenzione non meno di quelli del predecessore o di quelli dei suoi successori di età carolina. Per motivi diversi, anzi, ciascuno dei tre carmi ci dà notizie di rilievo
su Venanzio, sui destinatari dei suoi testi, sui modi con cui i
carmi venivano stesi e – almeno in un caso – mostrano
un’importante innovazione, che anticipa l’in honorem sanctae crucis di Rabano Mauro ed è quindi destinata ad avere
notevole fortuna nella successiva produzione dei carmi figurati; può dunque valere la pena di riprendere in esame il
complessivo significato dei tre carmi, nonostante sia abbastanza recente un lavoro di Margaret Graver che se ne
occupa10.
Non è facile stabilire un ordine cronologico dei tre componimenti, due dei quali compaiono nel secondo libro e
sono dedicati ad Agnese e Radegonda11 mentre il terzo, che
fa parte del quinto libro, è quello già ricordato per Siagrio,
Augustidunensis opus tibi solvo Syagri, accompagnato da
una lettera allo stesso vescovo sui motivi della dedica e sulla
tecnica poetica impiegata: come ha, infatti, recentemente
ribadito Marc Reydellet12, all’interno del primo corpus dei
carmi, quello che comprende i libri dal primo al settimo, le
poesie non sono disposte secondo l’ordine di composizione
dei testi. Anche le dichiarazioni di novitas presenti nella let213
tera che accompagna il carme per Siagrio hanno scarso
valore: se esse non sono credibili per quanto riguarda il rapporto con Optaziano, altrettanto poco ci possono garantire
la priorità di quel carme rispetto agli altri due. Può darsi,
insomma, che, dopo quello per Siagrio, Venanzio abbia ritenuto doveroso indirizzare anche alle sue generose protettrici qualche carme figurato, ma almeno altrettanto probabile
è che siano state scritte prima le due poesie del secondo
libro, e che le imprecisioni – peraltro pochissime in rapporto
alla complessità del lavoro – che si riscontrano nell’altra non
siano prova della sua priorità, ma solo conseguenza della
fretta con cui essa fu composta, per tentare di riscattare al
più presto lo schiavo, prima che avvenisse qualcosa di irreparabile.
Ci sono anzi vari indizi che potrebbero essere addotti a
favore di questa seconda tesi, anche se bisogna ammettere
che nessuno di essi è di per sé sufficiente a costituire una
prova. I due carmi del secondo libro sono collocati in una
posizione di tutto rilievo, visto che, insieme con i distici in
honore sanctae crucis, stanno nientemeno che fra il pange
lingua e il vexilla regis prodeunt, dando così vita ad una
sezione tutta dedicata alla croce, tematica cara a
Radegonda ed Agnese, ma anche costantiniana quant’altre
mai. Non per nulla l’invenzione di sant’Elena era all’origine
della preziosa reliquia, donata nel 569 da Giustino, di cui
andava orgoglioso il monastero della Santa Croce, e proprio
in occasione di quel gesto di particolare considerazione da
parte dell’imperatore che risiedeva nella città di Costantino
Venanzio aveva scritto, appunto nel 569, il vexilla regis. Si
aggiunga che Costantina, la figlia di Costantino il grande,
nel dedicare a sant’Agnese la basilica romana, aveva voluto che vi si leggesse un’iscrizione acrostica con il proprio
nome, che alcuni studiosi – sia pure senza argomenti particolarmente convincenti – vorrebbero attribuire proprio ad
Optaziano13.
C’erano dunque, con la croce e sant’Agnese, tutti i presupposti perché Venanzio si volesse identificare con
Optaziano, attribuendo a Radegonda il ruolo di Costantino;
l’innovazione, l’ammodernamento da apportare sarebbe
stato quello di dare alla santa croce il ruolo fondamentale (e
si potrebbe ben dire centrale, anche dal punto di vista della
collocazione nella pagina) che nel libellus di Optaziano è
invece attribuito, e non a caso, al monogramma di Cristo.
Anche se qualche croce non manca, qua e là, nei carmi del
poeta del IV secolo14, si tratta però sempre di immagini poco
214
marcate, al limite del motivo geometrico, e assai lontane
dalla raffinatezza di altri simboli, in primo luogo quello dell’in
hoc signo vinces15, ma pure le cifre che rappresentavano la
ricorrenza dei primi vent’anni di regno, le quali ritornano in
vari carmi con significativa frequenza16, o la palma della vittoria, la nave dello stato, lo schieramento delle truppe e altre
rappresentazioni che oggi non ci è facile ricostruire, ma
della cui presenza e significato simbolico il poeta stesso ci
dà notizia nel testo dei componimenti. Optaziano, peraltro,
non era un cristiano, e la sua adesione alla nuova fede era
assai strumentale e si proponeva come fine quello di toccare le corde giuste nell’animo dell’imperatore per ottenere la
revoca dell’esilio a cui era stato condannato: e non può
essere un caso che la parola crux non ricorre mai nei suoi
carmi, nemmeno in quelli siglati in figura dal nome di Gesù,
Iesus, dal suo monogramma o dai suoi simboli.
La croce di Venanzio si distingue invece per l’eleganza
della sua figura, con fusto e traversa larghi, con i bracci tutti
uguali (è iscritta in un quadrato, e l’incrocio fra i due assi
coincide con il centro del foglio) e con un allargamento
verso le estremità che la farebbero definire, in termini araldici, come una croce greca patente. Dal punto di vista della
tecnica è poco più che una variante del carme 3 di
Optaziano, con i quattro grossi esagoni agli angoli disposti
a quadrifoglio: la differenza consiste, sostanzialmente, nell’ingrossamento degli assi centrali, che non hanno più lo
spessore di una sola lettera, ma di cinque, e sono quindi
delineati dal loro contorno, e nel completamento della cornice formata dal primo e dall’ultimo verso, dall’acrostico e dal
telestico. L’effetto visivo è però completamente diverso,
decisamente – mi si lasci dire questa banalità – più medievale; l’immagine della croce spicca netta, in coincidenza
con il testo dei quattro versi che ne tracciano il perimetro e
che hanno inizio, nell’esametro che parte dalla nona lettera
del primo verso e si dirige verso il basso, prima inclinato in
diagonale verso destra, poi dritto, poi di nuovo in diagonale
ma verso sinistra, con la parola chiave crux e riesce ad evocare immediatamente le due destinatarie e il voto del poeta:
crux pia, devotas Agnen tege cum Radegunde.
È una raffigurazione che doveva piacere molto ai lettori
di Venanzio, visto che in uno dei manoscritti che ci tramandano il testo viene ripresa17, ma stavolta come croce latina
patente, in una rappresentazione che potremmo chiamare a
tutto tondo, senza il quadrato che in Venanzio ne costituisce
lo sfondo, e trova un ulteriore perfezionamento nello splen215
dido carmen figuratum de sancta cruce che compare nella
raccolta dei cosiddetti versus Augienses18. Ma oltre e più che
l’icona fu fertile di imitazioni e capace di Literaturprovokation,
di stimolare la produzione di nuova letteratura, l’idea di dedicare un carme alla croce e alla sua immagine: l’intero, straordinario liber in honorem sanctae crucis di Rabano Mauro
nasce, si può dire, da questo de signaculo sanctae crucis,
anche se tra le sue fonti il futuro vescovo di Magonza ricorda
Optaziano piuttosto che Venanzio19. Non poche delle tavole
dell’in honorem si rifanno, però, alla nuova forma inventata
dal nostro poeta, con croci che si allargano dal centro verso
i margini del foglio20 e, anche se manca un’esatta riproduzione della croce di Venanzio, le vicende della tradizione dei
carmi figurati in età carolina ci garantiscono che i dotti della
generazione immediatamente precedente a quella di
Rabano li conoscevano e li imitavano non meno di quelli di
Optaziano21, a tal punto che si può pensare che comparissero insieme con essi in codici antologici analoghi al nostro
Bernense 212, il quale raccoglie i testi di Optaziano insieme
con altri di sicura attribuzione e certamente databili all’VIII/IX
secolo e altri ancora di più difficile collocazione cronologica.
Non ci si può certo spingere fino a sostenere, solo con questi argomenti, che almeno parte della tradizione di Optaziano
riposi sul ragionevolmente ipotizzabile esemplare di cui poteva disporre Venanzio, ma senz’altro questa copia è un testimone rilevante della fortuna che ebbe il poeta costantiniano
prima del grande recupero di età carolina e conferma quel
passaggio dei suoi testi dall’Italia alla Francia, anche prima
che dalla Spagna alla Francia22, di cui i codici più antichi
sono già prova sicura, anche se non ancora sufficientemente indagata, soprattutto per la parte relativa ai primi secoli del
medio evo23.
Il secondo carme, però, non è importante solo come
esemplare a cui si sono ispirati i continuatori carolini di
Optaziano e di Venanzio: particolarmente preziose sono
infatti le notizie che ci dà sulle modalità di redazione dei
carmi per il semplice fatto di essere incompleto, e di testimoniare quindi una fase intermedia della stesura. Il componimento, che nei manoscritti segue immediatamente il de
signaculo sanctae crucis, è privo di intitolazione, ma non c’è
dubbio che anch’esso si proponesse di celebrare la croce;
la sua collocazione nella sezione che comprende, con l’altro
carme figurato, anche il pange lingua, il vexilla regis e i distici che vanno sotto il titolo di versus in honore sanctae crucis
è già sufficiente a dimostrarlo, ma una sicura conferma
216
viene dalla presenza al primo verso del riferimento al veniabile signum, l’insegna del perdono che il sacrificio del Cristo
meritò all’uomo afflitto dal peccato originale, e da altre frasi
che ricorrono nei versi messi in evidenza dal differente colore, quelli che Optaziano chiamava versus intexti, come gli
epiteti fidei decus, arma salutis, che si leggono alla fine dell’esametro che doveva costituire l’acrostico, e più ancora nel
dulce mihi lignum, pie, maius odore rosetis dell’esametro
che va in diagonale dal centro del primo verso alla prima lettera del verso centrale e poi da questa alla lettera mediana
dell’ultimo, nel dumosi colles lignum generastis honoris dell’esametro a questo speculare e soprattutto nel ditans templa dei crux et velamen adornas del mesostico.
Si diceva che il componimento è incompleto e si presenta in maniera assolutamente identica in tutti e quattro i
manoscritti che lo tramandano, con i soli primi sei versi a cui
vanno aggiunti tutti i versus intexti previsti dalla figura. Si
potrebbe pensare che all’origine di questa lacunosità non ci
sia il mancato completamento da parte dell’autore, ma piuttosto una vicenda della tradizione, insomma che non sia
stato Venanzio a lasciare a metà il suo lavoro, magari ripromettendosi di riprenderlo successivamente quando le
disponibilità di tempo e di spirito gli consentissero di affrontare la penosa fatica, ma il copista di quello che, a questo
punto, dovremmo considerare l’archetipo dei quattro codici
di IX-X secolo che ci hanno trasmesso il carme.
Quest’ipotesi però non trova particolare credito fra gli studiosi, perché è certamente più probabile che Venanzio
abbia incontrato nella scrittura difficoltà tali da dissuaderlo
dal proseguire (del resto ci ha comunque lasciato un carme
figurato sulla croce e il monastero di Radegonda) e non che
un amanuense in possesso del testo integrale steso dall’autore abbia interrotto al verso 6 la trascrizione di un pezzo
che aveva il suo principale valore nell’insieme policromatico
della pagina e nell’alternanza di vuoto e pieno e abbia sprecato così quasi ogni merito del lavoro già fatto, e anche la
stessa mancanza di un titolo fa pensare che il testo fosse da
ritenere non compiuto, anche se non immeritevole di essere
conservato a futura memoria, con la speranza di poterlo
prima o poi completare.
Venanzio stesso, del resto, nella lettera a Siagrio ci informa sul modo in cui procedeva alla collocazione delle lettere
nella pagina: prima venivano composti i versi in risalto, quelli di diverso colore, quale ne fosse il percorso, orizzontale,
verticale, obliquo o spezzato, e poi si procedeva al comple217
tamento della pagina scrivendo gli esametri del carme.
Questo comportava, oltre l’obbligo di dare a ogni verso il
medesimo numero di lettere24, la difficoltà di tener conto
degli incroci, dove le lettere erano già bloccate25: bisognava
rispettare i versi già tracciati, per non doverli trasformare
rimettendo in discussione quanto si era fatto in precedenza,
perché ogni modificazione dei versus intexti non poteva
essere apportata senza conseguenze per tutta la parte
superiore della pagina, dove già erano stati affrontati e positivamente risolti i nodi degli incroci26.
Queste notizie coincidono non solo con il modo in cui si
presenta il nostro testo, che ha i versus intexti completamente tracciati e il testo del carme in corso di composizione, ma anche con altre figure che sono più chiaramente
nello stato di work in progress: il carme di San Gallo vive
boni cultor gregis et mitissime pastor27, che per una curiosa
coincidenza presenta esattamente la medesima figura del
carme incompleto di Venanzio, è a un punto di elaborazione
ancora più iniziale, visto che sono stati costruiti esclusivamente i versi della cornice e per gli altri versus intexti sono
state bloccate soltanto alcune lettere, che lette di seguito
danno pastor virtuosus, con pastor nelle linee oblique e nel
mesostico e virtuosus nella prima, centrale e ultima lettera
del primo, del centrale e dell’ultimo verso. Ma il carme di
San Gallo è importante perché mostra come l’autore si
attrezzasse per risolvere un problema che angosciava
Venanzio, quello della necessità di intervenire a volte sugli
incroci ritoccando i versus intexti già stesi; a questo fine
accanto ad un primo esametro inserito nella figura ne è tracciato un altro, per così dire alternativo, che del primo condivide alcune lettere fondamentali per gli incroci immodificabili, ma non presenta i difetti e consente sostituzioni nelle
altre sedi meno impegnative, ma sempre potenziali fonti di
guai. Nell’acrostico, al posto di vix ubinam iustus intrat salvatur et ullus, che lascia uno spazio vuoto fra la diciassettesima e la diciannovesima lettera, si propone victor ubi validus intrat laudatur et agnus, che coincide nella vu iniziale,
nella ti centrale e nella esse finale; nell’ultimo verso, sotto a
s....... aulis gressum remanens ibis istis, con la difficoltà di
inserire un intero piede e un longum nelle sette lettere incerte che seguono la esse iniziale, si legge salvantis regis hic
purus splendes in aulis, che del primo esametro conferma le
tre lettere in incrocio, e anche per il telestico si intravedono
tracce di possibili varianti da usare in caso di necessità.
E veniamo, finalmente, al carme per Siagrio. I due testi
218
del secondo libro ci dicono molte cose sullo specifico letterario, del genere e della sua evoluzione dalla tarda antichità
al medioevo; questo del quinto libro, invece, insieme con la
lettera di accompagnamento, è un testimone di grande interesse sul piano storico, per la rilevanza del destinatario e
per la vicenda a cui fa riferimento. Si tratta di una di quelle
piccole storie di piccola umanità che un tempo si ritenevano
marginali rispetto alla corrente principale del grande fiume
della storia e del progresso, e che invece oggi appassionano molto più della storia degli eventi, perché ci fanno conoscere le condizioni di vita della maggior parte degli esseri
umani, quelli che quasi mai riescono a raggiungere la notorietà che solo la scrittura riesce ad assicurare.
Siagrio era una persona importante, non solo e non tanto
perché era vescovo di Autun, ma soprattutto per i suoi stretti legami con il potere politico. La Vita sancti Aridii abbatis28
ricorda che al venerabilis et egregius antistes Syagrius
Aeduae civitatis episcopus si rivolgevano le preghiere di
quanti cercavano un patrono presso la corte, eo quod honore dignissimus prae omnibus in regis palatio habebatur; ma
la personalità del vescovo, le sue qualità, le sue ambizioni e
i suoi difetti risultano evidenti sia dalle molte notizie
dell’Historia Francorum sia, soprattutto, dalle numerose lettere di papa Gregorio a lui dirette o che di lui parlano. Lo
PseudoFredegario sospetta che fosse così vicino a
Mummolo da tramare con lui contro Guntramno per sostituirlo con Gundobaldo29; forse le cose non stanno così, ma
se non dal tradimento certamente Siagrio non era immune
da qualche altro peccato: dava ospizio a personaggi poco
rispettabili, con una sorta di diritto d’asilo che impediva di
punire pericolosi peccatori, per cui, qualche decennio dopo
la vicenda di cui racconta il carme di Venanzio, papa
Gregorio sarà costretto ad inviargli una dura lettera30 in cui
gli ricorda che in certe situazioni risulta colpevole non solo
chi commette i fatti, ma anche chi non si oppone adeguatamente, perché è come se fosse d’accordo con il criminale
chi non si impegna come dovrebbe nell’eliminazione del
rischio: consentire videtur erranti, qui, corrigenda ut resecari debeant, non concurrit.
E non ci si ferma qui: nel luglio del 599 Gregorio è
costretto a scrivere una lettera a vari vescovi gallici, fra cui
Siagrio, perché non cadano nella simonia, non consacrino
vescovi (evidentemente a pagamento) personaggi che non
hanno ancora neppure preso gli ordini sacri, evitino le convivenze fra preti e donne31. È un quadro della Gallia e delle
219
abitudini di certi vescovi senz’altro sconsolante: “È cosa
nota che in Gallia gli ordini sacri vengono concessi attraverso il peccato di simonia” deve scrivere Gregorio, invitando
Siagrio e gli altri vescovi incolpati a convocare un sinodo per
rimuovere tanti crimini dalle loro diocesi, e a riprova della
poca fiducia che riponeva negli esiti della loro iniziativa scrive ad Aregio vescovo di Gap dandogli precise istruzioni di
partecipare al sinodo che sarà indetto da Siagrio e di riferirgli puntualmente sul suo andamento32. Peggio ancora, a
Siagrio e a un altro vescovo si rimprovera di aver costretto
una monaca a sposarsi contro la sua volontà33, con toni particolarmente pesanti, lamentando il pericolo che i due si
debbano giustificare dinanzi a dio di essere stati dei ruffiani
piuttosto che dei pastori, quippe qui in ore lupi ovem laniandam sine certamine reliquistis. Poi, magari, si scopre che il
problema non è solo, e forse non è tanto, nella violenza subita dalla monaca, ma sulla destinazione del suo cospicuo
patrimonio, la cui disponibilità va tolta al marito, perché la
santa donna ha dichiarato la sua precisa volontà che esso
venga investito in opere di pietà, ma questo è un problema
di Gregorio, non una notizia su Siagrio, così come un problema di Gregorio è che, contemporaneamente alle infocate lettere di cui si è detto, allo stesso Siagrio vengano indirizzate lettere di raccomandazione a favore di ecclesiastici
impegnati in compiti più o meno spirituali di evangelizzazione, dal grande Agostino di Canterbury, l’apostolo degli
Angli, al buon prete Candido34, amministratore del patrimonio papale in Gallia, cui patrimoniolum – un brillante neologismo della tarda antichità, attestato per la prima volta in
Girolamo35 – ecclesiae nostrae in illis partibus constitutum
commisimus.
Ma Gregorio era un gran papa, consapevole delle
responsabilità che la storia aveva caricato sulle sue spalle,
e pronto a difficili scelte che avrebbero reso meno simpatica a molti la sua figura: lo provò a sue spese il candido
Colombano, in occasione dei suoi scontri con la crudele
Brunilde, e molte delle moderne polemiche sulla figura di
Gregorio nascono dalla comoda posizione di chi, privo di
ruoli di rilievo, può permettersi astratti moralismi. Così,
Siagrio viene usato per quello che può e sa fare bene, nonostante il suo non irreprensibile comportamento di vescovo e
di cristiano. Se i re franchi hanno sottratto al vescovo di
Torino alcune sue proprietà in Gallia, è bene che Siagrio
intervenga presso la corte in suo favore, per ottenerne la
restituzione36; e per essere convincente Gregorio sa trovare
220
un argomento inoppugnabile: se non li fermiamo subito, crederanno di poterlo fare sempre impunemente, e quello che
per ora è toccato al povero e poco importante Ursicino
domani potrà capitare anche a vescovi potenti come te.
All’abilità di questo ragionamento corrisponde l’eleganza di
certe formulazioni retoricamente all’altezza del già ricordato
patrimoniolum: per sottolineare il prestigio di cui Siagrio
gode presso i re franchi si dice, con una litote che vale tanto
di più dell’esplicita affermazione della Vita Aridii, [reges]
quos vos in nullo credimus contristare.
Tra le finezze diplomatiche di Gregorio, un posto a parte
merita la concessione a Siagrio del mantello, da cui apprendiamo anche di un’altra delle debolezze del vescovo, che ci
può rapidamente riportare a Venanzio e al suo carme, una
vanità evidentemente connessa con una sostanziosa dose
di ambizione37. Assentendo alle incalzanti richieste del
vescovo, il pontefice gli concede infatti l’uso del pallio, ma
solo all’interno dell’edificio ecclesiastico, ed esclusivamente
al fine della celebrazione della messa; e nel concedergli
questo segno di distinzione, insieme con il titolo ad Autun di
seconda chiesa di Gallia dopo quella di Lione, Gregorio
trova il modo di ammonire il suo interlocutore ricordandogli
che un efficace svolgimento del sinodo contro la simonia e
le altre gravi e diffuse irregolarità rimane condizione preliminare perché Siagrio possa fregiarsi del mantello, e lo invita
ad impegnarsi presso i re franchi perché diano ogni possibile sostegno alle iniziative papali, quia praecellentissimos
filios nostros Francorum reges magnam vobis novimus
dilectionem impendere.
A questo personaggio, segnato dalla sua stessa potenza
e le sue umane debolezze, si dirige Venanzio perché voglia
dare la libertà ad uno schiavo di sua proprietà, il giovane
figlio di uno sfortunato cittadino di Poitiers. Ma come riscattare il prigioniero? Come versare un prezzo a Siagrio che
certo non aveva bisogno di danaro? Di qui la composizione
del carme, costruito anch’esso con la semplificazione di una
figura di Optaziano, quella del monogramma di Cristo, privata dell’arco superiore che completa la lettera rho, e destinato ad avere imitatori fra i carolini e i loro primi successori,
in particolare Milone di Saint Amand ed Eugenio Vulgario38,
di qui la bugia che si trattasse di un genere nuovo (e certo
Siagrio non era tipo da sapere qualcosa su Optaziano); di
qui il suggerimento di collocare la figura, come un quadro,
all’ingresso (di casa o della chiesa?): hoc opere parieti conscripto pro me ostiario pictura servet vestibulum39.
221
Il carme fu composto in fretta e reca, nel testo più che nell’immagine, le tracce di questa premura. La figura ha una
sola grossa irregolarità, peraltro molto ben risolta: il primo
verso, quello di dedica a Siagrio, non conta 33 lettere, ma 34:
in quo quippe exordio supercrescente apice non licuit vel solvere vel fila laxare, ne numerum transiliens erratica se tela turbaret, come dice l’autore nella lettera40. Ed ecco l’idea di
farne un fuori opera, non legato agli incroci, che vincolano i
versi da 2 a 34, che magari sarebbe meglio numerare da 1 a
33, secondo le intenzioni del poeta, assegnando ad
Augustidunensis opus tibi solvo Syagri il numero 0 o, a scelta, una lettera o un numero romano, e per di più di tracciarlo
non in linea retta, ma leggermente ricurvo, sopra una piccola
croce, quasi si trattasse del sostegno per sorreggere la tavola sulla parete. Per quanto riguarda la tecnica, si può segnalare solo un’altra particolarità, la presenza dell’abbreviazione
q; per que ai versi 17 e 34, in modo da risparmiare due lettere e non avere problemi agli incroci: una libertà che non si
riscontra nei carmi del secondo libro e in nessuno di quelli
genuinamente optazianei, bensì solo negli apocrifi 22 e 2441.
Per il testo, la situazione è piuttosto diversa, anche se
non così compromessa come vorrebbe il Leo. Alla pari di
molti filologi, non solo del suo tempo, l’editore è convinto
che i carmi figurati siano solenni porcherie e che i loro autori, invece di vergognarsene come avrebbero dovuto, si sentissero autorizzati alle peggiori nefandezze nei riguardi di
lingua e metrica, per la difficoltà dell’impresa affrontata42: è
un po’ l’atteggiamento che ha portato Shackleton Bailey ad
escludere dalla sua Anthologia Latina teubneriana i centoni
e altri componimenti ritenuti per vari motivi immeritevoli delle
cure ecdotiche43, peraltro senza troppi danni per la scienza
filologica, visto che comunque del Riese non si può tuttora
fare a meno. A scorrere l’edizione dei Monumenta, non si
può non sottolineare l’evidente differenza tra i carmi del
secondo libro, per i quali non ci sono particolari rilievi da
parte dell’editore, e questo del quinto, dove in almeno tre
passi si segnala che Venanzio coactus (evidentemente dalla
tecnica del carme figurato) insana scripsit. Ma, se non c’è
dubbio che la caratteristica di instant book, da spedire al più
presto per pagare il riscatto del prigioniero, avrà comportato un po’ di sciatteria, bisogna però pur dire che non sempre, anzi quasi mai, i rimproveri di Leo sono davvero convincenti, e già Reydollet e con lui Di Brazzano lo hanno a
volte segnalato.
Al v. 17, che l’editore stampa reptantisque dolo Eoois
222
excluditur ortu, gli incroci non lasciano dubbi sul fatto che le
lettere situate al centro del verso siano proprio EOOIS e che
l’ultima parola appartenga alla quarta declinazione, ORTV; il
testo però non piace a Leo, che annota: “debuit reptantisque dolo Eoo excluditur horto”. La conseguenza del peccato originale, del cedimento all’inganno del serpente (reptantisque dolo) è la perdita dello stato di grazia di cui
Adamo godeva nel paradiso terrestre, ampiamente descritta secondo il topos del locus amoenus nei versi da 6 in poi,
e quindi l’esclusione (excluditur) da qualcosa che deve
risultare dalle lettere incriminate EOOIS ... ORTV.
Per quanto riguarda la crux denunciata da Leo, è certo
che Eoois è indifendibile: non è una forma esistente o
ammissibile di Eous e per sintassi non avrebbe con chi
coordinarsi, mentre è necessario un attributo del sostantivo
collocato alla fine del verso, un singolare maschile coordinato con ortu-giardino o ortu-grazia primitiva, ma non c’è
bisogno di pensare ad una follia dell’autore che si sarebbe
inventato una parola inesistente. Et homo de terra tum
denuo decidit illuc / reptantisque dolo Eoo is excluditur ortu,
come giustamente ha ipotizzato Blomgren44 e stampano
Reydollet45 e Di Brazzano, si limita a ripetere, col pronome is,
il soggetto homo, quell’uomo nato dalla terra e tornato nel
fango con il peccato, privato della nobiltà di cui il creatore
aveva voluto fargli dono. Is è breve, non c’è dubbio, e ben
avrebbe fatto Reydollet a ricordare questo problema prosodico, ma lo stesso Leo46 ci dà un elenco piuttosto ampio –
più di una ventina di casi – delle sillabe brevi seguite da
consonante che diventano lunghe in tempo forte, o perfino
in tempo debole, e delle brevi che si allungano anche senza
essere in sillaba chiusa, tra cui un caso in questo stesso
componimento, al v. 29, sero vera data est vitalis emptio
morte; e comunque fra un non irragionevole allungamento in
sinalefe e in tempo forte e un iato come quello suggerito dall’ipotetica “correzione” di Leo, reptantisque dolo Eoo excluditur horto, con le cinque vocali consecutive che valgono
per ben quattro sillabe tutte lunghe, la scelta, sul piano della
metrica, non sarebbe delle più facili.
Per l’ortu=horto è vero che molto, nei versi precedenti,
indirizzerebbe verso l’immagine del giardino, con tanto di
fiori e ruscello; la descrizione della condizione di grazia precedente al peccato non si limita però al luogo in cui Adamo
vive: di lui, e di Eva, si ricordano la felicitas, il mantello di
luce che li ricopre, l’onore di cui godevano come signori di
tutta la terra. Di Brazzano parafrasa duplicando “egli è cac223
ciato dall’Oriente, dai paesi dell’Aurora”, sulla scia dell’”il est
chassé de l’Orient, du pays de l’Aurore” di Reydollet, che
allarga l’hortus, tutt’altro che conclusus, ad un’intera e
ampia regione47. Può darsi, anzi è probabile, che Venanzio,
come Isidoro48 fosse convinto che hortus nominatus quod
semper ibi aliquid oriatur, e che perciò dell’acca si potesse
tranquillamente, o addirittura si dovesse, fare a meno; può
darsi perfino che ne facesse per comodità un eteroclito49,
più o meno convinto di non infrangere particolari norme
grammaticali, ma non è detto che non volesse invece fare
riferimento proprio all’ortus di Adamo, alla sua origine divina, ai suoi diritti di nascita, all’originale stato di grazia di cui
godeva in quella lontana regione dell’oriente dove la fantasia dei poeti e del mito collocava il primo paradiso. A leggere la coppia di versi 16-17, che come si è visto costituisce
un’unità sintattica, sembra anzi che solo questa possa essere la soluzione capace di dare un senso all’intera frase: col
peccato originale, fra le due origini dell’uomo, quella dal
fango della terra e quella soprannaturale, prevale la prima,
e l’uomo torna alla terra da cui è stato tratto, ed è privato
della luminosità solare dell’origine celeste.
Infine, un fons che conferma la sicura conoscenza dei
carmi di Optaziano da parte di Venanzio: nel carme 27,
quello che ripropone la classica figura della zampogna di
Pan, al quindicesimo e ultimo verso Optaziano scriveva Eoo
lucis canit invitata sub ortu. È un ortus che non ha niente a
che fare con quello venanziano, quale che sia l’interpretazione che di quest’ultimo si voglia dare, e anche Eous ha
significati e connotazioni sostanzialmente diversi, con quell’immagine del sole che spunta ad oriente accompagnato
dalla musica, ma la collocazione finale del sostantivo e la
coincidenza dell’attributo sono significative e confermano il
ruolo di modello che il libro di Optaziano, compresi i calligrammi50, ebbe per Venanzio.
Gli altri due luoghi incriminati da Leo sono al v. 26 e al v.
29; dopo essersi soffermato sul mistero dell’incarnazione,
Venanzio affronta la passione (vv. 24-30):
a patre iure deus, homo dehinc carneus alvo,
ut nos eriperet, vili se detrahit auctor.
o regis venale caput, quod de cruce fixit,
telo voce manu malfactus verbere felle,
ac tu hac solvis captivos sorte, creator:
sero vera data est vitalis emptio morte;
ymnos unde deo loquor absolvente reatu.51
224
25
30
Leo, in apparato al v. 2952, attribuisce l’uso di venale nel
v. 26 alla necessità di mantenere il verso in un numero limitato di lettere, che avrebbe costretto il poeta ad alterare così
un più opportuno veniale, e ritiene frutto delle medesime
costrizioni il vitalis emptio, al posto del quale avrebbe preferito vitali exemptio. In effetti Venanzio usa veniabilis in riferimento alla croce e al perdono che essa recò all’umanità,
proprio in un altro dei carmi figurati, quello incompleto del
secondo libro53, e in questo del quinto poco più avanti tornano l’idea del riscatto (emptio, v. 29) e dell’assoluzione,
della liberazione (absolvente, v. 30); non sarebbe perciò
assurdo ipotizzare che qui il capo di Cristo, agnello di dio,
venga visto come causa della misericordiosa assoluzione
che restituisce gli uomini allo stato di grazia. Ma Venanzio
dice venale, e quindi il significato del passo va cercato con
questa parola, diversa anche per prosodia, seppur metricamente equivalente a veniale; e in fondo la parola scelta da
Venanzio non è affatto fuor di luogo nella descrizione delle
vicende che accompagnano la morte del Cristo, con la vendita da parte di Giuda54: ai trenta denari e alla vilitas cui fu
soggetto Cristo fa riscontro l’emptio con cui egli ripagò la
colpa dei primi genitori, una vitalis emptio, anche se data
con la morte, che a Venanzio premeva mettere in risalto
anche per ribadire la finalità che il carme si proponeva, cioè
quella di pagare il prezzo necessario perché Siagrio accettasse di rimandare a casa uno schiavo in suo possesso. Non
un’exemptio, dunque, termine troppo tecnico e giuridico
perché potesse avere le giuste risonanze emotive e trovare
spazio sia in riferimento alla passione di Cristo, sia per la
liberazione del giovane prigioniero, ma piuttosto un’emptio,
parola più usuale e capace di caricarsi metaforicamente rivitalizzando letterariamente quotidiane esperienze individuali;
e non c’è bisogno dell’ossimoro vitali morte per dare un tono
retorico alto al passo, che è anzi già così uno dei più efficaci del carme, con l’accumulatio del v. 27 e con la rapidità
con cui viene ripercorsa la scena della crocifissione.
Il testo dunque, in tutti e tre questi casi, non sembra condizionato da rimaneggiamenti causati dalla tecnica, ma piuttosto prodotto dalla libera scelta dell’autore, per quanto libera possa essere la scrittura di chi comunque si sottopone a
regole e legami sempre presenti nelle composizioni in versi.
E lo stesso vale forse anche per il luogo in cui più chiaro è
l’affanno del poeta, il verso 19. Qui si ripropone l’identico
problema che al v. 17 aveva indotto Leo a ritenere che l’intreccio fosse risultato troppo complesso per le capacità del225
l’autore, perché i due versi che scorrono nelle diagonali
sono al punto di maggiore vicinanza al mesostico55 e quindi
ben tre lettere una subito dopo l’altra sono costrette al rispetto delle esigenze dei versus intexti. Senza possibilità di
alternative, l’esametro è at deus excellens aie et de lumine
lumen, e l’aie, comunque vada interpretato56, è un pesante
tributo pagato alla tecnica; già nel 1926, però, il Weyman57
ha dato la soluzione che risulta finora più convincente, spiegando che dal calco latino aius per ®gioj (l’acca cade
anche nel successivo ymnos, e non vale la pena di interrogarsi troppo sulle motivazioni o sugli esiti prosodici della
caduta del gamma) deriva questo avverbio dalla precaria
fortuna, ma capace di dare un senso e una credibilità linguistica perfino a questo non felicissimo verso.
Note
(1) Nella Prammatica sanzione (la Novella pro petitione Vigili, app. VII 22
Schoell) si stabilisce la conferma dei finanziamenti deliberati da Teoderico a
favore delle scuole di Roma; altra questione è se le disposizioni di Giustiniano
furono rispettate, nella drammatica situazione che di lì a poco si sarebbe
creata con l’invasione longobarda: cf. P. Riché, Educazione e cultura nell’occidente barbarico dal VI all’VIII secolo, tr. it., Roma 1966.
(2) Arator ad Parth.; Cassiod. var. VIII 12.
(3) Capitula adv. Hincm. Laudun. LV 43; sulla disputa fra i due Incmari e
sul sinodo di Attigny (870) ancora preziose sono le pagine di M. Manitius,
Geschichte der lateinische Literatur des Mittelalters, I, München 1911, p. 352
e passim.
(4) Hic iacet Hincmarus cleptes vehementer avarus: / hoc solum gessit
nobile, quod periit. Sulla ripresa ausoniana individuata da G. Bernt e sui motivi per cui non ci sono prove attendibili che destinatario del testo sia uno dei
due più noti Incmari, v. F. Brunhölzl, Histoire de la littérature latine du moyen
âge, tr. fr., I 2, Louvain-la-Neuve 1991, p. 228 e nota 182.
(5) Cronologicamente più vicina a Venanzio è la testimonianza di Beda,
che nel de rythmo del suo de arte metrica (GL Keil VII 258) ricorda i carmi figurati di Optaziano per le loro caratteristiche metriche, ma dichiara di non volerli trattare nel dettaglio per il loro carattere non cristiano: eppure quel povero poeta aveva fatto di tutto per compiacere Costantino, collocando perfino il
monogramma del Cristo in molte delle sue figure.
(6) Hor. ars 9-10; cf. I. Closa Farrés, Horacio, Fortunato y Alexandro de
Ville-Dieu, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, Treviso 1993, pp. 259-266
(p. 262).
226
(7) Ven. Fort. carm. V 6, 12 his incertus et trepidus, ipsa novitate suspensus utrumne temptarem quae numquam adgressus sim, an cautius respuerem
quam incaute proferrem, tamen, licet invitus, loquor paene quod nescio. Le citazioni seguono il testo della recentissima e preziosa edizione di S. Di
Brazzano, Aquileia 2001 (Corpus scriptorum ecclesiae Aquileiensis VIII/1), con
qualche piccolo intervento sulla punteggiatura o nell’uso delle maiuscole.
(8) Nulla sembra confortare l’ipotesi, ancora in circolazione, che a Siagrio
si chieda di riscattare per conto terzi uno schiavo altrui, che nasce dall’eccesso di scrupoli di chi temeva di offendere Siagrio, e forse con lui tutti i vescovi, attribuendogli la proprietà di schiavi; giustamente Di Brazzano, nonostante quanto ipotizzato alla nota 47 di p. 304, traduce il secondo versus intextus (captivos laxans domini meditatio fies) con “lasciando liberi i prigionieri”. Allo stesso modo è inutile pruderie cercare cavilli casuistici per escludere
che Venanzio mentisse sapendo di mentire nell’attribuire a se stesso l’invenzione del carme optazianeo.
(9) Ven. Fort. carm. II 5, Opt. Porf. carm. 18; la figura, con la semplificazione introdotta da Venanzio, ritorna nei versus de sancta cruce ad Carolum
di Alcuino, nel carme figurato di Teodulfo e in un carme incompleto del monastero di San Gallo (cf. L. Caruso - G. Polara, Iuvenilia loeti, Roma 1969,
Livorno 19932); per le deduzioni che si possono trarre da questa fortuna della figura venanziana a proposito della diffusione dei suoi carmi figurati si veda quanto si dirà più avanti.
(10) M. Graver, “Quaelibet audendi”: Fortunatus and the Acrostic,
«Transactions of the American Philological Association» 123 (1993), pp. 219245. L’articolo è però quasi tutto dedicato ad illustrare la lettera a Siagrio, definito “unknown” anche perché si ignorano le lettere di papa Gregorio a lui dirette, o nelle quali si parla di lui; anche la situazione che dà origine alla lettera e al carme non è pienamente intesa: la Graver è fra quanti pensano che a
Siagrio non si chieda lo schiavo, ma i soldi necessari per riscattarlo.
(11) Ven. Fort. carm. II 4; 5.
(12) M. Reydellet, Tradition et nouveauté dans les carmina de Fortunat,
in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, pp. 81-98 (p. 84).
(13) Opt. Porf. carm. 31; cf. il commento nel vol. II dell’edizione paraviana, Torino 1973, pp. 168-169.
(14) Carm. 2; 3; 18.
(15) Carm. 8; 14; 19. Forti dubbi ci sono sull’autenticità optazianea del
carm. 24, anch’esso con il monogramma del Cristo: cf. Publilii Optatiani
Porfyrii Carmina, Augustae Taurinorum 1973, I pp. XXX-XXXI; II 153-157.
(16) Carm. 5; 7; 18; 19.
(17) Ven. Fort. carm. app. 2.
(18) MGH poetae IV 3, pp. 114-116.
(19) Prol. 67-69 Perrin (CCh cm C).
(20) Così è, ad esempio, per il carme 6, de quatuor virtutibus principalibus, il 18, de mysterio quadragenarii numeri, il 23, de numero vicenario et
quaternario, mentre il carme 8, de mensibus duodecim ricorda piuttosto il
carme 3 di Optaziano.
(21) Cf. sopra nota 9.
(22) Cf. Albarus Cordubensis, Vita sancti Eulogii archiepiscopi Toletani et
martyris 3.
(23) Fra Venanzio e i carolini occupa una posizione importante Beda, che
conosceva sia Optaziano sia Venanzio; per la diffusione dei carmi figurati in
Inghilterra va tenuta presente anche la testimonianza di Milret di Worcester
(MGH ep. I 122, p. 245, ll. 3-4).
(24) Ven. Fort. carm. V 6, par. 8.
(25) Ven. Fort. carm. V 6, par. 10.
(26) Ven. Fort. carm. V 6, parr. 10-11.
(27) MGH poetae V 1, p. 528.
(28) MGH scr. rer. Mer. III, p. 695.
(29) Chron. III 83, MGH scr. rer. Mer. II, p. 117.
(30) Greg. M. epist. 9, 224.
(31) Greg. M. epist. 9, 219.
227
(32) Greg. M. epist. 9, 220.
(33) Greg. M. epist. 9, 225.
(34) Greg. M. epist. 6, 55.
(35) Hier. epist. 54, 15, 1.
(36) Greg. M. epist. 9, 215.
(37) Greg. M. epist. 9, 223.
(38) Per quanta fantasia si voglia mettere in campo, è praticamente impossibile riconoscere nell’incrocio di mesostico e diagonali all’interno di una
cornice formata dal primo e dall’ultimo verso, dall’acrostico e dal telestico “la
facciata di una chiesa” o “la finestra di una prigione”, come vorrebbe la
Graver (e come erano le prigioni di Siagrio? e, più ancora, come erano le loro finestre?).
(39) Ven. Fort. carm. V 6, par. 17.
(40) Ven. Fort. carm. V 6, par. 8.
(41) Cf. Publilii Optatiani Porfyrii Carmina, cit., I pp. XXIX-XXXI; II pp. 140141; 153-157. Rabano Mauro (in honorem sanctae crucis, prol. 65-69 Perrin)
si riferisce evidentemente a questi due carmi, da lui ritenuti autentici, quando
dice di non essersi permesso abbreviazioni se non quelle già attestate da
Optaziano, e cioè per la congiunzione que e per la finale bus di dativi e ablativi plurali.
(42) Ven. Fort. Opera poetica, recensuit et emendavit F. Leo, Berolini
1881, MGH aa IV 1, p. XXV: “in artificiosis carminum quadratorum ineptiis sine dubio admisit talia: ortus ymnus paradyssus Cristus, impeditus scilicet difficultatibus quibus superandis quantopere desudaverit ipse verbose exponit
(V, 6) quibusque coactus plane insana sibi indulsit (cf. ad V, 6 carm. 17)”.
Questa convinzione consente all’editore di normalizzare la grafia dei manoscritti, attribuendo gli “errori” ai copisti, nonostante la sicura presenza di forme innovative appunto in quei componimenti che, come i carmi figurati, possono dare sicure notizie sulle scelte grafiche dell’autore proprio per la loro
stessa tecnica compositiva.
(43) Anthologia Latina I 1, edidit D.R. Shackleton Bailey, Stutgardiae
1982, p. III: “Centones Vergiliani (Riese 7-18), opprobria litterarum, neque ope
critica multum indigent neque is sum qui vati reverendo denuo hanc edendo
contumeliam imponere sustineam”.
(44) S. Blomgren, In Venantii Fortunati carmina adnotationes, «Eranos»
(1946), pp. 107-109.
(45) Il carme è stampato come figura nell’edizione, ma è poi riportato con
la suddivisione delle parole nelle note alle pp. 171-172.
(46) Ed. cit. p. 423.
(47) Da Blomgren dipendono, per la difesa di ortu, sia Reydollet sia, ovviamente, Di Brazzano; Blomgren considera il sostantivo un’inutile ripetizione
del concetto di “sorgere” già presente in Eoo; di qui la duplicazione nelle traduzioni.
(48) Isid. orig. 17, 1, 1.
(49) La paretimologia, secondo Carisio, risale a Varrone; l’ablativo in -u
sarebbe invece solo di Venanzio: cf. ThlL VI 2, 3015, 32; 35-40.
(50) La cosa non è senza rilevanza ai fini di una possibile ricostruzione
del testo di Optaziano di cui disponeva Venanzio: il c. 27 compare solo in un
ramo della tradizione, plenior rispetto a quello più documentato dai testimoni
di età carolina; se l’integrazione del Bernense 212 e del ramo a cui fanno capo il Parigino 7806 e l’Augustaneus 9 Guelferbytanus avessero a che fare con
il codice di Venanzio (e con Beda?) si potrebbe avere un po’ più di luce sui
percorsi delle due sillogi del testo di Optaziano. Cose fondamentali, in questo senso, ha del resto già detto D. Schaller, Die karolingischen
Figurengedichte des Cod. Bern. 212, in “Medium aevum vivum”. Festschrift
W. Bulst, Heidelberg 1960, pp. 22-47.
(51) Così stampano Leo, Reydollet, Di Brazzano, ma non escluderei che
al v. 28 non si debba leggere ac tu, perché mi sembra che actu sia richiesto
dall’andamento della frase, fortemente scompensato da quella congiunzione
che coordinerebbe il v. 28 alla parte precedente, la quale invece ha bisogno
di far parte della stessa proposizione per giustificare in maniera più chiara il
228
maschile malfactus (sc. tu – sottinteso! – soggetto di solvis, a cui fa riferimento il secondo vocativo, il maschile creator); per l’uso di actus in relazione
all’impresa salvifica del Cristo cf. Cypr. Gall. iud. 1.
(52) “Ut v. 26 veniale, hic scribendum fuerat vitali exemptio”.
(53) Ven. Fort. carm. II 5, 1 extorquet hoc sorte dei veniabile signum.
(54) Giustamente Di Brazzano traduce “o capo del re messo in vendita”.
(55) Nel v. 18 non sono vicini, ma sovrapposti, e questo da un lato comporta la necessità di individuare una lettera che vada bene per tutti e tre, oltre che per il verso orizzontale (e Venanzio si sofferma a lungo su questo nella lettera a Siagrio, ai paragrafi 9 e 15), dall’altro però non provoca una serie
di tre lettere consecutive bloccate nel testo del carme.
(56) Prima di Weyman (cf. infra nota 57) l’unica ipotesi meritevole di essere presa in considerazione era quella di Mommsen, citata in apparato da
Leo, che dietro aie si dovesse leggere il greco ¶eà: la trascrizione dell’avverbio non sarebbe delle più “regolari”, ma già Optaziano si permette qualche libertà nell’uso delle parole greche (cf. 19, 14); sembra purtroppo improbabile
un ãîe =a<n>i<ma>e, non tanto per il mancato computo delle nasali nel rigo
(pro m littera alicubi virgulam super antecedentem sibi vocalem notavi, Rab.
in hon. s. c., prol. 67-69 Perrin), quanto per il complessivo significato del passo, per i rapporti sintattici fra le parole (et dovrebbe essere in iperbato) e soprattutto per la sostituzione del dittongo con la semplice e.
(57) C. Weyman, Beiträge zur Geschichte der christilich-lateinischen
Poesie, München 1926, p. 166.
229
FRANCA ELA CONSOLINO
Università degli studi dell’Aquila
Venanzio poeta ai suoi lettori
Sul soggiorno di Venanzio Fortunato nella Gallia dei
merovingi e sui suoi rapporti con re, dignitari e vescovi
abbiamo solo la testimonianza dei suoi scritti (perfino
Gregorio di Tours, suo destinatario privilegiato, lo menziona
solo una volta e solo per meriti letterari)1: una testimonianza
– come ci ha ricordato Cristina La Rocca – unilaterale e non
sempre soddisfacente, che non ci informa né sulle ragioni di
quell’episodio fondamentale della sua vita che fu il viaggio
in Francia2, né sul perché decise di stabilirvisi, né sulla sua
carriera ecclesiastica (non sappiamo neppure in che anno
divenne vescovo di Poitiers). Preciso perciò subito che in
questo mio intervento non prenderò in esame le notizie strettamente biografiche disseminate nei carmi di Venanzio –
peraltro già sfruttate al meglio in egregie ricostruzioni della
sua carriera e dei milieu in cui questa si svolse3 – e analizzerò invece il modo in cui egli presenta la propria attività di
poeta e la ‘situa’ nel contesto della società merovingia: le
ragioni per cui egli dice di scrivere, i giudizi da lui espressi
sulla propria poesia, le sue eventuali aspettative a questa
collegate.
Quanto al pubblico cui Venanzio si rivolge, credo si
possa tranquillamente affermare che già al momento in cui
scriveva – ben prima di mettere insieme le due raccolte di
carmi da lui composti nelle e per le più svariate circostanze4
– oltre che agli effettivi e identificati dedicatari e/o committenti egli pensasse ad un più largo raggio di potenziali lettori. Un testo non pubblicato dall’autore come carm. XI, 6, in
cui – a sgombrare il campo da malevole insinuazioni – il
poeta ribadisce alla badessa Agnese di amarla di amore
casto e fraterno, ha senso solo se scritto per varcare le mura
del convento ed essere letto da persone esterne alla comunità monastica della Sainte-Croix. Né va sottovalutato che la
gran parte dei suoi carmi non recitati in pubblico – avendo
per committenti e/o dedicatari uomini di Chiesa ed esponenti dell’aristocrazia galloromana e franca – dovette
comunque circolare fra costoro5. È poi scontato che egli pre231
vedesse un’ampia circolazione della sua opera poetica più
impegnativa, la vita sancti Martini, che già nasce con due
destinazioni dichiarate: il monastero di Radegonda a Poitiers,
come mostra la dedica in distici a lei e ad Agnese, e la diocesi di Tours, come è provato dall’epistola in prosa con cui
Venanzio accompagna l’invio del testo all’amico vescovo
Gregorio6, il quale – impegnato com’era ad accrescere la
fama di Martino e il prestigio della propria sede – non avrebbe mancato di promuovere la diffusione del poema.
Gelegenheitsdichter, secondo la fortunata definizione di
Wilhelm Meyer,7 Fortunato mise a frutto la propria musa per
persone e circostanze diverse, come è testimoniato dalla
eterogeneità dei suoi ‘pezzi’: brevi biglietti o più estese epistole di saluto ad amici lontani, commendaticiae, epigrammi, epitafi, carmi consolatori, un epitalamio, un poemetto de
virginitate, elegie, inni, encomi sacri e profani (ma un carattere più o meno spiccatamente encomiastico può riconoscersi alla maggior parte dei suoi componimenti). All’interno
di questa variegata produzione, c’è un certo numero di
passi in cui Venanzio si esprime sul valore e le motivazioni
del suo comporre, spesso attingendo a loci communes previsti dalla precettistica dei retori. In questa sede mi propongo un riesame sistematico di questi passi, teso a mostrare
come egli si serva dell’armamentario messo a sua disposizione dalla retorica scolastica, quali temi privilegi, quali trascuri, se apporti novità e quali, come e quanto nelle sue
autorappresentazioni di poeta egli attui «un compromis
entre les exigences de la tradition littéraire qu’il s’efforce de
continuer et la nécessité d’exprimer une réalité qui n’est plus
celle des élégiaques latins ou même des poètes de l’Empire
chrétien»8. Ne risulterà – mi auguro – anche una miglior
messa a fuoco del tipo di legame che Venanzio, «ultimo
poeta romano» o «più antico poeta medievale di Francia»9,
intrattiene con la tradizione letteraria di Roma.
1. Il poeta al cospetto dei re:
i panegirici di Sigeberto e Chilperico
La prima volta in cui Venanzio parla di se stesso poeta è
nel carme in lode di Sigeberto e Brunilde (Carm. VI, 1a), che
– insieme con l’epitalamio loro dedicato (Carm. VI, 1) –
dovrebbe aver segnato nel 566 il suo debutto poetico nella
Gallia merovingia. È un breve accenno ai limiti del suo ingenium e si trova in apertura (vv. 1-6)10:
232
Victor ab occasu quem laus extendit in ortum
et facit egregium principis esse caput,
quis tibi digna ferat? Nam me vel dicere pauca
non trahit ingenium, sed tuus urguet amor.
Si nunc Vergilius, si forsitan esset Homerus,
nomine de vestro iam legeretur opus.
Questi versi combinano ben quattro temi panegiristici: la
gloria del principe che si estende fino ai confini del mondo;
la conseguente impossibilità di cantarne degnamente le
lodi11; la menzione, anch’essa di prammatica, dei due massimi poeti epici di Roma e della Grecia12 per affermare che –
se uno di loro fosse in vita – forse circolerebbe già un poema
intitolato al re; il dubbio insinuato da forsitan sulla loro capacità di affrontare un tema così impegnativo13: affermazioni,
queste, che rispondono ai dettami retorici sul panegirico in
generale e sul basiliκÿj l’goj in particolare14. Dall’elogio
imperiale deriva anche il tema della victoria15, ma l’appellativo di victor, su cui si apre il carme, acquista qui un’ulteriore
determinazione attraverso l’interpretatio del nome di
Sigeberto: un’interpretatio la cui veridicità trova conferma
nel prosieguo del carme, dove si evoca la recente vittoria
del re su Sassoni e Turingi16.
Ma la vera novità di questo encomio sta nel particolare
movente – l’amor per il destinatario – addotto da Venanzio a
ragione del canto. Infatti, benché il deprezzamento dell’ ingenium sia topico nelle professioni di modestia17, l’amor per il
dedicatario non è invocato a motivare la composizione di
nessun panegirico tardoimperiale – in prosa o in versi – destinato a un sovrano18. L’espressione urget amor, nella stessa
sede metrica di Venanzio, che da lui la riprende, si trova invece nella prefazione di Claudiano al panegirico per il consolato di Mallio Teodoro19. Dopo aver avvertito la sua Musa che
sta esponendosi al giudizio dell’universo intero mettendo a
rischio l’alta fama finora conquistata, Claudiano esclama che
ad incalzarlo è il suo soverchio affetto per il console: ah
nimius consulis urget amor!20. Ma è evidente che – pur nell’identità di dettato – l’amor di Claudiano per un uomo di non
nobile origine e di notevole cultura come Mallio Teodoro
(autore di un de metris, esponente di spicco del neoplatonismo cristiano, e già dedicatario del de beata vita di Agostino)
presuppone l’esistenza fra i due di un rapporto molto più
paritario di quello implicito nel deferente amor del poeta di
Ravenna per il re d’Austrasia. Un amor che – nella sua indeterminatezza – consente all’italiano Venanzio, il quale non è
233
suddito di Sigeberto e non ha alcun ruolo ufficiale alla corte
di Metz, di accreditarsi come poeta sottraendosi all’imbarazzo di specificare a che titolo stia parlando.
Dal confronto con Claudiano emergono anche altre differenze. Mentre il poeta di Alessandria si mostra consapevole del proprio valore e preoccupato di non deludere la sua
qualificata audience, Venanzio non prende in considerazione il pubblico presente alla recita e deprezza il proprio ingenium nel contesto di una captatio benevolentiae rivolta
esclusivamente alla coppia regale. Inoltre, mentre
Claudiano (come il suo imitatore ed epigono Sidonio
Apollinare) compone in esametri i panegirici e in distici elegiaci le loro prefazioni, che rappresentano il luogo in cui di
preferenza egli riflette sulla sua poesia21, Venanzio ha abolito la prefazione, e il tema trattato da Claudiano nella prefazione al panegirico di Mallio Teodoro lo ha svolto all’inizio
dell’elogio, che è però scritto in distici elegiaci, come le prefazioni claudianee.
A spiegare la scelta di questo metro non credo basti la
predilezione di Venanzio per il distico elegiaco, dal momento che essa non gli aveva impedito di comporre in esametri
(preceduti da alcuni distici introduttivi) il contemporaneo e
molto più tradizionale epitalamio per Sigeberto e Brunilde,
né gli impedirà di usare l’esametro per l’epos sulla vita di
Martino, cui, conformandosi all’uso di Claudiano, premetterà
un prologo in distici elegiaci22. Se poi si considera che
Venanzio, fresco arrivato in Gallia, aveva tutto l’interesse di
guadagnarsi l’apprezzamento e la simpatia di alcuni dignitari d’Austrasia orgogliosi del loro alto livello culturale23, l’impiego del distico elegiaco in luogo dell’usuale esametro nel
primo degli elogi regali da lui pronunciati24 non può essere
privo di significato (diverso è il caso degli encomi successivi, cui questo farà da precedente). Con la scelta del metro
Venanzio, che non era poeta di corte né panegirista ufficiale, avrà inteso sottolineare la sua presa di distanza dai canoni del panegirico claudianeo, cui si era attenuto Sidonio
Apollinare25. Una presa di distanza evidente anche nell’organizzazione del carme, che rinuncia al decoro mitologico e
non rispetta in pieno gli schemi del basiliκÿj l’goj26.
L’abilità con cui Venanzio ricorre a luoghi comuni per
dare un preciso senso alla sua pubblica performance risulta ancor più evidente nel panegirico di Chilperico (Carm. IX,
1), da lui recitato nel 580 al concilio di Berny-Rivière. Il concilio era stato convocato dal re, che vi sedeva in veste di
giudice, per accertare l’eventuale colpevolezza di Gregorio
234
di Tours, imputato di aver attribuito alla regina Fredegonda
una relazione adultera con il vescovo Bertrando di
Bordeaux. Questo scontro, probabilmente il più grave fra
quelli che opposero Gregorio e Chilperico, implicava pesanti rischi da entrambe le parti: se si fosse dimostrata l’inconsistenza delle accuse di Gregorio, questi sarebbe risultato
colpevole di calunnia; se viceversa se ne fosse provata la
fondatezza, la regina sarebbe risultata colpevole di adulterio. Sostenuto da una parte dei vescovi presenti, mentre la
folla tumultuava a sua difesa fuori dal palazzo27, Gregorio si
era discolpato di fronte al re nell’unico modo possibile, giurando – nel contesto di una solenne cerimonia liturgica – di
non aver mai fatto su Fredegonda le gravi affermazioni attribuitegli.
Non sappiamo se Fortunato recitò il suo panegirico
prima del giudizio, o (come ritengo più probabile) a chiusura dell’incidente diplomatico creatosi fra il re e quella parte
dei vescovi che sosteneva Gregorio28. Siamo invece certi
che Venanzio parlò anche a nome dei vescovi presenti, perchè a loro è rivolta la Anrede che apre il carme (v. 1 ss.):
ordo sacerdotum venerandaque culmina Christi,
quos dedit alma fides religione patres,
parvolus opto loqui regis praeconia celsi:
sublevet exigui carmina vester amor.
La dichiarazione di voler cantare le lodi del re è accompagnata dalla rituale professione di modestia, qui giocata
sull’opposizione fra la piccolezza del poeta e la grandezza
del sovrano (parvolus, exigui vs. celsi regis). Venanzio non
è il primo a porre in atto una captatio benevolentiae che faccia leva sull’amor del qualificato uditorio per il personaggio
lodato: basterebbe ricordare il precedente di Claudiano,
che in Get., Praef. 17 s. fra le sue ragioni di fiducia nell’indulgenza del senato di Roma menziona l’amore che esso
porta a Stilicone (nam mihi conciliat gratas inpensius aures/
vel meritum belli vel Stilichonis amor).
Fortunato introduce però un elemento nuovo, che non mi
risulta abbia paralleli nella tradizione letteraria latina: in questa captatio benevolentiae, l’amor dei vescovi per il re non
viene invocato per guadagnare al poeta la loro indulgenza,
ma per supplire alle deficienze del suo carme29, alla stessa
maniera in cui l’amor dello stesso Venanzio era invocato a
giustificare la sua temerarietà nella captatio benevolentiae
dell’elogio di Sigeberto30. L’esortazione (o il desiderio?: il
235
congiuntivo sublevet autorizza anche questa interpretazione) introdotta da sublevet viene così a coinvolgere direttamente i patres nel gesto di omaggio del poeta al sovrano, e
suggerisce a Chilperico, il quale non era digiuno di studi letterari31, che essi ne sono stati i committenti.
Solo a conclusione del suo elogio, dopo aver dato di
qualità e azioni di Chilperico la versione più conveniente al
re32, Venanzio parla esclusivamente a nome proprio contrapponendo – come già i poeti elegiaci – l’omaggio delle
sue parole ai ricchi doni di altri (vv. 147-148 regibus aurum
alii aut gemmarum munera solvant:/ de Fortunato paupere
verba cape). Venanzio recupera così alla poesia epidittica
un tema proprio dell’elegia, da cui prende però le distanze
in quanto – diversamente dagli elegiaci – egli non accenna
all’immortalità garantita dai suoi versi.
2. La funzione testimoniale del poeta
L’opposizione fra ingenium e amor ricorre anche in un
altro carme composto durante il soggiorno alla corte di
Austrasia, e destinato al vescovo Igidio di Reims33. L’amor
costringe Venanzio a cantarne le lodi, perché non farlo
sarebbe da parte sua una colpevole omissione (Carm. III,
15, 1 ss.):
Actibus egregiis venerabile culmen, Igidi,
ex cuius meritis crevit honore gradus,
subtrahor ingenio, compellor amore parato
laudibus in vestris prodere pauca favens.
Namque reus videor tantis existere causis,
si solus taceam quicquid ubique sonat.
Le lodi che non abbracciano tutti i meriti del personaggio elogiato (v. 4 laudibus in vestris prodere pauca), e l’amor
che ‘costringe’ il poeta, pur consapevole dei propri limiti, a
vincere ogni resistenza (v. 3 subtrahor ingenio, compellor
amore parato) sono temi che il carme a Igidio condivide con
il contemporaneo encomio di Sigeberto34. La necessità – qui
espressa riecheggiando un passo claudianeo35 – di evitare
la colpa del silenzio è invece riconducibile ad un altro motivo encomiastico caro a Venanzio: l’intenzione di non volersi
lui solo sottrarre ad un generale coro di elogi.
Tale intenzione è dichiarata anche in un carme rivolto
all’influente duca Crodino36, e la si ritrova in uno dei carmi
236
che il poeta – alla ricerca di un patrono sul suolo di Francia
– dedicò all’esaltazione del potente e ambizioso vescovo
Leonzio II di Bordeaux. Fortunato afferma di aver voluto
introdurre una deviazione nel suo itinerario per offrire a
Leonzio un piccolo omaggio poetico (pauca ferens carmine)37, e si impegna, preso dall’affetto per lui, a non passare
mai sotto silenzio ciò che è degno di ricordo (v. 3 captus
amore tui numquam memoranda tacebo)38. Insistendo sulla
funzione testimoniale dei propri versi, il poeta si mostra consapevole – e lo ricorda ai suoi dedicatari, non importa se
laici (come Crodino) o ecclesiastici (come Igidio e Leonzio)
– che la sua voce (così come un suo eventuale silenzio) non
passa inosservata. Consapevolezza espressa in termini
paradossali in un carme di quegli stessi anni a Gogone,
consigliere di re Sigeberto. Fortunato dice che – se anche
egli ne tacesse i meriti – Gogone non dovrebbe badare alle
parole, poiché possiede il cuore del poeta, e saprebbe che
questi lo loda anche quando mantiene il silenzio39, ma il
silenzio è un’eventualità contemplata solo in linea teorica,
perché Venanzio indirizza a Gogone un poemetto di lodi in
cui sostiene di esprimere ciò che il popolo stesso può testimoniare40.
Alla testimonianza del popolo Venanzio fa appello anche
in alcuni carmi a carattere ufficiale, recitati al cospetto di
vescovi e/o di re: a questo appello si limita il suo intervento in
prima persona nel panegirico di re Cariberto.41 Come portavoce della comunità egli si presenta invece quando recita
l’encomio del vescovo Felice di Nantes in occasione di una
solennità liturgica: la gioia del luminoso giorno di festa lo
‘costringe’ a dar voce egli solo con affetto (amor) a quei sentimenti che il popolo dei fedeli potrebbe esprimere42. Dopo la
morte di Chilperico (584) e a seguito del trattato di Andelot
(587), le città di Tours (sede del vescovo Gregorio) e Poitiers
(residenza di Fortunato) erano tornate sotto il dominio dei
sovrani d’Austrasia Childeberto II e la regina madre Brunilde.
Il breve encomio loro rivolto – il suo ultimo in ordine cronologico fra quelli dei re – è quello in cui con più forza Venanzio
sostiene di esprimere un generale sentire: il topos
dell’Unsagbarkheit è riferito alla difficoltà di dare degna
espressione all’amor del popolo43, il quale ripone fiducia e
speranza nei domini, di cui va orgoglioso. Ai voti del popolo
il poeta unisce i suoi, auspicando di meritarsi un ritorno a
corte per portarvi di nuovo il proprio deferente saluto44.
237
3. Iussa dei committenti e obsequium del poeta
Si facundiae deest meritum, gratia subveniat obsequendi45. Queste parole, con cui Ennodio accompagnava il celere invio di un epitafio a lui richiesto, sono un luogo comune
nelle dediche fra tarda antichità e medioevo, che spesso
traggono partito dagli ‘ordini’ dei committenti per renderli
corresponsabili dell’opera e dei suoi eventuali difetti46. A
questa responsabilità dei committenti Venanzio fa appello in
Carm. II, 9, un elogio del clero parigino la cui stesura risale
all’inverno 566-567. Nei primi versi il poeta si scusa per la
dubbia qualità del suo canto, composto per corrispondere
al desiderio dei venerati patres della Chiesa di Parigi, che gli
hanno fatto riprendere l’attività poetica da tempo dismessa
(vv. 1-8):
Coetus honorifici decus et gradus ordinis ampli,
quos colo corde fide religione patres,
iam dudum obliti desueto carmine plectri
cogitis antiquam me renovare lyram.
En stupidis digitis stimulatis tangere cordas,
cum mihi non solito currat in arte manus.
Scabrida nunc resonat mea lingua rubigine verba
exit et incompto raucus ab ore fragor.
I termini scabridus, incomptum os, rubigo, con cui
Venanzio definisce i difetti derivanti alla sua poesia dall’assenza di esercizio, appartengono alla terminologia retorica
tardoantica47, per cui già il loro uso viene a mostrare la competenza del poeta, confermata da cogitis antiquam me
renovare lyram, verso che allude ad un più glorioso passato48 (che la decadenza riguardi solo l’oggi è ribadito dal
nunc di v. 7). Pur consapevole che non si può rifare la lama
a un ferro arrugginito e che la fuliggine toglie splendore al
bronzo49, il poeta decide di obbedire (obsequor) alla affettuosa cortesia (dulcedo) della loro insistenza, condotto artis
ad officium dall’amor dei suoi committenti50.
Dalla lira con cui aveva cantato il clero parigino, alla
zampogna, con cui Venanzio intona un canto – a suo dire
stridulo e rozzo – per ubbidire al vescovo Avito di Clermont51:
Paruimus iussis, sacer ac venerande sacerdos
et pater, imperiis, dulcis Avite, tuis,
garrulitate levi potius stridente cicuta
quam placeat liquido nostra camena melo.
238
Sed tamen ut veniam tribuas, pietatis amator,
intende obsequium nec trutinato sophum.
Munere pro magno modicus haec parvula solvo:
pensetur votis est cui lingua rudis.
Posteriore al 571, data di ascesa di Avito al soglio episcopale, questo breve carme fa da prefazione al successivo (III, 22a), che contiene le lodi del vescovo. L’attacco del
carme evoca il ricordo degli haud mollia iussa di Mecenate,
ma – diversamente da quello – con i suoi iussa, ribaditi dagli
imperia del verso seguente, Avito non spinge in mare aperto il poeta, il cui tributo, troppo imperfetto per piacere, non
va giudicato in base ai meriti, ma per le intenzioni.
Anche in questo caso, la attenta scelta della terminologia mostra Venanzio in possesso di quella abilità che vorrebbe negare. Liquido melo è un nesso raro52, la garrulitas –
una caratteristica negativa che spesso, nell’ambito di professioni di modestia, indica la vacua loquacità di chi scrive53
– qui, contrapposta a liquido melo, sembra riferirsi alla sgradevolezza del suono54; l’aggettivo levis che la accompagna
è contemporaneamente una forma di understatement e
un’indicazione di poesia non alta55. Al poco elevato livello
del carme potrebbe riferirsi anche il termine cicuta56, che in
nesso con stridente (un nesso che non sembra attestato
altrove) ribadisce la scarsa armoniosità del canto57.
Il motivo del canto come omaggio sincero, ma inadeguato per la sua disarmonia, ha un precedente in Sidonio
Apollinare, il quale nella prefazione al panegirico di Antemio
aveva messo a contrasto con la lira di Apollo la rauca zampogna pastorale (fistula rauca) dei cicuticines Panes58 che
avevano celebrato la vittoria di Giove sui giganti, riuscendogli graditi per le intenzioni nonostante la dubbia qualità del
canto. Il poeta aveva paragonato la sua umile offerta (v. 24:
parvula tura) alla loro e a quella di Chirone59, il centauro al
cui sgraziato canto per le nozze di Peleo e Teti egli implicitamente paragona la pauperies del suo in un altro carme
destinato alla pubblica recita: la prefazione all’epitalamio di
Polemio e Araneola60. Questo tema, con cui Sidonio aveva
introdotto composizioni di tono solenne e destinate alla pubblica recitazione, Venanzio lo riconduce alla sfera del privato sia qui, sia nella prefazione ad un carme celebrativo sì (vi
compare anche l’Unsagbarkeitstopos61), ma breve e a carattere non ufficiale. Sempre in contesto privato, il poeta tornerà sulla paupertas della sua offerta poetica molti anni
dopo in un biglietto di raccomandazione smaccatamente
239
elogiativo indirizzato a re Childeberto, e tutto costruito su
giochi di parole, che smentiscono le affermazioni autodenigratorie del poeta62.
Se il riferimento agli imperia del committente è un luogo
comune nella poesia di Venanzio, le notizie che egli talvolta
fornisce sulle circostanze della composizione offrono al lettore elementi più specifici di valutazione. Lo si vede molto
bene nel caso di due imperia – l’uno più lieve e gradevole,
l’altro decisamente impegnativo – che entrambi Venanzio
riceve da Gregorio di Tours. Il primo ‘ordine’ riguarda la
composizione di versi da incidere nella cellula di S.
Martino63: una domanda che il poeta, amico di Gregorio e
devoto del santo, si dice ben lieto di soddisfare64. La necessità di ovviare ad una situazione particolarmente difficile
detta invece la pressante richiesta di un carme che – sulla
falsariga delle notizie fornite da Gregorio stesso – celebri la
forzosa conversione dei giudei d’Auvergne operata nel 576
dal vescovo Avito di Clermont55.
Secondo la convincente ricostruzione di Brennan, questo carme – quasi certamente destinato alla recitazione –
doveva fornire la versione ‘giusta’ degli avvenimenti, appianando le tensioni create in città dall’intransigenza di Avito, e
contribuendo a creare consenso intorno all’azione del poco
duttile vescovo66. Dall’epistola in prosa che accompagna il
poemetto (Carm. V, 5a) apprendiamo che Venanzio, incalzato dal messo di Gregorio, ebbe a disposizione pochissimo di tempo: l’affermazione di avere scritto in fretta, preoccupato di ubbidire all’amico più che di piacergli, in questo
caso non è solo la ripresa di quello che è un luogo comune
delle dediche. Le stesse considerazioni sono svolte nella
parte conclusiva del carme dove – dopo aver confessato la
sua inadeguatezza, aggravata dalla fretta con cui ha dovuto comporre – Venanzio osserva come l’opera commissionatagli rientri nella strategia di Gregorio, il quale ‘costringe’
anche gli altri ad applaudire i meriti del suo maestro Avito
(Carm. V, 5b, 137-144):
Haec inculta tibi reputa, pater alme Gregori,
qui Fortunato non valitura iubes.
Adde quod exiguum me portitor inpulit instans
et datur in spatiis vix geminata dies.
Novimus affectu potius quo diligis illum
hinc quem corde vides semper et ore tenes.
Hoc tibi nec satis est huius quod es ipse relator:
conpellis reliquos plaudere voce sibi.
240
Compulsus da Gregorio all’elogio e compellens a propria volta chi ascolterà il suo carme, con esso Venanzio
rende ad Avito un omaggio per cui si attende in contraccambio le preghiere congiunte di lui e di Gregorio stesso:
me quoque vos humilem pariter memoretis utrique/ et pro
spe veniae voce feratis opem (vv. 149-150). Ma la richiesta
di preghiere, oltre che nei messaggi di saluto a uomini di
chiesa viventi, Venanzio suole rivolgerle – secondo una
prassi che ha un illustre precedente nelle suppliche ai martiri con cui si chiudono alcuni inni del peristephanon prudenziano67 – a personaggi in odore di santità68, e più ancora
a santi di cui ha esaltato le gesta come Martino, Medardo o
i martiri di Agaunum69. La richiesta di preghiere che chiude
la rievocazione apologetica di (Carm. V, 5b) fa di Venanzio
l’agiografo del vivente Avito, della cui santità Gregorio si è
già fatto promotore.
4. La poesia come gesto di amicizia
L’amor per il destinatario è uno dei moventi che più spesso ricorrono in Venanzio a giustificazione del suo impegno in
composizioni di vario genere: elogi a carattere pubblico o
privato, l’invio di un saluto a un amico, l’estremo tributo di
affetto ad una persona cara scomparsa70. Maestro nel praticare la «courtoisie of commendation, as well as that of
friendship»71, il poeta indica in questo amor il movente che
lo spinge a scrivere pur conoscendo – e dichiarando – i limiti della sua arte. Come nell’epistola poetica ad Eufronio, zio
e predecessore di Gregorio sul soglio di Tours72:
Quamvis pigra mihi iaceat sine fomite lingua
nec valeam dignis reddere digna viris,
attamen, alme pater, Christi venerande sacerdos
Eufroni, cupio solvere parva tibi.
Debeo multa quidem, sed suscipe pauca libenter:
sit veniale precor quod tuus edit amor.
Venanzio – da poco in Francia e alla ricerca di patroni
(Eufronio morì nel 573: in parallelo il poeta fa i suoi omaggi
a Leonzio di Bordeaux) – afferma il suo forte desiderio
(cupio) di tentare un impari contraccambio per pagare il suo
debito di gratitudine. Così facendo, egli mette in opera una
duplice strategia: conquistarsi l’appoggio di un vescovo
appartenente all’aristocrazia galloromana e mostrare a
241
quanti lo leggeranno il suo forte legame con un personaggio
influente.
La forza di un amor che – in questo come in altri carmi
per la regina-monaca e la badessa Agnese – viene ricondotto alla sfera degli affetti familiari73, giustifica anche la
composizione di un breve carme dell’Appendix (XII, 1 ss.)
rivolto dal poeta a Radegonda per manifestarle devoto affetto e chiederle di pregare per lui:
Dum volo carminibus notum percurrere plectrum,
incipio solito pigrius ire pede,
nec mihi doctiloqua consentit harundine Musa,
quae desueta suum pandere nescit opus.
Sed quamvis dubio trepidet mea chorda relatu,
audacter solo promptus amore loquor.
L’inadeguatezza che deriva da mancanza di esercizio
era addotta a scusante anche nel carme sul clero di Parigi,
dove si giustificava con la necessità di obbedire ad un ordine74: qui invece, con una variazione sul tema, l’omaggio è
presentato come una spontanea iniziativa del poeta75.
Le due monache della Sainte-Croix non sono le sole a
ricevere carmi che Venanzio dice nati da uno slancio di sincera amicizia. In un contesto che dà grande valore agli affetti si colloca la dichiarazione dell’incapacità del poeta ad
esprimere appieno le lodi del dux di Provenza e Austrasia
Bodegiselo76: Venanzio presenta il pur insufficiente elogio
del destinatario come un grato contraccambio per ciò che la
consuetudine amicale di Bodegiselo gli ha dato: colloquio
dulci satiasti pectus amantis:/ nam mihi devoto dant tua
verba cibum (Carm. VII, 5,7 s.)77. Con l’intensità di un legame per cui l’amico possiede il cuore del poeta e ne domina
i pensieri78 Venanzio motiva la scrittura di numerosi carmi a
dignitari e vescovi: l’epistola, o il breve biglietto, ha lo scopo
di mantenere i contatti con chi è fisicamente lontano, e alleviare il dolore dell’assenza79; talvolta, ha solo il compito di
inviare un rapido saluto, insufficiente manifestazione di un
affetto non esprimibile a parole80.
Le proteste di affetto spesso adottano toni e linguaggio
dell’elegia d’amore: come nel breve biglietto ad Ilario81 e più
ancora nel carme al diacono e futuro vescovo di Parigi
Ragnemodo, chiamato con il vezzeggiativo Rucco82. Pignus
amicitiae è il biglietto per il diacono Giovanni83, pignus
amantis sono i versiculi indirizzati al diacono Antemio, da cui
Venanzio prende congedo con un carme non avendo voluto
242
svegliarlo al momento della partenza84. Carm. VII, 11 è la
richiesta al patrizio e governatore di Provenza Giovino di
una pagina che gli risollevi l’animo, mentre toni di più intima
partecipazione assume Carm. VII, 12, «a longer verse-epistle, meditating on friendship in absence»85 a lui rivolta dopo
che è caduto in disgrazia, e in cui gli chiede di rispondere
ai suoi numerosi messaggi86. Anche la missiva in versi al
referendario Faramodo, cui il poeta chiede di raccomandarlo ai sovrani87, assume la forma di un saluto all’amico assente, e che tarda ad inviare un suo scritto.
5. La poesia come lusus: prove di virtuosismo
Oltre che le proteste di affetto, Venanzio affida ai propri
versi il compito di fissare su carta quei petits riens che scandiscono le sue giornate: la rilassatezza dei versi che seguono un lauto convito o che ne commentano la ricchezza in
grato omaggio alle ospiti80; l’impegno – espresso in un
biglietto di ringraziamento per l’invio di un libro – a far risuonare più forte il nome di Gregorio di Tours89; ma anche l’improvvisazione (messa in rilievo con la consueta ‘modestia’)
di un carme, fatta durante un banchetto in villa s. Martini
dinanzi agli esattori del fisco90.
La quotidianità testimoniata dai carmi si fonda spesso
sulla condivisione di gusti e interessi culturali con i destinatari91, al cui orgoglio di letterati – testimoniato da un’epistola
del dignitario austrasiaco Gogone92 – Venanzio rende omaggio anche in prosa, complimentandoli per la loro bravura in
lettere di stile contorto e prezioso, alla maniera di Sidonio
Apollinare93. Da questi frequentatori dei classici il poeta italiano si aspetta che ne riconoscano traccia nei suoi versi. È
così per un’indigestione, descritta in toni di parodia epica
evocando un passo dell’Eneide94; o nell’elogio di Gogone,
poeta e scrittore in proprio che Venanzio paragona ad Orfeo
perché con la dolcezza del suo eloquio attira a sé gli stranieri nel suo lontano regno95; o nei dotti riferimenti del carme
encomiastico rivolto al duca Lupo di Champagne, che egli
loda, unendo i suoi versiculi ai carmina dei barbari96.
I rapporti instaurati da Venanzio con i suoi dotti e potenti amici assumono a volte i connotati del gioco letterario. In
questa dimensione rientra la blanda canzonatura dei carmi
composti dal vescovo Bertrando di Bordeaux, ai cui ioci
Venanzio si dice costretto a rispondere97; una richiesta di
243
‘tenzone’ poetica è il carme in versi ecoici inviato al vescovo Sindulfo98. Questa complicità fra letterati assume una
peculiare configurazione in Carm. VII, 18: all’amico Flavo,
che non risponde, vengono elencati gli strumenti scrittorî a
sua disposizione. Tutti Flavo può usarli purché egli scriva al
poeta, che gli ricorda anche alcune forme di crittografia: un
consiglio per il quale non escluderei l’influenza dell’epistola
poetica in cui Ausonio, nel sollecitare una risposta da
Paolino di Nola, gli suggerisce una serie di espedienti
(anche in quel caso c’è un forte gusto per l’elenco) con cui
evitare che il suo scritto venga decifrato dalla moglie
Terasia99.
Praeceps amor e ideali letterari condivisi caratterizzano
anche un’epistola al patrizio e governatore di Provenza
Dinamio di Marsiglia100, nella quale Venanzio esibisce in pari
misura competenza di poeta e sollecito affetto per l’amico.
Costretto ad un forzoso silenzio dalle sue condizioni di salute, che gli impediscono di scrivere, egli afferma di posporre
i suoi malanni al desiderio di salutarlo, paragona la sua
ansia di incontrarlo a quella con cui Aiace Telamonio si
affrettava ad abbracciare il padre (v. 43 s.), e orazianamente definisce Dinamio metà della sua anima101. Infine, dopo
aver caldamente elogiato i versi inviatigli da Dinamio sotto
altro nome, conclude promettendogli per il futuro un più
degno carme (71 s. haec tibi nostra chelys modulatur simplice cantu,/ sed tonat archetypo barbitus inde sopho)102.
Nel combinare il biotico (il salasso che gli blocca il braccio e gli impedisce di scrivere), con una forte affettività e una
decisa ostentazione di cultura, Fortunato ritrae un sodalizio
fra intellettuali che fanno della pratica letteraria una consuetudine di vita. Per questo tipo di sodalizio, non è prudente
additare un modello letterario nel circolo di Catullo, un poeta
che non sappiamo in che misura fosse conosciuto da
Venanzio (ma proprio un punto del carme a Dinamio ne attesta una qualche conoscenza)103, e forse non è il caso di scomodare nemmeno Plinio il Giovane. Basterà ricordare che
questo tipo di corrispondenza fra dotti ha un precedente non
troppo remoto nel circolo di Sidonio Apollinare104, e che – più
indietro nel tempo ma sempre in Gallia – Ausonio aveva dato
prova di virtuosismo nelle sue epistole poetiche. Infine, più
vicine al nostro per la disparità di condizione fra scrivente e
destinatario, le due epistole in distici elegiaci inviate a Olibrio
e Probino (c.m. 40 e 41) da Claudiano, un poeta ben noto a
Venanzio, il quale in un carme a Gregorio di Tours riecheggia
proprio un verso del biglietto a Olibrio105.
244
Se in genere Venanzio parla dei suoi carmi con una
modestia non esente da civetteria, almeno in due occasioni
egli dà forte rilievo alla propria abilità tecnica, attirando su di
essa l’attenzione del destinatario. Il primo caso è rappresentato da un’epistola in prosa all’influente vescovo Siagrio
di Autun, che Venanzio prega di intercedere in favore di un
giovane prigioniero, il cui padre piangente si è presentato a
lui106. Per ‘pagare’ l’interessamento del vescovo, Fortunato si
lascia convincere da Orazio (Ars 9 s. pictoribus atque poetis/ quaelibet audendi semper fuit aequa potestas) a lanciarsi temerariamente nella composizione di qualcosa che è
insieme pittura e poesia: un carme figurato, di cui egli si
diffonde a spiegare le caratteristiche107.
Le dettagliate spiegazioni tecniche a commento di un’esibizione di virtuosismo sono nuove per questo tipo di composizione108, ma non sono in assoluto una novità: basterebbe ricordare quelle da cui Ausonio fa precedere il suo cento
nuptialis, e che anch’esse servono a sottolineare le difficoltà
dell’impresa, facendo rilevare la bravura di chi la compie.
Poiché sul carme e l’epistola che lo precede si è già soffermato Giovanni Polara, mi limiterò ad osservare come tutti i
mezzi siano buoni per valorizzare agli occhi del destinatario
il componimento, la cui originalità – resa assoluta dal silenzio del poeta sui suoi predecessori109 – viene ribadita da un
paragone fra Venanzio e un marinaio che intraprende una
rischiosa navigazione (Carm. V, 6, 13): tema, questo, spiccatamente proemiale, e caro a Fortunato, che ne fa il
Leitmotiv della Vita Martini110. E se la citazione dell’Ars poetica mette il carme sotto l’egida della indiscussa autorità di
Orazio (l’unico poeta di cui Venanzio citi una sententia nelle
sue opere111), il suo valore tecnico viene sanzionato e trae
dignità dal confronto con il tessitore di drappi damascati che
– come Siagrio sa dalla Bibbia – ha intessuto con fili di vario
colore le vesti del grande sacerdote112.
L’altro tour de force tecnico su cui Venanzio attira l’attenzione del lettore è la composizione – su richiesta dell’amico
Gregorio di Tours – di un carme in strofe saffiche113.
Il poeta chiede a Gregorio, che ha voluto farlo cantare
nel metro – per lui nuovo – di Saffo, Pindaro e Orazio, perché gli impone un canto lirico di cui non è capace (vv. 1-16).
E se anche lo fosse stato nei suoi anni di scuola, dopo tanto
tempo non ricorderebbe114: l’impresa è faticosa già per chi è
dotto, e risultano abbastanza pochi i poeti che hanno praticato questi metri (vv. 17-24). Non è semplice per il navigan245
te attraversare con la sua imbarcazione il mare, né superarlo a nuoto, e quando soffia l’austro tempestoso il porto si
guadagna a stento (vv. 25-28). Difficile è il cammino per cui
Gregorio gli ordina di andare, tuttavia egli andrà con la forza
del desiderio: se non è in grado di camminare, si lascia condurre dall’affetto (vv. 29-32). Gregorio ha voluto procurargli
un libro composto con stile ridondante (v. 34 codicem farsum tumido cothurno), di cui Venanzio a fatica afferrava il
senso, e che con le sue parole solenni si rifiutava di svelare
a quel Mopso che egli è la dottrina dei sapienti (vv. 33-40).
È un testo di metrica che passa in rassegna un gran numero di autori i cui nomi spezzerebbe se li citasse115, soprattutto considerato che dopo vent’anni, perduta la pratica,
Venanzio ora riusa il metro in cui la Lesbia virgo compose
accompagnandosi con la cetra (vv. 41-52)116. Si fa prima a
contare i granelli della sabbia africana che ad impadronirsi
della metrica, e Venanzio, tardato da varie ragioni e senza il
tempo e la calma necessari, non ha ancora finito di leggere
di seguito l’intero testo; ma per chi vuol bene la volontà da
sola è sufficiente (vv. 53-64). Perciò il libello vada velocemente da Gregorio, accompagnato dalle preghiere di
Venanzio, che – impedito di andare di persona dove lo chiama l’amato volto dell’amico – gli chiede di salutarlo in sua
vece (vv. 65-76) e di portargli i saluti di Agnese, di
Radegonda e della nipote di Gregorio, Giustina (vv. 77-84).
Il carme si chiude con una professione di modestia da parte
del poeta che, pauper arte,/ sed tamen largo refluens amore
(vv. 85-88), è riuscito a fatica ad assolvere il compito.
Venanzio proclama la propria incapacità di padroneggiare il difficile metro di Saffo nel momento stesso in cui,
adoperandolo, dimostra il contrario. L’articolazione del
carme è curata: l’adonio care Gregori della prima e dell’ultima strofe stabilisce una Ringkomposition; c’è rispondenza
interna con variatio nel duplice rinvio – nella stessa sede
metrica: l’adonio finale – a Saffo, docta puella (v. 8)117 e
Lesbia virgo (v. 52). Dà tono al carme anche l’apostrofe al
libello, svolta qui in forma più tradizionale che nella Vita
Martini, con cui il poemetto in saffiche condivide anche la
metafora della navigazione. Quest’ultima poteva rinviare un
lettore colto alla descrizione in saffiche di una tempesta
nella lettera che chiude l’epistolario di Sidonio Apollinare118.
Ma proprio il confronto con Sidonio esalta la difficoltà dell’impresa per Venanzio, poiché Sidonio ricorre al motivo
della tempesta per dichiarare di essere giunto felicemente in
246
porto, Venanzio, invece, per dire che è in alto mare e in balìa
dei flutti.
Al di là della cura stilistica, resta la vaga inconcludenza
di un carme tutto giocato sull’affermazione che il poeta sta
componendo in un metro non ovvio e per lui difficile: una
affermazione cui si è dato credito per la non eccelsa qualità
del risultato119. Ma, anche ad ammettere che le difficoltà
incontrate dal poeta – il quale non ama comporre in metri
diversi dal distico elegiaco e dall’esametro120 – abbiano
compromesso la riuscita del carme121, il fatto che esso
appaia a noi come un decoroso esercizio di scuola non
implica che tale apparisse a Venanzio e ai suoi lettori. Già
più di un secolo prima, sempre in Gallia e scrivendo per la
ristretta cerchia di intellettuali suoi amici, Sidonio aveva premesso ad una sua raccolta di versi un carme in cui, manifestando la propria abilità proprio nell’elencazione virtuosistica di ciò che non avrebbe cantato, egli chiudeva senza aver
mai dichiarato (né tantomeno svolto) il soggetto del suo
canto122.. Se lo si guarda da questa prospettiva, l’esperimento di Venanzio può considerarsi riuscito, perché egli ha
mostrato di saper comporre nel verso richiestogli da
Gregorio.
Come nel caso del carme figurato a Siagrio, anche qui
Venanzio si mostra ingeneroso nei confronti di chi lo ha preceduto. Dei poeti che hanno usato la saffica, egli ricorda
infatti soltanto l’inventrice Saffo e Pindaro (che non risulta
abbia mai composto in saffiche) per i greci, e quell’Orazio la
cui conoscenza egli condivide con Gregorio123 per i latini. A
parte l’ignoranza su Pindaro, Venanzio doveva avere idee
poco chiare anche su Saffo, a giudicare dalla vaghezza del
Dionaeos memorans amores in cui egli riassume l’argomento della sua poesia124. È invece impossibile che – a parte
Catullo, di cui egli ebbe conoscenza almeno antologica125 –
Venanzio ignorasse tutti i poeti latini che prima di lui avevano scritto in saffiche: Ausonio, Paolino di Nola, Prudenzio,
Sidonio, Ennodio, Boezio, e colpisce in particolare la mancata menzione di Prudenzio, l’Orazio cristiano che in saffiche aveva composto due inni126. Difficoltà di ordine prosodico possono avere scoraggiato la citazione di alcuni127, ma
sarebbe stato comunque possibile accennare all’esistenza
di poeti che – dopo Orazio e prima di Venanzio – si erano
cimentati nel metro di Saffo. Venanzio non lo fa, e questo
autorizza l’ipotesi che – invece di mostrarsi come l’ultimo di
una serie illustre – egli preferisca porsi in immediata continuità con il prestigioso autore dell’Ars Poetica.
247
6. Debita solvere: l’omaggio devoto della Vita Martini
Composto nel corso del 574 o – meno probabilmente –
nell’anno successivo128, l’epos in quattro libri sulla vita di
Martino è preceduto da una epistola in prosa che accompagna l’invio dell’opera a Gregorio di Tours, e da un prologo
in versi a Radegonda e Agnese. Come spesso avviene nei
casi di doppia prefazione129, la premessa in prosa si incarica di descrivere l’organizzazione dell’opera, di cui il poeta
indica le fonti (rispettivamente la vita Martini di Sulpicio
Severo per i primi due libri e i Dialogi per gli altri due).
Rivolgendosi a Gregorio, il poeta lo informa che – viste le
manchevolezze della propria institutio – rinuncerà ad esprimersi in modo retoricamente elaborato, e confessa la temerarietà con cui ha vergato il poema di fretta, nel giro di sei
mesi, audax magis quam loquax, nec efficax, cursim, inpolite, inter frivulas occupationes130.
Venanzio insiste sulla destinazione ultima dell’opera a
Martino, in onore del quale, se solo questi gli otterrà un congedo, il poeta si preoccuperà di far trascrivere il testo, pregando perché la pietas del santo, reparata da Gregorio, non
cessi di intercedere per lui, suo umile e devoto servitore131.
La lettera presenta quella combinazione di quotidianità (l’impegno della mietitura, il temporale che ha cancellato l’inchiostro della lettera) e di cultura condivisa (lo sfoggio di
erudizione con cui il poeta elenca ciò che ignora, le lodi per
la dottrina dell’amico, l’invito a non essere troppo severo nel
giudizio)132 che abbiamo visto caratterizzare una significativa parte dei carmina. La rapidità della stesura non viene
però giustificata con la necessità di obbedire agli ‘ordini’ di
Gregorio, e ciò prova che egli non è il committente del
poema133.
Di imperia Venanzio parla invece nel prologo, indirizzato
ad Agnese e Radegonda, chiamate ad ottenergli con le loro
preghiere l’ispirazione del Verbo (v. 39 ferte precanter opem
et de Verbo poscite verba) perché egli possa aggiungere
pochi talenti al tesoro celeste del santo134. La richiesta di
aiuto a Martino per il tràmite delle dedicatarie mostra con
chiarezza la loro responsabilità di committenti135.
Composto in distici elegiaci secondo il modello rappresentato da Claudiano, il prologo istituisce un confronto fra il
poeta e il nauta che si impegna in una rischiosa navigazione. Come il navigante inesperto deve necessariamente soccombere alla tempesta, così lui, de modicis minimus, è
costretto a cimentarsi nell’impresa promessa, per la quale
248
non ha forze sufficienti (v. 29 tendere pollicitum quia cogor
ad ardua gressum/ imperiis tantis, viribus impar, agor). Non
irrigato dall’onda della Musa, l’ingenium del poeta si dibatte, poiché, pur avendo intenzione di cantare Martino, egli
non è all’altezza del compito. Il paragone si ispira alla prefazione al I libro del de raptu Proserpinae, ma da questa
Venanzio non riprende il tema della fiducia in se stesso progressivamente acquisita dal nauta136, e utilizza invece la
metafora nautica come un filo rosso che scandisce da un
libro all’altro i progressi della narrazione137 ed è presente
anche all’inizio del II libro. È questa la stessa sede in cui
essa ricorre per l’unica volta in Paolino di Périgueux: ma
Venanzio non fa espliciti rinvii al suo predecessore138, e non
collega – né qui né altrove – la metafora stessa ad alcuna
dichiarazione di poetica.
A situare se stesso e la propria opera nel contesto della
poesia cristiana, il poeta provvede nel luogo deputato: il
proemio del I libro. In esso, egli menziona i suoi predecessori partendo da Giovenco, ‘inventore’ dell’epos a soggetto
cristiano, per poi ricordare Sedulio, Orienzio, Prudenzio,
Paolino di Périgueux, Aratore, Avito di Vienne, e infine se
stesso139, ultimo in senso non solo cronologico inter tot sanctorum culmina vatum (I, 36). In questo elenco, l’unico ad
essere menzionato con piena pertinenza è Paolino di
Périgueux (forse confuso con il Nolano): Giovenco, Sedulio,
Aratore e Avito hanno infatti composto parafrasi epiche, ma
a soggetto biblico; Prudenzio ha sì cantato i santi, ma nella
forma innica del Peristephanon, e non si capisce a che titolo venga ricordato Orienzio140. È come se Venanzio – mettendolo in serie con altri poeti – volesse minimizzare l’importanza dell’unico effettivo precedente poetico con cui egli ha
dovuto misurarsi in un rapporto di aemulatio che pur risulta
evidente già dalla strutturazione dell’opera141.
Questa impressione trova conferma nell’altro passo in
cui Venanzio ricorda Paolino, e che è parte dell’invocazione
al santo che chiude il II libro (vv. 468-475):
Cuius prosaicus cecinit prius acta Severus,
versibus intonuit Paulinus deinde beatus,
aequiperare valens inlustris uterque relator
materie victi sed et ipsi carmine cedunt.
Luminibus tantis ego nubilus inseror audax,
e minimis minimus, de magno maxima temptans,
qui pede subtitubo, balbutio faucis anhelo,
et, rudis eloquio, carpo quod condere certor.
249
Nella captatio benevolentiae di cui è destinatario
Martino, i suoi due precedenti biografi hanno un ruolo paragonabile a quello assolto in altre professioni di modestia da
Omero e/o Virgilio, e la contemporanea menzione della
prosa di Sulpicio Severo e della poesia di Paolino evita
anche in questo caso un più diretto confronto fra Venanzio e
quest’ultimo.
Accanto alla metafora della navigazione, un altro filo
rosso che corre per l’intero pema è rappresentato dalle invocazioni al santo. Così come il secondo, anche il terzo libro si
chiude con una supplica a Martino, senatore di Dio, perché
guadagni indulgenza al poeta (III, 525-529), e ancora alla
fine del IV libro Venanzio rivolge un’ultima preghiera a
Martino, chiedendogli di nuovo intercessione (IV, 594-620).
Questo genere di apostrofi, oltre ad avere precedenti autorevoli nella poesia cristiana142, trova riscontro nella richiesta
finale di intercessione rivolta dal poeta a S. Medardo nel
carme in suo onore, che anch’esso mette in versi una precedente narrazione in prosa143.
Ma nel caso dell’epos su Martino c’è qualcosa di più,
perché è la sua stessa composizione a venire presentata
come il pagamento di un debito contratto con il santo144.
Infatti, sempre nel proemio del I libro, dopo una ampia e articolata dichiarazione di indegnità145, Venanzio afferma di non
aver potuto sottrarsi – pena il cadere in una colpa più grave
– al dovere di cantare quel vescovo a causa del quale egli
è giunto in Francia (I, 40-44):
Quod tamen ut facerem, fieri res illa coegit,
quominus ipse reus pro crimine redderer amplo:
convenienter enim ratio quia plena poposcit
huius pontificis solvi praeconia verbis
cuius causa fuit hac me regione venire.
Lo stesso debito personale nei confronti del santo il
poeta lo ribadisce, dopo avere illustrato la propria inadeguatezza146, nel proemio al IV libro (vv. 26-27):
Attamen officii quae restant debita solvam
et cui magna nimis modo debeo parva rependo.
Non è questo l’unico, importante tratto autobiografico
della Vita Martini147, in quanto essa si chiude con una apostrofe al libello da parte del poeta, che lo incarica di compiere à rebours l’itinerario che lo portato dall’Italia in Gallia
250
(vv. 621-712), e di arrestarsi a Ravenna nel luogo in cui
Martino gli ha reso la vista. Il tema, non nuovo in poesia latina148 e presente anche a conclusione delle nugae di Sidonio
Apollinare149, è svolto dall’exul Venanzio150 – sulla falsariga di
Ovidio Trist. I, 1, che dall’esilio spedisce a Roma i suoi versi,
perché rivedano in sua vece ciò che gli era più caro. Pur
riconducendosi al genere epico, che dovrebbe essere per
definizione il più ‘obiettivo’, la Vita Martini si conclude dunque nel nome di una soggettività ad esso estranea, ma –
proprio per questo – di maggior efficacia nel ribadire l’immagine di sé che Venanzio intende trasmettere ai suoi lettori: un poeta pio che assolve un obbligo devozionale.
7. Orfeo ebbro o cantore cristiano?
La doppia identità di Venanzio poeta
Il viaggio dall’Italia verso la Francia, che a chiusura della
Vita Martini sembra dettato dalla devozione per il santo,
appare in una luce ben diversa nella rievocazione che
Fortunato ne fa due anni dopo, nella dedica della sua prima
raccolta di carmina a Gregorio di Tours. Il poeta osserva che,
mentre le opere dei grandi sopravvivono loro, e permettono
ai loro nomi di correre sulle bocche dei viventi, i testi immeritevoli bene farebbero a cadere nell’oblio, piuttosto che a
suscitare postuma critica e irritazione in chi li legge: Venanzio
è perciò meravigliato dell’insistenza con cui Gregorio lo
incalza a pubblicare la sua opera, che non ne è meritevole151.
Fin qui Venanzio adotta lo stesso copione di ascendenza pliniana già seguito nella cerchia di Sidonio Apollinare: di
fronte all’insistenza di un dotto amico che ne sollecita la
pubblicazione, egli ribadisce l’indegnità delle sue nugae,
che – se pubblicate – rischiano di rovinargli la reputazione152.
E, come nel caso dei suoi illustri predecessori, egli conclude il suo “vorrei e non vorrei” con un sì, naturalmente
accompagnato dalla drastica raccomandazione di non far
circolare l’opusculum che potrebbe comprometterne il
pudor. Ma se il motivo dell’obbedienza – per amicizia o per
gratitudine – ad un ordine o a un desiderio dell’amico è svolto in maniera tradizionale153, nuova è la ragione addotta dal
poeta per giustificare la bassa qualità dei suoi versi: le condizioni particolari in cui egli li ha composti, nel viaggio da
Ravenna alla Francia, attraversando fiumi e valicando i
Pirenei innevati (Carm., praef., 4):
251
praesertim quod ego inops de Ravenna progrediens ...
Aquitaniae maxima fluenta transmittens, Pyrenaeis occurrens Iulio mense nivosis paene aut equitando aut dormitando conscripserim, ubi inter barbaros longo tractu gradiens
aut via fessus aut crapula, brumali sub frigore, musa hortante nescio gelida magis an ebria, novus Orpheus lyricus
silvae voces dabam, silva reddebat.
Complice il gelo, l’Orfeo ubriaco di Venanzio evoca alla
memoria del lettore l’Orfeo virgiliano che piange Euridice
gelidis sub antris, frequenta il Tanai nevoso e i campi rifei
mai privi di ghiacci154; come le rive dell’Ebro rinviano l’eco
della voce di Orfeo155, così fa la selva con il canto di
quell’Orfeo degradato che Venanzio dice di essere156. E
ancora a Virgilio (stavolta alle Bucoliche) Venanzio rinvia con
la successiva affermazione di essersi dovuto esibire dinanzi
ad un uditorio incapace di cogliere la differenza fra lo stridor
anseris e il canor oloris157:
Quid inter haec extensa viatica consulte dici potuerit? ...
ubi mihi tantundem valebat raucum gemere quod cantare
apud quos nihil disparat aut stridor anseris aut canor oloris,
sola saepe bombicans barbaros leudos arpa relidens ut
inter illos egomet non musicus poeta sed muricus deroso
flore carminis poema non canerem sed garrirem, quo residentes auditores inter acernea pocula salute bibentes insana Baccho iudice debaccharent (Carm., praef. 5).
Che non ci si potesse attendere gran che da carmi composti in viaggio, già Plinio lo faceva presente all’amico
Tacito158; e – in tempi più recenti – Sidonio spiegava a
Catullino di non poter attendere alla poesia fra gli olezzi di
cipolla e il frastuono degli occupanti Burgundi159. Sarebbe
perciò ingenuo considerare come una fedele fotografia dell’esperienza di Fortunato160 questa pagina brillante che fa
appello alla conoscenza e al fascino dell’antichità per capovolgere il topos classico dei simposi letterari in cui grandi
poeti recitavano le proprie opere davanti ad una accolta di
gente rispettosa e grata161. In ogni caso, qualsiasi grado di
convenzionalità (o anticonvenzionalità) si voglia attribuire
alla dedica, in questo resoconto il viaggio di Venanzio verso
la Gallia non ha alcun carattere religioso, e l’Orfeo ebbro
che garrisce poemi fra l’infuriare di Lieder e arpe germaniche non ha nulla da spartire con il pio poeta che solo due
anni prima, nella Vita Martini, aveva motivato il suo viaggio
in Gallia con la devota riconoscenza al santo.
252
Perché questa diversa autorappresentazione? Marc
Reydellet ha fatto notare come i carmi dei primi sette libri
siano ordinati in modo tale da suggerire al lettore, senza
bisogno di esplicitarli, i criteri che regolano la successione
dei libri e quella dei singoli pezzi in ciascun libro162. Ora,
quando pubblica la prima raccolta dei carmi, non solo
Venanzio è già l’autorevole cantore di Martino (è proprio in
nome della comune devozione al santo che egli dice di
cedere alle pressanti richieste dell’amico Gregorio di
Tours163), ma al centro della raccolta egli pone il libro IV, per
larghissima parte costituito da epitafi di pii vescovi.
L’immagine di poeta itinerante, che compone fra i fumi dell’alcol, gli consente a mio avviso di mettere in valore l’altro
aspetto della sua produzione, quello appunto legato alla
Gelegenheit, ai carmi che – Orfeo ridivenuto sobrio – egli ha
mostrato di saper comporre nel corso di un soggiorno ormai
decennale in Francia. Questi carmi non li ha improvvisati nel
ghiaccio dei Pirenei, ma, fissando in questa istantanea il suo
esordio di cantore italiano fra i barbari, egli si evita l’imbarazzo di chiarire meglio il suo ruolo di poeta nella realtà sempre mutevole della Gallia merovingia.
Neiges d’antan. Venanzio nel suo studio
Apre la seconda raccolta dei Carmina (libri VIII e IX)164
un’epistola metrica ex nomine suo ad diversos, in cui
Venanzio si rivolge a tutte le persone dotate di cultura profana e sacra165 perché forniscano sanctorum carmina
vatum166 alla biblioteca del convento di Poitiers. Protagonista
del carme è Radegonda, entusiasticamente esaltata per la
sua cultura e perché possiede da sola, e in più alto grado,
tutte quante le virtù che il poeta ha letto essere state singolarmente proprie delle amiche di Girolamo, di Marta e
Maddalena, delle martiri Eugenia e Tecla. Di se stesso invece Venanzio dice molto poco, e quel poco non riguarda la
sua attività di poeta: è dunque legittimo chiedersi perché
mai egli abbia collocato in apertura proprio questo carme,
privo di qualsiasi carattere poemiale e che rappresenta
come viva Radegonda, già morta da almeno tre anni167.
Credo tuttavia che una spiegazione di questa scelta,
strana all’apparenza, possa venirci da una più attenta lettura del testo. Innanzitutto, va osservato che Venanzio parla
anche di sé, sia pure solo per fornire la propria succinta biografia (vv. 11-14 e 21):
253
Fortunatus ego hinc humili prece voce saluto,
– Italiae genitum Gallica rura tenent, –
Pictavis residens qua sanctus Hilarius olim
natus in urbe fuit, notus in orbe pater.
Martinum cupiens voto Radegundis adhaesi
In secondo luogo, la menzione al v. 24 del cugino di
Radegonda, Amalafrido, prova che il carme è stato composto circa vent’anni prima168 in circostanze che ci sfuggono,
ma con il chiaro intento di sottolineare l’elevato livello culturale del monastero e della regina che lo abita169.
Quando però Venanzio mise insieme la sua seconda
raccolta, nel 590-591, il prestigio della Sainte-Croix doveva
essere alquanto appannato. Infatti, come apprendiamo da
Gregorio di Tours, poco dopo la quasi contemporanea
morte di Agnese e Radegonda, due principesse merovingie
avevano capeggiato contro la nuova badessa una rivolta
che lo stesso Gregorio era intervenuto a sedare170. Fra i
carmi contenuti nei libri VIII e IX, e di cui Agnese e
Radegonda sono in notevole misura le dedicatarie, ce ne
sono due in cui Venanzio invoca l’intervento di Gregorio in
occasione della sommossa alla Sainte-Croix171. La loro presenza nella raccolta e il ricordo ancora fresco dello scandalo potrebbero a mio avviso spiegare il riuso con funzione
prœmiale di un carme originariamente scritto con tutt’altro
scopo.
Nato come una semplice richiesta di libri per il monastero, della cui santa e nobile fondatrice offriva ai destinatari un
lusinghiero ed entusiastico ritratto, quando viene posto in
cima alla raccolta esso trae da questa collocazione un
diverso significato ed un nuovo ruolo172: quello di ricordare ai
contemporanei e fissare nella memoria dei posteri l’immagine di Radegonda e degli anni gloriosi in cui il convento era
abitato dalla santità. All’ombra di Radegonda, non inferiore
per virtù alle sante amiche di Girolamo, Venanzio, novello
Girolamo, ritrae in versi di tono epigrammatico173 se stesso e
la sua vita, vista come un percorso rettilineo che, Martino
duce, da Ravenna lo ha condotto a Poitiers.•
•
254
Ringrazio Lucio Ceccarelli per la sua paziente e preziosa lettura.
Note
(1) Praef. Virt. Mart. I, MGH, SRM I, 2, p. 586, 3-4 Utinam Severus aut
Paulinus viverent, aut certe Fortunatus adesset, qui ista discriberent!
Gregorio è il destinatario della maggior parte dei carmina del V libro (Carm.
V, 4-5b e 8-17), di molti dell’VIII (VIII, 11-21), e di Carm. IX, 6-7 e X, 12a. Alla
sua committenza si debbono i componimenti legati al culto di Martino (carm.
I, 4-5 e X, 5-6), e forse anche gli epitaphia dei suoi tre zii vescovi (Carm. IV,
2; 3 e 4). Dietro sua esortazione Venanzio – il quale nel 573 ne aveva celebrato l’elezione a vescovo di Tours (Carm. V, 3) – pubblicò la sua prima raccolta poetica (libri 1-7: cfr. Carm., Praef.), e a lui fece appello in occasione
dello scandalo verificatosi al monastero di Poitiers dopo la morte di
Radegonda (Carm. VIII, 12 e 12a). Ci è anche giunto un deferente biglietto inviato dal poeta alla madre di Gregorio, Armentaria (Carm. X, 15).
(2) Sulle possibili ragioni del viaggio in Francia cfr. J.W. George, Venantius
Fortunatus. A Latin Poet in Merovingian Gaul, Oxford 1992, pp. 24-27; M.
Reydellet, Introduction a Venance Fortunat, Poèmes, Tome I, Paris 1994, pp.
XIV-XIX. Poiché Venanzio non si recò a Tours immediatamente, ma dopo aver
trascorso un intero anno a Metz e il successivo inverno a Parigi, lo scopo di
sciogliere il voto a san Martino non può essere stato l’unica ragione del suo
viaggio; una causa (o concausa) per l’abbandono dell’Italia potrebbe essere
un suo coinvolgimento nello scisma dei tre Capitoli. Con il desiderio del poeta
di non prendere posizione in merito spiega il viaggio in Gallia G. Rosada, Il
“viaggio” di Venanzio Fortunato ad Turones: il tratto da Ravenna ai Breonum loca e la strada per submontana castella, in Venanzio Fortunato tra Italia e
Francia, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Valdobbiadene-Treviso
1990), Treviso 1993, pp. 25-57, rilevando la non altrimenti spiegabile stranezza di un itinerario svoltosi «per scelte incongrue e per tappe disarticolate» (ibidem, p. 48: ma sulla questione egli è ora ritornato in questo convegno). Non
provata e al limite della fantapolitica mi sembra invece l’ipotesi di J. Šašel, Il
viaggio di Venanzio Fortunato e la sua attività in ordine alla politica bizantina,
in Aquileia e l’Occidente, Antichità altoadriatiche XIX, Udine 1981, pp. 359-375
secondo cui il poeta sarebbe andato in Gallia come agente diplomatico al soldo di Bisanzio: si veda la convincente confutazione di B. Brennan, Venantius
Fortunatus: Byzantine Agent?, «Byzantion» 65, 1995, pp. 7-16.
(3) Mi limito a ricordare B. Brennan, The Career of Venantius Fortunatus,
«Traditio» 41, 1985, pp. 49-78; George, Venantius Fortunatus; Reydellet,
Introduction e da ultimo S. Di Brazzano (a cura di), Venanzio Fortunato,
Opere/1, Aquileia 2001, Introduzione generale.
(4) I libri I-VII vennero pubblicati nel 576 o poco dopo; terminus post
quem per la pubblicazione dei libri VIII-IX è il 590: vedi Reydellet,
Introduction, pp. LXVIII-LXXI.
(5) Cfr. L. Pietri, Venance Fortunat et ses commanditaires: un poète italien dans la société gallo-franque, in Committenti e produzione artistico-letteraria nell’alto Medioevo Occidentale, Settimane di Spoleto XXXIX, Spoleto
1992, II, pp. 729-758 (in part. per questo aspetto pp. 729-731). Sui legami di
Venanzio con i singoli committenti si rinvia all’attenta e documentata analisi
della George, Venantius Fortunatus; sulle strategie da lui messe in atto per
costruirsi una rete di rapporti vedi da ultimo V. Epp, Amicitia. Zur Geschichte
personaler, sozialer, politischer und geistlicher Beziehungen im frühen
Mittelalter, Stuttgart 1999.
(6) Cfr. S. Quesnel, Introd. a Venance Fortunat, Oeuvres, Tome IV, Vie de
Saint Martin, texte établi et traduit par S. Quesnel, Paris 1996, p. XV.
(7) W. Meyer, Der Gelegenheitsdichter Venantius Fortunatus,
Abhandlungen der Königlichen Gesell. der Wiss. zu Göttingen, phil.-hist.
Klasse, Berlin 1901.
(8) I modi in cui la produzione poetica di Venanzio ha risposto all’esigenza di questo compromesso sono al centro dell’indagine di M. Reydellet,
Tradition et nouveauté dans les carmina de Fortunat, in Venanzio Fortunato tra
Italia e Francia, pp. 81-98 (la citazione da p. 82).
255
(9) La prima definizione è di F. Leo, Venantius Fortunatus, der letzte römische Dichter, «Deutsche Rundschau» 32, 1882, pp. 414-426; la seconda
(«der älteste mittelalterliche Dichter Frankreichs») si deve a Meyer, Der
Gelegenheitsdichter, p. 3.
(10) Per i libri I-VIII i Carmina vengono citati secondo l’edizione curata
per Les Belles Lettres da M. Reydellet (Tomes I e II, Paris 1994 e 1998), gli altri secondo l’edizione di F. Leo, MGH AA IV, Berlin 1881 (ristampa München
1981).
(11) Questo tema in particolare è ampiamente svolto da Claudian., I Stil.,
10-24.
(12) Ancora ricordati, pochi anni prima di Venanzio, dal grammatico
Corippo in Iohannis, praef., 5-14, dove egli svolge il tema della poesia come
garante di immortalità, e – secondo una prassi per cui «il poeta giunge ad annullarsi di fronte al soggetto del canto» (Flavii Cresconii Corippi Iohannidos liber primus, introd., testo critico, trad. e commento a cura di M. A. Vinchesi,
Napoli 1983, p. 78 a praef. 13-14) – conclude il confronto con Virgilio e Omero
affermando che il suo soggetto è maggiore dei loro anche se minore è la sua
abilità. Il contesto è dunque diverso, ma testimonia la perdurante efficacia della precettistica di scuola, che assume Virgilio e Omero a modelli di perfezione
per un impari confronto (altra questione, a tutt’oggi aperta, è la conoscenza
delle opere di Corippo da parte di Fortunato; i loci paralleli a mio avviso più
convincenti in M. Manitius, Zu spätlateinischen Dichtern, «Zeit. Für österr.
Gymnasien» 37, 1886, p. 253). Un rinvio ad Omero, che avrebbe reso il celebrando più noto di Achille, Venanzio fa anche in Carm. III, 10, 3-6, dedicato al
vescovo Felice di Nantes, mentre il riferimento a Virgilio ricorre anche in contesti più confidenziali: cfr. p. es. Carm. VIII, 18, 1-5 a Gregorio di Tours.
(13) Forsitan, benché riferito a legeretur, è collocato davanti ad esset: l’artificiosità della Wortstellung può spiegarsi con una tecnica versificatoria che –
perduto il senso delle quantità – si basa molto sulla memoria poetica. Il v. 5 ricalca infatti Claudian., c.m. 23, 15 sed non Vergilius, sed non accusat
Homerus. La corrispondenza dell’anafora di sed in Claudiano con quella di si
in Venanzio è una ulteriore prova a favore del testo claudianeo tràdito dai manoscritti (contro il non accusaret Homerus proposto da Hall nella sua edizione), ed ora egregiamente difeso da B. Moroni, La deprecatio in Alethium quaestorem di Claudiano, in I. Gualandri (a cura di), Tra IV e V secolo. Studi sulla
cultura latina tardoantica, Quaderni di Acme 50, Milano 2002, pp. 75-96.
(14) Menandro, nostra fonte sulla precettistica tardoimperiale, consiglia
di sottolineare nel secondo proemio (quando viene aggiunto per amplificatio)
che la materia richiederebbe poeti come Omero e Orfeo, e che anch’essi difficilmente avrebbero potuto assolvere l’arduo compito (epid. 369, 7-13, p. 78
ed. Russell-Wilson). Sulla professione di modestia cfr. E.R. Curtius,
Letteratura europea e Medio Evo latino, trad. it. Firenze 19952, pp. 97-99; sul
basiliκÿj l’goj ibidem, p. 180.
(15) Il tema, già presente nell’esaltazione di Augusto, è particolarmente
sentito nel tardo impero, quando la sicurezza è minacciata dalla preoccupante avanzata dei barbari: i termini della questione sono già formulati in J.
Gagé, La Théologie de la victoire impériale, «Rev.Hist.» 171, 1933, p. 1 ss. e
M.P. Charlesworth, Pietas and Victoria. The Emperor and the Citizen, «JRS»,
33, 1943, pp. 1-10 (poi ristampato in trad. tedesca in Ideologie und
Herrschaft in der Antike, hrsg.von H. Kloft, Darmstadt 1979, pp. 473-495).
Sulla cristianizzazione del motivo della vittoria, vista come premio alla fede
dell’imperatore, basterà qui rinviare a M. Forlin Patrucco, Il tema politico della vittoria e della croce in Ambrogio e nella tradizione ambrosiana, in
Paradoxos Politeia. Studi patristici in onore di G. Lazzati, Milano 1979, pp.
406-418 e R. Perrelli, La vittoria ‘cristiana’ del Frigido, in F.E. Consolino (a cura di), Pagani e cristiani da Giuliano l’Apostata al sacco di Roma, Soveria
Mannelli 1995, pp. 257-265.
(16) Vv. 7-18. In particolare, nei vv. 9-10 (cuius rapta semel sumpsit
Victoria pinnas/ et tua vulgando prospera facta volat), l’immagine della Vittoria
alata che rende noti i successi del sovrano ‘contamina’ il motivo della Vittoria
che vola a coronare l’imperatore – tema svolto da Ausonio in un epigramma
256
per Graziano (Praec. 1 Green= Epigr. I S., 2-4, su cui cfr. F.E. Consolino,
L’elogio di Graziano e le Clariae Camenae di Giuseppe Scaligero, «Filolologia
Antica e Moderna» 12, 1997, pp. 31-46, in part. p. 33; L. Mondin, Un manifesto di ideologia tardoimperiale; Ausonio, Precatio 1 Gr., «Lexis» 20, 2002, pp.
171-202) – con l’immagine della Fama virgiliana. Sigeberto era stato l’unico
dei figli di Clotario a combattere contro nemici stranieri: cfr. Venantius
Fortunatus: Personal and Political Poems, translated with Notes and
Introduction by J. George, Liverpool 1995, p. 29, nota 24 e p. 31, nota 38.
(17) Cfr. Curtius, Letteratura europea, pp. 97-98; T. Janson, Latin Prose
Prefaces. Studies in Literary Conventions, Stockholm 1964, p. 125. Una formulazione del concetto piuttosto vicina alla nostra si trova in Ennodio, dictio
1, 4: a chi parla spinto dall’affetto, amor suggerit quod negat ingenium. In
Venanzio essa ricorre – sempre collegata al motivo ecomiastico del dicere
pauca rispetto al molto che si potrebbe (su cui cfr. Curtius, Letteratura europea, p. 180) – in Carm. III, 15, 3-4 subtrahor ingenio, compellor amore parato / laudibus in vestris prodere pauca favens, composto pressappoco nello
stesso periodo per il vescovo di Reims (vedi infra, p. 250), l’altra capitale del
regno di Austrasia. La stessa contrapposizione troviamo anche in una epistola del consigliere di Sigeberto, Gogone, dove figura anche il motivo del confronto impari con Virgilio: et licet in tuis laudibus me inparem esse sentiam,
adtamen amoris inpulsu tardum promovisse dinoscor ingenium, et, in cuius
laudem vix sufficere poterat eloquentia Maroniana, praeco inperitiae meae
audacia praestabit ingressum (Ep. Austras. 13, MGH Epp. III, p. 128, 17-19).
(18) Nei Panegyrici Latini l’oratore non parla spinto dall’amor, ma ha semmai, come Pacato 1,3, il problema di dare degna espressione all’amore del
senato per Teodosio (un analogo concetto in Cassiodoro, orat. Rel. Taur. IIr,
MGH AA XII, p. 465, 4-7 o quam nimium est amorem publicum ieiuna oratione saturare et quam arduuum de celsis principibus humiles loqui). Un po’ più
vicino al nostro passo, Sidonio Apollinare (Carm. VI, 29-36), il quale – sempre
nel contesto di una captatio benevolentiae – aveva paragonato le intenzioni
del suo panegirico per il publicus pater Avito alla pietas (un termine deputato all’espressione del particolare rapporto che si stabilisce fra imperatore e
sudditi), che aveva ispirato ad Orfeo le lodi della madre Calliope.
(19) Claudian., Carm. 16, 10 Ah nimius consulis urget amor! La ripresa
da Claudiano – qui e in Carm. 7, 8, 60 (hinc meus urguet amor, hinc tuus obstat honor, stavolta nella prima parte del pentametro e in contesto differente)
– è segnalata da S. Blomgren, De Venantio Fortunato Lucani Claudianique
imitatore, «Eranos» 48, 1950, p. 155. Sulla costruzione di entrambi i passi di
Venanzio potrebbe avere influito anche la memoria di Claudian., carm. 26,
405 sic ducis urget amor, che non presenta analogie tematiche con nessuno
dei due, ed occupa la prima metà di un esametro.
(20) Cfr. Claudian., Carm. 16, 1-10 Audebisne, precor, doctae subiecta
catervae,/ inter tot proceres, nostra Thalia, loqui?/ nec te fama vetat, vero
quam celsius auctam/ vel servasse labor vel minuisse pudor?/ an tibi continuis crevit fiducia castris/ totaque iam vatis pectora miles habet?/ culmina
Romani maiestatemque senatus/ et, quibus exultat Gallia, cerne viros./ omnibus audimur terris mundique per aures/ ibimus. Ah nimius consulis urget
amor!
(21) Come ha rilevato R. Perrelli, I proemî claudianei. Tra epica ed epidittica, Catania 1992, p. 102, l’allusione del poeta a se stesso o all’uditorio è
tipica delle prefazioni di Claudiano che non contengono informazioni supplementari rispetto al testo prefato.
(22) Vedi sotto, pp. 252-253. Su caratteri e funzioni delle prefazioni claudianee si veda ora F. Felgentreu, Claudians Praefationes. Bedingungen,
Beschreibungen und Wirkungen einer poetischen Kleinform, Stuttgart und
Leipzig, 1999.
(23) Vedi infra, p. 247.
(24) Gli altri sono Carm. VI, 2, panegirico di Cariberto, di poco successivo; IX, 1 panegirico di Chilperico (580); e X, 8, in lode della reggente Brunilde
e di suo figlio Childeberto II (587).
(25) Sul nuovo taglio dei panegirici di Venanzio, che rinuncia al grande
257
affresco delle parti narrative, ha attratto l’attenzione P. Godman, Emperors
and Poets. Frankish Politics and Carolingian Poetry, Oxford 1987, p. 13.
(26) È infatti un testo breve (solo 42 versi) e in cui manca del tutto la parte relativa a genitori, nascita, educazione (cfr. George, Venantius Fortunatus,
pp. 40-42): queste sono omissioni comunque rilevanti sotto il profilo letterarioformale, e le persone colte che gravitavano intorno alla corte di Austrasia (vedi infra, p. 247) non avranno mancato di notarle.
(27) Nostra unica fonte sulla vicenda, molti aspetti della quale restano
per noi oscuri, è Gregorio, HF V, 49.
(28) Nel rievocare l’episodio, Gregorio di Tours ricorda come determinante per il buon esito della vicenda la veglia di preghiera della principessa
Rigonda, mentre non fa parola del panegirico di Venanzio. Ciò non si spiegherebbe se il carme avesse avuto il significativo ruolo di mediazione che alcuni studiosi (in particolare Koebner e George) gli attribuiscono: vedi F.E.
Consolino, Poesia e propaganda da Valentiniano III ai regni romanobarbarici
(secc. V-VI), pp. 222-224, in Letteratura e propaganda nell’occidente latino
da Augusto ai regni romanobarbarici, Atti del Convegno Internazionale di
Rende a cura di F.E. Consolino, Roma 2000, pp. 181-227.
(29) Mi fa notare Lucio Ceccarelli, che ringrazio, come exigui occupi qui
la stessa sede metrica di exiguo in Prop. III, 9, 36 (tota sub exiguo flumine nostra mora est) e IV, 1, 59 (sed tamen exiguo quodcumque e pectore rivi/ fluxerint) – due casi in cui il poeta dichiara i limiti della propria poesia – . Meno attinente Prop. I, 12, 12 (quantus in exiguo tempore fugit amor!), diverso per
contesto, ma con il pentamentro chiuso, come in Venanzio, da amor.
(30) Vedi sopra, p. 237.
(31) Chilperico aveva promosso una riforma dell’alfabeto ed era anche
poeta in proprio, come testimonia il suo acerrimo nemico Greg. Tur., HF V, 44
e VI, 46, che ne critica i versi e ne irride (HF V, 44) gli interessi culturali, qui
elogiati ai vv. 91-94.
(32) Senza peraltro mai affermare il falso: lo ha dimostrato, un secolo fa,
la puntuale analisi di Meyer, Der Gelegenheitsdichter, pp. 113-126.
(33) Carm. III, 15, che si data al 566: Reydellet, Venance Fortunat I, p.
197, nota 97.
(34) Vedi sopra, p. 237. In particolare, prodere pauca di v. 4 trova corrispondenza in vel dicere pauca di Carm. VI, 1a, 3.
(35) Claudian. c.m. 26, 7-10 nonne reus Musis pariter Nymphisque tenebor,/ si tacitus soli praetereare mihi?/ indictum neque enim fas est a vate relinqui/ hunc qui tot populis provocat ora locum? (è l’elogio di Abano). Il rinvio a
Claudian., c.m. 26, 7-8 si deve a Blomgren, De Venantio Fortunato, p. 154. La
necessità di sottrarsi alla colpa è invocata anche per motivare la composizione della Vita Martini (Vita Mart. I, 40-44): sarebbe un crimine per Venanzio non
cantare le lodi del santo cuius causa fuit hac me regione venire.
(36) Cfr. Carm. IX, 16, 3 s. non ego praeteream praeconia celsa,
Chrodine,/ ne videar solus magna silere bonis. Il carme, privo di elementi che
ne permettano la datazione, fu composto entro il 582, anno di morte di
Crodino (cfr. PLRE III A, Chrodinus, p. 312 s.).
(37) Carm. I, 20, 1 ss. Quamvis instet iter retraharque volumine curae,/ ad
te pauca ferens carmine flecto viam./ Captus amore tui numquam memoranda tacebo/ te neque praetereo praetereundo locum./ Cui quae digna loquar?
Oggetto del canto è la villa di Leonzio a Preignac. Riguardano Leonzio i carmi 6 e 8-20 del I libro: cfr. George, Venantius Fortunatus, pp. 108-113.
(38) L’origine virgiliana (Ecl. VI, 10 e Aen. XII, 392) di captus amore e le
ulteriori sue attestazioni prima di Fortunato in S. Zwierlein, Venantius
Fortunatus in seiner Abhängigkeit von Vergil, Diss. Würzburg 1926, p. 16. Il riferimento all’amor è presente anche nel contesto di un vero e proprio panegirico di Leonzio, in cui il poeta afferma che l’affetto lo ‘costringe’ a ricordare,
sia pur brevemente, le molte qualità di Placidina, sposa del vescovo e nipote
di Sidonio Apollinare: Carm. I, 15, 93 cogor amore etiam Placidinae pauca referre e 107 plurima cur referam quantis sit praedita rebus ...?
(39) Carm. VII, 1, 45 s. Haec bona si taceam, te nostra silentia laudant/
nec voces spectes qui mea corda tenes. Su vita e carriera di Gogone (†581),
258
cfr. PLRE III, 1 A, Gogo, p. 541 s. Il carme (su cui vedi infra, p. 247 e nota 95)
si data al 566-567.
(40) Carm. VII, 1, 47 s. vera favendo cano, neque me fallacia damnat,/
teste loquor populo: crimine liber ero.
(41) Carm. VI, 2, 105 s. Muneribus largis replet tua gratia cunctos:/ ut
mea dicta probes, plebs mihi testis adest.
(42) Carm. III, 8, 1 s. Inluxit festiva dies, me gaudia cogunt/ Ut quod
plebs poterat solus amore loquar. Il carme è analizzato da George, Venantius
Fortunatus, pp. 77-79; su Felice di Nantes, destinatario dei carmi III, 4-10, ibidem, pp. 113-123.
(43) Carm. X, 8, 1 ss. 1 si praestaretur praeconia pandere regum,/ non
mihi sufficeret nocte dieque loqui,/ qualiter hic populus dominorum pendet
amore/ et vestris oculis lumina fixa tenet.
(44) Carm. X, 8, 13 s. hic ego cum populo mea vota et gaudia iungo,/
quae pius amplificans crescere Christus agat e 27-30 hic ego promerear rediens dare verba salutis,/ congaudens dominis parvulus ipse piis:/ prospera
sint regum, populorum gaudia crescant;/ exultet regio, stet honor iste diu.
(45) Ennod. Ep. V, 7, 1 ad Euprepia Quamvis saepe ingenii mei maciem
cognovisses, periclitari tamen ieiunia oris olim probati iussionis celeritate voluisti. Sed ego non abnuo oboedire diligenti, ut si facundiae deest meritum,
gratia subveniat obsequendi.
(46) Una ricca raccolta di topoi dedicatori (spesso però non abbastanza
discussi) offre G. Simon, Untersuchungen zur Topik der Widmungsbriefe mittelalterlicher Geschichtsschreiber bis zum Ende des 12. Jahrhunderts, «Archiv
f. Diplomatik» 4, 1958, pp. 52-119 (per il motivo in questione e i suoi precedenti classici, cfr. pp. 61-62); cfr. anche Janson, Latin Prose Prefaces, p. 124.
(47) Scabridus è già in Ennod., Ep. 2, 27, 3 (lingua); 5,7, 2 (scabridis officiis); l’aggettivo è da Venanzio attribuito ai suoi verba anche nella professione
di incapacità che introduce il IV libro della Vita Martini (vv. 17-19 Martini vita
patroni, /quam nitor scabridis indignus scalpere verbis/ rusticus, arte rudis
temptans formare monile). Il nesso incomptum os non sembra avere altre attestazioni (l’aggettivo si accompagna piuttosto con ars, oratio, verba: cfr. TLL
997, 48-63), ma incomptus, come inconpositus, incultus, inpolitus, è nella tarda latinità fra le «elocutiones, quibus potissimum scriptores utantur ad significandam rusticitatem sermonis» o figura come espressione di affettata modestia: H. Bruhn, Specimen vocabularii rhetorici ad inferioris aetatis latinitatem
pertinens, Diss. Marpurgi Cattorum 1911, p. 18 s. e p. 25 (la citazione da p.
17). Allo stesso ambito concettuale rinvia rubigo (cfr. ibidem, p. 21), che ricorre anche in VM I, 31, sempre all’interno di una professione di incapacità: anche lì il poeta, cui vix rubigo recessit (v. 31), è mente hebes, arte carens, usu
rudis, ore nec expers (v. 28), e ha dimenticato quel che aveva a suo tempo appreso (v. 32).
(48) Cogitis antiquam me renovare lyram tradisce forse la memoria di
Claudian., Carm. II, 16 (convenit ad nostram sacra caterva lyram).
(49) Carm. II, 9, 9-10 Vix dabit in veteri ferrugine cotis acumen/aut fumo
infecto splendet in aere color.
(50) Carm. II, 9, 11-16. Sed quia dulcedo pulsans quasi malleus instat/.../
obsequor hinc, quia me veluti fornace recocto/ artis ad officium vester adegit
amor. Dulcedo, qui sinonimo di amor dulcis (per questa accezione del termine in Venanzio cfr. S. Blomgren, Studia Fortunatiana, Upsaliae 1933, p. 114),
«in Venantius’ usage, evokes the reciprocity of the relationship between poet
and patron»: cfr. Godmann, Poets and Emperors, p. 18, alla cui analisi (pp.
16-18) rinvio.
(51) Carm. III, 22, qui riportato per intero. I vv. 3-4, in cui il congiuntivo
placeat dipende dall’ablativo assoluto stridente cicuta, non possono costituire un periodo a sé stante: non condivisibile appare perciò la scelta di
Reydellet, che li isola fra due punti fermi. Distaccandomi dalla pur accettabile interpunzione di Leo, che mette punto alla fine di v. 2 e punto e virgola alla fine di v. 4, collegando sintatticamente il distico a quel che segue, preferisco legare i vv. 3-4 al distico che precede, in quanto essi forniscono una precisazione sul modo in cui il poeta ha ubbidito agli ordini ricevuti.
259
(52) Benché il termine melos (impiegato sia come maschile che come
neutro) abbia notevole fortuna in poesia latina tarda (cfr. TLL ad loc.) e sia caro a Venanzio (Carm. III, 9, 30; VII, 1, 7; VII, 8, 28; VII, 12, 30 e 112; X, 9, 52),
questa iunctura si trova soltanto qui e – riferita al canto dell’usignolo – in AL
658, 24, testo più tardo se è valida la sua attribuzione ad Eugenio di Toledo.
Liquidus, d’altra parte, ricorre piuttosto in combinazione con vox, opposto a
raucus, asper, cfr. TLL s.v. liquidus, col. 1486, 11-32.
(53) Cfr. Bruhn, Specimen, p. 25: in questa accezione il termine è spesso adoperato da Ennodio, cfr. TLL 1697, 44-49.
(54) Benché non sia questo il significato più frequente, garrulus, garrire,
garrulitas possono indicare un suono rauco o stridulo: cfr. Mart. 3,93,8 ranae
garriant; Ser. Samm. 669 (rana) rauco garrula questu; Hier. in Tit. 3, 9 latratu
garrire canum; Ps. Aug., serm. 283, 2 (i fedeli) qui ita alta garrulitate .... cum
strepitu vocis orant, ut iuxta se alios orare non permittant; Servio ad Aen. VII,
14 arguto pectine chiosa l’aggettivo con garrulo, stridulo; Isid. Orig. 10, 114
sumptum nomen (scil. garrulus) a graculis avibus, qui inportuna loquacitate
semper strepunt; 12, 6, 58 ranae a garrulitate vocatae, eo quod circa genitales strepunt paludes, et sonos vocis inportunis clamoribus reddunt. E lo stesso Venanzio, in Carm., praef. 5 dice di sé poema non canerem, sed garrirem.
(55) Per questa accezione di levis, cfr. TLL 1211,76-1212, 80: in particolare, per levis come inadeguato a poesia encomiastica, cfr. Merob., Carm. 4,
16 (non levibus canenda Musis, detto della moglie di Ezio). Meno probabile,
visto l’uso generalizzato del distico elegiaco da parte di Venanzio, è che (come in Ovid., Am. I, 1, 19 e II, 1, 21; Trist. II, 331; P. IV, 5, 1) levis si riferisca anche al metro prescelto.
(56) Con questa connotazione il termine ricorre in Sidonio, carm. XXIII, 4
(cantum ... pauperis cicutae in luogo del solenne carme cui lo esorta l’amico
Consenzio).
(57) La combinazione di levis garrulitas e stridente cicuta potrebbe avere influenzato il garrulus stridor di cui l’autore della vita di Amanzio di Rodez
– testo di incerta datazione (cfr. Bibliotheca sanctorum I, 933 e MGH AA IV, 2,
pp. XXI-XXII) arbitrariamente attribuito a Venanzio Fortunato dal Surius – si
scusa nel prologo con un generico lector: Vita S. Amantii praef. 2, p. 55, 5-7
ignosce, quaeso, lector, cum dissonam manibus paginam sumpseris, cum
aures tuas murmur indoctum garrulo stridore percusserit.
(58) Carm. I, 15 s. Alta cicuticines liquerunt Maenala Panes/ postque
chelyn placuit fistula rauca Iovi.
(59) Carm. I, 19 s. semifer audiri meruit meruitque placere,/ quamvis hinnitum, dum canit, ille daret.
(60) Carm. XIV 23 ss. cito, diva, necte chordas,/ nec, quod detonuit
Camena maior,/ nostram pauperiem silere cogas./ Ad taedas Thetidis probante Phoebo/ et Chiron cecinit minore plectro,/ nec risit pia turba rusticantem,/ quamvis saepe senex biformis illic/ carmen rumperet hinniente cantu.
(61) Carm. III, 22a, 9-10 si mea vox iugi resonaret acumine carmen,/ laude minor loquerer, maior amore, pater.
(62) Appendix 5, 11 (composto intorno al 587) Childebercthe cluens:
haec Fortunatus amore / paupere de sensu pauper et ipse fero.
(63) Carm. I, 5, composto per essere inciso in cellula sancti Martini ubi
pauperem vestit (questa destinazione è provata in modo convincente da H.
Delehaye, Une inscription de Fortunat sur Saint Martin (1,5), in Idem,
Mélanges d’Hagiographie grècque et latine, Subs. Hag. 42, Bruxelles 1966,
pp. 204-211).
(64) Come Venanzio dichiara nel distico ad Gregorium posto in explicit al
carme: Imperiis parere tuis, pie care sacerdos,/ quantum posse valet, plus
mihi velle placet.
(65) Sarà Carm. V, 5b. Sull’intervento di Avito, cfr. Greg. Tur., HF V, 11.
(66) Per B. Brennan, The Conversion of the Jews of Clermont in AD 576,
«JThS» 36, 1985, pp. 321-337, il tema centrale del poema, la coesione sociale basata sull’unità religiosa (p. 328), è in certo senso una discolpa di Avito
dall’accusa di «social disruption» causata dal suo intempestivo zelo missionario (p. 337). M. Reydellet, La conversion des Juifs de Clermont en 576, in
260
De Tertullien aux Mozarabes. Mélanges offerts à Jacques Fontaine, Paris
1992, Tome I, pp. 371-379 nota a sua volta come, insistendo sul significato
teologico dell’avvenimento, Venanzio faccia passare in secondo piano la contrapposizione fra i giudei e i cristiani (spec. p. 174).
(67) Perist. II, 573-584 (per cui cfr. Vita Mart. IV, 594-620); IV, 193-200; V,
545 ss. (ma è una preghiera collettiva); VI, 160-162 (un auspicio che il santo
abbia riguardo a lui per la sua opera poetica; X, 1136-1140 (Prudenzio si augura che Romano lo raccomandi a Dio).
(68) Carm. IV, 7, 25 s. per il vescovo Calectrico di Chartres, dove il poeta esprime anche una personale partecipazione al lutto (vedi infra, nota 70):
haec qui, sancte pater, pro magnis parva susurro,/ pro Fortunato, quaeso,
precare tuo; Carm. IV, 6, 19-22 per il vescovo Exocius di Limoges miliciam peragens, capiens nova praemia regis / pro Fortunato supplice funde precem./
Obtineas votis, haec qui tibi carmina misi, / Ut merear claudi quandoque clave Petri; Carm. IV, 27, 19-22 per Eufrasia, pia vedova di un vescovo consacratasi a Dio (i vv. 20-22 sono gli stessi che chiudono l’epitafio di Exocius,
mentre ne differisce il più partecipato v. 19 sed rogo per regem paradisi gaudia dantem).
(69) Rispettivamente in Carm. I, 5, 21 s. Tu quoque qui caelis habitas,
Martine precator,/ pro Fortunato fer pia verba deo, che rievoca l’episodio del
mantello diviso col povero (per la Vita Martini vedi infra, p. 254); Carm. II, 16,
165 s. Haec, pie, pauca ferens ego Fortunatus amore/ auxilium posco, da
mihi vota, precor (a chiusura del carme per Medardo e dopo una professione di modestia); Carm. II, 14, 29 s. Fortunatus enim per fulgida dona
Tonantis,/ ne tenebris crucier, quaeso feratis opem (a chiusura del carme sui
martiri di Agaunum).
(70) Come tributo di amicizia, e testimonianza di dolore per la morte di
una persona cara sono presentati tre dei carmi funerari raccolti nel libro IV.
Carm. IV, 10 per Leonzio di Bordeaux, vv. 3 s. (Malueram potius cui carmina
ferre salutis,/ perverso voto flere sepulchra vocor) e 18 (et mihi qualis erat
pectore flente loquor); Carm. IV, 7 per il vescovo Calectrico di Chartres (v. 1
ss. inlacrimant oculi, quatiuntur viscera fletu/ nec tremuli digiti scribere dura
valent,/ dum modo qui volui vivo, dabo verba sepulto,/ carmine vel dulci cogor amara loqui./ Digne tuis meritis, Chalacterice sacerdos,/ tarde note mihi,
quam cito, care, fugis!/ Tu patriam repetis, nos triste sub orbe relinquis,/ te tenet aula nitens, nos lacrimosa dies); Carm. IV, 18, 1-4 (inpedior lacrimis prorumpere nomen amantis/ vixque dolenda potest scribere verba manus./
Coniugis affectu cogor dare pauca sepulto,/ si loquor affligor, si nego durus
ero) per Basilio, probabile committente di Carm. I, 7 (su di lui PLRE III A, p.
175, Basilius 4; K.F. Stroheker, Der senatorische Adel in spätantiken Gallien,
Tübingen 1948, p. 156, n. 65).
(71) P. Dronke, Medieval Latin and the Rise of the European Love-Lyrik,
Oxford 19682, p. 200.
(72) Carm. III, 3,1-6. Eufronio di Tours (PLRE IIIA, p. 466 Euphronius 1) è
dedicatario anche di due epistole in prosa, Carm. III, 1 e 2, che precedono
immediatamente.
(73) App. 12, 7-10. Sul legame rispettivamente filiale e fraterno di
Venanzio con Radegonda e Agnese, cfr. in particolare la dichiarazione di
Carm. XI, 6.
(74) Carm. II, 9, 3-6: vedi sopra, p. 242.
(75) Per l’audacia del poeta in ambito dedicatorio cfr. Vinchesi p. 76 a
Corippo, praef. 1. Innalza il livello stilistico del carme il composto epicizzante
doctiloquus: benché esso piaccia ai poeti tardi (a parte Ennio 593S=583V2,
sono praticamente i soli ad usarlo: cfr. TLL ad loc.), è questa la sua unica attestazione in nesso con harundo.
(76) Carm. VII, 5, 1 s. pectore de sterili si flumina larga rigarem,/ non te
sufficerem, dux Bodegisle, loqui; 15-18 quae tibi sit virtus si possem, prodere vellem,/ sed parvo ingenio magna referre vetor./ Exiguus titubo tantarum
pondere laudum,/ sed melius gradior quem tua facta regunt, dove alla professione di modestia e all’Unsagbarkheitstopos si aggiunge la fiduciosa affermazione (anch’essa prevista dell’insegnamento retorico: vedi sopra, nota
261
12) che è il soggetto stesso a guidare la lode del poeta. Su Bodegiselo (†585)
cfr. PLRE III A, p. 235 s., Bodegiselus I.
(77) Sul passo cfr. Godmann, Poets and Emperors, p. 18 s. Per la metafora della parola-cibo in Venanzio cfr. Epp, Amicitia, p. 84.
(78) Sulla doppia origine – classica e cristiana – del tema, sulla sua diffusione nei tardi autori latini e in Venanzio vedi Dronke, The Rise, p. 195 ss.
(79) Cfr. Carm. 13, 5 s. ai diaconi Lupo e Valdone Quod valeo facio: absens vel dependo salutem: / si non possum oculis, vos peto litterulis. Il motivo dell’amico lontano dagli occhi ma non dal cuore è particolarmente caro a
Venanzio, che vi fa ricorso anche nelle due epistole in prosa al vescovo
Eufronio di Tours (Carm. III, 1,1 e III, 2, 1).
(80) Cfr. Carm. VII, 10, 19 s. a Magnulfo, fratello di Lupo, in cui il poeta si
scusa per l’obbligata brevità: da paucis veniam, quoniam mihi portitor instat:/
nam de fratre Lupi res monet ampla loqui. O Carm. VII, 25, 17 s. al comes
Galattorio plane hoc quod superest solvat vel epistula currens:/ littera, quod
facerem, reddat amore vicem. O Carm. VII, 17, 1 ss. a Gunduario: si prodi verbis affectus posset amantis,/ carmina plura tibi pagina nostra daret./ Sed
quod ab ore loqui nequeo quod pectore gesto,/ sit satis ex multis vel modo
pauca dari. / Nam si respicias votum per verba canentis,/ malueram maius
qui tibi parva fero. Gunduario era l’amministratore del patrimonio di una regina, forse Brunilde: PLRE III A, p. 567, Gunduarius.
(81) Carm. III, 16: Lux sincera animi, semper mihi dulcis Hilari,/ quamvis
absentem quem mea cura videt,/ cuius honestus amor tantum mea corda replevit,/ ut sine te numquam mente vacante loquar,/ versibus exiguis mandamus vota salutis:/ quae dedit affectus sint tibi cara, precor. Ilario è forse da
identificare con l’aristocratico dedicatario di un epitafio (Carm. IV, 12): cfr.
PLRE III A, p. 598 Hilarius 2; Stroheker, Adel, p. 183, n. 195.
(82) Carm. III, 26, 5 ss. ad Rucconem diaconum: la distanza non separa
i loro cuori (v. 6 divisos terris alligat unus amor).
(83) Carm. III, 28, 1-4 (Pignus amicitiae semper memorabile nostrae/ versibus exiguis, care Iohannis, habe/ ut, cum me rapiunt loca nunc incognita
forsan/ non animo videar, dulcis, abesse tuo), che accomuna nel saluto anche gli amici Antemio e Ilario.
(84) Carm. III, 29, 1 s. suscipe versiculos, Anthimi, pignus amantis,/ quos
tibi sincero pectore fudit amor e 13 s. sed cui plura volens poteram tunc dicere praesens/ nunc faciat paucis pagina missa loqui. Per Dronke, The Rise,
p. 201 il carme è fra i più personali di Venanzio.
(85) Dronke, The Rise, p. 201.
(86) Carm. VII, 12, 105 s. misimus o quotiens timidis epigrammata chartis/ et tua, ne recreer, pagina muta silet. Su Giovino cfr. PLRE III A, p. 715 s.
Iovinus 1.
(87) Carm. IX, 12, 3-8 Si non ipse adii, te pagina missa salutet/ solvat et
obsequium quod minus ipse gero./ Commendesque libens domnis me regibus, oro,/ et referas grates pro pietatis ope./ Inpenso affectu me pagina vestra requirat,/ hoc remeante tamen redde benigne vicem. Su Faramodo cfr.
PLRE III A, p. 477 Faramodus.
(88) Rispettivamente Carm. VII, 2, 9, un biglietto a Gogone per ringraziarlo della cena che gli ha offerta, e Carm. XI, 23, composto come piccolo
contraccambio (v. 12 carmina parva dedi) durante un ricco pranzo offertogli
da Radegonda e Agnese.
(89) Carm. V, 8 b, 7 s. pro munere tanto/ tunc magis ore meo gratia vestra sonet.
(90) Carm. X, 11, 1-6 Cum videam citharae cantare loquacia ligna/ dulcibus et chordis admodulare lyram/ (quo placido cantu resonare videntur et
aera) mulceat atque aures fistula blanda tropis:/ quamvis hic stupidus habear
conviva receptus,/ et mea vult aliquid fistula muta loqui.
(91) Osserva Reydellet, Introduction, pp. L-LI, che i carmi per Dinamio,
Gogone, Lupo e Giovino sono quelli più elaborati e raffinati, e testimoniano il
buon livello della corte di Metz, confermato dalle epistolae Austrasiacae. Sul
contesto socio-culturale di Gallia in cui Venanzio opera, vedi George,
Venantius Fortunatus, pp. 12-18. Sulla pratica delle lettere alla corte di
262
Austrasia nel corso del VI secolo c’è ora il contributo di E. Malaspina, Letterati
forestieri a servizio della corte austrasica (511-596), in M. Rotili (a cura di),
Incontri di popoli e culture tra V e IX secolo. Atti delle V Giornate di
Benevento, Napoli 1998, pp. 59-88.
(92) Ep. Austras. 16, MGH, Epp. III, p. 130 [= pp. 126-128 ed. Malaspina,
Il liber epistolarum della cancelleria austrasica (sec. V-VI), Roma 2001].
(93) Come Carm. III, IV, epistola in prosa di tono encomiastico al vescovo Felice di Nantes, o Carm. V, I, lettera in prosa al vescovo Martino di Braga,
elogiato anche (ibidem, 6-7) per la qualità dei suoi scritti. Sulla prosa di
Venanzio, cfr. Reydellet, Introduction, pp. LIV-LV e M. Reydellet, Venance
Fortunat et l’esthétique du style, in Haut Moyen âge: culture, éducation et société. Etudes offertes à Pierre Riché, La Garenne-Colombes 1990, pp. 69-77.
(94) Carm. VII, 14, 31-34 all’aristocratico galloromano Mummoleno
(PLRE III B, p. 898 s., Mummolenus 2): per la tempesta scatenata nelle sue
viscere da un pasto troppo abbondante, a v. 31 (non sic Aeoliis turbatur arena procellis) Venanzio si ricorda di Verg., Aen. V, 790-791 (maria omnia caelo/ miscuit, Aeoliis nequiquam freta procellis: è la tempesta che ha sbattuto
Enea sulle coste d’Africa): cfr. Godman, Poets and Emperors, p. 19.
(95) Carm. VII, 1, 1-20, su cui si rinvia alla traduzione commentata di J.
George, Poems, p. 57 s. Una analisi dei primi 14 versi in A.V. Nazzaro,
Intertestualità biblico-patristrica e classica in testi poetici di Venanzio
Fortunato in Venanzio Fortunato fra Italia e Francia, pp. 104-106, il quale fa
giustamente rilevare le differenze rispetto al trattamento dello stesso tema in
Draconzio mentre Godmann, Poets and Emperors, pp. 16-21 dà rilievo solo
agli elementi comuni. Di Gogone ci sono conservate quattro epistole
(Epistolae Austrasicae 13, 16, 22 e 48, MGH Epp. III, pp. 127 s.; 130; 134 s.
e 152 s. = pp. 116-118; 126-128; 142-144 e 218-220 ed. Malaspina), mentre
i suoi versi sono perduti. A lui Venanzio Fortunato dedica Carm. VII, 1-4: sulle loro relazioni cfr. George, Venantius Fortunatus, pp. 136-140.
(96) Carm. VII, 8, 69-73 nos tibi versiculos, dent barbara carmina leudos:/ sic variante tropo laus sonet una viro./ Hi celebrem memorent, illi te lege sagacem,/ ast ego te dulcem semper habebo, Lupe. Il carme è analizzato dalla George, Poems, pp. 62-4, che lo data al 576 circa. L’implicito confronto che il poeta vi propone fra il proprio canto e quello di un viandante stanco che finalmente riesce a raggiungere l’ombra rimanda sia alla cultura classica che a quella cristiana: vedi Nazzaro, Intertestualità, pp. 101-102.
(97) Carm. III, 18, 19 s. Sit tua vita diu, cuius modulante Camena/ cogimur optatis reddere verba iocis.
(98) Carm. III, 30, 21 s. (è la conclusione) carmina parva ferens tibi debita reddo salutis,/ des meliora, precor, carmina parva ferens.
(99) Auson. epist. 23 Green, 10-31.
(100) Carm. VI, 10. Su Dinamio cfr. PLRE IIIA, p. 429, Dynamius 1,
Stroheker, Adel, p. 164, n. 108. Autore di versi, abbiamo due sue epistole (Ep.
Austrasicae 12 e 17, MGH, Ep. III, pp. 127 e 130-131 = pp. 116 e 128-131
ed. Malaspina), una vita di Massimo di Riez (PL 80, 31 ss.) e un epigramma
(AL 786a): sulla paternità di queste ultime due opere avanza dubbi Malaspina,
Letterati, p. 79 s.
(101) Carm. VI, 10, 48 animae pars mediata meae per cui cfr. Hor. Carm.
II, 17, 5 te meae ... partem animae (Mecenate) e Carm. I, 3, 8 animae dimidium meae (Virgilio).
(102) Una testimonianza di corresponsione potrebbe venirci dall’ep. 12
di Dinamio, se – come proponeva W. Gundlach (Die Sammlung der Epistolae
Austrasicae «Neues Archiv der Gesell. für ältere Geschichtskunde» 13, 1887,
pp. 365-387, p. 369), Venanzio fosse l’amico cui essa è rivolta. Nel carme si
segnalano riprese da Virgilio, Orazio, Ovidio, Giovenco, Claudiano e perfino
da Catullo (vedi nota seguente).
(103) Ad una reminiscenza di Catullo 68, 62 (aestus hiulcat agros) al v. 6
(et per hiulcatos fervor anhelat agros), segnalata da Max Manitius (MGH, AA
IV, 2, p. 134) aggiungerei il probabile ricordo di Catullo 101, 10 atque in perpetuum, frater, ave atque vale, che credo possa leggersi in filigrana dietro v.
64: felix perpetue, dulcis amice, vale. Alcune presenze di Catullo in Venanzio
263
sono individuate da W. Bulst, Radegundis an Amalafred, in Bibliotheca docet.
Festschrift Carl Wehmer, Amsterdam 1963, p. 379.
(104) Per l’ambiente mondano e l’atmosfera in cui si svolge l’esercizio
letterario, vedi A. Loyen, Sidoine Apollinaire et l’esprit précieux en Gaule aux
derniers jours de l’empire, Paris 1943, in part. capp. V e VI; A. La Penna, Gli
svaghi letterari della nobiltà gallica nella tarda antichità. Il caso di Sidonio
Apollinare, «Maia» 47, 1995, pp. 3-34. Il sotteso invito a decriptare le sue
dotte allusioni, che Sidonio rivolge ai propri corrispondenti, è stato messo
bene in luce da I. Gualandri, Furtiva Lectio. Studi su Sidonio Apollinare,
Milano 1979.
(105) Carm. IX, 6 con cui Venanzio accompagna l’invio di alcuni carmi
commissionati da Gregorio e si scusa per non aver ancora composto le saffiche promessegli. Blomgren, De Venantio Fortunato, p. 156 confronta Carm.
IX, 6, 1 pollente eloquio pervenit epistula cursu con Claudian. c.m. 40, 21 crebraque facundo festinet littera cursu; meno certa mi sembra per questo verso l’influenza, sempre segnalata da Blomgren (qui e in S. Blomgren, De P.
Papinii Statii apud Fortunatum vestigiis, «Eranos» 48, 1950, p. 65), di Silv. IV,
8, 36 protinus ingenti non venit nuntia cursu/ littera.
(106) Carm. V, 6, che è l’epistola in prosa premessa al carme figurato.
(107) Carm. V, 6, 8 ss.
(108) L’epistola ci offre infatti l’inedita opportunità di inquadrare dalla prospettiva del poeta stesso la composizione di un carme figurato, come rileva
(p. 226) M. Graver, Quaelibet Audendi: Fortunatus and the Acrostic, «TAPhA»
123, 1993, pp. 219-245, alla cui analisi rimando.
(109) Carm. V, 6, 11 inter haec illud me commovens, quod tale non solum feceram, sed nec exemplo simili trahente ducebar: è possibile che questo sia il primo carme figurato composto da Venanzio, ma è molto improbabile che egli ignorasse Optaziano Porfirio. Se anche, come ipotizza Reydellet,
ed. cit., p. 171, nota 91, la novità fosse da intendersi riferita alle specifiche ‘dimensioni’ (33 versi di 33 lettere) del carme, il modo in cui Venanzio si esprime non lascia sospettare a chi già non la conosca l’esistenza di precedenti
per questo tipo di poesia.
(110) Vedi infra, p. 254 s. Per la metafora della navigazione, cfr. T. Janson,
Latin Prose Prefaces, p. 156 s.; Curtius, Letteratura europea, p. 147 s.
(111) Lo osserva M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des
Mittelalters, I, München 1911, p. 178.
(112) Carm. V, 6, 16 velut aragnea arte videmur picta fila miscere: quod
vobis compertum est in Moysi prophetae libris, polimitarius artifex vestes
texuit sacerdotis (il riferimento è a Exod. 28,8 ss. e 35,35): per l’intero passo,
si veda l’analisi di Graver, Quaelibet, p. 237.
(113) Carm. IX, 7, tradotto e annotato da George, Poems, pp. 90-95.
(114) Anche questo motivo ricorre di frequente nelle professioni di incapacità: cfr. Janson, Latin Prose Prefaces, pp. 132 e 137-138.
(115) Nota peraltro Manitius (Geschichte I, p. 176, nota 3) che i nomi di
Catullo, Tibullo e Properzio (e, se necessario, anche Orazio) potevano benissimo entrare nelle saffiche.
(116) Come inventrice di versi che vanno sotto il suo nome Saffo era
menzionata da Ausonio, Ep. Green, 91 a Teone: sunt et quos generat puella
Sappho (nell’ambito di una rassegna sui vari tipi di verso).
(117) Docta puella: detto di Cinzia da Prop. 2, 11, 6 (George, Poems, ad
loc.).
(118) Apoll. Sid., Epist. IX, 16, 3: vedi Di Brazzano, Venanzio Fortunato,
p. 486, nota 55.
(119) George, Poems, p. 92, nota 109: «he stresses the fact that writing
in this meter is slow work (Poem 9.6.10), and difficult (Poem 9.7. 25-32); his
insistence on this point, and the slight content of the poem itself, lend credence to his plea».
(120) Si contano solo quattro eccezioni: a parte le nostre saffiche, in due
casi si tratta di dimetri giambici alla maniera di Ambrogio (Carm. I, 16 e II, 6);
nel terzo di settenari trocaici (Carm. II, 2).
(121) È l’opinione espressa da Di Brazzano, ed. cit., p. 486, nota 54, il
264
quale, radicalizzando l’osservazione della George (vedi sopra, nota 119), sostiene che la desuetudine ha fatto scrivere a Venanzio un testo fiacco.
(122) Apoll. Sid., Carm. IX, su cui vedi F.E. Consolino, Codice retorico e
manierismo stilistico nella poetica di Sidonio Apollinare, «ASNP» 4, 2, 1974,
pp. 423-460; S. Santelia, Le dichiarazioni del poeta: il carme IX di Sidonio
Apollinare, «Inv.Lucernis» 20, 1998, pp. 229-254.
(123) George, Poems, p. 91, nota 107: «The phrase “my Flaccus” here
has the touch of a Latin poet writing for a cultured patron, complimenting
Gregory by that literary bond». La convinzione di Venanzio che Orazio imitasse Pindaro – Pindaricus egli lo definisce nell’epistola a Siagrio (Carm. V, 6,
7) – è con ogni probabilità responsabile della sua attribuzione di saffiche al
poeta greco.
(124) In Dionaeos amores, il riferimento a Venere indica esclusivamente
il carattere erotico della poesia di Saffo, con sottintesa contrapposizione all’amore spirituale dei cristiani.
(125) Vedi sopra, nota 103.
(126) Cathem. 8 e Perist. 4.
(127) I nominativi Prūdēntı̆us e Sı̄dōnı̆us possono collocarsi nell’endecasillabo solo dal IV al VII elemento e solo se seguiti da vocale; Ennōdı̆us e
Ausōnı̆us solo dal V all’VIII elemento e solo se seguiti da consonante; tecnicamente possibile ma sintatticamente difficile la loro collocazione, sempre se
seguiti da consonante, nell’adonio finale.
(128) La notizia che la stesura avvenne durante l’estate (in tempore messium), unita alla duplice menzione di Gregorio come vescovo di Tours (lo divenne in settembre del 573) e di Germano (morto in aprile del 576) come vescovo di Parigi restringe le possibilità di datazione a due anni, il 574 e il 575:
vedi S. Quesnel, Introd., pp. XV-XVII.
(129) C. Braidotti, Prefazioni in distici elegiaci in G. Catanzaro e F.
Santucci (a cura di), La poesia cristiana latina in distici elegiaci, Atti del
Convegno di Assisi 1992, Assisi 1993, pp. 57-83.
(130) Ep. ad Gregorium, 3: le citazioni dalla Vita Martini seguono il testo
dell’edizione Quesnel.
(131) Ibidem, 4 Domino meo et pio domino Martino, si ipse commeatum
obtinet, in quaternionibus quos direxistis ipsi, per vos oblaturus confestim
transcribendos curabo, illud certe postulans ut eius a vobis pietas reparata
pro nobis humilibus et suis peculiaribus intercedere non desistat.
(132) Ibidem, 1: Venanzio afferma che tralascerà gli ornamenti retorici
(evocati con terminologia greca) e fa appello all’affetto dell’amico, che – diversamente da lui – ben conosce tutte le discussioni in materia, chiedendogli
indulgenza perché – impegnato nella mietitura – non ha potuto nec expedire
... nec tentare singula.
(133) Da Gregorio il poeta si aspetta (ibidem, 2) solo la richiesta di mettere in versi i libri de virtutibus sancti Martini: cum iusseritis, ut opus illud Christo
praestante intercessionibus domni Martini, quod de suis virtutibus explicuistis,
versibus debeat digeri, id agite, ut mihi ipsum relatum iubeatis transmitti.
(134) Vv. 41-42 vos date quod vobis cum fenore reddat alumnus,addam
ut thesauris parva talenta suis. L’interpretazione del passo è problematica. Il
termine alumnus viene riferito a Venanzio da F. Corpet, Venance Fortunat,
Poème sur la Vie de Saint Martin, Paris 1849, p. 359 e G. Palermo (a cura di),
Venanzio Fortunato, Vita di San Martino di Tours, trad., introd. e note, Roma
1985, p. 47 il quale traduce «il figlio adottivo» perché «Fortunato si stimava
figlio in Cristo» delle due sante donne cui rivolge la sua richiesta. Contro questa interpretazione va però cum fenore reddat, espressione che non può riferirsi al poeta perché – come giustamente rileva la Quesnel (note compl. 10,
p. 108) – è «incompatible avec la modestie du poète, qui ne peut prétendre
de “rendre avec usure”». Più probabilmente, con un’immagine diffusissima
negli autori cristiani, cum fenore allude alla parabola dei talenti, e designa qui
gli interessi con cui Radegonda e Agnese vedranno ripagato in cielo il loro
‘investimento’ in preghiere per la riuscita del poema. Ma la ricompensa celeste potrà venire loro solo da Dio o da Martino, e a Dio, Figlio (il Verbum di v.
39) o Padre, in considerazione del doppio significato di alumnus (“qui alit et
265
qui alitur”), pensa infatti la Quesnel. I tesori sarebbero dunque quelli del
Figlio, oppure (ed è l’interpretazione preferita dalla Quesnel) quelli prodigati
dal Padre a Radegonda e Agnese. Entrambe le interpretazioni mi lasciano
perplessa: se si tratta di Cristo, non si vede quali tesori Venanzio possa dargli che questi già non abbia; se invece si tratta del Padre – anche a prescindere dal valore attivo, molto raro e non attestato in Venanzio, che si dovrebbe attribuire ad alumnus – è piuttosto improbabile che thesauris indichi i doni largiti da Dio alle due monache, perché in genere nei testi cristiani thesaurus e thesaurizare designano la ricchezza che ci si costruisce in cielo con le
buone azioni della vita terrena, e in ogni caso l’idea che Venanzio possa accrescere i doni di Dio suonerebbe alquanto blasfema. Proporrei perciò, sia
pur con qualche esitazione, che il termine alumnus designi Martino, tanto più
che egli è definito Christi alumnus da Paul Petr., Vita Mart. IV, 315 (maestitiam
sancti miseratus alumni/ Christus). Per i santi come alumni di Cristo, cfr.
Commodian. Apol. 215 deus misit alumnos (gli Apostoli); Paul. Nol., Carm.
XVI, 161 (domini ... alumnum) di San Felice e XIX, 604 s. (dextera Christi ....
meritum cari monstraret alumni); e Venanzio (per S. Medardo) Vita Medardi III,
10 ut Christi merito potaretur alumnus. I parva talenta rappresentati dal poema di Venanzio incrementano i thesauri del santo perché con l’ispirazione a
lui offerta Martino accresce in cielo le proprie benemerenze: sui thesauri spirituali di Martino, cfr. VM IV, 573 (haec tibi divitiae, thesauri, regna, talenta).
(135) Cfr. Quesnel, p. XV, nota 23. Come osserva C. Braidotti, Prefazioni
in distici elegiaci, pp. 57-83, la richiesta indiretta di ispirazione è una «raffinata variante alla invocatio» (p. 75).
(136) Cfr. C. Braidotti, Una metafora ripetuta: variazioni sul tema nautico
nella «Vita S. Martini» di Venanzio Fortunato, «GIF» 45, 1993, pp. 107-119, in
part. p. 114.
(137) Essa è ripresa nel proemio del II libro, in quello del III, e infine all’inizio del IV e ultimo libro, che si sofferma sul percorso finora compiuto: dopo
il riposo sull’erba di un prato fiorito, tocca riprendere la navigazione; ad evitare che il poeta si arenasse fra sabbie bibule, c’è stato nei primi tre libri, quale guida, l’illustre vita del patrono Martino (IV, 1-17).
(138) Mentre Venanzio (II, 1-10) invoca lo Spirito Santo perché ne favorisca la navigazione, Paul. Petr. II, 1 ss. dice di star portando la sua malconcia
barca in alto mare: dopo aver navigato lungo costa per Martino monaco, si
dovrà spingere al largo per Martino vescovo. Per un confronto sulla metafora
della navigazione nei due poeti biografi di Martino, cfr. S. Labarre, Le manteau partagé. Deux métamorphoses poétiques de la Vie de saint Martin chez
Paulin de Périgueux (Ve s.) et Venance Fortunat (VIe s.), Paris 1998, pp. 64-66.
(139) Vita Mart. I, 14-35.
(140) Se questi è da identificare con il vescovo di Auch, autore del
Commonitorium, non andrebbe menzionato fra gli autori di parafrasi epiche
dei testi sacri (a meno che non gli abbiano dato titolo alla citazione i 7 esametri de nativitate domini o i 95 esametri de trinitate attribuitigli dal cod.
Turonensis, o che gli venissero attribuite opere di cui non abbiamo notizia).
(141) S. Quesnel, La «vita Martini» de Fortunat: une conception de la «retractation poétique», in Au miroir de la culture antique: mélanges offerts au
président René Marache, Rennes 1992, pp. 393-407.
(142) Vedi sopra, p. 245 e nota 67.
(143) Carm. II, 16: questa sua similarità con i libri su Martino era già rilevata da Meyer, Der Gelegenheitsdichter, p. 15. Sappiamo da Gregorio di Tours
(HF IV, 19 e 51) che Clotario aveva traslato nella capitale di Soissons le spoglie del vescovo Medardo di Noyon e che aveva iniziato la costruzione sulle
sue reliquie di una cattedrale poi compiuta dal figlio Sigeberto. La narrazione
procede per riquadri, introdotta da un tema panegiristico (da che parte cominciare: II, 16, 25 s. Quae prius incipiam sacri miracula facti,/ cum, quicquid
facias, omnia prima micent?) e vivacizzata da alcuni commenti ai miracoli (II,
16, 65 ss. Hinc tamen ut potero, cum raptus ab orbe fuisses, / quae dederis
populis signa verenda loquar; 157 ss. quid referam mutis qui verbo verba dedisti?). Dopo aver chiesto al santo di proteggere Sigeberto, che gli ha costruito il tempio (culmina custodi qui templum in culmine duxit), il poeta conclude
266
chiedendo per se stesso il sostegno del santo (v. 165 s.: Haec, pie, pauca ferens ego Fortunatus amore/ auxilium posco, da mihi vota, precor).
(144) Al tipo di devozione (da cliens a patronus, si direbbe) manifestata
da Venanzio per Martino ben si attagliano le osservazioni di P. Brown, Il culto dei santi, trad. it. Torino 1983, pp. 75-100 sul rapporto di fiducioso abbandono che lega Paolino di Nola a San Felice.
(145) Vita Mart. I, 26-39 Ast ego, sensus inops, Italae quota portio linguae,/ faece gravis, sermone levis, ratione pigrescens,/ mente hebes, arte carens, usu rudis, ore nec expers,/ parvula grammaticae lambens refluamina
guttae,/ rhetorici exiguum praelibans gurgitis haustum,/ cote ex iuridica cui vix
rubigo recessit,/ quae prius addidici dediscens et cui tantum/ artibus ex illis
odor est in naribus istis,/ non praetexta mihi rutilat toga, paenula nulla,/ famae
nuda fames superest de papere lingua./ Scilicet inter tot sanctorum culmina
vatum,/ flumina doctorum et gemmantia prata loquentum,/ nullo flore virens,
ego tendam texere sertam,/ mellis et irrigui haec austera absinthia miscam?
(146) Vita Mart. IV, 16-25 Me tamen in bibulis ne mergeret auster harenis,/ summa gubernavit Martini vita patroni,/ quam nitor scabridis indignus
scalpere verbis/ rusticus, arte rudis, temptans formare monile,/ quod nec lima
polit neque malleus addit acumen,/ non incudo terit fornaxque examinat igne/
nec mordax gemino forceps trutinavit obunco,/ sed magis incomptum profert
mea lingua metallum./ Res tamen illa iuvat sine qualibet ullius arte,/ quod per
se pulchram praefert sua gratia gemmam.
(147) Sulla presenza di tratti autobiografici nelle dichirazioni dei poeti cristiani, cfr. F.E. Consolino, Il discorso autobiografico nella poesia latina tarda,
in G. Arrighetti e F. Montanari, La componente autobiografica nella poesia
greca e latina fra realtà e artificio letterario. Atti del Convegno di Pisa (16-17
maggio 1991), Pisa 1993, pp. 209-228.
(148) Cfr. Quesnel, Introduction, pp. LXI-LXII.
(149) Carm. 24, su cui si rinvia ora a Sidonio Apollinare, Carme 24.
Propempticon ad libellum, Introd., traduzione e commento a cura di S.
Santelia, Bari 2002.
(150) Così egli si definisce in Carm. VII, 9, 7, ma anche in altre occasioni le lodi a vescovi e dignitari che mettono a proprio agio gli stranieri contengono una voluta allusione alla sua condizione di poeta italiano in Gallia.
(151) Carm., Praef. 4. Unde, vir apostolice, praedicande papa Gregori,
quia viritim flagitas ut quaedam ex opusculis inperitiae meae tibi transferenda proferrem, nugarum mearum admiror te amore seduci quae cum prolatae
fuerint nec mirari poterunt nec amari.
(152) Cfr. Apoll. Sid., Epist. I, 1 a Consenzio, il quale a sua volta si esprimerà in modo analogo nell’epistola al vescovo Censorio di Auxerre, cui invia
la Vita Germani Autissiodorensis (cfr. F. E. Consolino, Ascesi e mondanità nella Gallia tardooantica. Studi sulla figura del vescovo nei secc. IV-VI, Napoli
1979, pp. 69-70). Le modalità di questo gioco delle parti sono illustrate da A.
Loyen, Sidoine Apollinaire Paris 1943, p. 97 ss.
(153) Come suggeriva già Quintiliano, Inst. 4, 1, 7: quare in primis existimetur venisse ad agendum ductus officio vel cognationis vel amicitiae: G.
Simon, Untersuchungen, p. 59.
(154) Rispettivamente in Georg. IV, 509 e 517 ss.
(155) Georg. IV, 525 ss. Eurydicen vox ipsa et frigida lingua, / ah miseram Eurydicen! Anima fugiente vocabat;/ Eurydicen toto referebant flumine ripae.
(156) Orfeo è un termine di paragone caro a Venanzio, che lo utilizza anche per l’eloquenza di Gogone (vedi sopra, p. 247 e nota 95). Ad Orfeo si era
paragonato Claudiano nella praef. a rapt. II.
(157) Ecl. IX, 36 Argutos inter strepere anser olores; ma vedi anche Prop.
II, 34, 83 s. canorus / anseris indocto carmine cessit olor: S. Blomgren, De
Venantio Fortunato Vergilii aliorumque poetarum priorum imitatore, «Eranos»
42, 1944, p. 85.
(158) Ep. IX, 10, 2 (a Tacito) in via plane non nulla leviora statimque delenda ea garrulitate, qua sermones in vehiculo seruntur, extendi Stesso motivo del comporre in viaggio in Ep. IV, 14, 2; VII, 4, 8 e III, 5, 15.
267
(159) Apoll. Sid., Carm. XII.
(160) Come fa p. es. R.R. Bezzola, Les origines et la formation de la littérature courtoise en Occident, Paris 1944, p. 42, che vede nel passo una testimonianza relativa al passaggio del poeta fra Bavari e Alamanni.
(161) L’osservazione si deve a Godmann, Poets, p. 3, secondo il quale in
questo autoritratto di moderno Orfeo Venanzio sottolinea la propria posizione
di poeta latino esponente dell’antica cultura fra i Franchi, e dei classici mette
a frutto la persistente forza di attrazione per conquistarsi «contemporary sources of patronage» (p. 4 s.).
(162) M. Reydellet, Tradition et nouveauté, p. 84.
(163) Carm., Praef. 6 Sed quoniam humilem inpulsum alacriter, acrius renitentem, sub testificatione divini mysterii et splendore virtutum beatissimi
Martini coniurans hortaris sedulo ut contra pudorem meum deducar in publicum, …oboediendo cedo virtuti.
(164) Cfr. Reydellet, Introduction, p. LXX.
(165) I primi sei versi sono rivolti agli amanti degli autori profani
(Demostene, Omero, Cicerone, Virgilio), i 4 versi successivi ai cultori di Pietro
e Paolo: cfr. Nazzaro, Intertestualità, p. 100 s.
(166) V. 65. Non concordo con Reydellet, il quale ritiene che sanctorum
vatum indichi i profeti. Dal momento che gli interlocutori sono presentati come possibili cultori di Omero e Virgilio, e considerato che in Vita Mart. I, 36
sanctorum culmina vatum indica i poeti che hanno preceduto Venanzio (vedi
sopra, p. 253), ritengo che qui debba trattarsi di autori cristiani.
(167) Radegonda era morta nel 587, mentre la pubblicazione dovrebbe
essere avvenuta nel 590-591 (cfr. Reydellet, Introduction, p. LXX).
(168) Il carme dovrebbe essere anteriore alla missione a Bisanzio per ottenere le reliquie della croce, avvenuta fra gli ultimi anni 60 e i primissimi anni 70 del 500, poiché viene dato per vivo Amalafrido, il cugino di Radegonda
che risiedeva a Costantinopoli, e di cui la regina apprese la morte in quell’occasione.
(169) Brennan, Byzantine Agent?, p. 12 ritiene che scopo secondario del
carme sarebbe stato quello di promuovere in Oriente la conoscenza di
Radegonda e del suo convento nella lontana Poitiers.
(170) Cfr. Greg. Tur., HF, IX, 39.
(171) Carm. VIII, 12 e 12a a Gregorio di Tours, che viene pregato di intervenire. D. Tardi, Fortunat. Étude sur un dernier représentant de la poésie
latine dans la Gaule mérovingienne, Paris 1927, p. 93 s., che è stato il primo
a ricollegare carm. VIII,12 a quello scandalo, ipotizzava che i copisti avessero alterato l’originario ordine dei carmi, inserendo qui un testo che doveva invece far parte di una terza raccolta, verisimilmente pubblicata nel 592 e rappresentata dal X libro. Una convincente confutazione di questa ipotesi in
Reydellet, Introduction, p. LXX, nota 235.
(172) Sulla significazione aggiunta che i carmi di Venanzio traggono dalla loro collocazione nel contesto di una raccolta, vedi M. Reydellet, Tradition
et nouveauté, p. 85.
(173) In particolare, v. 12 (Italiae genitum, Gallica rura tenent) ricorda l’epitafio di Virgilio.
268
FRANCESCO STELLA
Università degli Studi di Siena
Venanzio Fortunato nella poesia mediolatina
Il tema che mi è stato affidato rappresenta qualcosa di
più che un capitolo di storia letteraria sulla fortuna di un
autore tardo-antico o romano-barbarico (a seconda dei
punti di vista) nel lungo millennio medievale: è un filo rosso
che attraversa molti secoli e molti paesi come una matrice
sempre attiva, un modello-codice imitato a più livelli, continuamente richiamato e reinterpretato in ambiti espressivi e
ambienti culturali di ampia estensione e grande varietà.
Pretendere di fornire un quadro completo di questa multiforme germinazione sarebbe un impegno, oltre che ambizioso,
certamente non sintetizzabile nello spazio che ci è gentilmente concesso in questa sede. Mi è sembrato perciò inevitabile procedere con sondaggi, articolati per tipologie in
modo da proporre elementi utilizzabili per un panorama
sistematico1. Punto di partenza saranno i pochi contributi
esistenti sull’argomento2, integrati con le esperienze personali di lettura della poesia mediolatina.
La fortuna di Venanzio era iscritta evidentemente nel suo
stesso nome, e oggi possiamo inserire questa storia all’interno del flusso di rivisitazioni che negli ultimi decenni ha
valorizzato il ruolo della tarda antichità sulla formazione e la
cultura del medioevo sia nel suo standard espressivo sia
nelle punte creative dei vari preumanesimi: sempre più
riscontriamo che le espressioni originali e mature della letteratura medievale sono state ispirate non tanto dalla reviviscenza degli autori cosiddetti classici, cioè della Roma
repubblicana e protoimperiale, quanto da quella che Curtius
ha definito la meravigliosa iridescenza della stagione tardoantica. I classici che fanno scuola nel primo medioevo,
ormai lo sappiamo con certezza, non sono Orazio e Ovidio
ma Sedulio e Venanzio, così come la prosa non fa riferimento a Cicerone, Sallustio e Tacito ma a Girolamo, Agostino e
Orosio. Questa trasformazione del paradigma storiografico
consente di impostare il problema della fortuna di un autore
del VI secolo non più come sequenza di recuperi occasionali o rapporti privilegiati con un focolaio di imitazione o una
269
ripresa individuale, bensì come tradizione continua, con i
suoi picchi e le sue stagnazioni, soggetta a reinterpretazioni e riscritture ma anche a rapporti mediati: se infatti ci si
riferisce a una continuità anziché a una costellazione di iniziative isolate, dobbiamo fare i conti non più con relazioni
bilaterali fra modello e ripresa ma con relazioni multilaterali,
grazie anche all’ampio ventaglio di generi praticato da autori come Venanzio, e alla frequenza di imitazioni a più livelli:
si può trovare cioè un poeta che impiega tasselli dei Carmi
di Venanzio per confezionare i suoi versi, ma anche uno
scrittore che cita sue espressioni proverbiali attingendole
non dall’opera originale ma da un imitatore intermedio. È più
facile, cioè, imbattersi in imitazioni di secondo grado, come
sono state chiamate, e dunque più complesso ricostruire
l’albero completo dei riferimenti e delle ascendenze, come
accade ogni volta che ci si trova di fronte a quello che la critica definisce “modello-codice”.
La tradizione manoscritta
La prima ricognizione in queste indagini parte tradizionalmente dalla trasmissione manoscritta: nel nostro caso
possiamo fondarci sulla sintesi recentissima, presentata da
Antonio Placanica nel convegno SISMEL di pochi mesi fa
riguardo alla tradizione dei Carmina: i dati ivi forniti confermano sostanzialmente quanto esposto da Marc Reydellet
nella sua edizione, e cioè un’ampia diffusione dei manoscritti fra i secoli VIII e XI. Fra questi vanno compresi alcuni
testimoni3 che gli editori più o meno conoscono ma non utilizzano, limitandosi abitualmente ai 15 più importanti e all’edizione Brower del 1603 fondata su codici di Treviri ora perduti.4 Placanica riesamina la collocazione stemmatica dei
manoscritti principali, fra i quali nonostante la contaminazione si riesce a disegnare un albero di relazioni attendibile, e
vagliandola al confronto con le lezioni ricostruibili dalla tradizione indiretta giunge alla conclusione che “nella Francia
del IX secolo, così come in area iberica tre secoli più tardi,
non circolava tradizione dei Carmina di Venanzio Fortunato
diversa da quella serbata nei manoscritti a noi pervenuti”5. I
codici che noi possiamo consultare dunque ci porrebbero
dinanzi al testo che potevano leggere i letterati angli e franchi nell’VIII secolo o i cultori di san Giacomo nella Galizia
dell’XI secolo.
In realtà la situazione è più complessa di come appare
270
dai prolegomena filologici: da una parte, infatti, sarebbe
importante disporre di una descrizione dei manoscritti a
carattere storico-culturale e non solo ecdotico, per poter
penetrare nelle motivazioni dei committenti e ricostruire il
tipo di pubblico interessato alle singole trascrizioni, dall’altra
bisogna tenere presente che le edizioni esistenti si basano
comunque su un numero selezionato di testimoni, che non
rendono un’idea adeguata della diffusione di Venanzio nel
medioevo. Brani, estratti, collages di poesie di Venanzio, in
particolare degli inni e di testi interpretabili o adattabili come
inni6, si trovano in molti manoscritti che gli editori abitualmente non utilizzano7. Reydellet li considera a priori ininfluenti per la constitutio textus, ma riconosce che una ricognizione su questo materiale sarebbe importante per la ricostruzione della presenza e della fruizione delle poesie di
Venanzio.8 È da questa esplorazione che si dovrebbe partire per seguire le tracce del nostro poeta nei secoli medievali. Un esempio fra tanti è il ms. Bamberg, Staatliche
Bibliothek B. II. 10, una silloge di poesia religiosa selezionata da Alcuino di York per uso non tanto di liturgia pubblica
quanto di devozione privata, probabilmente non solo personale9: qui si trovano estratti venanziani dal De virginitate
accorpati a citazioni da Giovenco Sedulio Draconzio e altri
poeti cristiani, in modalità centonistiche. L’esistenza di questo codice conferma le indicazioni di Alcuino sulla presenza
di Venanzio nella biblioteca di York e le tracce, individuate
da R.W. Hunt, di una tradizione manoscritta anglosassone la
cui importanza ci era nota solo dalle attestazioni indirette.10
In questo caso un’analisi del contesto di produzione del
manoscritto ci indirizza verso personaggi – come appunto
Alcuino – che si rivelano determinanti anche nella storia
della fortuna poetica di Venanzio. Un esempio analogo è
quello del manoscritto F XIV 1 di San Pietroburgo, trascritto
a Corbie, sul quale sembra che abbia letto Venanzio uno dei
suoi imitatori più fedeli, il misterioso autore del poema carolingio Karolus magnus et Leo papa11. Uno studio più contestuale della trasmissione manoscritta ci porta dunque anche
a contatto con tappe importanti della fortuna poetica.
271
Valutazioni dei posteri e
lettura scolastica: testimonia
In effetti è proprio la tradizione indiretta l’oggetto di
osservazione più redditizio in un’esplorazione di questo
genere. Su questo terreno possiamo muoverci in due direzioni: le valutazioni o celebrazioni del poeta e il reimpiego
delle sue opere. Per il primo campo la prima occorrenza di
un certo rilievo si trova in una poesia ritmica sull’eccellenza
della città di Poitiers, conservata in due codici con opere
dello stesso Venanzio12: qui, in un latino esuberante e sconnesso che si colloca bene in età merovingia, si fa risalire la
gloria di Poitiers a Venanzio (Ex Fortunato ab Ravenna
Pictonum floret civitas) come quella di Betlemme a Girolamo
e quella di Tours a san Martino. Un tributo apparentemente
popolare, limitato alla circolazione locale, che proietta però
Venanzio in una dimensione di grandezza assoluta, fra
sapienza e santità.
La celebrazione più nota del poeta nel periodo precarolingio è tuttavia nell’Historia Langobardorum di Paolo
Diacono, che come sappiamo dedica a Venanzio il cap. 13
del secondo libro, motivando questa inserzione con l’amicizia che legava il poeta a Felice, il vescovo di Treviso uscito
incontro ad Alboino sul Piave intorno al 568. Paolo si basa
sulle notizie ricavabili dall’opera stessa del poeta per tracciare una breve biografia di Venanzio, sulla quale si fondano poi tutte quelle successive, da Aimoino di Fleury a
Odoranno di S. Pietro Vivo (a Sens) a Eccheardo di Aura (in
Baviera) a Sigeberto di Gembloux13 fino ai nostri giorni. Lo
definisce vir venerabilis et sapientissimus, e poco dopo nulli
poetarum secundus, concludendo il capitolo con l’epitafio
che egli stesso avrebbe composto dopo essersi recato a
pregare sulla tomba del poeta: è lì che troviamo la celebre
formula Fortunatus apex vatum, onorato per aver fissato
nella memoria le gesta dei santi. Paolo si sente investito, sia
nei versi che nella chiusa prosastica del capitolo, della missione di trasmettere il ricordo di quest’uomo, gloria della
Gallia e ormai venerato come santo, nella sua terra d’origine, la patria longobarda condivisa con Paolo pur nella probabile differenza etnica.
Questa fama istantanea e duratura di Venanzio gli conferì da subito lo statuto di classico della poesia medievale: il
suo nome compare fin dall’epoca carolingia negli elenchi di
poeti cristiani da studiare14, e il manuale della formazione
religiosa carolingia e postcarolingia, il De clericorum institu272
tione di Rabano Mauro, ne consiglia la lettura insieme a
quella di Aratore, Avito, Prudenzio e Paolino da Nola.15
I suoi versi vengono citati come sententiae efficaci nelle
opere didattiche ed esegetiche16, e i trattati grammaticali li
inseriscono presto fra gli esempi dei fenomeni linguistici e
delle regole di composizione che intendono illustrare:
dall’Anonymus de dubiis nominibus alla fine del VI sec.17 al
De arte metrica di Beda, all’Excerptio de Arte grammatica
Prisciani di Rabano Mauro e a tutti i suoi successori. Günter
Glauche ne documenta la presenza in cataloghi di biblioteche medievali come quelli di Reichenau dell’821-22, StRiquier 831, Murbach (poco successivo all’840), Lorsch III
(metà del IX sec.), Passau 930, Bobbio s. IX, fino ad Anchin
e St-Evre di Toul nell’XI sec. e al Florilegio di Heiligenkreuz
227 del sec. XII (ff. 73e-107v)18. Nei codici perduti Venanzio
compariva accanto a Prospero, Aratore, Sedulio, Giovenco
e Avito ma anche a Sereno, Avieno e Virgilio. Ancora nel XII
secolo la storia letteraria di Sigeberto di Gembloux dedica
un capitolo della sua storia letteraria, il 45, a Venanzio come
autore di un odeporico, della Vita Martini e soprattutto di inni
per varie occasioni liturgiche in uno stile definito ancora una
volta, come spesso si riscontra nei testimonia medievali,
suavis e disertus.
Reimpiego e riscritture
Il secondo filone, quello del reimpiego per imitazione o
citazione, si articola in una miriade di attestazioni che vanno
dal VII secolo all’Umanesimo19, e che noi percorreremo
soprattutto riguardo al primo periodo, nel quale ci soccorre
maggiore dovizia di testimonianze e anche di strumenti, a
partire dell’indice allestito dal Manitius per l’edizione di
Krusch sulla base degli apparati dei Poetae Latini e degli
Auctores Antiquissimi dei Monumenta Germaniae Historica,
ampliato nella monumentale memoria viennese del 188620.
Naturalmente bisogna fare i conti con l’inevitabile inquinamento dei dati dovuto alla frequente attribuzione di paternità
venanziana a stilemi e clausole risalenti invece al poetese
dell’epoca, cioè a quel repertorio convenzionale di tasselli
metrici la cui genealogia è possibile ricostruire solo oggi,
grazie alle concordanze elettroniche. Anche scremando i
riferimenti di questo tipo, resta tuttavia una serie di casi
estremamente significativa, che dimostra un ricorso intertestuale sicuro a Venanzio in Paolo Diacono, Alcuino,
273
Angilberto, Modoino, Hibernicus Exul, Teodulfo d’Orléans,
Ermoldo Nigello, Rabano Mauro, Valafrido Strabone, Floro di
Lione, i Carmina Salisburgensia, Milone di Saint-Amand,
Agio di Corvey e altri autori fra VII e IX secolo, cui si possono aggiungere con sicurezza almeno i nomi di Engelmodo21,
Dhuoda22, Valdramo23, Freculfo di Lisieux24, Micone di SaintAmand25, Oddone di Cluny26, Flodoardo di Reims27, la Vita
Mathildis28, Dudone di St-Quentin29, Bertario di Verdun30,
Adsone di Montier-en-Der31, Libellus de rebus
Treverensibus32, Wulstano di Winchester33, Froumundo di
Tegernsee34, Ruodlieb35, Alfano di Salerno36, Pietro di Cluny37,
Osberno38, Pier Damiani39, Karolellus40, fino al Codex
Calixtinus di Santiago menzionato anche da Placanica e
naturalmente a Tommaso d’Aquino e Dante Alighieri.
La messe, ancora largamente provvisoria ma già evidentemente ingovernabile, conferma senza ombra di dubbio la statura di classico assunta da Venanzio nel Medioevo,
e la pervasività della sua presenza in generi e autori di ogni
paese, non solo delle zone più prossime a quelle percorse
nella sua biografia, come Francia e Germania, ma anche in
regioni, come le isole britanniche, dove non è attestato
alcun manoscritto antico di Venanzio ma dove è sicuro che
Venanzio fu letto e imitato assiduamente.41 Le modalità di
questa presenza si estendono dal riuso scontato di incipit o
clausole efficaci alla citazione di versi o emistichi proverbiali all’intarsio di raffinata intertestualità che assume Venanzio
a ipotesto su cui ricamare le variazioni dell’opera nuova, fino
alla sussunzione di uno schema di argomenti, cioè una griglia topica dai suoi prologhi, dalle sue consolationes o dalle
sue iscrizioni, pronta per essere adattata alle situazioni e ai
personaggi più diversi. Non manca il vero e proprio centone
di versi venanziani, come quello composto dallo pseudoTurpino per il ritratto di Orlando nel Karolellus, e all’estremo
opposto l’influenza su fattori microstilistici come la moda
dell’asindeto nell’agiografia metrica del X secolo (Vita
Romani di Gerardo di Soissons), che Manitius attribuisce
all’imitazione di Venanzio. Un caso singolare è la catena di
citazioni che si stabilisce nella cronachistica virdunense:
dopo che Bertario nella seconda metà del IX secolo modella nei Gesta episcoporum Virdunensium il racconto dell’episodio di sant’Agerico (cap. 6) su Carmina III 23 e 23a, Ugo
di Flavigny (n. 1065) ne reincorpora in blocco le citazioni
venanziane nel suo Chronicon universale42.
274
Il modello generativo: epitafio, “consolatio”,
epica, innografia
Nel caleidoscopio di spunti può essere utile isolare alcune direzioni esemplari. La più proficua è la funzione di
modello generativo, nella terminologia di Conte-Barchiesi43:
Venanzio assume questa veste per più di un genere letterario. Il caso più diffuso è quello delle iscrizioni. Come è noto,
il IV libro dei carmi è costituito da 28 epitafi in distici, sviluppati di frequente in forma di epicedio. La natura effettivamente epigrafica di questi testi è stata discussa fin da quando Le Blant e de Rossi li hanno inclusi, insieme a testi da altri
libri dei Carmina, nella loro raccolte di iscrizioni cristiane44,
seguiti da Jullian, Kraus e altri45, mentre Meyer e de Labriolle
con altri negavano la possibilità o comunque la dimostrabilità di una realizzazione concreta delle presunte epigrafi,
pensando piuttosto a testi da leggere in occasione delle
esequie. Bernt46 ha ricordato l’esistenza di almeno un’attestazione di testi venanziani (non appartenenti all’edizione
antica) incisi su pietra, sostenendo la natura epigrafica
anche di qualche altro, mentre Favreau ritiene che solo I 5,
scritta in cellula sancti Martini, sia stata composta su commissione verificabile di Gregorio di Tours: nonostante la lunghezza (24 vv.) esibisce infatti caratteristiche anche stilistiche più evidentemente riconducibili al frasario epigrafico,
come l’apostrofe iniziale al lettore (Qui celerare paras, iter
huc deflecte viator)47. Ma se si prescinde dal contesto materiale e si rimane comunque entro i confini di quella che è
stata definita “epigrafia letteraria”, Venanzio mostra di aver
creato un linguaggio per un genere destinato a un successo inesauribile per tutto il medioevo. Questo linguaggio –
sviluppato su elementi di origine realmente epigrafica per gli
scopi di un’epigrafia immaginaria oppure orale – viene riutilizzato, poi, in una sorta di processo circolare, per le iscrizioni reali di personalità politiche e religiose: lo stesso
Favreau ha individuato negli epitafi dei pontefici Adriano I,
Benedetto III, Nicola I, Sergio IV e altri il riuso di espressioni
tipicamente venanziane (provenienti soprattutto dall’epigrafe per san Vittoriano del 558, Carmina IV 11), mentre un’iscrizione attribuita da Guglielmo di Malmesbury alla
Glastonsbury del 700 sarebbe interamente costituita da
versi attinti da Venanzio, e il corpus delle epigrafi francesi
dei secoli VIII e IX rivelerebbe non meno di 80 espressioni
riprese dalla sua opera. Lo stesso Favreau pone a questo
proposito il dilemma del livello di imitazione: si tratta di ripre275
se dirette dal modello, o di imitazioni di secondo grado da
un autore protocarolingio che a sua volta si rifà a Venanzio?
E nel caso in cui le espressioni condivise si trovino anche in
autori classici, come si può individuare la fonte effettiva
senza un’analisi contestuale e linguistica estremamente
minuta? Un sondaggio effettuato su tre clausole dimostra
comunque che la percentuale di espressioni frequenti nell’epigrafia che risalgono solo a Venanzio e non sono attestate prima è quasi il 50%, una quota comunque altissima, che
conferma al poeta il ruolo di padre dell’epigrafia letteraria
medievale.
Anche in questo come in altri casi avviene che la contiguità di un genere – qui l’epigramma o iscrizione – con un
un altro genere – qui l’epistola poetica – estenda l’influenza
dell’uno sull’altro, propagando stilemi epigrafici di Venanzio,
secondo i rilievi di Bernt, anche alle lettere in versi di età
carolingia, e non solo in autori come Alcuino e il suo allievo
Rabano, già fortemente debitori a Venanzio nell’elaborazione di epigrafi più o meno letterarie, ma anche a poeti più
autonomi e remoti come l’irlandese Sedulio Scoto.
Un altro sottogenere strettamente interrelato con l’epitafio è la consolatio, che Venanzio sviluppa in schemi fortemente connessi all’epicedio in distici. Se ne era accorto già
Ernst Robert Curtius in Medioevo Latino e letteratura europea, che nel capitolo sulla “Topica” cita cursoriamente
Venanzio a proposito della cristianizzazione dei motivi consolatori, soprattutto degli exempla adibiti a ricordare la
morte di personaggi celebri della storia e del mito, in una
linea che lo collega a Bernardo di Clairvaux48. Il testo di
Venanzio preso in considerazione è Carmina 9, 2, lunga elegia (140 vv.) dedicata al re Chilperico e alla consorte
Fredegonda per la morte del figlio. Venanzio vi menzionava,
come predecessori illustri nella morte, i protagonisti delle
Scritture a partire da Adamo, attraverso una sorta di catalogo riassuntivo che inaugurerà uno stilema destinato a restare topico nel versante religioso del genere, e che potremo
riscontrare fra l’altro nella consolatio di Teodulfo d’Orléans
per la morte di un confratello49 oltre che in Alcuino50.
Venanzio struttura la consolatio con una descrizione del
dolore e un’illustrazione del senso cristiano della morte ineluttabile, esortando il re a sopportare il lutto paterno tramite
il ricorso ancora una volta a precedenti biblici, come i figli
perduti da Giobbe e Davide, “gemme strappate al fango del
mondo e accompagnate al trono delle stelle” (v. 110): de
276
medioque luto ducit ad astra throno. Il modello di Venanzio,
che compone altre consolationes in II 26 per Vilituta (pianta
dal marito) e l’imbarazzante V 5 per la morte di Gelesvinta51,
trova applicazioni e adattamenti non solo – come si è visto –
in Teodulfo e Alcuino52, che come spesso avviene ne astraggono gli schemi riducendoli a topica, ma riscontra uno sviluppo di grande respiro nei 718 versi del Dialogus con cui
nell’anno 874 il monaco Agio di Corvey rappresenta il dolore per la morte della badessa di Gandersheim Hatumoda in
una sorta di fabula funeraticia drammatizzata, un contrasto
funebre fra il poeta, che espone i suoi motivi consolatori, e
le sorelle della defunta che contrappongono argomenti per
il pianto mediante uno schema retorico che vede la successione iterata di concessio, argumentum e refutatio e trova
una composizione nel superamento collettivo, in questo
caso comunitario, del sentimento individuale, sancito da
un’apparizione di Atumoda stessa.53 Agio propone un’innovazione importante e felice del genere combinando, come
ha dimostrato Peter von Moos, la topica venanziana con lo
schema amebeo dell’ecloga allegorica54. L’argomento cunctis commune mori mortalibus extat (v. 219) è supportato da
esempi biblici che partono come in Venanzio dai protoplasti
fino a Cristo, la cui morte conquistò per tutti una vita migliore, e la percursio comprende anche personaggi di cui la
Bibbia non descrive ma presuppone la scomparsa: questo
sviluppo prende in Agio quasi 100 versi, assumendo una
sorta di autonomia compositiva. Peter Von Moos ha individuato ben 19 consolationes carolinge, cui nell’antologia ho
fatto qualche ulteriore aggiunta55, a loro volta sfruttate come
modelli nei secoli successivi: in tutte lo schema di base,
incrociato e articolato come si è visto secondo le sollecitazioni del contesto e l’influenza di modelli allotrii, è quello
biblico istituzionalizzato per primo da Venanzio.
Meno localizzabile ma più imponente è forse l’influenza
del nostro poeta su sulla poesia epica. A questo proposito è
stato più volte notato che la suddivisione in quattro libri di
alcune opere epiche di età carolingia, come l’In honorem
Hludowici di Ermoldo Nigello e quello del Poeta Saxo,
dipenderebbe in senso emulativo o in senso contrappositivo
dal modello della Vita Martini, che peraltro in questi poemi è
presente anche come modello stilistico: questa osservazione da una parte conferma il prestigio per così dire ufficiale
di cui godeva l’agiografia metrica di Venanzio, dall’altro
pone un problema, che qui non possiamo affrontare, di clas277
sificazione dei generi, rinviando a una questione dibattuta e
ovviamente irrisolta: se lo statuto delle opere panegiriche
altomedievali sia realmente o piuttosto convenzionalmente
epico, a fronte di una sostanza invece intrinsecamente e
socialmente epica della grande agiografia sia biografica,
come quella di Venanzio, sia istituzionale, come quella di
Alcuino sulla storia della chiesa di York o di Paolo Diacono
sui vescovo di Metz. La pervasività del modello martiniano
come archetipo epico è dimostrata in questo versante proprio dall’influenza della Vita Martini anche su Alcuino, che ne
imita intere scene. Così anche la parte iniziale della Vita
Amandi di Milone, uno dei poemi agiografici più brillanti e
riusciti del secolo IX, modella i capitoli iniziali – dalla nascita di Cristo alla prima predicazione degli apostoli – su testi
di Venanzio Fortunato: in questo caso si tratta di Carmina 5,
2 a Martino di Braga e 8, 3 (il De virginitate)56. Anche indipendentemente dal problema del rapporto agiograficaepica, Venanzio è considerato il prototipo del poeta “istituzionale” nell’alto medioevo, l’autore che con maggiore disinvoltura, capacità di adeguarsi all’occasione e abilità di sintonizazione del tono stilistico ha saputo interpretare il rapporto con i vertici sociali della sua epoca, sia ecclesiastici
sia politici, sia pubblici sia privati, con una sensibilità e insieme una confidenza e consapevolezza del proprio ruolo che
non potevano non restare un modello ineguagliato fino almeno all’XI secolo e a figure come Alfano di Salerno e Ildeberto
di Lavardin.
Fra i poemi epici che si ritengono ispirati da Venanzio
pare si debba collocare anche il cosiddetto Karolus magnus
et Leo papa, denominato anche “Epos di Paderborn”
(Beumann-Brunhölzl) o “Epos di Aquisgrana” (Schaller) e
attribuito a vari autori della corte protocarolingia, in ultimo a
Modoino di Autun57. Questo testo, che qualcuno ha ipotizzato essere solo il terzo libro di un’opera più estesa, dedica i
versi 172-267 alla descrizione della famiglia imperiale e del
suo seguito, la descrizione più ricca – secondo Godman58 –
fra quelle analoghe nella poesia latina dopo Venanzio e “la
più elaborata celebrazione delle donne della casa carolingia
che sia stata scritta da un autore loro contemporaneo”. In
questo caso il poeta non sembra avere fatto la “scelta,
apparentemente prevedibile, di prendere a modello uno dei
panegirici politici di Venanzio”. Ha attinto invece, come
dimostra Godman, al De virginitate dello stesso autore: dietro la gerarchia della corte sta la gerarchia celeste presieduta dalla Vergine. Anche questo parallelo fra vertici terreni
278
e celesti ha una sua tradizione antica, che trova nella
Laudes Regiae le sue formule più celebrate: in questo solco
il recupero di un modello sacrale conferisce all’ingresso del
corteo regale una sontuosa solennità. La scena successiva
racconta la caccia a cavallo, e qui il modello torna all’archetipo postvirgiliano di Vita Martini II 326 ss., che viene
variato accentuandone il carattere epico59 nella scelta degli
aggettivi, nel colore del lessico, nelle clausole. Godman
vede in questo processo un tentativo di Kontrastimitation
mirata a sostituire san Martino, il principale antieroe della
precedente agiografia, con l’eroica figura di Carlo Magno:
un tentativo coronato dal successo grazie alla capacità di
sfruttare le tensioni fra i modelli anziché limitarsi a giustapporli sfruttandone le disponibilità di repertorio selettivo.
Il riutilizzo di singole scene o luoghi critici della Vita
Martini trova i suoi punti più frequentati nei passi maggiormente indipendenti dalla fonte di Sulpicio: i prologhi (specie
al primo e al terzo libro) e il commiato: dei primi, senza poterci soffermare sull’articolato delle riprese, viene imitato e variato in mille modalità il topos dello scrittore marinaio, un campo
metaforico antico che Venanzio recupera anche nei carmi (3,
18) e che ha fruito di studi specifici da parte di Curtius,60
Lieberg61 e Braidotti62, ai quali mi sono riferito anch’io nel commentare il carme 65 IV Dümmler di Alcuino.63 Del secondo, ha
colpito invece la disponibilità imitativa dei posteri l’idea del
viaggio fluviale e dell’apostrofe al libro, che solo in parte
dipendono dal propemptikon di Sidonio Apollinare al libretto
in Carmina 24, ampliandolo sensibilmente come scenografia,
partecipazione umana e varietà emotiva, ricchezza paesistica. Fra gli imitatori strutturali più fedeli si pone ancora una
volta Alcuino di York, il cui carme IV ad amicos isola il topos
costruendolo come poesia autonoma alla chartula che, dopo
aver fatto il giro dei destinatari, aver loro annunciato le comunicazioni di Alcuino e averne a sua volta raccolto i saluti e le
notizie, le riporta al mittente in una metafora perfetta di quella Zirkulardichtung che è patrimonio tipico delle corti, e in
ispecie di quella carolingia. Ancora una volta dunque i loci
topici della poesia di Venanzio, che è conosciuta e sfruttata
come quella di un classico, vengono assimilati e reinventati
nei secoli successivi come elementi autonomi, fino a costituire strutture compositive indipendenti, generando ramificazioni peculiari del sistema letterario.
Ma il genere che più pervasivamente rivela l’influenza di
Venanzio è ovviamente l’innografia, che già i medievali – da
279
Paolo Diacono a Sigeberto di Gembloux – riconoscevano
come il terreno più felice della sua attività. È un tema che
occuperebbe da solo ben più di una relazione, e che tocca
quello che Brunhölzl ha definito il cuore della poesia religiosa di Venanzio64. Il nucleo di questa produzione è costituito
come si sa dagli inni alla croce del II libro dei Carmina (1-6):
fra questi troviamo il celeberrimo Vexilla regis prodeunt, che
entra nella liturgia e diffonde nella poesia mediolatina le formule espressive dell’immagine legno/croce nel contesto del
combattimento Cristo/morte: come sappiamo venne citato e
rovesciato da Dante nel 34 dell’Inferno65: «”Vexilla regis prodeunt inferni / verso di noi; però dinanzi mira”, / disse ‘l maestro mio “se tu ‘l discerni”» (vv. 1-3). Ma ben prima di Dante
quest’inno era stato oggetto non solo di riprese e imitazioni
ma di rielaborazioni e adattamenti musicali, come in una
sequenza di St. Martial,66 mentre in periodi successivi se ne
hanno persino riscritture politiche come inno militare.67
Dedicato alla croce è anche il Pange lingua in terzine di settenari trocaici (II 2), il cui incipit fu variato da Tommaso
d’Aquino nel proprio Pange lingua gloriosi corporis mysterium, scritto nel 1264 per l’introduzione della festa del
Corpus Domini. Composizioni a carattere innodico sono
sparse anche negli altri libri dei Carmina. In particolare la
seconda parte del carme III 9 Ad Felicem episcopum de
pascha, incipit Tempore florigero rutilant distincta sereno,
che ha una tradizione autonoma sia come testo integrale
sia, soprattutto, come brano iniziante con il v. 39 Salve, festa
dies, toto venerabilis aevo: si tratta di una canzone primaverile la cui associazione fra Pasqua, amore e bella stagione ha esercitato un’influenza determinante anche sulla poesia romanza68 e medioinglese69 e dal quale in ambito mediolatino sono stati ricavati, soprattutto a San Gallo, centoni
innodici ad uso processionale e messe in versi70. La diffusione di questi inni è attestata da una consistenza imponente della tradizione manoscritta: la presenza del Vexilla regis
si può riscontrare in oltre 48 mss.71 per la maggior parte non
conosciuti agli editori dell’opera poetica, ma il numero
potrebbe salire se si includessero nel novero anche le
“riscritture” transgeneriche come le sequenze di cui si è
detto e le antifone che utilizzano o sono integralmente composte da strofe degli inni venanziani, secondo le recenti
segnalazioni di Giampaolo Ropa.72
Nell’innografia i testi di Venanzio dimostrano una forza di
attrazione costante, che a differenza di quanto accade per
gli altri generi supera la soglia del XII secolo per arrivare fino
280
a Huysmans e Joyce, esercitandosi in ambiti diversi e in
forme diverse ma con una caratteristica invariante che li
accomuna, nel corso del medioevo, ai modi di reimpiego del
De virginitate o della Vita Martini: non sono trattati quasi mai
come un modello strutturale di genere, bensì come un’interpretazione autorevole del modello esistente (ambrosiano o
prudenziano nel caso dell’inno), oppure di un suo tratto o
tema specifico, che nella rielaborazione di Venanzio trovano
un assetto efficace e funzionale destinato a incardinarsi nel
patrimonio espressivo, a divenire topos o repertorio di topoi.
Lo stesso Curtius cita spesso il nostro poeta, ma non lo chiama quasi mai in causa come inventor, prÒtoj euretøj di una
forma, bensì come anello di trasmissione di una variante efficace e, appunto fortunata. Anche riguardo alle opere in
prosa Berschin riconosce che le agiografie venanziane non
solo imposero a lungo il modello vescovile sia nel genere
agiografico sia come forma di storia della chiesa, ma rimasero per tutta l’epoca merovingia e oltre un repertorio di
espressioni indispensabili nei momenti decisivi della biografia, e l’esempio di un modulo narrativo, sequenziale e accumulativo, che fece scuola per secoli.73 Il genio di Venanzio si
rivela nella capacità di adattare forme e modelli, di elaborare incroci in grado di soddisfare le richieste di comunicazione poetica di una società nel momento in cui questa trovava
gli assetti destinati a durare per quattro secoli. I secoli che
vedono la massima diffusione dei manoscritti di Venanzio.
L’invenzione della “dulcedo”
Questa duttilità funzionale si esprimeva nell’equilibrio a
suo modo classico di un codice poetico che i lettori medievali hanno sempre definito come dolce, eloquente, elegante, e che nasceva, per individuare un tratto simbolico, dalla
capacità di rileggere il Cantico dei Cantici, ad esempio,
attraverso la lente dell’Ovidio erotico e della galanteria di
scuola retorica74. Il mistero della dolcezza di Venanzio è l’ultima tappa del nostro viaggio, quella nell’interrogazione antica sull’origine della cortesia.
Nel 1944, dopo lo studio di Koebner75, Reto Bezzola
dedicava quasi completamente a Venanzio il capitolo merovingio della sua celebre indagine sulle origini della letteratura cortese, e dunque dell’idea di amore che ha dominato
attraverso l’interpretazione romantica il costume e la cultura
occidentali76. A quello che egli definiva “il primo poeta di
281
corte del medioevo” (p. 41) Bezzola attribuiva la creazione
di un ideale di maniere gradevoli, amicizia spirituale, nobiltà
di carattere in personalità colte che trovava un suo simbolo
espressivo nel termine dulcedo, ereditato dalla bassa latinità.
Soprattutto, Venanzio avrebbe inaugurato quella “nuova adorazione mistica della donna” che la letteratura cortese avrebbe poi fatto maturare, in presenza di condizioni socioculturali nuove, grazie anche al recupero dell’elegia d’amore latina.
Questo slancio sarebbe testimoniato non solo dalle poesie
per Radegonda e Agnese, ma anche dalla mistica sensuale
del De virginitate, costruito come è stato poi dimostrato da
Schmid77 secondo la struttura e il sostegno intertestuale delle
Heroides ovidiane. Bezzola trovava insomma riuniti in
Venanzio per la prima volta molti elementi essenziali alla formazione di quella poesia cortese che proprio a Poitiers trovò
i suoi natali sette secoli dopo: la continuazione dell’antico
ideale di urbanitas trasformato nella dulcedo tardoantica, la
sostituzione dell’ideale femminile degli elegiaci con quello
della domina, moglie del gran signore, e poi della Vergine,
combinato a elementi di mistica amorosa e a condizioni
performative che prevedevano la recitazione pubblica di
poesie d’amore78. Radegonda rappresenterebbe una sorta di
prefigurazione delle nobildonne che promossero la cultura
cortese come Adele, Matilde, Ermengarda, Maria ed
Eleonora. Alcuni decenni dopo, Henri-Irenée Marrou, nel
volume su I trovatori tradotto in italiano nel 1983, continuava
a citare il precedente di Venanzio in quanto elemento di
documentazione di un’ipotesi che accreditava la tradizione
mediolatina come fattore decisivo nella formazione della cultura cortese,79 e ricordava che l’ipotesi di Bezzola era stata
già anticipata nel romanzo Le Meneur de Louves, dove già
nel 1905 Rachilde80 immaginava Radegonda come patrona
cortese della poesia di Venanzio.
Nel frattempo però Peter Dronke, nei suoi studi degli
anni ’60 sulla poesia d’amore medievale tanto autorevoli
quanto poco utilizzati dagli studiosi di Venanzio81, aveva
contestato la ricostruzione di Bezzola. Pur riconoscendo il
contributo di Venanzio all’elaborazione di stilemi del linguaggio amoroso (come l’elativo flos florum, che ritroviamo
da Valafrido Strabone a Serlone di Wilton e Bonagiunta
Orbicciani), Dronke interpretava il tono cortese di Venanzio
come una impostazione generica, che nella sua scrittura
rimane costante con qualsiasi destinatario, tanto da promettere baci sulle labbra perfino al nobile governatore Giovino
e proferire amore al diacono Antimio. Dronke non vede in
282
queste poesie “un amore mistico per la donna, incarnazione
della purezza”, “l’esaltazione religiosa di cui trova gli elementi nel culto della verginità perpetua di Maria”, come
sosteneva Bezzola, perché opera una distinzione netta fra la
tradizione di courtoisie, commendation e amicizia e l’aspetto di “intimità d’anima” con donne concrete, che non rappresentano l’incarnazione di entità generali. Il linguaggio
dell’esaltazione non presenta a suo dire i tratti erotico-religiosi che gli sono stati attribuiti e non è collegato al culto
della Theotokos. Inoltre, i riscontri carolingi di celebrazione
della regina in Sedulio Scoto, che potrebbero ricostituire una
prima testimonianza della continuità di questa linea cortese,
non dipenderebbero tanto dal filone erotico di Ragedonda e
Agnese quanto da quello panegiristico per Brunilda o
Palatina. In conclusione, questo episodio nella storia della
lirica d’amore non avrebbe influito sui trovatori, anche perché la loro performatività musicale li mantiene comunque
distinti dai poeti mediolatini d’amore anche in epoca tarda82.
Altrettanta severità si riscontra nelle pagine di Curtius, che
nel capitolo sulle formule di devozione e di umiltà83, cioè
sulla retorica della presentazione e della raccomandazione,
considerava l’idea della dulcedo come un’invenzione del
libro di Koebner su Venanzio (1915). L’uso di termini da questa famiglia lessicale per gli amici e i familiari sarebbe invece, a suo avviso, non una scoperta di Venanzio, ma un elemento comunissimo in latino. E adduceva al proposito
Orazio per l’aggettivo dulcis, Macrobo e Teodosio per l’astratto dulcedo, mentre dulcissima gratia vestra è attestato
nelle Formulae merowingici et Karolini aevi edite da
Zuemer84 questa estensione sarebbe da ricondurre allo stile
cerimoniale, elaborato nell’Italia imperiale a partire del 350,
e poi tramandatosi nelle scuole di retorica sino a Venanzio.
L’analisi di questa discussione e delle tesi a questo proposito presentate richiederebbe uno spazio autonomo e un
orizzonte specifico, che negli ultimi anni è stato ulteriormente ampliato dalle ricerche di Franca Ela Consolino e Verena
Epp85. Tuttavia è forse possibile proporre qualche considerazione: pur essendo infatti evidente che trovatori del XII
secolo e poeti delle corti merovinge sono categorie diverse
e discontinue, tuttavia risulta difficile negare che la riproposizione di un rapporto di affetto e di idealizzazione anche
religiosa fra poeta e nobildonna laica o monacata trovi i suoi
vertici espressivi prima, in modi sconosciuti alla poesia
panegirica precedente, in Venanzio Fortunato, poi nei poeti
del circolo della Loira (Ildeberto di Lavardin, Marbodo di
283
Rennes, Baldrico di Bourgueil) che allo stile di Venanzio non
sembrano estranei e la cui continuità cronologica e geografica con i primi trovatori e le loro corti (fra Poitiers, Tours e
Poitiers) risalta senza possibilità di contestazione. Se Marrou
e Spanke86 per puntellare la loro ipotesi di derivazione mediolatina e paraliturgica della lirica cortese potevano addurre
documenti come le raccolte di versus e i tropari di Saint
Martial – dato che neanche Limoges è molto lontana da
Poitiers – è pure vero che questi stessi codici contenevano
fra gli altri anche testi di Venanzio Fortunato, e che proprio
l’adozione di un frasario innografico per gli scambi di affettuosità e convenevoli dell’aristocrazia colta prepara la strada
all’elaborazione di un linguaggio nuovo per la lirica erotica,
un linguaggio che conquisti la carica mistica sconosciuta
agli elegiaci latini e dunque consenta il salto necessario
verso l’idealizzazione del destinatario femminile. In questo la
condizione unica di Venanzio, primo poeta di corte ad essere anche autore di inni religiosi, non può non aver prodotto
effetti determinanti nella combinazione di generi e temi.
Su questo punto forniscono un contributo cursorio ma
penetrante le letture di Peter Godman, che con grande raffinatezza ha analizzato l’uso del termine dulcedo nel capitolo
iniziale del suo Poets and Emperors87, scoprendovi la persistenza dell’accezione alimentare, accanto a quella oratoria
e stilistica: questa sovrapposizione dei campi d’immagine
consentirebbe a Venanzio, e ai carolingi che ne riproducono
il codice espressivo e in qualche caso anche l’atteggiamento cortigiano, di collegare in una metafora conviviale facilmente contigua anche all’immaginario biblico e mistico il
rapporto fra scrittura poetica e patronato politico, elaborando un linguaggio che contribuirà a fornire gli strumenti per
comunicare una sensibilità e un’esperienza inedite.
Mi sono permesso per parte mia in questo senso solo
una verifica lessicale, relativa proprio alla dulcedo di cui
Curtius aveva tolto a Venanzio il primato di invenzione88. Si
tratta di un lavoro che gli strumenti elettronici rendono oggi
assai più facile e meno aleatorio che ai tempi di Curtius, e
dunque la proposta non si pone in contrapposizione a un
grande maestro del passato. Tuttavia questo controllo ha
dato un esito inequivocabile: fra tutti i poeti latini in 1500 anni
di storia da Ennio al XIII secolo, quello che più di tutti fa uso
del lessema di dulcis e dulcedo, con netto distacco di
Virgilio, Stazio e Carmina Burana, è Venanzio Fortunato. La
dulcedo diventa in Venanzio l’interpretazione di un universo
di valori, che molto più di un vezzo lessicale finisce con l’es284
sere la chiave del linguaggio con cui il poeta costruisce alla
tumultuosa società merovingia un mondo espressivo in cui
proiettare la propria idealizzazione.
Note
(1) Escluderemo naturalmente i carmina figurata e le agIografie, trattati in
altre relazioni.
(2) Mi riferisco soprattutto all’indice di Max Manitius Poetarum posteriorum loci expressi ad Fortunatum, pubblicato in appendice all’edizione Krusch
dell’opera in prosa di Venanzio in M.G.H. Auctores antiquissimi IV/2, Berlin
1885, pp. 137-144 e al suo imponente studio in “Sitzungsberichte der phil-hist. Klasse der kaiserlichen Akademie”, n. 112, Wien 1886, pp. 535-634; al capitolo di D. Tardi, Fortunat. Etude sur un dernier représentant de la poésie latine dans la Gaule mérovingienne, Paris 1927, cap. VII L’influence de Fortunat
au Moyen Age, pp. 270-281, dedicato esclusivamente ad alcuni poeti carolingi; agli articoli di A. Cordoliani, Fortunat, l’Irlande et les Irlandais, in Etudes
mérovingiennes. Actes des journées de Poitiers 1952, Paris 1953, pp. 35-43;
R.W. Hunt- M. Lapidge, Manuscript Evidence for Knowledge of the Poems of
Venantius Fortunatus in Late Anglo-Saxon England, in “Anglo-Saxon England”
8 (1879), pp. 279-295, rist. in Id., Anglo-Latin Literature 600-899, London
1996, pp. 399-407.
(3) Cfr. A. Placanica, La tradizione dei “Carmina” di Venanzio Fortunato,
“Filologia Mediolatina” 9 (2002), pp. 15-33; F. Leo, Venanti … Opera poetica,
Berlin 1881, rist. München 1981, pp. XIII-XIV; W. Meyer, Über Handschriften
der Gedichte Fortunat’s, “Nachrichten von der königlichen Gesellschaft der
Wissenschaften zu Göttingen”, Phil-hist. Klasse 1980, pp. 82-114; K. Strecker,
Die metrischen Viten des Hl. Ursmarus und des Hl. Landelinus, “Neues
Archiv” 50 (1933-1935), pp. 149-155. Oltre ai codici E (Par. lat. 8311, s. X), U
(Bruxellensis 5354-5361 s. X-XI), V (Vat. lat. 552 s. X) e W (Vat. Palat. 1718, s.
XI), adibiti da Reydellet ma non da Leo, si tratta dei manoscritti Autun,
Bibliothèque du Grand Seminaire 38 (saec. IX-X); Paris, B.N. lat. 18104 ff.
126r-167v (s. IX-X); London, B.L. Add. 24193 (s. IX-X, sigla Ad); Oxford, B.L.
Auct. T. 2. 25 (Summary 20620, s. X-XI, sigla O); Wien, Staatsbibliothek (sic)
Philol. 109, ff. 25r-44v e 49r-64v (Endlicher CCCLVIII; Tabulae 114, s. XI);
Verdun, B.M. 77 (s. XI, ff. 33r-153v), su cui v. A.-M. Turcan-Verkerk, Entre
Verdun et Lobbes, un catalogue de bibliothèque scolaire inédit. A propos du
285
manuscrit Verdun BM 77, “Scriptorium” 46, 1992, pp. 157-203.
Contraddittoria è la posizione dell’editore (Marc Reydellet, Introduction a
Venance Fortunat, Carmina, vol. I, Paris 1994, p. LXXI): “les manuscrits des
Carmina sont nombreux. En plus des témoins qui donnent le corpus des onze livres en totalité ou partiellement, beaucoup de pièces se prêtaient à entrer das des florilèges. En particulier, les hymnes à la Sainte-Croix se retrouvent dans des manuscrits liturgiques, parfois avec des variantes et des additions importantes. Il nous est apparu qu’un repérage de tous les manuscrits
des Carmina était un travail utile, certes, pour la connaissance de la diffusion
de l’oeuvre, mais qui n’apporterait pas grand-chose a l’établissement du texte. Nous y avons ajouté quatre témoins dont l’apport n’est pas sans intérêt: V,
U, E et W.”
(4) Venanti Honorii Clementiani Fortunati Italici presbyteri, episcopi
Pictaviensis, vetusti et Christiani poetae Carminum, epistolarum et expositionum libri XI […] additi, praeter supplementa, de vita sancti Martini libri IV,
Moguntiae 1603.
(5) A. Placanica, op. cit., p. 32.
(6) Vd. infra.
(7) Leo ne cita alcuni nei prolegomena, p. xiii.
(8) Per questo nell’edizione Belles Lettres non viene adoperato e non si
cita lo studio di Hunt e Lapidge sulla scoperta di alcune testimonianze relative alla trasmissione delle poesie di Venanzio in Inghilterra.
(9) Il codice sembra essere gemello di un Escorialense, b. IV. 17 del sec.
X. Vd. al proposito il mio articolo Variazioni stemmatiche e note testuali alle
“laudes Dei” di Draconzio. Con edizione del florilegio Paris, B. N. lat. 8093, f.
15v (sec. VIII-IX, in “Filologia Mediolatina” III 1996, pp. 1-33, a p. 11-12 e nn.
33 e 34).
(10) Ne parla M. Lapidge nel contributo citato, e Placanica nella relazione inedita.
(11) Anche attenendosi ai dati già noti agli editori, la principale attestazione di una storia postuma della poesia venanziana nella tradizione manoscritta è già la silloge dei testi pubblicati da Leo come Spuriorum appendix e
contenuta in una della parti di epoca diversa di cui è composto il parigino
13048: fu messa insieme fra VIII e IX secolo in area corbeiese da un curatore zelante, il “clerc pieux” che appartiene a buon diritto al Fortleben della poesia venanziana. E se si pensa che da Corbie proviene anche il più antico testimone della tradizione, il ms. conservato ora a San Pietroburgo F XIV 1
dell’VIII secolo che fu probabilmente quello utilizzato dall’autore del Karolus
magnus et Leo papa, possiamo ben fissare nell’abbazia reale dei carolingi un
anello fondamentale della ricezione di Venanzio. In Autore e attribuzioni del
Karolus magnus et Leo papa (negli atti del convegno Am Vorabend der
Kaiserkrönung: Das Epos “Karolus Magnus et Leo papa” und der
Papstbesuch in Paderborn, Berlin 2002, a cura di Peter Godman, Jörg Jarnut
e Peter Johanek, Berlin 2002, pp. 19-34), ho avuto modo di sostenere, basandomi su una annotazione marginale di Manitius, che fu appunto questo il
codice di Venanzio che aveva davanti il misterioso autore del poema Karolus
magnus et Leo papa, un poeta della corte di Carlo Magno della prima generazione (a mio parere, come cerco di dimostrare nella relazione citata,
Modoino di Autun).
(12) London, B. L. Add. 24193, s. XI; Par. lat. 14144; ed. K. Strecker, MGH
Poetae IV/2 p. 654-5 n. 95.
(13) Aimoino di Fleury, Historia Francorum 13 (PL 139, 702B) CAPUT XIII.
De Fortunato episcopo et ejus scientia. Ejus tempore Fortunatus, qui in rhetorica metricaque [0702B] arte famosus habebatur, ab Hesperia in Gallias
transiens, Pictavis episcopus ordinatur. Hic multorum vitas passionesve sanctorum, partim prosa, partim metro composuit. Ad amicos quoque singula disticha elegans orator conscripsit. Unde praefato regi elegiacum misit carmen,
congratulans ei in nuptiis Brunichildis. Quod equidem ego, cum sors librum
ad diversos ab eo sibi familiares conscriptum manibus intulisset meis, legi atque in eo facunditatem viri, dulcemque affabilitatem satis admiratus sum.
Odoranno di S. Pietro Vivo, Opuscula, PL 142 803C-D: Tunc temporis pe-
286
ne per universam Galliam Fortunatus presbyter, natione Italus, vir disertissimus, clarus habebatur. Hic postquam Chlotarius rex hominem exuit, ejusque
filius Sigebertus regnum suscepit, quaedam quae apud nos habentur, in
ipsius Sigeberti laude et Brunechildis reginae opuscula edidit. Domna vero
Theudechildis regina, quanto pietatis fonte redundaverit, quamque laudabilem [0804A] vitam duxerit, idem Fortunatus scribens ad illam, luculenter versibus exsequitur.
Ecchehardus Uraugiensis, Chronicon Universale PL 154, 783: Felix quoque Tharvisianae aecclesiae presul et Fortunatus condiscipulus ejus fuerunt.
Hic Fortunatus fuit de loco qui dicitur Duplabilis, non longe a Tharvisio, gramaticam vero et rethoricam [0783C] didicit apud Ravennam. Qui cum dolorem pateretur dentium, simulque socius ejus Felix, abierunt ambo ad aecclesiam sanctorum Johannis et Pauli, quae est in eadem civitate Ravenna, in qua
est et altare sancti Martini, juxta quod fenestra est, in qua lucerna poni solebat, de cujus oleo super oculos suos posuerunt, et sanitatem receperunt. Pro
qua causa Fortunatus beatum Martinum in tantum dilexit, ut patriam dimittens,
ad sepulchrum ejus Turonum veniret, antequam Longobardi Italiam intrarent;
indeque Pictavium tendens ibique manens, multas passiones sanctorum,
alias per versus, alias per prosas composuit, ibique primum presbiter, postea
episcopus factus est.
Sigeberto di Gembloux, De scriptoribus ecclesiasticis, 45 (PL 160, 558
D): Fortunatus, natione Italus, liberalibus artibus eruditus, a dolore oculorum,
virtute Martini Turonensis episcopi, sanatus, et pro hac causa ad Turones venit, et ad Pictavos progressus, primo ibi presbyter, deinde episcopus consecratus est. Scripsit metrice Hodoeporicum suum; [0558B] scripsit metrice quatuor libros De Vita sancti Martini, et multa alia, et maxime hymnos singularum
festivitatum. Ad singulos amicos composuit versus suavi et diserto sermone.
(14) Alcuino, De sanctis Euboricensis ecclesiae, 1550 ss.: Quid quoque
Sedulius, vel quid canit ipse Iuvencus, / Alcimus et Clemens, Prosper,
Paulinus, Arator, / Quid Fortunatus, vel quid Lactantius edunt, / Quae Maro
Virgilius, Statius, Lucanus et auctor; Teodulfo, De libris quos legere solebam,
carm. 45, 1-20: Sedulius rutilus, Paulinus, Arator, Avitus, / Et Fortunatus, tuque, Iuvence tonans¸/ diversoque potens prudenter promere plura / Metro, o
Prudenti, noster et ipse parens. Il modello di questi elenchi è peraltro quello
fornito da Venanzio stesso all’inizio della Vita s. Martini 1, 14-25.
(15) Rabano Mauro, De institutione clericorum, III 18, P.L. 107, col. 396A
e ed. A. Knöpfler, München 1900, p. 224 s.: Quamobrem non est spernenda
haec, quamvis gentibus communis ratio [scil. metrica], sed quantum satis est
perdiscenda, quia utique multi evangelici viri, insignes libros hac arte condiderunt, et Deo placere per id satagerunt, ut fuit Iuvencus, Sedulius, Arator,
Alcimus, Clemens, Paulinus et Fortunatus, et caeteri multi.
(16) Ne abbiamo riscontro per il periodo fra VIII e X sec. in Dungal
Responsa ad Claudium, Haimone di Halbertstadt Homiliae, Usuardo di SaintGermain, Bertario di Verdun, Flodoardo di Reims, che lo definisce poeta noster come un tempo faceva Seneca con Virgilio.
(17) Ed. F. Glorie, CC 133A, 1968, pp. 745 ss. (clm 14252, primo quarto
del IX sec., ff. 185r-191r): G. Glauche, Schullektüre im Mittelalter. Entstehung
und Wandlungen des Lektürekanons bis 1200 nach den Quellen dargestellt,
München 1970, p. 8.
(18) Glauche, Schullektüre, pp. 24, 27, 28, 30 ss., 69.
(19) Ad es. nei testi di Pietro Crinito, De poetis latinis e Giorgio Platina,
Vita Iohannis papae III: vd. Ivano Sartor, Venanzio Fortunato nell’erudizione,
nella tradizione e nel culto in area veneta, negli atti del convegno Venanzio
Fortunato tra Italia e Francia, Treviso 1993, pp. 262-276.
(20) Zu Aldhelm und Beda, “Sitzungsberichte der kaiserlichen Akademie””,
Wien, Phil.-hist. Klasse 112 (1886), pp. 535-634; Beiträge zur Geschichte frühchristlicher Dichter im Mittelalter, ivi 117/12 (1889), 2-6 e Beiträge zur
Geschichte frühchristlicher Dichter im Mittelalter II, ivi 121/7, pp. 178-9.
(21) Usa frequentemente versi di Venanzio come modelli nelle sue poesie (vd. ed.Traube, PLAC III).
(22) Cita gli inni alla croce.
287
(23) Si ispira a carm. 9, 2 per la sua consolatio.
(24) Attinge da Venanzio alcune espressioni nei 20 esametri che suggellano la lettera a Elisacar (MGH Ep. V 317, PLAC II p. 669 n. 23).
(25) Usa esempi di Venanzio negli Exempla diversorum auctorum, e in
una lettera a Radberto gli chiede la restituzione di un codice di Venanzio (M.
Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, München
1911, vol. I p. 402).
(26) Cita due versi della Vita Martini in un sermone (P.L. 133, 746C).
(27) Usa la Vita Remigii come fonte del cap. 10 dell’Historia Remensis
ecclesiae (MGH Scriptores XIII p. 413).
(28) La redazione prior modella i rapporti con Enrico sulla Vita
Radegundis, con riprese letterali; la redazione posterior introduce due citazioni dei Carmina.
(29) Usa un verso del prologo della Vita Martini nella poesia al conte
Rodolfo, e si attiene allo schema del prologo nella chiusa del II libro (P.L. 141,
col. 653D).
(30) Vd. infra.
(31) Nella Vita s. Basoli ricava le notizie su Egidio di Reims (cap. 11, P.L.
137, col. 650A) da Carmina 3, 15.
(32) L’epitaphium Warendrudis, della metà del X sec., è ripreso da schemi venanziani: Hic Warendrudis nimium veneranda quiescit / Abbatissa, animam sed paradysus habet. / Hetti pontificis fuerat soror, amita magni /
Thietgaudi domini magnificique patris. / Cuius germanus vir clarus in omnibus
extat / nomine Grimaldus, ore et honore potens (M.G.H. Scriptores XIV p. 106).
(33) Reminiscenze e riprese di interi versi nelle poesie a Elfeg vescovo di
Winchester e nella Narratio de S. Swinthuno: vd. Hunt-Lapidge, Manuscripts
Evidence cit., p. 284.
(34) Manitius individua due reminiscenze di Venanzio nelle poesie.
(35) Attinge l’incipit a Carmina IV 8, 11 s. e 9, 11 s., e riprende schemi
dalle vite dei santi.
(36) Chiamato “il Venanzio del Sud”, ne dimostra l’imitazione in un periodo in cui era meno praticata (Manitius, Geschichte, vol. II p. 630).
(37) Menziona Venanzio come precedente autore di opere encomiastiche nell’Ad calumniatorem (P.L. 189, col. 57).
(38) Lo cita nella Panormia (1148-1179).
(39) Ritmo 3 ed. M. Lokrantz, 1951 (=AH 48, n. 55), str. 4 v. 1, che riprende un verso del Vexilla regis: al proposito Ropa. art. cit. in n. 72, p. 282.
(40) Segnalato dal Manitius, Geschichte, der lat. Literatur des
Mittelalters, III, München 1923, p. 491 n. 1. Vd. infra. Solo una citazione è segnalata dall’ed. P.G. Schmidt, Stuttgart-Leipzig 1996.
(41) Lapidge, Manuscript Evidence, e Peter Godman, in Alcuin. The
Bishops, Kings, and Saints of York, edited by Peter Godman, Oxford,
Clarendon Press 1982, pp. lxx s.; sull’Irlanda non è stato possibile reperire A.
Cordoliani, Fortunat, l’Irlande et les Irlandais, in Etudes mérovingiennes.
Actes des journées de Poitiers 1952, Paris 1953, pp. 35-43.
(42) P.L. 154, coll. 29 e 128.
(43) G.B. Conte-A. Barchiesi, Imitazione a arte allusiva, in Lo Spazio letterario di Roma antica, vol. I, Roma 1989, p. 94: “non come un esemplare ma
come una sorta di matrice generativa: un modello di competenza che potremmo chiamare modello-genere […] il modello non è più un testo, una totalità concreta, ma un insieme di tratti distintivi, una struttura generativa”. In un
altro contributo successivo G.B. Conte aveva elaborato la definizione di modello-codice: “istituto letterario che consente di produrre realizzazioni più o
meno compiute, sistema di elementi consapevoli e deliberati attraverso cui
l’autore riconosce l’identità dell’opera e le intenzioni secondo cui va decifrato
il testo ch’egli ricostruisce” (A proposito dei modelli in letteratura, in “Materiali
e discussioni” 6 (1981), pp. 147-157, a p. 148).
(44) Edmond Le Blant, Inscriptions chrétiennes de Gaule antérieures au
VIIIe siècle, I Provinces gallicanes, Paris 1836, pp. 4 sgg.; Jean-Baptiste de
Rossi, Inscriptiones Chrstianae Urbis Romae septimo saeculo antiquiores,
II/1, Romae 1888.
288
(45) Si veda R. Favreau, Fortunat et l’epigraphie, in Venanzio Fortunato
tra Italia e Francia, Treviso 1993, pp. 161-173.
(46) G. Bernt, Das lateinische Epigramm im Übergang von der
Spätantike zum frühen Mittelalter, München 1968, pp. 118-132.
(47) Una ricostruzione in Venanzio Fortunato, Epitaphium Vilithutae (IV
26), a cura di Paola Santorelli, Napoli 1998.
(48) P. 94 della trad. it. (Roma 1992). Più di recente Judith W. George,
Variation on themes of consolation in the poetry of Venantius Fortunatus,
“Eranos” 86 (1988), pp. 53-66.
(49) Carme 21, PLAC I pp. 477-480.
(50) Carmi 102, 106, 198.
(51) Principessa visigota sposta con Chilperico e fatta uccidere proprio
da quella Fredegonda lodata da Venanzio in altre liriche.
(52) Questo filone, come altri fra quelli individuati da Curtius, è stato studiato con monumentale meticolosità da Peter von Moos nei tre volumi dedicati alla Consolatio. Studien zur mittellateinischen Trostliteratur über den Tod
und zum Problem der christlichen Trauer, München 1973.
(53) Vd. testo parziale e traduzione in F. Stella La poesia carolingia,
Firenze 1995, con commento alle pp. 479-481. Discussione della topica biblica in F. Stella, La poesia carolingia latina a tema biblico, Spoleto 1993, pp.
446-447.
(54) Documentato in quell’epoca da Pascasio Radberto (PLAC III, 45-51).
(55) Valafrido Strabone 5 e Rabano Mauro 37.
(56) La poesia carolingia latina a tema biblico, Spoleto 1993, pp. 443 s.
(57) F. Stella, Autore e attribuzioni del “Karolus Magnus et Leo papa” in
Am Vorabend der Kaiserkrönung. Das Epos “Karolus Magnus et Leo papa”
und der Papstbesuch in Paderborn 799, cit. in n. 11.
(58) Il periodo carolingio, in Lo Spazio Letterario del Medioevo. Il Medioevo
latino, vol. III, La ricezione dei testi, Roma 1995, pp. 339-373, a p. 349.
(59) Come osserva Godman, la praeda volubilis di Venanzio v. 340 diventa la praeda sanguinea di Karol. magn. et Leo papa 274, e i cani inseguitori non sono quelli da caccia ma i magnanimi molossi di Virgilio (v. 286), mentre l’immagine del cinghiale braccato (v. 293) è ricavata da Ovidio Ars 2, 374.
(60) Letteratura Europea e Medio Evo Latino, pp. 147 sg.
(61) G. Lieberg, Seefahrt und Werk. Untersuchungen zu einer Metapher
der Antiken, besonders der lateinischen Literatur, von Pindar zu Horaz,
“Giornale Italiano di Filologia” 21 (1969), pp. 209-213.
(62) C. Braidotti, Una metafora ripetuta: variazioni sul tema nautico nella
“Vita s. Martini” di Venanzio Fortunato, “Giornale Italiano di Filologia” 45
(1993), pp. 107-19.
(63) La poesia carolingia, numero 37, pp. 455-456.
(64) F. Brunhölzl, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, I,
München 1975, p. 123.
(65) Alexandr Lobanov, Note dantesche, in “Italienisch” 16 (1994/1), pp.
27-36.
(66) AH 7, 105-106.
(67) J.M. De Smedt, Le “Vexilla regis prodeunt” du cod. Bruxelles 9837 à
9840 composé pour l’expedition de Louis le Gros contre le meurtriers de
Charles le Bon (1127), “Revue d’Histoire Eccléstastique” 46 (951), pp. 165-169;
vd. The political songs of England, ed. Th. Wright, London 1839, pp. 258-259.
(68) H. Brinkmann, Anfänge lateinischer Liebesdichtung in Mittelalter,
“Neophilolo-gus” 9 (1924), p. 49 ss.; D. Scheludko, Zur Geschichte des
Natureinganges bei den Trobadors, “Zeitschrift für französische Sprache und
Literatur” 60 (1936), pp. 257-334, spec. pp. 261-263.
(69) R.E. Messenger, Salve festa dies …, “Transactions of the American
Philological Association” 68 (1967), pp. 208-222 e R.H. Robbins, Middle
English Carols as Processionals Hymns, “Studies in Philology”, 56 (1959), pp.
559-582.
(70) Per la fortuna di Tempore florigero vd. J. Szövérffy, Dia Annalen der
lateinische Hymnendichtung Berlin 1970 I, pp. 137 s., 165, 274, 386, 403.
(71) Budapest, E.K. 42, f. 14v; Budapest, E.K. 48, f. 21; Uppsala, UB, C
289
264, f. 55; Montserrat, Archivio y Biblioteca de la Abadía 73, s. XII; ivi 145 f.
xxxii; ivi 757-I s. XII; Cambridge, St. John’s College 262, f. 43; Zürich, Rheinau
80; Helsinki, UB Frag 16 sec. XII-XIII, ff. 5-6; ivi, Frag. 150 ss. XIV-XV f. 3; ivi,
Frag. 180 s. XV ff. 3-4; München, UB 2° 173 f. 19; Oxford, Keble College 29,
f. 5, iv; Oxford, Keble College 31, f. 4 vi; ivi 59 f. 5; Stuttgart, W.L.B., Mus. fol.
I 24 f. 15; Paris, Mazarine 512 f. 133v; Washington f. 7; D.C., LC, 2; Einsiedeln,
Stiftsb. 148, f. 266; ivi, 39 f. 50v; Engelberg, Stiftb. 156 f. 469v; ivi 40 f. 166;
ivi 8 f. 186; El Escorial, S. Lorenzo b II 1 f. 498; Sankt Gallen 196 p. 42;
Vaticano lat. 10774 f. 145v; Wien 1557 ff. 11, 20; ivi, 15604 f. 10; ivi, 15807 f.
9; ivi 15942 f. 7b; ivi 15943 f. 3r; ivi, 16139; ivi 16193 ff. 11, 20; ivi 16197 f. 7;
16198 ff. 15-16; ivi 16199 ff. 10, 18-19; ivi 16523, f. 28; ivi, 16697 f. 41; ivi,
16709 ff. 11, 17; ivi, 17434; ivi, 19030 f. 15; ivi, 19083 ff. 19, 26; ivi, 19201; ivi,
19426 ff. 15-16; Kornik, Bibl. Publ. 26 f. 132; Wolfenbüttel, H.-A.-B., Weissenb.
78 f. 33; Brno, Statni Oblastni Arch., Cerr II, c. 11, ff. 91-92.
(72) G. Ropa, L’immaginario biblico nella lirica liturgica, in La Scrittura infinita. Bibbia e poesia in età medievale e umanistica, a cura di F. Stella,
Firenze 2001, pp. 261-290, specialmente pp. 282-284: l’esempio addotto è
quello del Graduale di Saint-Yrieix, Paris., B.N. lat. 903, del sec. XI.
(73) W. Berschin, Biographie und Epochenstil im lateinischen Mittelalter,
I Von der Passio Perpetuae zu den Dialogi Gregors des Großen, Stuttgart
1986, p. 286.
(74) Sulla compresenza e commistione di fonti pagane e cristiane in
Venanzio vd. A.V. Nazzaro, Intertestualità biblico-patristica e classica in testi
poetici di Venanzio Fortunato, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, pp.
99-135.
(75) R. Koebner, Venantius Fortunatus. Seine Persönlichkeit und seine
Stellung in der geistigen Kultur des Merowingerreiches, Leipzig-Berlin 1915.
(76) R.B. Bezzola, Les origines et la formation de la littérature courtoise
en Occident (500-1200). Première partie La tradition impériale de la fin de
l’Antiquité au XIe siècle, Paris 1944.
(77) W. Schmid, Ein christlicher Heroidenbrief des sechsten
Jahrhunderts, in Festschrift Jachmann, Köln 1959, pp. 253 sgg.
(78) Lo testimonierebbe il testo stesso di Venanzio in Appendix 31: In
brevibus tabulis carmina magna dedisti, ecc.
(79) H.-I. Marrou, I trovatori, trad. it. Milano 1983, p. 142.
(80) Moglie di Vallette del Mercure de France.
(81) P. Dronke, Medieval Latin and the Rise of European Love-Lyric I
Problems and Interpretations II Medieval Latin Love-Poetry. Texts Newly
Edited from the Manuscripts and for the Most Previously Unpublished, Oxford
1965-1966, 19682.
(82) Secondo l’ipotesi di H. Spanke, Beziehungen zwischen romanischer
und mittellateinischer Lyrik mit besonderer Berücksichtigung der Metrik und
Musik, “Abhandlungen der Gesellaschaft der Wissenschaften”, Phil.-hist. Kl.
III 18, Berlin 1936, p. 187.
(83) Letteratura europea cit., pp. 458-9.
(84) Hannover 1886, pp. 23-24.
(85) F.E. Consolino, Amor spiritualis e linguaggio elegiaco nei carmina di
Venanzio Fortunato, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa» 7, 1977,
pp. 1351-1368; V. Epp, Männerfreundschaft und Frauendienst bei Venantius
Fortunatus, in Variationen der Liebe: Historische Psychologie der
Geschlechterbeziehungen, a cura di Th. Kornbichler e W. Maaz, Tübingen
1995, pp. 9-26.
(86) Spanke, Beziehungen; Marrou, I trovatori, pp. 130-131.
(87) P. Godman, Poets and Emperors. Frankish Politics and Carolingian
Poetry, Oxford 1987, pp. 1-39.
(88) Al termine dulcedo dedica qualche riflessione, in consonanza col
capitolo di Godman, A.V. Nazzaro nell’art. cit., pp. 103-104.
290
PAOLA SANTORELLI
Università degli studi di Napoli “Federico II”
Le prefazioni alle vitae in prosa
di Venanzio Fortunato
I momenti di inizio di un’opera – i più suggestivi, quale
che sia il genere letterario di appartenenza – sono il luogo
del progetto e della sua definizione, sono lo spazio in cui
prende forma il rapporto tra autore e fruitore, in bilico tra il
non scritto e l’annuncio ufficiale della scrittura con forme e
contenuti precisi. È lì infatti che lo scrittore svela il suo universo narrativo al lettore, fornendogli la chiave di accesso
interpretativa al testo, per compiere insieme un itinerario
all’interno del quale, nonostante le affermazioni più o meno
esplicite dell’esordio, possono aprirsi in progress nuovi e
non sospettati percorsi, prima di arrivare alla fine1.
Nella letteratura classica la parte proemiale di un’opera
assolve una funzione specifica, addirittura tecnica: ne rende
esplicito lo scopo, definisce i rapporti con il dedicatario o il
committente – o entrambi –, serve a dichiarare l’inadeguatezza dell’autore di fronte alla grandezza dell’impresa e a
invocare una superiore, divina assistenza durante lo svolgimento dell’opus. La presenza di tutte queste funzioni, il loro
accavallarsi, fa sì che gli esordi siano costituiti prevalentemente da un succedersi di topoi2, quei segmenti cioè destinati a ripetersi nel loro schema, attraverso i quali l’autore
individua e delimita a vantaggio del lettore l’ambito del percorso che intende seguire3.
I paragrafi che aprono le vitae in prosa scritte da
Venanzio Fortunato, per i quali si può adoperare convenzionalmente il termine di praefatio, rientrano a buon diritto in
questo tipo di analisi.
La specificità dell’agiografia come genere letterario confluisce inevitabilmente negli incipit delle vitae: l’autore deve
tendere a stabilire con i fruitori del testo un’intesa immediata, basata su una forte affinità ideologica e, grazie all’uso di
ogni strumento retorico di cui è a conoscenza, provvede a
far passare il messaggio di edificazione contenuto nella vita
santa. Se è vero che talvolta anche il racconto della vita,
scandito prevalentemente da una più o meno numerosa
291
elencazione di miracoli, finisce con l’essere una ripetizione
di temi e motivi sempre uguali, è nel prologo che più fitti si
addensano i loci communes. I topoi ricorrenti nei prologhi
agiografici latini riguardano “la grandezza e la vastità dell’argomento da trattare, la conclamata incapacità dell’autore, la necessità per contro di non passare sotto silenzio il
personaggio da celebrare, l’opportunità di una selezione, la
richiesta di credito all’ascoltatore in nome di una dichiarata
fedeltà alla verità storica”4.
Per Venanzio agiografo la questione è ancora più complessa. Se la Vita Martini in quattro libri di esametri5 gli ha
consentito lo sfoggio della sua versatilità, conoscenza retorica, padronanza metrica, in una parola della sua competenza estrema di intellettuale di solida formazione, impegnato nel non semplice esercizio letterario della parafrasi agiografica6, per tutti questi motivi doveva essersi reso conto
che l’opera, proprio per la sua strutturazione, non poteva
avere come scopo primario quello di raggiungere il maggior
numero possibile di persone ad aedificationem plebis.
Diversa avrebbe dovuto essere la forma – prosa, non poesia
– diverso il tono, più dimesso e accessibile7. Tuttavia
Venanzio anche nella stesura delle vitae in prosa si ritaglia
un segmento, il prologo, dove poter mantenere inalterati lo
stile e quel suo modo lussureggiante e complesso di scrivere, riservando alla narrazione vera e propria l’intento di perseguire attraverso una maggiore semplicità una più facile
percezione8. Non si coglie tuttavia alcuna contraddizione tra
la modestia affettata e l’umiltà cristiana9: il doppio registro
stilistico va ascritto alla versatilità venanziana, che egli
coscientemente dispiega nella direzione di un’esplicita differenziazione dei destinatari tra i prologhi e le vitae vere e
proprie; né peraltro bisogna immaginare la scrittura delle
vitae veramente improntata alla rusticitas di cui il poeta fa
professione, ma è come se il miracolo stesso, struttura portante della vita dei santi richiedesse, per essere narrato, una
prosa ‘semplificata’, livellata secondo uno stile agiografico.
In conclusione ciò che è prima del racconto resta la palestra
in cui egli può cimentare la sua consumata abilità, prima del
fatidico Igitur Albinus episcopus V 11 (Sacratissimus igitur
Paternus … III 9; Beatissimus igitur Marcellus … IV 13; Igitur
beatus Hilarius … III 6). Tutto ciò che precede queste frasi,
che costituiscono i veri e propri incipit, individuati come tali
anche dalla riproposizione del medesimo schema, sarà
oggetto di analisi.
Molte delle informazioni contenute nei prologhi, nel caso
292
di questo specifico prodotto letterario, e delle intenzioni
espresse – la dedica, la volontà di attenersi alla brevitas,
l’adfirmatio modestiae, in parte anche la richiesta di aiuto
alla divinità – paiono del tutto estrinseche allo scopo primario delle vitae agiografiche, cioè l’edificazione, il convincere
con l’esempio, il raccontare vite speciali che funzionino da
modello. Il proemio sembra riguardare per certi versi più
l’autore che il fruitore: è il luogo in cui egli consuma il suo
rapporto non sempre semplice con il genere letterario che si
appresta a affrontare, con il suo essere intellettuale e collocarsi con le sue specifiche peculiarità dentro un filone già
tracciato, di cui deve accettare le regole, con le aspettative
forti e dichiarate del committente. È come se nel caso di
queste vitae ci fosse uno iato tra i destinatari del prologo e
coloro che effettivamente ‘usano’ l’opera, una sottile ma
tenace linea di demarcazione tra i primi, un esiguo gruppetto di letterati esigenti, e gli altri, i fruitori del testo vero e proprio, il più ampio pubblico dei fedeli10. Va ricordata, a questo
proposito, la frequenza con cui ricorre, accanto alla consueta tapinosi, “un atteggiamento di umile obbedienza nei
confronti di una auctoritas che induce il biografo a iniziare la
sua fatica: si tratta di un interlocutore privilegiato, una sorta
di primo lettore cui dedicare il bioj”11. L’incipit, in quanto
momento di presa di contatto, è infatti un luogo privilegiato
in cui tendono a concentrarsi una serie di segni indirizzati ai
destinatari al fine di ‘sedurli’ e soddisfare le loro aspettative12: la captatio benevolentiae in tutte le sue forme, è una
delle possibili strategie. Con uno stile estremamente ricercato Venanzio dimostra la sua competenza e abilità, con un
ricco corredo di artifici smentisce, nel momento stesso in cui
lo enuncia, il topos puramente convenzionale della scarsa
capacità letteraria, dell’insufficiente cultura13; dopo, nella
stesura delle vitae, può tentare la strada di una scrittura
pensata per l’ascolto, può cimentarsi con un uditorio, di cui
non bisogna perdere l’attenzione, che non va annoiato con
troppe ripetizioni, che va sedotto con una prosa semplice,
scorrevole, di impatto più immediato. E di cimento si tratta
per un intellettuale come Venanzio, che deve rinunciare
all’ubertas a vantaggio della exiguitas, della rusticitas e al
quale resta come unica preoccupazione quella di mantenere un equilibrio tra due concetti più volte espressi: l’attenzione costante alla brevitas e il timore che ciò possa privare
l’ascoltatore di una dettagliata descrizione di tutti i miracoli
compiuti dal santo.
Quanta di questa consapevolezza, della coscienza di un
293
problema e insieme del tentativo di risolverlo, confluiscono
nei proemi? Per comprenderlo è opportuno mettere più a
fuoco l’oggetto di queste analisi.
Bruno Krusch nella prefazione alle vite agiografiche in
prosa nei MGH AA. aa IV 2, Berolini 1885 ne attribuì a
Venanzio sei: la vita Hilarii, la vita Germani, la vita Albini, la
vita Paterni, la vita Marcelli, la vita Radegundis. Più tardi, nel
1902, H. Quentin scoprì la vita Severini considerata venanziana sulla base di un luogo di Gregorio di Tours14 e dell’analisi dell’usus scribendi e pubblicata da W. Levison nei
MGH Script. Rer. Mer. VII, Hannoverae 1920. Dell’intero corpus tuttavia sono escluse da questa indagine tre vitae: la
vita Radegundis, in quanto il prologo è incentrato sulle problematiche specifiche, che parlare di una donna – e regina
e suora – comporta15; la vita Germani, che si apre direttamente con beatus igitur Germanus (I 1) ed è probabile che
ciò sia da ascrivere al fatto che il testo si configura come
una sorta di lungo libellus miraculorum – si articola in ben 76
paragrafi –, in cui la parte biografica è ridotta al minimo; la
vita Severini, priva di prologo16.
La realizzazione di una griglia che consente di analizzare sinotticamente i paragrafi introduttivi restituisce delle evidenze e consente alcune riflessioni. Per essere da sempre
considerati come un’accozzaglia di topoi questi exordia si
presentano molto diversi l’uno dall’altro, finanche per quanto riguarda la lunghezza; le tematiche previste ci sono tutte,
ma inegualmente distribuite e non presenti in ciascuno. Si
può subito escludere una meccanica riproposizione del
materiale, che si connoti come un pedissequo ossequio al
genere, perché ciò avrebbe determinato prodotti più omogenei. Il peso del genere letterario, la guida dei suoi confini,
si avvertono paradossalmente più nella stesura vera e propria delle vitae, mentre in questi prologhi, che il poeta ha
deciso di lasciare liberi dal diktat della facilità e dell’immediata comprensione, e che con tutta probabilità erano esclusi dalla lettura, egli si consente di esercitare liberamente il
suo naturale talento, che lo aveva reso tanto famoso e ammirato in Gallia, cioè quello di saper esprimere in maniera elaborata ogni cosa, anche la più semplice (per parafrasare ciò
che dice nella vita Marcelli 3) e di ripetere il medesimo concetto molte volte, sempre in maniera diversa, al punto da
renderlo quasi irriconoscibile17.
Vediamo più da vicino le somiglianze e le ricorrenze18.
294
Vita Albini. Se, come sostiene il Krusch19 per tutta una
serie di motivi interni al testo, questa è la prima vita a essere stata scritta, ciò potrebbe giustificare il prologo più lungo
e particolareggiato, con una più significativa presenza di
motivi, l’unico in cui sono espresse l’attenzione alla veridicità
delle testimonianze e, proprio alla fine, l’importanza che può
avere la divulgazione delle vite ricche di meriti: in tal caso
costituirebbe idealmente il prologo alle vitae tutte di
Venanzio20. Anche l’ordine degli elementi sembrerebbe testimoniare in tale direzione: alla dedica, al racconto dell’incontro con Domiziano, succeduto ad Albino come vescovo di
Angers21, alla sua proposta a Fortunato segue una vera e
propria definizione di quello che deve essere lo scopo di
una vita agiografica: ad aedificationem plebis. Lo scritto
dovrà promuovere il culto del santo e spingere il popolo a
migliorare i propri costumi (1)22. Il valore della scrittura come
salvezza dall’oblio è ribadito23(2) insieme all’urgenza dell’opera e numerose locuzioni sparse nel paragrafo seguente,
secondo il vezzo di Venanzio di dire più volte la stessa cosa
in maniera rigorosamente diversa, garantiscono al lettore la
validità della testimonianza: iuxta fidem, indubitabiliter, per
veritatis indaginem, sine ambiguitate, suo testimonio, dubitare non liceat. L’attendibilità delle notizie del resto si fonda
sull’autorità della fonte, Domiziano stesso, e sul racconto di
persone affidabili. Un inviato del vescovo, suo discepolo,
esorta Venanzio a dedicarsi subito all’opera e a mettere per
iscritto senza esitazione ciò che lui poteva raccontargli sul
personaggio da rappresentare (3-4). A questo punto il
discorso si dispiega con lodi al narratore e al committente,
legati dal rapporto discepolo/maestro (5), per arrivare al
punto di forza del proemio, opportunamente collocato al
centro, la dichiarazione di inadeguatezza, in cui più e
meglio il poeta lascia che si sbrigli l’esuberante cascata di
eloquenza, coltivata alla scuola retorica di Ravenna. Va
detto, infatti, che questa funzione, presente peraltro in tutte
e quattro le vitae, è anche quella a cui è dedicato più spazio. L’adfirmatio modestiae, all’interno della più ampia figura
retorica della captatio benevolentiae, è destinata, probabilmente ogni qualvolta si presenti all’interno di un esordio, alla
sorte singolare di essere contraddetta nel momento stesso
in cui è formulata o, per meglio dire, dal modo stesso. È nei
prologhi, infatti, che gli scrittori si dichiarano incapaci di
attendere l’opus che stanno per cominciare, è nei prologhi
che fanno confluire tutte le loro competenze e capacità
espressive per colpire il lettore. L’effetto prodotto, di forte
295
antitesi tra significante e significato, è esasperato nel caso
di Venanzio, in cui chi legge è colpito e travolto dall’incalzante profluvio di parole, raffinatamente intessute allo scopo
di manifestare la sua incapacità e limitatezza nella scrittura.
Il singolare esito è sortito dalla contrapposizione tra le prerogative indispensabili a chi voglia portare a termine questo
compito, articolate in un’accumulazione di locuzioni simili
(exertis ingenio, facundis eloquio, devotis officio, probatis
stilo), seguita da una brusca variatio (qui sunt sensu divites,
linguae rota torrentes, famulatu celeres, carmine coruscantes) e la minuziosa descrizione delle irreparabili manchevolezze del poeta (ad scribendi seriem nec naturam profluum
nec litteratura facundum nec ipse usquequaque usus reddit
expeditum … pigri relatoris impar lingua … nube sermonis).
Nei paragrafi 6-9, insomma, Venanzio non perde occasione
per sottolineare l’exiguitas (6)24, la sterilitas (7), la rusticitas
(8), la mediocritas (9) che connotano il suo stile25; merita di
essere citata l’iperbole con cui afferma che l’eloquenza di
Domiziano è superiore persino a quella di Cicerone, retore
per eccellenza, e a quella di Cesare, con un riferimento a
Quintiliano, inst. 10, 1, 11426 (6); egli sceglie tuttavia di cedere per obbedienza (per oboedientiam, me oboedire)27, con
lo scopo che sia approvato l’affectum, se pure darà fastidio
l’eloquium, e che in hoc opere ad aures populi minus aliquid
intellegibile proferatur (8). Quest’affermazione, incastonata
in tanta magniloquenza, è di grande importanza. Venanzio
vuole essere compreso e adopera due parole-chiave, la cui
importanza non può essere sottovalutata: aures populi. Il
dibattito sulla destinazione finale di queste vitae dovrebbe
trovare risposta in questo luogo: Venanzio si accinge a creare un prodotto indirizzato non tanto alla lettura di pochi
quanto all’ascolto di molti, del populus, della plebs, termini
che, in ogni loro accezione, fanno comunque riferimento ad
un numero elevato di persone: le vitae erano lette davanti a
un pubblico nell’anniversario del dies natalis del santo e era
sempre più diffusa la tendenza a introdurre queste letture
nel servizio divino in occasione di una celebrazione liturgica28. Se tutto questo è vero, una luce diversa si riverbera sull’insistito elenco di prerogative appena citate, atte a definire
i limiti della sua scrittura, in quanto solo la pratica di uno stile
humilis avrebbe consentito di ottenere una consistente diffusione. E, per avvalorare quanto ha detto, Venanzio invoca
Dio, che lo assisterà nell’impresa, come testimone della sua
volontà di obbedienza. Il paragrafo 10, presentato come una
massima che faccia da tramite all’inizio vero e proprio, con296
ferma questa ipotesi in quanto contiene e ribadisce il concetto appena espresso, aggiungendo però un elemento fondamentale, l’importanza della divulgazione appunto (ad
quod propalandum …), permessa soltanto dalla diffusione
voce populorum della vita di uomini religiosi.
Si tratta in conclusione di un vero e proprio progetto di
politica culturale, che teorizza la propalazione di contenuti
fondamentali per la formazione dei fedeli – gli exempla delle
vitae dei santi – e la rende possibile attraverso mezzi
espressivi adeguati. Venanzio, sostenendo di non essere
adatto al compito per l’angustia di una preparazione culturale poco profonda, rientra senz’altro nel solco della tradizione che convenzionalmente fa confluire quest’affermazione nel Prologo di un’opera, ma nel contempo intuisce che
solo la pratica delle prerogative che si è tanto rammaricato
di possedere permetterà ai suoi testi di raggiungere un pubblico più numeroso.
Vita Hilarii. Nel primo paragrafo di questo Prologo sono
esaltate le doti del committente, il vescovo Pascenzio29, ed è
ribadito il fine per cui le vitae sono scritte, già presente nell’incipit della vita Albini: ad aedificationem plebis (2)30.
Segue l’esplicitazione della committenza e un approfondimento del rapporto molto stretto che lega Ilario al vescovo,
allevato sin dall’infanzia nella sua famiglia. In queste prime
due vitae Venanzio accentua il ruolo dei committenti: sia
Domiziano che Pascenzio sono determinati a ottenere un
risultato, vogliono presentarsi ai fedeli come gli eredi diretti
di predecessori gloriosi, intendono adoperare questi racconti nelle cerimonie liturgiche in occasione della festività
del santo e riunire l’intera comunità cittadina31.
La consueta dichiarazione di inadeguatezza, che comincia subito dopo (3-4), è giocata sulla contrapposizione con
le riconosciute capacità di scrittore di cui Ilario aveva dato
prova (brevitatem / immensitatem), aggravata dal rifiuto di
Girolamo ad attendere l’opera, nonostante fosse dotato di
torrens eloquium (3). Il concetto è ripreso e approfondito
con le immagini dell’acqua (4), cui Venanzio ricorre di frequente parlando di eloquenza32, con l’antitesi tra i suoi siccos cursus e gli ingentia flumina di Ilario e Girolamo, uniti
nell’encomio comune e il poeta conclude che solo l’eloquio
fiorito di Ambrogio avrebbe potuto assolvere il compito33.
Un appello alla brevità è implicito nell’esortazione a evitare il fastidium (5). Questo concetto, che parte da
Quintiliano, inst. 5, 14, 3034, è ricorrente nei prologhi venan297
ziani: l’autore deve selezionare, scegliere pauca de plurimis,
affinché l’abbondanza di notizie e particolari non rischi di
annoiare il lettore. Alla fine dell’opera, nel penultimo paragrafo, Venanzio ritorna a parlare dei suoi limiti, che non gli
hanno consentito di narrare tutte le imprese del santo e,
facendo riferimento al tentativo espresso all’inizio di non
infastidire il lettore con un racconto troppo lungo (5), chiede
perdono per aver trascurato molte cose35. La ripresa di
tematiche di carattere introduttivo al di fuori del prologo
avviene probabilmente al traino del lungo elenco di doti del
santo, una buona parte delle quali riguarda quelle stesse
capacità di oratore e scrittore, di studioso e di intellettuale,
che potrebbero aver indotto Venanzio al confronto (51)36.
Dopo questo monito alla brevità, egli accetta il compito per
devozione e dedica a Pascenzio l’oboedientiam. Sempre in
questo paragrafo c’è un riferimento all’auditor, già implicitamente evocato dalle parole del paragrafo 2 quatinus dum
sui gregis auribus vox quodam modo et vita pastoris antiquissimi resonaret.
Si coglie in questa vita un elemento di assoluta novità: il
rapporto dell’autore con la materia è puramente formale, letterario, a causa del lungo lasso di tempo passato dalla
morte di Ilario. Se già precedentemente erano state compilate vitae da scrittori che non avevano conosciuto personalmente l’eroe della narrazione, tuttavia gli autori rielaboravano ciò che avevano sentito dire o che avevano letto, in quanto appartenevano pur sempre alla ristretta cerchia dei protagonisti. Nella metà del VI secolo in Gallia è uno scrittore
straniero che ha il compito di scrivere la vita di Ilario37 e
Venanzio in questo caso ricava i dati biografici soprattutto
dai Chronica di Sulpicio Severo.
Vita Paterni. Nel Prologo di questa vita38, aperta, come
tutte, dalla dedica, la committenza dell’abate Marziano,
amico del defunto (3), è preceduta dall’affermazione dell’importanza della memoria per contrastare la dimenticanza
(2). Nel paragrafo 4, in un solo periodo molto complesso, c’è
la descrizione dello status attuale del santo, una condizione
dove sono definitivamente neutralizzate mors e vis; si tratta
di una tematica non presente altrove, che ribadisce un fondamento della religione cristiana secondo cui la vera vita,
quella spirituale, si realizza solo dopo la morte fisica. È un
caso questo in cui la figura etimologica mors mortuum sottolinea felicemente l’antitesi tra i due concetti.
Il topos della inadeguatezza è giocato qui sulla contrap298
posizione tra volontà e capacità (velle … posse, voluntas …
facultas), con la determinazione a far prevalere la prima.
All’accettazione del compito per obbedienza (ad oboediendum, causa oboedientiae), si aggiunge il concetto di amore
(karitas, amor), che, quando mensuram non habet, consente di superare i propri limiti (5-6)39. Nella conclusione del più
breve dei quattro prologhi è ribadita l’importanza della testimonianza orale dei miracoli del santo soprattutto nei confronti dell’extrinsecus advena, per il quale non è necessaria
la scrittura (7). Il periodo finale si apre con un tamen dal
forte valore avversativo: infatti per il popolo, il grex devotus,
cui Venanzio si rivolge, è di fondamentale importanza potersi rigenerare ogniqualvolta si ascolti il racconto dei miracoli
compiuti nell’arco di una vita santa (8). Questo è dunque il
compito cui il poeta non può sottrarsi, cui la sua volontà
deve obbedire, quello cioè di scrivere, quale che sia la sua
capacità, perché la sua opera possa essere letta e quindi
ascoltata da molti e il grex devotus corroboratur; questo
periodo finale è molto importante per definire meglio l’ambito di diffusione delle vitae: il grex devotus è l’assemblea dei
fedeli, che si fortifica nell’ascolto; il verbo recreo suggerisce
un valore sacramentale e una funzione liturgica, il termine
auditu è un inequivocabile riferimento, più e prima che alla
lettura diretta, all’ascolto della vita. È possibile così ricostruire la tipologia dei destinatari: persone cioè cui doveva essere certamente più consono ascoltare che leggere e a cui era
necessario rivolgersi in modo semplice e chiaro per poter
essere compresi.
Vita Marcelli40. Se un agiografo, come si è già detto, non
è tenuto a conoscere direttamente le notizie a proposito del
santo di cui scrive, è evidente che non gioca più alcun ruolo
determinante la vicinanza cronologica41. Il vescovo
Germano di Parigi indusse Venanzio Fortunato a comporre
la vita di Marcello, un suo predecessore vissuto nella prima
metà del V secolo. Come nella vita Albini, Venanzio premette un ampio prologo, che costituisce circa un quarto dell’intera vita. In esso una parte consistente è costituita dal topos
dell’inadeguatezza, che Venanzio dilata in maniera significativa. Dopo la dedica, infatti, il poeta, affrontando il tema
da lontano con un procedimento di amplificatio retorica, si
dilunga a definire la differenza fra docti e indocti, le cui
capacità sono descritte in positivo e in negativo – sia cioè
che ce l’abbiano o che ne siano privi – attraverso una congerie di immagini a lui care, di aridità e sterilità per gli uni,
299
acque che scorrono in abbondanza per gli altri, che si
dispiegano secondo una struttura complessa e intricata:
anche una materia sterilis e un siccum thema possono essere trattati con abbondanza (copiosius) da coloro che possiedono sui fluminis ubertatem, fontes eloquentiae e carmen
inriguum; mentre l’ariditas angustae intellegentiae e la mancanza di affluentia inundantis eloquii con cui mitigare suae
siccitatis inopiam non consentono di esprimersi con facilità
(2-3)42. Queste due categorie vengono ulteriormente connotate da una metafora attinta dal mondo militare, che lo aiuta
a ridefinire l’assunto già accennato: il guerriero esperto
cerca di ottenere delle spoglie, il debole teme di diventare
preda, così come il forte desidera trovare ciò che l’incapace
teme anche solo di udire (4). Ciò gli consente il passaggio
logico alla vera e propria dichiarazione di inadeguatezza,
espressa qui con la meraviglia che gli sia stato affidato un
compito di tale portata, dal momento che egli rientra nella
categoria degli indocti: è un esempio di come un’affermazione topica si lasci volgere nel suo preciso contrario attraverso mezzi stilistici. Il discorso è arricchito da uno stringente confronto con il santo, condotto sul filo della contrapposizione, accentuata dalla simmetria delle frasi (ego … ille,
ego … ille), con un evidente, significativo squilibrio: ai limiti
di Venanzio, prettamente tecnici e riferiti alla scrittura, fanno
da pendant le doti di Marcello, squisitamente spirituali43.
Subentra subito dopo un elemento nuovo, su cui il poeta si
sofferma: la sua incapacità infatti è enfatizzata dal confronto con l’eloquenza gallica (5)44. Nei paragrafi successivi
descrive l’estrema scioltezza di eloquio che caratterizza gli
autori della Gallia e poi imposta un paragone che vede l’italica patavinitas45 accostata a una vilis saliunca tra rose e
gigli (6-7). Con questa affermazione Venanzio porta al più
alto livello di rarefazione il topos, dilata all’inverosimile la climax che ha costruito fin qui. In un periodo in cui riecheggia
esplicitamente Girolamo46 – Gallicano cothurno – dopo un
riferimento a Quintiliano, nella manifestazione cioè della
massima competenza di scrittore e cultura di intellettuale, la
domanda che pone al paragrafo 7 (cur …) appare ben più
che retorica e lo rivela assolutamente maestro di questa
forma di scrittura. Non solo, ma da un’analisi più ravvicinata
dei luoghi di riferimento e da un approccio intertestuale
emerge la possibilità di una lettura diversa: infatti se è innegabile constatare in Girolamo una sfumatura negativa dell’espressione Gallicano cothurno, nonostante siano ben noti
il rispetto e l’ammirazione che nutre nei confronti di Ilario, di
300
contro in Quintiliano47 l’italica patavinitas era considerata da
Pollione come una prerogativa di Livio, che altrove il retore
definisce mirae facundiae vir, non lasciando dubbio sulla
valenza positiva del termine. I lettori che avessero riconosciuto i testi di riferimento sarebbero stati in grado di cogliere l’allusione e quindi il senso autentico nascosto nella frase.
Del resto affermare negando, in un gioco di specchi e di
apparenze, è ciò che egli fa continuamente in questi
Prologhi e che probabilmente lo diverte: dire che non è
capace, ma dirlo nella maniera più complicata e retoricamente costruita e diversa ogni volta. Dopo una domanda
che non aspetta risposta si torna a un tema più concreto, la
contrapposizione tra memoria e oblivio – e la necessità dell’una per contrastare l’altra – e l’importanza della scrittura
per arginare il vento della dimenticanza; scrivere una vita a
grande distanza di tempo comporta inevitabilmente che non
si conosce molto altro del santo al di là della ‘sopravvivenza’ nel miracolo, che diventa l’argomento principale della
vita stessa (8-9)48. Nei tre paragrafi successivi (10-12), con
un’accumulatio di immagini che si snodano in un profluvio di
quell’eloquenza di cui si è appena dichiarato privo, accetta
per obbedienza (oboedire me doceas) e amore (devotio,
plenus affectus) il compito che gli è stato imposto. Devotio è
la parola-chiave che consente lo scioglimento finale delle
esitazioni e dei dubbi che Venanzio ha diffusamente esposto; nonostante le difficoltà non si arriverà mai al rifiuto esplicito di una committenza e lo scrittore chiude le sue riflessioni con un chiaro monito Sed differre non licet quod pater
iniungit …49.
In conclusione, come appare ancor più evidente dalla
disposizione sinottica dei testi, quattro sono i motivi presenti in ciascuna delle praefationes: la dedica, la committenza,
la dichiarazione di inadeguatezza di fronte a un’affermazione esplicita della difficoltà dell’impresa, l’accettazione del
compito per obbedienza. Questi elementi, peraltro, sono a
loro volta soggetti a variatio: simili nel contenuto, hanno lunghezza non uguale, sono collocati in ordine diverso e con
varie connotazioni, quasi a soffocare l’identità all’interno di
una molteplicità di motivi altri, tutti però dentro i solchi del
genere al punto che, messi insieme, costituiscono una
summa pressoché esaustiva delle tematiche pertinenti e
restituiscono ai prologhi, evidentemente non eseguiti a
calco, vita autonoma.
301
Note
(1) Alcuni recenti studi rivalutano l’importanza degli incipit, individuandone il ruolo strategico decisivo e tentandone talvolta una sistemazione: cfr. La
fine dell’inizio. Una riflessione e quattro studi su incipit ed explicit nella letteratura latina, a cura di L. Spina, Napoli 1999 e la bibliografia ivi contenuta; F.
Felgentreu, Claudians Praefationes. Bedingungen, Beschreibungen und
Wirkungen einer poetischen Kleinform, Stuttgart-Leipzig 1999, pp. 1-57, che
in un’ampia introduzione ridefinisce gli aspetti teoretici della praefatio, analizza i sinonimi (prooemium, exordium, prologus, praelocutio), avanza l’ipotesi
di adoperare il concetto di genere letterario anche per esiti molto diversi. Cfr.
anche alcune pagine dell’Introduzione – 9-17 – del volume di M. Rizzi,
Ideologia e retorica negli ‘exordia’ apologetici. Il problema dell’’altro’, Milano
1993, un lucido saggio di I. Calvino, Cominciare e finire, in Saggi 1945-85,
vol. I, Milano 1995, pp. 743-753 e una lunga dissertazione in due parti di G.
Simon, Untersuchungen zur Topik der Widmungsbriefe mittelalterlicher
Geschichtsschreiber bis zum Ende des 12. Jahrhunderts 1 e 2, “Archiv für
Diplomatik” 4 (1958), pp. 52-119 e 5/6 (1959/60), pp. 73-153, che, all’interno
di uno studio sui prologhi delle opere storiografiche mediolatine, prende in
esame in maniera molto dettagliata le possibili tipologie di esordio, catalogandole secondo la forma e secondo il contenuto.
(2) Nell’opera non recente, ma per molti versi ancora attuale, di E.R.
Curtius, Letteratura europea e Medio Evo Latino, Berna 1948, trad. it. di R.
Antonelli, Firenze 1992, un’attenzione particolare è dedicata alle tematiche
dei prologhi nella loro sopravvivenza dall’ambito classico al cristiano: la
modestia affettata, l’eloquio insufficiente e rozzo, la preghiera o addirittura il
comando di un amico o un potente, il proposito di risparmiare al lettore il fastidium (pp. 97-99, 170). Cfr. anche R. Grégoire, Manuale di agiologia.
Introduzione alla letteratura agiografica, Fabriano 1987, pp. 219-221.
(3) G. Polara, Precettistica retorica e tecnica poetica nei proemi della
poesia latina, in Retorica e poetica, Quaderni del Circolo FilologicoLinguistico Padovano 10, Padova 1979, pp. 95-113 ribadisce che i proemi
poetici si uniformano alla precettistica stabilita per gli esordi prosastici e
sostiene che, secondo la teoria dell’exordium presente nella Rhetorica ad
Herennium, in Cicerone, in Quintiliano era necessario rendere l’ascoltatore
benevolum, docilem, attentum attraverso un prooemium premesso proprio a
questo scopo.
(4) Questa efficace enunciazione è tratta da G. Luongo, Il prologo
dell’Encomio di sant’Acacio di Melitene del cod. Patmiaco 254, in Mathesis e
Philia. Studi in onore di M. Gigante, a cura di S. Cerasuolo, Napoli 1995, pp.
293-314, il quale, nelle prime pagine del lavoro, dedicate alla codificazione
del prologo in questo tipo di testi, riscatta, per così dire, i topoi dalla valutazione pesantemente negativa che il più delle volte a essi si accompagna: la
loro ripetitività e schematicità li rende certamente inutilizzabili per ricostruire
la realtà storica, ma, oltre che mere riprese retoriche, essi sono retaggio della
tradizione culturale e riflesso della mentalità comune a scrittori e lettori.
(5) Nell’epistola dedicatoria a Gregorio di Tours, che precede il testo, il
poeta dice di aver preso come base del suo racconto la Vita (nei primi due
libri) e i Dialogi (negli altri due) di Sulpicio Severo, ma non cita Paolino di
Périgueux, che aveva versificato gli scritti sulpiciani in sei libri. G. Strunk,
Kunst und Glaube in der lateinischen Heiligenlegende. Zu ihrem
Selbstverständnis in den Prologen, München 1970, pp. 43-47 rimarca la differenza con la scrittura di Sulpicio, modello esplicito di Fortunato per la vita
Martini, indirizzata a un pubblico colto, in grado di leggere il testo e di apprezzarne le qualità letterarie.
(6) Cfr. A.V. Nazzaro, L’agiografia martiniana di Sulpicio Severo e le parafrasi epiche di Paolino di Périgueux e Venanzio Fortunato, in Mutatio Rerum.
Letteratura Filosofia Scienza tra tardo antico e altomedioevo, Atti del
Convegno di Studi, Napoli, 25-26 novembre 1996, 1997, pp. 301-346 e La
parafrasi agiografica nella tarda antichità, in Scrivere di santi, Atti del II
302
Convegno di studio dell’Ass. ital. per lo studio della santità, dei culti e dell’agiografia, Napoli 22-25 ottobre 1996, 1997, pp. 69-106.
(7) È giusto quanto sostiene S. Pricoco, Gli scritti agiografici in prosa di
Venanzio Fortunato, in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, Atti del
Convegno Internazionale di Studi, Valdobbiadene 17 maggio 1990 – Treviso
18-19 maggio 1990, p. 177, il quale, nel diverso sviluppo dell’elogio di Ilario
nella vita Martini e nel prologo alla vita Hilarii, individua un segnale “del diverso ufficio che Fortunato commette all’uno e all’altro genere di scritti, al poema
celebrativo – letteratura “alta”, destinata a un pubblico colto, che apprezza il
metro, il richiamo erudito, l’accumulazione dei vocaboli e delle immagini – e
al racconto agiografico in prosa”.
(8) La possibilità che le vitae fossero lette, ampiamente credibile anche
grazie ai numerosi riscontri interni (vita Hil. 2 … dum sui gregis auribus vox
quodam modo et vita pastoris antiquissimi resonaret …; 5 Sed ne protracta
pagina fastidium potius generet quam provocet auditorem; vita Albin. 8 ad
aures populi minus aliquid intellegibile proferatur; vita Pat. 8 … grex devotus
… praemissarum virtutum ipso recreatur auditu) è del tutto improbabile che
possa riguardare anche i prologhi, la cui struttura compositiva di estrema
complessità è tale da rendere talvolta ardua la comprensione anche al lettore e del tutto impossibile dunque all’ascoltatore. Cfr. S. Pricoco, Gli scritti
agiografici, pp. 177-178 e ancora R. Collins, Observations on the Form,
Language and Public of the Prose Biographies of Venantius Fortunatus in the
Hagiography of Merovingian Gaul, in H.B. Clarke - M. Brennan edd.,
Columbanus and Merovingian Monasticism, Oxford 1981, pp. 105-131.
(9) G. Strunk, Kunst und Glaube, pp. 43-47 individua il coesistere nel
poeta di due tradizioni ugualmente pressanti, la modestia affettata e l’intransigente umiltà cristiana, che non arrivano a fondersi, ma lasciano inalterate le
tracce di un conflitto tra le inclinazioni estetiche e le pratiche religiose. Molte
volte il poeta disprezza se stesso e la sua musa, riferendosi alla sua umiltà e
pochezza o alla sgradevolezza della sua voce: praef. 6 me humilem; 5, 5, 139
adde quod exiguum me portitor inpulit instans; 5, 15, 6 Fortunati humilis te,
pater, orat apex; 8, 15, 11 me Fortunatum humilem commendo patrono; 9, 7,
14 voce qui rauca modo vix susurro?; 10, 3, 1 ad linguae nostrae rubiginosam
facundiam.
(10) G. Genette, Soglie, trad. it. di C.M. Cederna, Torino 1989, pp.191192 coglie la differenza tra il destinatario ultimo del testo e una sorta di destinatario-intermediario cui è rivolta la prefazione.
(11) Cfr. E. Giannarelli, La biografia femminile: temi e problemi, in La
donna nel pensiero cristiano antico, a cura di U. Mattioli, Genova 1992, p.
231.
(12) G. Genette, Soglie, pp. 195-197 e 206-207 sostiene che il prologo,
come la prefazione, il proemio e quant’altro preceda il testo vero e proprio,
assolve la funzione primaria di trattenere il lettore attraverso una tecnica tipicamente retorica di persuasione: si tratta di un processo di valorizzazione, attraverso la dissociazione tra argomento (sempre lodevole e la cui importanza può
essere ribadita dall’amplificatio) e suo trattamento (sempre indegno). Cfr. A. del
Lungo, Pour une poétique de l’incipit, “Poétique” 94, (1993), pp. 131-151.
(13) Un atteggiamento molto simile nei proemi di alcuni storiografi bizantini riscontra R. Maisano, Il problema della forma letteraria nei proemi storiografici bizantini, “Byzantinische Zeitschrift” 78, (1985), pp. 333-334. E.R.
Curtius, Letteratura europea, pp. 457-458 individua per la dichiarazione di
incapacità la dipendenza da un modello pagano romano e riporta per questo
genere di affermazioni un gran numero di locuzioni stereotipate.
(14) Greg. Tur., glor conf. 44 … vitam huius … a Fortunato presbytero
conscriptam cognovimus (MGH Script. Rer. Meroving. 1, 2, p. 325)
(15) Cfr. E. Giannarelli, La biografia femminile, pp. 223-245. Quest’ultima
vita, inoltre, si configura diversamente anche per la mancanza di un committente, dal momento che Venanzio, a causa del suo intenso legame con la
santa, decise autonomamente, dopo la sua morte, di scrivere l’opera, come
conferma l’assenza di qualunque dedica. Non sarà preso in considerazione
neanche il Liber de virtutibus s. Hilarii, che pure si apre con un’ampia pro-
303
fessione di modestia, parte integrante delle praefationes prese in esame, in
quanto l’opera trova spazio in un genere letterario diverso, anche se contiguo.
Nelle vite dei santi, infatti, hanno ampio spazio i racconti di miracoli, ma queste narrazioni, da sole, costituiscono un genere autonomo, molto fertile per
altro, che ne comprende tutte le tipologie.
(16) Per correttezza metodologica bisogna ricordare che i prologhi – le
prefazioni, le dediche – sono per definizione parti a rischio nella tradizione
manoscritta di un testo. In linea di principio quindi non si può affermare con
certezza che queste vitae siano state composte prive di prologhi, anche se
resta questa comunque l’ipotesi più probabile.
(17) Va ricordato, anche se non particolarmente determinante ai fini di
questa indagine, che solo nella vita Paterni, tra quelle prese in esame, prevale il modello ascetico-monastico, mentre negli altri casi si afferma un exemplum di santità vescovile.
(18) I testi di riferimento sono quelli editi da B. Krusch, MGH AA. aa. 4,
2, Berolini 1885, pp. 1-7 (vita Hilarii), pp. 27-33 (vita Albini), pp. 33-37 (vita
Paterni), pp. 49-54 (vita Marcelli). La vita Albini è riportata per prima sia in
questo lavoro che nello schema, in quanto il prologo che la apre è più lungo
e dettagliato degli altri e più ricco di tematiche, mentre per le altre vitae è
seguito l’ordine scelto dal Krusch.
(19) Cfr. Prooemium, p. XIII dove lo studioso perviene a questa conclusione sulla base di un periodo contenuto in vita Albini 6 quem ad scribendi
seriem nec natura profluum nec litteratura facundum nec ipse usquequaque
usus reddit expeditum; negli stessi anni una motivazione simile adduce A.
Ebert, Histoire Générale de la Littérature du Moyen Age en Occident, Paris
1883, pp. 576-577.
(20) Il prof. Y.-M. Duval, nella relazione presentata a questo stesso convegno La vie d’Hilaire, ha sostenuto la priorità della vita Hilarii, se pure ha
riconosciuto che le due vitae sono cronologicamente molto vicine. Tale ipotesi tuttavia non modifica l’assunto di questo lavoro.
(21) Su Domiziano esiste una documentazione per il periodo che va dal
566 al 569; il compito di redigere la vita deve essere stato affidato quindi a
Venanzio nei primi anni del suo soggiorno in Gallia, forse quando il poeta
incontrò il vescovo che lo condusse alla celebrazione della festa in onore di
Albino (carm. 11, 25, 9-10 hinc sacer antistes rapuit me Domitianus, / ad
sancti Albini gaudia festa trahens); cfr. R. Collins, Observations on the Form,
p. 108, n. 47 e W. Berschin, Biographie und Epochenstil im lateinischen
Mittelalter, II, Stuttgart 1988, p. 279.
(22) G. Simon, Untersuchungen zur Topik, 1958, pp. 62-63 ritiene che nel
paragrafo 1 sia contenuto poco più di un occasionale incitamento, interpretato da Venanzio come una sicura committenza Memini, vir apostolice, …
etiam de sacratissimo viro Albino vestro antestite vos fecisse tenuiter mentionem, ut eius vita … fixa conderetur in chartis. In realtà l’accenno all’urgenza
– inconperendinatim – contraddice la tesi sostenuta dalla studiosa di una
committenza come motivo secondario, se non addirittura fittizio, restituendole la sua importanza.
(23) Sottrarre all’oblio gesta straordinarie è considerato da G. Penco,
Significato e funzione dei prologhi nell’agiografia benedettina, “Aevum” 40,
(1966), p. 472 un elemento ricorrente nei prologhi agiografici.
(24) Il paragrafo 6 è preso in considerazione da G. Simon,
Untersuchungen zur Topik, 1958, p. 116 per sottolineare la consapevolezza
dell’autore hoc debere committi exertis ingenio, facundis eloquio, devotis officio…; nelle espressioni che seguono l’A. individua un’affermazione che attraverso la sua analisi risulta essere ricorrente nei prologhi: un tema importante
richiede un autore di uguale livello e uno scrittore incapace può offuscare lo
splendore di un argomento importante con una narrazione maldestra quia
radiantem vitam si pigri relatoris impar lingua praedicat obsoletat et quod
inluminare debuit hoc nube sermone abscondit (1959/1960, pp. 79-80).
L’espressione exertis ingenio, facundis eloquio, devotis officio, probatis stilo
è emblematica del tipo di sonorità che Venanzio perseguiva, in questo caso
con il gioco delle rime intrecciate in un isocolon.
304
(25) La contrapposizione tra l’altezza dell’opera e la limitatezza del suo
ingegno è espressa da suggestive metafore: quella della luce, per indicare il
pericolo che una vita splendente narrata da una lingua inadeguata sia coperta dall’oscurità del discorso; quella della sterilità dell’orzo in confronto al frumento.
(26) Quintiliano, inst. 10, 1, 114 vero Caesar si foro tantum vacasset, non
alius ex nostris contra Ciceronem nominaretur.
(27) G. Simon, Untersuchungen zur Topik, 1958, p. 99 collega la speranza di indulgenza alla professione di obbedienza; lo stesso concetto è espresso in vita Hil. 5 etsi cum mea verecundia vobis quidem oboedientiam et illi
impendo de quo non digne loquor iniuriam, sed concedi veniam credimus
quod devotione peccamus; qui è anche ribadita l’insufficiente capacità dell’autore di fronte alla statura di Ilario.
(28) Cfr. R. Collins, Observations on the Form, pp. 107-108 parla di un
pubblico di audientes, termine che designa un gruppo non ristretto, che si
contrappongono ai legentes di Sulpicio Severo; cfr. n. 8. A.V. Nazzaro,
L’ideale del popolo di Dio nei Carmi di Venanzio Fortunato, in Sacerdozio battesimale e formazione teologica, Convegno di studio. Fac. Lett. crist. e class.,
Roma 14-16 marzo 1991, 1992, pp. 133-162 individua nell’opera tutta di
Venanzio un’alta ricorrenza dei termini populus e plebs nell’accezione di
‘popolo dei fedeli’.
(29) La dedica a Pascenzio consente di collocare l’opera tra l’arrivo di
Fortunato in Gallia e la morte di Sigiberto (575), perché il vescovo morì quando ancora il sovrano era vivo.
(30) Pur nella determinazione di non affrontare una per una le molteplici
figure retoriche e arditezze stilistiche di cui Venanzio infioretta la sua scrittura, non si può non soffermarsi con intento esemplificativo su una locuzione
come exercitaris intentus et intendis exertus, dove alla simmetria del verbo
che precede il participio fa da pendant la struttura chiastica di una figura etimologica vera e propria – intentus / intendis – e di una paronomasia – exercitaris / exertus.
(31) Cfr. R. Collins, Observations on the Form, pp. 107-109.
(32) Nella vita Martini, che risale più o meno agli stessi anni, Venanzio
insiste nel confronto tra l’eloquenza di Ilario e l’abbondanza delle acque di un
fiume: 1, 128-133 largior Eridano, Rhodano torrentior amplo, / uberior Nilo,
generoso sparsior Histro, cordis inundantis docilis ructare fluenta, / fontibus
ingenii sitientia pectora rorans. Girolamo per primo aveva definito Ilario latinae
eloquentiae Rhodanus (in Gal. 2 praef., PL 26, p. 355).
(33) Cfr. V. Messana, Note sulla Vita sancti Hilarii di Venanzio Fortunato,
in L’agiografia latina nei secoli IV-VII, XII Incontro di studiosi dell’antichità cristiana, “Augustinianum” 24 (1984), pp. 201-211. G. Simon, Untersuchungen
zur Topik, 1958, pp. 78-79, cita una frase del paragrafo 4 cum de illo etiam
doctissimi viri quicquid dicere potuerunt, minus est quam meretur tra molti
altri esempi in cui l’esortazione alla lode è temperata dalla consapevolezza
che un tema elevato possa essere trattato solo da una Tulliana facundia. Più
avanti, nello stesso paragrafo, è espresso il concetto che non basta solo l’eloquenza per scrivere vite di santi Aequabilius fuerat haec beato Ambrosio de
fratre scribenda mandare, cui verba virtutibus coniuncta florebant (p. 95).
(34) Quintiliano, inst. 5, 14, 30 Locuples et speciosa <et imperiosa> vult
esse eloquentia; quorum nihil consequetur si … ex copia satietatem et ex
similitudine fastidium tulerit. Cfr. G. Penco, Significato e funzione, pp. 474-475
e E.R. Curtius, Letteratura europea, p. 180 che fa rientrare la dichiarazione
dell’autore di trattare solo pochi argomenti, dei tanti che sarebbero da narrare (pauca e multis) tra i topoi dell’inesprimibile, cioè dell’accentuazione, da
parte dell’autore, della personale incapacità di parlare degnamente dell’argomento. Lo stesso concetto è espresso nel paragrafo conclusivo della vita
Radegundis di Venanzio 91 Sed de beatae virtutibus sufficiat exiguitas, ne
fastidiatur ubertas, nec reputetur brevissimum, ubi de paucis agnoscitur in
miraculis amplitudo … Quest’osservazione è in apparente contrasto con
quanto detto al paragrafo 75 della stessa vita Si propter brevitatem multa
praetermittimus, plus peccamus: in realtà compito dello scrittore è realizzare
305
un equilibrio tra queste due esigenze entrambe forti. Ancora più illuminante è
liber de virtutibus S. Hil. 37 Vellem adhuc insatiatus sacratissimi viri miracula
quasi peculiariter decantare, sed vereor ne unde meam cupio devotionem
ostendere auditoris animum fastidio nascente videar obdurare, dove G.
Simon, Untersuchungen zur Topik, 1959/1960, pp. 87-88, n. 101 vede un’utilizzazione del topos brevitas-fastidium allo scopo di evitare l’ammissione di
non avere più miracoli da raccontare. Subito dopo, infatti, nel paragrafo 38
Venanzio fa seguire una richiesta di perdono a Ilario Da mihi, pie, veniam de
textus huius parvitate … e conclude Sed praesumo plurima de te minus dicere, ut de te legere populum brevitas plus invitet.
(35) vita Hil. 53 Sed mea lingua non sufficit singula de sancto spiritu qui
per eum et operatus est et locutus, sicut illi dignum est, cuncta proferre. Det
mihi pius veniam, quia multa praeterii qui vix pauca conscripsi.
Un’espressione simile compare a 11, 1, 1 ne … prolixitate verbi generetur
fastidium.
(36) vita Hil. 51 Quam fuit in dissertione providus, in tractatu profundus,
per litteraturam eloquens, … in complexionibus multiplex, in resolutione subtilis, … conditi sal ingenii, fons loquendi, thesaurus scientiae.
(37) Cfr. W. Berschin, Biographie, pp. 279-280.
(38) Anche per questa vita non è possibile una datazione precisa:
Paterno di Avranches è certamente vescovo intorno al 556.
(39) Il paragrafo 5 della vita Albini è preso in esame da G. Simon,
Untersuchungen zur Topik, 1968, la quale individua due tematiche ricorrenti
durante tutto il Medioevo: l’ubbidienza volenterosa espressa da libenter, p. 68
e la volontà e l’amore che bastano a garantire approvazione all’opera, anche
se le capacità non sono sufficienti, p. 103.
(40) Nell’assenza di più precise indicazioni cronologiche, l’opera va collocata tra l’arrivo di Fortunato in Gallia – intorno al 567 – e la morte di
Germano il 28 maggio 576. Diversamente dalle altre vitae in buona sostanza
trascurate dagli studiosi, questa di Marcello è conosciuta grazie al saggio di
J. Le Goff, Cultura clericale e tradizioni folkloriche nella civiltà merovingia, in
Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino 1977, pp. 193-207, che
accentua il carattere folklorico; si ricorda anche l’articolo di J.-C. Picard, Il
était une fois un évêque de Paris appelé Marcel, in Haut Moyen Age: culture,
éducation et société. Êtudes offertes à P. Riché, Paris 1990, pp. 79-91.
(41) Cfr. W. Berschin, Biographie, pp. 280-281.
(42) Già nella praefatio della vita Hilarii si sono incontrate metafore simili a queste.
(43) G. Simon, Untersuchungen zur Topik, 1958, pp. 102-103 nota attraverso un’ampia messe di esempi come spesso al topos retorico della modestia corrisponda un panegirico dei destinatari o dei protagonisti degli scritti.
(44) Venanzio adopera il nesso quadratis iuncturis; l’aggettivo rimanda a
Quintiliano, inst. 2, 5, 9 Tum, in ratione eloquendi, quod verbum proprium,
ornatum, sublime, ubi amplificatio laudanda, quae virtus ei contraria, quid
speciose tralatum, quae figura verborum, quae levis et quadrata, virilis tamen
compositio. L’uso di un’espressione che in ambito retorico ha un significato
specifico funziona come un ammiccamento complice al più ridotto pubblico
dei proemi.
(45) È un caso questo in cui l’intertestualità consente di operare una scelta più sicura in ambito filologico: le varie lezioni dei codici e le congetture degli
studiosi riportate in apparato dal Krusch sono da respingere a vantaggio di
patavinitas, termine adoperato da Quintiliano e scelto anche dall’editore. Infatti
la precedente allusione al retore induce a pensare che Venanzio avesse ben
presente la sua opera, quantomeno in questo momento della scrittura.
(46) Così Girolamo parlava del modo di scrivere di Ilario epist. 58, 10
(CSEL 54, p. 539) Sanctus Hilarius Gallicano coturno adtollitur et, cum
Graeciae floribus adornetur, longis interdum periodis involvitur et a lectione
simpliciorum fratrum procul est; la stessa espressione egli adopera in epist.
37, 3 (CSEL 54, p. 288) Est sermo quidem compositus et Gallicano coturno
fluens: sed quid ad interpretem, cuius professio est non, quomodo ipse disertus appareat, sed quomodo eum, qui lecturus est, sic faciat intellegere, quo-
306
modo intellexit ille, qui scripsit? a proposito di Reticio, vescovo di Autun –
sede della più celebre scuola retorica di Gallia – di cui criticava lo stile. Pare
inevitabile dal contesto attribuire un valore negativo all’espressione gallicano
cothurno.
(47) In due luoghi Quintiliano fa cenno alla patavinitas inst. 1, 5, 56 nam,
ut eorum sermone utentem, Vectium Lucilius insectatur, quemadmodum Pollio
reprehendit in Livio patavinitatem, licet omnia Italica pro Romanis habeam e
8, 1, 3 Et in Tito Livio, mirae facundiae viro, putat inesse Pollio Asinius quamdam patavinitatem; quare, si fieri potest, et verba omnia, et vox, huius alumnum urbis oleant, ut oratio romana plane videatur, non civitate donata. Il riferimento a Quintiliano è esplicito ed è un’ulteriore conferma che Venanzio si
rivolge a quanti erano in grado di coglierlo.
(48) Accanto alle consuete e convenzionali giustificazioni per un’ubbidienza esitante – indegnità di fronte a un argomento di rilievo, incapacità,
istruzione mancante – affiorano ogni tanto reali e più fondati motivi, come, in
questo caso, la tradizione incompleta sul tema da trattare; cfr. G. Simon,
Untersuchungen zur Topik, 1958, pp. 66-67. Del resto il racconto agiografico
si evolve senza vera critica delle fonti, in quanto l’autore tende a creare una
stilizzazione dei personaggi più che a ricostruire la loro dimensione storica.
(49) Cfr. G. Simon, Untersuchungen zur Topik, 1958, pp. 66-67 e 102.
307
Vita Albini
(1) Domino Sancto Et
Apostolicis Meritis Reverentissime Praeconando Domno Domitiano Papae Fortunatus Vester.
Vita Sancti Hilarii
Lode
del committente
Religiosi
pectoris
studio
sollicitante
commonitus, quo,
papa
beatissime,
divinis in actibus
sacri conversatione
propositi iugiter exercitaris intentus et
intendis exertus, ut
facile sit perspicuum
ad culturam ecclesiasticae disciplinae
et fuisse te genitum
et esse provectum:
inrefragabiliter veteris dispositionis ac
catholici dogmatis
fundamentum custos
observans
308
Vita Sancti Paterni
Dedica
(1) Domino Sancto Et (1) Domino Sancto Et
Meritis Beatissimo Venerabili Meritis ToPatri Pascentio Pa- toque Sinu Pectoris
pae Fortunatus.
Amplectendo In Christo Patri Martiano
Abbati Fortunatus
Humilis.
Sopravvivenza
grazie al ricordo
(2) Magnae karitatis
profert testimonium
cuius curam in amico
nec mors subtrahit
post
sepulchrum,
nam qui famam amatoris studet post obitum ipsam memoriam fortiter diligit in
defuncto, denique
affectum viventis toto
bibit in pectore,
quem nec sepultum
abstulit oblivio de
sermone.
Vita Sancti Marcelli
(1) Domino Sancto Et
Meritis Obtinentibus
Apostolico Viro In
Christi Caritate Fundato, Meo Lumini
Praeponendo, Domino Et Dulci Patri
Germano Papae Fortunatus.
Differenza tra
docti e indocti
(2) Facundissima inlustrium oratorum ingenia sermonum flore variante distincta
et eloquii vernantibus pampinis obumbrata solent sibi viles
causas sterilemque
materiam quaerere,
ut magna dicendo
de minimis videantur
ostendere sui fluminis ubertatem, quia
habentes intra se
fontes eloquentiae
de ipso sicco themate didicerunt undas
haurire. Unde quidquid illis iniungitur
carmine inriguo copiosius explicatur.
(3) Verum econtra
quicumque angustae intellegentiae
ariditate
torrentur
nec habent affluentiam inundantis eloquii, per quam vel
alios reficere vel
suae siccitatis possint inopiam temperare, tales non solum
aliqua non per se
dicere appetunt, verum etiam si quid eis
iniunctum fuerit per-
Vita Albini
Vita Sancti Hilarii
Vita Sancti Paterni
Vita Sancti Marcelli
horrescunt, quoniam
quantum doctis proloqui tantum indoctis
utile fit tacere. Nam
illi de parvis magna
disserere, isti de
magnis nesciunt vel
parva proferre, et
ideo quod ab aliis
quaeritur ab aliis formidatur. (4) Sic belligerator expertus in
armis damni esse reputat, si non possit
iugiter invenire quod
vincat. Sed sicut fortis requirit unde ducat spolia, sic debilis
metuit, ne ducatur in
praedam: et quod
acer invenire desiderat iners vel audire
formidat.
Memini, vir apostolice, cum ad urbem
quam Christo praesule regitis vestris
praesentandus obtutibus occurrissem,
inter reliqua maturitatis consulta quae
sensus vester torrentis more mihi visus
est inundare etiam
de sacratissimo viro
Albino vestro antestite vos fecisse tenuiter mentionem, ut
eius vita, quae inmarcescibilibus meritis florere probatur
caelestibus inpressa
libellis ad aedificationem plebis humanis
etiam fixa conderetur
in chartis: duplici beneficio populis con-
Committenza e scopo dell’opera
et ad aedificationem (3) Quo voto solliciplebis amantissimae tante, pater veneranveluti bonus instruc- dissime, de beati
tor adiciendo aliquid Paterni opinione tam
culmen fabricae con- celebri iniungere non
tinuare festinans non distulisti a nobis alisine timore divino. qua loquente pagina
(2) Cuius operis promulgari.
amore praeventus eo
usque me dignatus
es perurguere, quo
de actibus sacratissimi viri Hilarii confessoris, qui te ab
ipsis cunabulis ante
sua vestigia quasi
peculiarem vernulam
familiariter enutrivit,
ut impensi muneris
vel verba rependeres, ideo etsi non
plena vel ex parte
complexa perstringerem: quatinus dum
(5) Cuius exempli
gratia cum ipse sterilis scientiae convenienter accuser nec
sit in me aliquid quod
venusti sermonis ornamenta commendent, quid tibi visum
fuerit, pater beatissime atque amantissime, cunctanter admiror, ut de sanctissimi viri Marcelli antestitis vita nullo fine
claudenda et de illa
caelesti
lampade
meae aliquid dignum
committeres scintillae,
309
Vita Albini
Vita Sancti Hilarii
sulitura, dum et in illo
cernerent admiranda
quae colerent et in
se respicerent quod
unusquisque sagaciter emendaret, id est
dum apud unum tot
praedicanda co-gnoscerent, apud se
resecare vitia singuli
non differrent, quatenus tam unica beati
viri relatio medella
publica fieret audientium.
sui gregis auribus
vox quodam modo et
vita pastoris antiquissimi resonaret, et ille
probaret ministerium
et ipse non celares
affectum.
Importanza
della scrittura
per il ricordo
Descrizione
dello stato attuale
del santo
(2) Intellegitis sane
velociter fugientes a
saeculo memoriae
subripi, et si de vita
sanctissimi neglegantur aliqua cito
lapsura litteris alligari, non facile rursus in
animum recipi quod
semel inceperit oblivione temporis invadente subduci.
(4) Qui certe vir apostolicus nec apud vos
oblivione nec apud
nos absens est in virtute, cum magis sacratis actibus nunc
veram vitam possidet,
in qua mors non invenit quod extinguat
nec vis habet ultra
quod noceat, cum
sub pede iusti potius
ipsa subcumbat et
conteratur calce,
quae quondam fuerat
in timore, confitens illa
se supplicem, quia in
gloriam plaudentis respicit quem invasit et
magis ordine converso felicissimo triumpho didicit timere
mors mortuum.
Urgenza dell’opera
e garanzia
di autenticità
(3) Huius rei inpulsor
quidam postmodum
mandata vestrae bea310
Vita Sancti Paterni
Vita Sancti Marcelli
Vita Albini
Vita Sancti Hilarii
Vita Sancti Paterni
Vita Sancti Marcelli
titudinis exequens a
me si quidem annuerem inconperendinatim id fieri flagitavit.
Illud vero adiciens, ut
quae ipse de gestis
sancti viri Albini iuxta
fidem conpererat eo
insinuante indubitabiliter propalarem, in
hoc se magis querimoniarum mole conficiens, eo quod quae
praedictus vir occulte
quidem sed digna
relatu gesserat per
veritatis indaginem
nec ad ea singula
meruerit pervenire et
aliqua se de cognitis
memoraret a memoria
abolevisse. (4) In his
autem qui meminit
sine ambiguitate suo
testimonio populum
nobis attulit assentantem, cum certe de
eius praeteritis dubitare non liceat qui
operatur in singulis
cotidie clariora.
Lode al narratore
e al committente
(5)
Congratulatus
sum relatori, eo quod
de vestris nutrimentis
talis vir adoleverit, qui
iniuncta sibi tam strenue peroraret et de
proprio aliquid causa
venustatis non inconpetenter
offerret,
immo dilucide ipse
per se quod aliunde
poposcerat explicaret. Si quidem quidquid de illo elicitur,
311
Vita Albini
vestris hoc praeconiis
deputatur, quoniam
est meritum magistri
laus discipuli et ministri solatia sunt pontifici ornamento.
(6) Quod cum ego
meae exiguitatis conscius attingere trepidarem, re vera qui
noverim hoc debere
committi exertis ingenio, facundis eloquio,
devotis officio, probatis stilo, qui sunt
sensu divites, linguae
rota torrentes, famulatu celeres, carmine
coruscantes, cum ante vestram peritiam
ipsa Ciceronis ut
suspicor eloquia currerent vix secura, et
cui apud Caesarem
Roma aliquid deliberans Aquitanico iudice forsitan Galliam
formidaret, incongruum esse persensi,
quod a me infra doctorum vestigia latitante res alta requireretur, quem ad scribendi seriem nec natura
profluum nec litteratura facundum nec ipse
usquequaque usus
reddit
expeditum,
cum etsi voto traherer, rei magnitudine
deterrerer, quia radiantem vitam si pigri
relatoris impar lingua
312
Vita Sancti Hilarii
Vita Sancti Paterni
Dichiarazione di inadeguatezza
in confronto alla
grandezza del
santo, di Girolamo
e Ambrogio
(3) Sed cum mei
ingenii brevitatem
mensuro, adeo beati
Hilarii immensitatem
fortem cognosco, ut
pene mihi videatur
aequale tam istud
posse dicere quam
digito caelum tangere, praesertim quod
etiam ut audio beati
Hieronymi torrens illud eloquium recusaverit attemptare, qui
materiae eius se
imparem eatenus iudicaverit, ut taceret.
(4) Ego vero cui nullius scientiae inrigua
fluenta succurrunt,
quem vix stillicidii
pauperis attenuata
gutta perfudit, nihil
proprio de fonte respirans, qua temeritate inter ingentia flumina Eufraten Hilarii
et Nilum Hieronymi
siccos velim cursus
extendere, cum de
illo etiam doctissimi
viri quicquid dicere
potuerunt, minus est
quam meretur, et
virum sanctissimum
consultius mihi sit
mirari quam loqui?
(5) Quod opus in re
licet ista adituri, quam
ante mihi commiseris,
tamen ad oboediendum libenter me invadis et in tua iura transcribis, quoniam apud
diligentem sufficit ipsum velle, si deficit
posse.
Vita Sancti Marcelli
in confronto alla
grandezza del santo
e all'eloquenza
gallica
cum ego pauper
ingenio et ille dives
sit merito, ego sim
humilis in sermone et
ille sit egregius in
mercede, praesertim
cum vobis multorum
prudentium famosae
abundantiae sufficiat
eloquentia Gallicana
et quadratis iuncturis
verba trutinata procedant. (6) Qui si
velint sermone possunt depingere quidquid animus figuravit, apud quos ipsum
loqui dictare fit et
quae vix corde concipitur mox in pagina
res formatur. (7) Cur
itaque ut dictum est
inter Gallicanos cothurnos Itala Patavinitas plano pede ire
praesumat, ad quorum conparationem
velut inter rosas et
lilia nostrae linguae
vilis saliunca respirat?
Vita Albini
Vita Sancti Hilarii
praedicat obsoletat et
quod
inluminare
debuit hoc nube sermonis abscondit, ubi
ageretur rectius, si
quae ab aliis poscitis
ipse ederetis. (7)
Unde certus intellego
non vos posse huiusmodi quopiam indigere, sed id voluisse
ut de peregrinis etiam
nostra vobis aliquid
sitarcia non negaret,
velut si quicquam
inter fruges triticeas
sterilitatis meae ordiatia conferant.
Aequabilius fuerat
haec beato Ambrosio de fratre scribenda mandare, cui
verba virtutibus coniuncta florebant.
Vita Sancti Paterni
Vita Sancti Marcelli
Importanza
della scrittura
per il ricordo
(8) Accedit etiam ad
difficultatem ingenii
inpediti res altera,
quod de actibus beatissimi Marcelli plurima sunt invisenda,
temporum vetustate
subrepta, nec facile
memoria recolit quod
annositas numerosa
fraudavit, quoniam
quidquid in libris non
figitur vento oblivionis
aufertur. (9) Pauca
quidem de eius gestis felicibus sunt ad
nostra tempora relatione vivente perducta, ne in totum quod
sui amatores in posterum quaererent
deperiret, quia etsi
sancta membra iam
dudum
sepulchro
sunt condita, non
tamen miracula sunt
sepulta, quae tanto
313
Vita Albini
Vita Sancti Hilarii
Vita Sancti Paterni
Vita Sancti Marcelli
clariora sunt quanto
plus memoria vivere
meruere non scripta,
quoniam licet non
tenerentur in pagina,
fixa sunt in cordis
membrana.
Accettazione del compito per obbedienza e amore
(8) Nunc itaque cau- (5) Sed ne protracta Quippe ubi devota (10) Unde inter haec
sas ambiguitatis in pagina
fastidium est karitas, voluntas difficilia dubito quo
arbitrii statera su- potius generet quam maior est quam fa- convertar, utrum vel
spendens, eligo rusti- provocet auditorem, cultas, nam placere digitos ad scribencus agnosci per etsi cum mea vere- vult integre qui cau- dum
praeparem,
oboedientiam magis cundia vobis quidem sa oboedientae etiam cum dictare lingua
quam indevotus effici oboedientiam et illi suas vires transcen- formidet. Sed differre
per doctrinam, ut impendo de quo non dit. Unde quia ultra non licet quod pater
cuius fastidire poteri- digne loquor iniu- se tendit et plus iniungit, cum se
tis eloquium saltem riam, sed concedi quam valet appetit, magis ipse gravi
credimus amor mensuram non pugno feriat qui tibi
adprobetis affectum, veniam
et ne mihi videlicet in quod devotione pec- habet. (6) Itaque di- repugnat, praesertim
hoc opere ad aures camus. Nunc de eius lectione et in his qui ut oboedire me
populi minus aliquid vita proponamus.
quae supra me sunt doceas et quod
intellegibile proferadebitorem profiteor sustinere non valeo
inponis,
tur. (9) Idcirco tota
atque quantum value- libenter
mediocritate contenro affectui fenora sol- maior enim devotio in
tus etsi relator ineptus
vere procurabo: sed re difficili conprobatamen beatae vitae
tamen et solvere plus tur. (11) Denique ibi
cupio gesta breviter
debeo, quoniam kari- plenus affectus est,
intimare:
tati numquam totum ubi etsi virtus non
redditur quod debe- tolerat, tamen animus non recusat, et
tur.
ego magis hoc venerer quod caritas non
leviter exigit sed
audacter extorquet.
Denique ex hac
parte mihi ipsi conveniat proficere, quia
qui magna vituperat
ducere ad maiora
festinat. (12) Quibus
suggestis vellem hoc
opus aliorum lingua
nitescere
potius
quam nostra sordere. Sed quod primi
differunt vel ultimi
prosequantur: quae
314
Vita Albini
Vita Sancti Hilarii
Vita Sancti Paterni
Vita Sancti Marcelli
cum displicere videatur eloquio, placere incipiat vel ex
voto.
Appello
alla divinità
Importanza della
testimonianza orale
superest ut qui novit
me oboedire magis
quam praesumere
ipse fluctuanti paginae portum suae
dexterae subministret, qui vivit et
regnat deus per
omnia saecula saeculorum. Amen.
(7) Religiosorum gesta praedicabilia subcrescente provectu
virtutis adulta ac venerandis operibus in
cumulum sacratae
benedictionis educta,
miraculorum fidelium
iam transmissi temporis testimonio declarata ac vivacibus meritis
semper adsistunt oculis, etsi non adfixa
teneantur in paginis,
quoniam extrinsecus
advena teste non
indiget qui domesticae gloriae documentis excellit.
Importanza della
divulgazione delle
vite ricche di meriti
Importanza
dell’ascolto dei
miracoli
(10) Religiosorum vita
virorum quantum est
meritis clarior tantum
voce crebrior populorum, quia dum illis
universis beneficia tribuit, in suam laudem
linguas excitat singulorum, ad quod perspicacissime propalandum vita vel gesta
beatissimi Albini deducantur ad medium.
Et tamen corroboratur grex devotus de
pastoris suffragio,
quotiens praemissarum virtutum ipso
recreatur auditu.
(11) Igitur Albinus
episcopus ...
(6) Igitur beatus Hi- (9) Sacratissimus igi- (13) Beatissimus igilarius …
tur Marcellus …
tur Paternus …
315
LUCE PIETRI
Université de Paris-Sorbonne
Francia
Fortunat, chantre chrétien de la nature
«Les larcins faits aux poètes anciens parlent un langage
nouveau»1: ce jugement qu’il porte sur les compositions de
l’un de ses correspondants, Venance Fortunat aurait pu l’
appliquer à ses propres vers, notamment à ceux, très nombreux, qu’il a consacrés à la nature. Dans le traitement de ce
thème, central dans toute son œuvre poétique, le «rejeton
de l’Italie» exilé en terre gauloise2 doit effectivement beaucoup à la formation littéraire reçue aux écoles de Ravenne
où, comme le précise Paul Diacre, il s’était «distingué tout
particulièrement dans la grammaire, la rhétorique et la métrique»3. Fortunat lui-même cite à diverses reprises les noms
de poètes, en majorité classiques, étudiés avec profit dans
sa jeunesse. Leur fréquentation lui a permis d’acquérir cette
virtuosité technique dont il fait preuve dans le maniement de
la langue et des figures de style comme dans celui des
mètres les plus variés. Elle fut aussi une source à laquelle
s’est abreuvée son inspiration, plus personnelle cependant
que ne pourraient le laisser croire les listes, dressées par
éditeurs ou critiques modernes, d’emprunts directs – au
demeurant limités en chaque cas à quelques expressions –
ou de réminiscences plus fugaces et parfois douteuses. Car
ses lectures, en éveillant sa sensibilité, l’ont surtout préparé
à célébrer, dans nombre de ses carmina ainsi que dans la
Vita Martini, la beauté des spectacles naturels qu’il dépeint
en poète-paysagiste, pour la faire découvrir à ses lecteurs.
Mais tout en exploitant une veine dans laquelle s’étaient illustrés les plus grands, notamment Virgile et Ovide, Fortunat
parle un langage nouveau, celui d’un chrétien fervent qui
s’est doté à Aquilée, auprès du patriarche Paulus4, d’une
solide culture religieuse, complétée ensuite en Gaule5,
auprès du monastère Sainte-Croix de Poitiers: dans l’univers
naturel qu’il dépeint, il lit et veut faire découvrir Dieu à l’œuvre dans sa création, en se faisant l’interprète du Liber naturae.
317
Le poète-paysagiste
Abandonnant pour ne jamais y revenir les régions voisines de l’Adriatique, où, en Vénétie-Istrie et dans la Flaminia
voisine, entre Aquilée et Ravenne, s’étaient déroulées les
années de son enfance et de sa jeunesse, Fortunat découvre de vastes contrées aux horizons divers et, pour une part,
nouveaux pour lui. Sa culture poétique, parfaitement assimilée, lui permet, sans jamais l’inciter à plaquer des souvenirs livresques sur l’univers exploré, de traduire avec
bonheur les expériences vécues au contact d’une nature
aux aspects contrastés, au cours de ses expéditions les
plus lointaines aussi bien qu’à la faveur de randonnées plus
courtes et de séjours plus ou moins prolongés dans le cadre
agreste de riches villae. Il se fait poète-paysagiste, tantôt
pour dépeindre, en des fresques où il rivalise avec l’art du
pictor, les sites offerts à sa vue, tantôt seulement pour évoquer ceux-ci de quelques touches suggestives. Ce faisant,
il s’efforce aussi de rendre tout ce que ses autres sens ont
su capter, afin de restituer, au profit de ses lecteurs, sensations et émotions ressenties.
Les premières années qui suivent son départ de
Ravenne, à l’été ou à l’automne 565, sont pour Fortunat celles des plus grands voyages. Ceux-ci lui procurent une
impression de dépaysement, au sens étymologique du
terme, puisqu’ils lui font traverser des sites très différents
des «plaines unies de Vénétie»6 qui lui étaient familières.
C’est le sentiment dominant éprouvé au cours du périple qui
le conduit d’abord jusqu’au royaume d’Austrasie, en traversant les Alpes Juliennes puis les Alpes du Norique et de la
Bavière. Avec la précision d’un auteur d’Itineraria, il en a
noté les principales étapes dans l’Envoi de la Vita Martini,
refaisant en sens inverse le parcours qu’il avait lui-même
naguère emprunté, afin que son poème parvienne à ses
parents et amis7. L’idée d’acheminer ainsi son ouvrage, tel
un voyageur chargé de messages, lui a peut-être été lointainement suggérée à la lecture de la pièce liminaire du livre
III des Tristes, dans laquelle Ovide, relégué à Tomi sur les
bords de la Mer Noire, avait expédié son recueil à destination de Rome et de ceux qu’il y avait connus. En tout cas,
c’est dans la lettre-préface de la première édition des
Carmina, dédiée à son ami Grégoire de Tours, que Fortunat
a le mieux exprimé les impressions recueillies au cours de
ce «long voyage», qui s’est ensuite prolongé, après les
séjours austrasien et parisien et une première halte à Tours
puis à Poitiers, à travers l’Aquitaine jusqu’au pied des
318
Pyrénées et probablement au-delà, en terre hispanique8. Si,
à l’issue de cette vaste tournée, le poète se fixe plus durablement à Poitiers auprès de Radegonde, il reprend encore,
avant 573, la route pour se rendre jusqu’à la «mer océane»
et séjourner dans une île cernée par l’«onde britannique»9.
Une dernière fois, en 588, à la faveur de l’ambassade conduite par Grégoire auprès du roi Childebert II, il retourne, en
compagnie de son ami, en Austrasie où il effectue une croisière mouvementée sur la Moselle10.
Non sans un frisson d’effroi rétrospectif, Fortunat évoque
par la suite les paysages grandioses contemplés en ces
occasions: ceux d’une nature sauvage et donc, à ses yeux
de citadin italien policé, aussi barbare – c’est ainsi qu’il qualifie le Rhin et le Danube11 – que les peuples qui la hantent.
Terrifié mais fasciné, le musicus poeta doit aguerrir sa muse
à cet environnement hostile: nouvel Orphée, il tente d’émouvoir les bêtes fauves et de faire résonner ses vers aux échos
des forêts; mais sa lyre est impuissante à rivaliser avec la
«harpe bourdonnante» au son de laquelle ses compagnons
germaniques entonnent des lieder, mieux en harmonie avec
le paysage12.
Sa première expédition l’entraîne dans l’univers sévère
de la haute montagne – ces horrentia saxa qu’évoquait
Ovide (Metam. IV, 777) – qu’il dépeint avec une rare justesse dans le choix des traits évocateurs. Les Alpes, dont les
cimes se perdent dans les nuages, sont creusées de gorges
rocheuses, parcourues de torrents rapides, difficiles à franchir13 pour le voyageur qui se sent «suspendu au-dessus
des abîmes»14. Des Pyrénées, Fortunat conserve le souvenir
de montagnes couvertes de neige en plein été15. Aussi peutil se représenter sans peine les obstacles que leur franchissement a offerts aux princesses wisigothes, Brunehaut et
Galeswinthe, se rendant successivement dans le royaume
des Francs pour y épouser respectivement Sigebert et
Chilpéric. La première affronte «les frimas et les congères»
de l’hiver pour passer les hauteurs montagneuses16; la
seconde franchit celles-ci sur des routes vitrifiées par le verglas, «au milieu des nuées» au-dessus desquelles, s’enfuyant vers le ciel, «émerge la pointe d’une crête» blanchie
de neige, à l’époque où «juillet grelotte dans les ondes glaciales»17. Plus épisodiquement, il évoque aussi, aperçus lors
d’un de ses voyages en Austrasie, les Vosges et les
Ardennes couvertes de hautes futaies18, où il imagine son
ami Gogon, un haut fonctionnaire lettré, occupé à chasser
les animaux sauvages19.
319
Nés dans ces différentes montagnes et grossis de leurs
affluents, les grands fleuves de la Germanie et de la Gaule
suscitent également l’attention toujours renouvelée de
l’Italien. Ce dernier mérite amplement le titre de «poeta dei
fiumi» que lui décernait ici-même en 1990 le Prof. della
Corte20. Célébrant le torrent d’éloquence jailli de la bouche
de l’évêque Leontius de Bordeaux, Fortunat l’égale au Rhin
«qui descend des Alpes à bride abattue» et au Danube «qui
porte loin ses eaux»; et il ajoute: «j’ai traversé ces fleuves et
je juge sur ce que je connais»21. Il en va de même pour le
Rhône «aux eaux rapides»22 et pour la Garonne qu’il redoute de franchir, lorsque ses eaux, gonflées comme une montagne – une image peut-être empruntée à Virgile (Aen. I,
105) –, «grondent écumeuses sur les rouleaux des
vagues»23, pour «gonfler l’Océan de son cours bouillonnant»24. Plus modestes et en apparence plus paisibles, d’autres cours d’eau, parmi tous ceux que ses vers énumèrent,
peuvent, dans leur cours supérieur, surprendre le voyageur
imprudent par leurs brusques sautes d’humeur. Grossie par
la pluie et sous le souffle du vent, la Moselle a bien failli
engloutir une première fois le poète embarqué sur un frêle
esquif25, une mésaventure qui paraît se renouveler, une vingtaine d’années plus tard, au début de la croisière royale à
laquelle il est convié sur cette même rivière: là où cette dernière est resserrée entre des falaises rocheuses, un courant
rapide, que vient redoubler l’affluent de l’Orne, entraîne dangereusement son navire26. Rétrospectivement, Fortunat évoque avec humour la peur éprouvée en ces deux circonstances, de même qu’il se plaît à dépeindre sur un mode plaisant, mais avec une sûreté de touches remarquable, les
caprices du Gers: le maigre filet d’eau qui «lèche les sables
abandonnés» se gonfle soudain de ce qu’il «a bu de l’ondée
abattue dans les montagnes» et peut alors révéler sa force
destructrice, en inondant les champs et les pâturages de
«ses tourbillons impétueux»27.
Mais c’est encore par la découverte de l’Océan que le
poète demeure le plus fortement impressionné. Certes,
naguère, il avait navigué «sur les flots écumants de
l’Adriatique, entraîné par le remous des eaux, dans les grondements sourds de la tempête fracassante»28. Cependant,
ce souvenir pâlit devant le grandiose spectacle de la «mer
océane» qu’il célèbre avec des accents parfois proches de
ceux arrachés à Ovide par le Pont-Euxin, mais avec un
talent personnel certain. Fortunat est subjugué par le phénomène de la marée dont le flux «met en fuite le sable du
320
rivage» et «naufrage la terre», avant de redescendre dans
un reflux au cours duquel «l’eau se retire glacée pour revenir bouillonnante»29. Tel un peintre de marines, il donne à
voir, «sous les tourbillons rageurs de l’orage» ou sous la
tempête déchaînée30, les «gouffres marins»31 qui se creusent
au pied des vagues dressées «en falaises mouvantes» ainsi
que, seules touches colorées, «les lames glauques» et «la
crête des eaux noires». Bien plus, par le rythme de ses
mètres, il reproduit le mouvement des masses liquides qui
se gonflent avant de s’abattre dans un déferlement furieux,
en fouettant l’air de gerbes d’écume et, par les sonorités de
ses vers, il fait entendre «le grondement des vagues», semblable, tantôt à un «mugissement rauque»32, tantôt à un
«aboiement furieux»33, suivi du claquement des «masses
déferlantes». A cet égard, le Prologue de la Vita Martini
représente sans conteste une véritable page d’anthologie.
Contrastant avec les paysages austères d’une nature
indomptée qu’il découvre au cours de ses plus lointains
voyages, les contrées plus riantes au sein desquelles il réside habituellement offrent à Fortunat une autre source d’inspiration. Fixé à Poitiers, le poète a cependant maintes
occasions de goûter aux plaisirs de la campagne. En Poitou
même ou aux confins de la Touraine voisine, il a obtenu la
jouissance d’un domaine rural, gracieusement mis à sa
disposition par l’évêque Grégoire sur les bords de la
Vienne34. Il ne quitte ce paisible séjour que pour faire, à ses
plus proches voisins, des visites qui l’amènent à sillonner la
Lyonnaise Troisième, de Tours35 à Nantes36, en passant par
Angers37, ou à pousser quelques incursions dans les provinces voisines de Sénonaise pour y gagner Paris38 et peut-être
Nevers39 ou dans celle d’Aquitaine Seconde pour se rendre
auprès de l’abbé limousin Aredius40 ou auprès de l’ évêque
de Bordeaux41. En ces diverses circonstances, il est souvent
accueilli par ses hôtes dans le cadre d’une villa rurale dont,
en guise de remerciement, il loue les agréments par l’offrande d’un carmen. Dans ce genre de compositions, célébrant
des plaisirs agrestes qui rappellent peut-être à l’Italien ceux
du domaine familial de Duplavilis, affleurent des réminiscences virgiliennes des Bucoliques. Abandonnant la harpe du
barde errant pour le chalumeau du berger, le poète, étendu
à l’ombre d’un bosquet, au bord d’«une source transparente», unit le chant de ses vers à celui des oiseaux42. Bien que
d’une veine plus convenue, ces carmina évoquent avec
sensualité «le charme naturel de la campagne» (naturalis
gratia ruris)43, sa grâce riante (amoenus ager; amoena
321
ruris)44. Si Fortunat rappelle parfois d’un trait la rigueur de
l’hiver et son cortège de brumes et de gel durcissant le sol45,
ou la chaleur étouffante de la canicule estivale «qui halète
sur les terres crevassées»46, c’est toujours pour mieux faire
apprécier la douceur du printemps, sa saison préférée, longuement chantée dans l’épithalame de Sigebert47 et dans le
grand poème adressé à Felix de Nantes48, mais aussi dans
de nombreux autres carmina49. Il peut alors jouir, ainsi «sous
le ciel radieux de l’Aquitaine»50, du panorama «ravissant»
que présentent à sa vue, depuis le sommet d’un mamelon,
les collines doucement ondulées51 ou les plaines largement
ouvertes52. En ces lieux, la nature disciplinée par la présence et le travail des hommes a des attraits qui «enchantent
l’âme rêveuse» du poète53. Les bois, dont «les bêtes fauves
ont été chassées»54, offrent la protection de leurs vertes frondaisons au promeneur fatigué55. Les fleuves, apaisés dans
leurs cours inférieur56 et parfois ingénieusement canalisés57,
roulent mollement leurs eaux «nourricières»58 pour fournir en
abondance du poisson aux habitants59 et fertiliser leurs terres60. En contrepoint au «doux murmure» de la rivière61 ou au
gazouillement d’une source62, le chant des «oiseaux babillards»63 se mêle, en un concert champêtre, au bourdonnement des abeilles64. Les champs, où le laboureur «a tracé
avec art un sillon dont la ligne forme un contraste de couleurs»65, se couvrent, au fil des semaines, de lourds épis de
blé66 d’un ton d’abord «laiteux»67 puis blondissant68. Des
différents vignobles du Bordelais, de la Loire et de la
Moselle, le poète dépeint aussi les transformations:
émondés de leurs rameaux, les sarments «laissent perler»
la sève montante69, puis la vigne se gonfle de pampres bourgeonnants70, avant de déployer ses «ombrages apaisants»71
et de laisser pendre ses grappes dorées72. Les près, dont la
chevelure odoriférante73 ondoie sous la brise74, se parent
des couleurs de mille fleurs parfumées qui émaillent «le
gazon de leurs yeux et lui donnent un sourire»75. Dans les
vergers, les branches des arbres s’alourdissent de fruits
dont la senteur donne un avant-goût de la saveur76. Ainsi
tous les sens du poète participent-ils aux doux plaisirs qui
lui sont offerts et qu’il tente de faire partager à son lecteur:
dans les séjours champêtres qu’il affectionne, les formes et
les couleurs ravissent sa vue, les sonorités harmonieuses
charment ses oreilles, tandis que les parfums chatouillent
agréablement ses narines, comme autant de promesses
pour son palais de gourmet, et que la brise caresse doucement son front77.
322
L’interprète du Liber naturae
Fortunat peut ainsi paraître, dans nombre de ses vers,
inviter son lecteur à une simple promenade dans les sites
naturels qu’il a lui-même visités et dont il souhaite lui faire
découvrir la beauté, animé du seul désir de rivaliser avec les
plus grands de ses devanciers et modèles, au point de peupler parfois les bois, les montagnes et les eaux de nymphes
et de divinités antiques78. Mais c’est là pure coquetterie littéraire de la part d’un poète profondément chrétien qui, ainsi
qu’en témoignent explicitement nombre de ses compositions, voit dans la nature l’œuvre du Dieu Trinitaire qui l’a
créée et qui, à travers elle, comme à travers l’Écriture Sainte,
se révèle aux hommes dans son secret le plus intime. C’est
donc à une découverte spirituelle que convie Fortunat, en
interprète de ce Liber naturae dont la lecture, selon
Augustin, l’un des Pères de l’Église auquel il fait référence à
plusieurs reprises, doit instruire de la vérité divine l’ignorant
lui-même (C. Faustum, 32, 20; Enn. in Ps. 45, 7).
Pour le poète, l’univers tout entier (totus orbis)79, avec
ses éléments80, est celui que Dieu, rerum creator81, a, ainsi
que l’enseigne le prologue de la Genèse, façonné au commencement par le jaillissement de sa force créatrice dont la
nature, là où elle demeure indomptée, conserve encore
l’empreinte dans la majesté inviolée ou le déchaînement
incontrôlé de ces mêmes éléments. Dans ses méditations, il
évoque en effet les six jours de la création, le temps où «l’esprit (de Dieu) se mouvait au-dessus des eaux»82, celui où
sa puissance fut «porteuse de lumière»83, avant qu’il ne fit
«la mer, les astres et l’homme à son image»84. A l’acte créateur est associé le Fils, coéternel au Père, bone conditor à
l’égal de ce dernier85, car Il est «celui de qui la main contient
tout l’univers»86 et maintient «les cieux suspendus, les terres
solides, les eaux liquides» et celui grâce au pouvoir duquel
«vit tout ce qui habite l’espace»87. Le Dieu trinitaire a ensuite placé l’homme, avec sa compagne, dans de pia regna88,
afin que tous deux puissent y jouir d’un bonheur paradisiaque89, la terre entière obéissant dès lors «merveilleusement
à ces deux êtres»90.
Mais du séjour idyllique de l’Eden les premiers parents
ont été chassés pour avoir mangé le fruit de l’arbre de la
connaissance. Poursuivant sa lecture commentée de la
Genèse, Fortunat se plaint amèrement de leur désobéissance: celle-ci a condamné non seulement la descendance
humaine, mais également la nature tout entière à la condi323
tion mortelle: «il n’est pas un arbre resté debout, gémit-il, qui
ne porte la mort dans ses racines;… la possession de l’arbre du malheur a blessé toutes choses91, et, conclut-il, Ève
a détruit l’univers». Cependant le poète se refuse à ajouter
sa propre condamnation à celle qui a frappé Adam, «le
disgracié dont la faute nous a valu la grâce»92. Car le Fils de
Dieu est venu «réparer ce qui était dès longtemps perdu ;
voilà, conclut-il, ce que les fruits de l’arbre défendu ont produit de bon». C’est le felix culpa d’Augustin93, étendu par
Fortunat à l’ordre cosmique, puisque le sacrifice du Christ,
rachetant l’humanité pécheresse, restaure aussi la nature
corrompue par la faute première: «La haute puissance de la
croix … ramène tout ce qui dans le monde était perdu»94,
car, par le sang et l’eau qui se sont écoulés du flanc du crucifié, «terre, mer, astres, monde sont lavés»95. En effet, «sur
la croix, la mort du Christ a guéri ce qui dans le monde était
mort»96.
De la rédemption apportée par le Christ, la nature offre à
tous le témoignage. La restauration de l’ordre divin s’y manifeste clairement dans la mesure, tout d’abord, où elle a été
opérée par un élément naturel identique à celui qui l’avait
perturbé: le bois d’un arbre, ainsi que le remarquait déjà au
début du Ve s. Claudius Marius Victor dans sa paraphrase
poétique de la Genèse: per lignum ingruerit mundo populisque futuris/ possit adhuc aliquod per lignum vita redire97.
Qu’il ait été ou non inspiré par ces vers, Fortunat met lui
aussi en rapport le bois de l’arbre de la perdition et celui de
la croix réparatrice: «Le créateur de notre premier père,
affligé de la faute de ce dernier, …afin de réparer les dommages du bois, lors désigna le bois»98, conformément à la
prédiction de David: «Dieu a régné du haut du bois». Le
poète, désignant la croix par le bois99 dans lequel celle-ci fut
taillée – «nous recevons l’unique salut par le bois»100 –, assimile plus directement encore l’instrument de la Passion à un
arbre: «Croix fidèle, arbre unique et noble»101. Plantée (plantata) au bord des eaux102, elle protège par ses frondaisons
(sub frondibus arboris) des brûlures de la canicule le jour et
de la lune la nuit103 et porte, suspendue à ses bras, la vigne
(vitis vera)104, le Christ, selon Jean 15, 1. De son tronc (stipes)105 à l’écorce (cortex) parfumée106, partent les branches
(rami)107 sur lesquelles ont été écartelés les membres du
Seigneur108. La croix-arbre produit en abondance109 des fruits
qui sont nouveaux (nova poma)110 et désormais inoffensifs111,
préparant ainsi une «vie nouvelle»112.
De cette promesse d’une vie nouvelle apportée par l’ar324
bre du salut, la nature toute entière offre aux yeux de tous le
gage lorsque, au retour du printemps, la végétation se
réveille de la mort hivernale pour participer à la Résurrection
du Christ. Alors, avec le soleil qui «déploie le jour sur l’univers»113, la lumière croît dans le ciel, image du Fils de Dieu,
«vive Lumière qui tira le monde des ténèbres»114. Alors
aussi, «lorsque l’année lui rend le faste du printemps, la
terre, en harmonie et partout en travail, déverse ses présents»115. C’est en ces termes que débute le grand poème
sur la Pâque qui, dédié à l’évêque de Nantes, Felix116, décrit
la splendeur du renouveau printanier en des vers d’inspiration virgilienne. Mais de ce tableau bucolique (v. 1-30) qu’il
a tracé en bien d’autres carmina, Fortunat, ici, donne ensuite explicitement, dans un second volet (v. 31-88), la lecture
chrétienne: «Voici que le charme du monde qui revient à la
vie atteste que tous les biens lui sont rendus avec son
Seigneur» (v. 31). C’est le Christ, salus rerum, bone conditor
atque redumptor (v. 47), «triomphant après avoir connu le
sombre Tartare» (v. 33; cf. VIII, 7, 3), que, «de toutes parts,
célèbrent le bois par ses frondaisons, l’herbe par ses fleurs»
(v. 34). Entonnant un «chant d’amour» (amore canto, v. 46),
le poète mêle, à l’adresse du Seigneur, ses louanges à celles de la nature: «la forêt vous applaudit de ses palmes,
ainsi le champ de ses épis, ainsi la vigne vous rend grâce
par ses sarments silencieux» (v. 43-44). A l’approche de la
Pâque, l’univers est arraché à la mort avec et par le Christ
ressuscité qui lui apporte la «vie nouvelle» (nova vita, v. 88).
Celle-ci est également promise aux candidats au baptême
qui, grâce à l’apostolat de Felix, seront lavés de l’ «antique
péché dans un fleuve nouveau» (v. 92). L’épilogue du carmen (v. 89-110) est un éloge de l’évêque qui «consolide la
bergerie de Dieu» (v. 98) et fait «sur les ronces pousser le
blé» (v. 102), «remplissant les greniers du fruit d’une moisson abondante» (v. 106).
Ces métaphores sont de celles que Fortunat file avec
prédilection en s’inspirant des paraboles «agricoles» du
Nouveau Testament dont le souvenir affleure dans nombre
de ses carmina: envoyé par le Père, Dieu agriculteur et
vigneron117, le Christ est présenté par le poète tantôt comme
le bon berger qui donne sa vie pour ses brebis118, tantôt
comme le maître d’un champ – le monde- qu’il ensemence
de sa parole (Christi rura)119. Fidèles serviteurs du Sauveur,
les bons évêques sont en conséquence ceux qui œuvrent à
leur tour au profit de cette agriculture divine. En développant
ce thème, Fortunat puise aussi largement à un répertoire
325
depuis longtemps illustré par la pastorale qui, pour mieux
être comprise des fidèles, emprunte volontiers ses exempla
à la nature. Qu’il suffise ici de rappeler les enseignements
dispensés par Martin de Tours, tels que les rapporte Sulpice
Sévère et que les habille de vers Fortunat120, tirant argument
de la vue d’une brebis tondue, de celle d’un porcher ou
encore d’un pré en partie fouillé, en partie brouté et en partie fleuri; ou encore les termes de la lettre adressée à
Radegonde par l’évêque Eufronius de Tours et par six autres
évêques, invoquant «l’héritage confié (par Dieu) à la culture
ecclésiastique des personnes qualifiées qui, avec une intense activité, cultivent son sol, munies du râteau de la foi…».121
Dans cette même optique, pour Fortunat, tout successeur
des apôtres est établi, tel Carentinus de Cologne, comme un
«colon de Dieu» (colonus Dei)122 pour mettre en valeur «les
terres du Christ»123, ou, tel Martin de Braga, cet «Adam plus
fort», comme un inexpugnabilis accola, grâce auquel est
replanté à l’Occident le jardin d’Eden perdu en Orient124. Le
responsable d’une communauté est souvent dépeint sous
les traits du «pasteur de la bergerie apostolique»125 qui paît
ses brebis126, en les protégeant de la morsure du loup127 et
les plonge dans les ondes pures afin qu’elles ne portent pas
plus longtemps une «toison souillée»128. En d’autres vers, il
est célébré comme «un cultivateur habile»129 qui débarrasse
les champs de leurs ronces130 et de «l’ivraie amère»131, avant
de les labourer132 et de les ensemencer de sa parole133, pour
récolter une riche moisson134 dont «les fruits du froment sont
battus sur l’aire du Christ»135. Ou bien, il est un arboriculteur
avisé qui «ente les pieux greffons de la foi», «pour que l’ancien tronc sauvage verdoie en olivier fertile»136, ou encore le
«vigneron des biens apostoliques» qui «extirpe la lambruche stérile» si bien que «le raisin apparaît à la place des
broussailles»137. Certes, Fortunat ne fait guère que broder
sur des topoi des variations poétiques et, ce faisant, il cède
un peu trop souvent à la facilité en reprenant d’un elogium à
l’autre les mêmes formules. Mais son insistance même à se
répéter s’enracine dans la tranquille espérance en la vie
éternelle, une espérance aussi assurée que les promesses
tenues ici-bas par les terres de labour ou de pâture: car la
foi fait lever des moissons qui seront engrangées dans les
greniers du Christ138 et conduit les ouailles fidèles vers les
«pâturages éternels du Christ»139 et les près émaillés
de fleurs du paradis140.
326
Fortunat a été longtemps considéré comme un écrivain
mineur, voire décadent. Depuis quelques décennies, heureusement, les recherches entreprises sur ses œuvres – et
ce colloque en apporte l’illustration – parallèlement à de
nouvelles éditions et traductions de ces dernières, permettent enfin de lui rendre pleinement justice. L’enfant de
Trévise installé en terre gauloise se révèle un authentique
poète, non seulement parce qu’il maîtrise parfaitement son
art, mais aussi parce qu’il met celui-ci au service d’un idéal
spirituel profondément médité, ainsi que j’ai tenté de le montrer en étudiant la place qu’il accorde dans ses vers à la
nature.
Note
(1) Fortunat, Carm. III, 18, 4. Les citations des œuvres poétiques de
Venance Fortunat renvoient à l’édition de F. Leo, MGH aa IV, 1 et leur traduction française à celle procurée, pour les huit premiers livres des Carmina, par
M. Reydellet, Coll. Univ. de France, t. I (livres I-IV), Paris, 1994 et t. II (livres VVIII), Paris, 1998, et, pour la Vita Martini, à celle de S. Quesnel, dans la même collection, Paris, 1996.
(2) Carm. VIII, 9, 7-8 et VIII, 1, 12.
(3) Paul Diacre, Hist. Lang. II, 13, MGH srl, p. 79.
(4) VM IV, 661-662.
(5) Sur ce theologiae tirocinium, carm. V, 1, 7.
(6) VM IV, 656.
(7) VM IV, 630-688.
(8) Carm., Praef., 4-5. L’épitaphe de l’abbé Victorianus du monastère
d’Asan (carm. IV, 11), près de Huesca, ainsi que la lettre (carm. V, 1) et le
poème (carm. V, 2) adressés à Martin de Braga semblent témoigner de cette
incursion au sud de la chaîne pyrénéenne.
327
(9) Carm. III, 26 ; App. 29.
(10) Carm. X, 9.
(11) VM IV, 640.
(12) Carm., Praef., 5 ; cf. VII, 8, 63-69.
(13) VM IV, 641-645.
(14) Carm., Praef., 4.
(15) Ibid.
(16) Carm. VI, 1, 113-117.
(17) Carm. VI, 5, 209-212.
(18) Carm. III, 12, 1-4; VI, 1, 3; X, 9, 25-27.
(19) Carm. VII, 4, 19-22.
(20) Fr. Della Corte, Venanzio Fortunato, il poeta dei fiumi, Atti del
Convegno internazionale di Studi, ‘Venanzio Fortunato tra Italia e Francia’,
Valdobbiadene-Treviso (1990), Treviso, 1993, p. 137-147.
(21) Carm. I, 15, 71-76.
(22) Carm. II, 14, 1-4.
(23) Carm. VII, 25, 13-14.
(24) Carm. I, 21, 9.
(25) Carm. VI, 8, 21-30.
(26) Carm. X, 9, 5-14.
(27) Carm. I, 21, 37-46.
(28) VM III, 8-9; c’est ainsi également que le poète imagine la tempête
qu’ avait jadis, dans la mer Tyrrénienne, au témoignage de Sulpice Sévère,
apaisée l’invocation du Dieu de Martin (VM IV, 404-423). Sur la métaphore de
la navigation, inspirée à Fortunat par la Préface de Claudien au livre I du De
raptu Proserpinae, F.E. Consolino, L’eredità dei classici nella poesia del VI secolo, in Prospettive sul Tardoantico, «Biblioteca di Athenaeum» 41, 1998, p.
87-88.
(29) Carm., App. 29, 1-7.
(30) Carm. III, 30, 13; I, 17, 4.
(31) Carm. V, 1, 45.
(32) VM, Prol., 1-14.
(33) Carm. App. 29, 1-7.
(34) Carm. VIII, 19 et 20.
(35) Carm. V, 11, 6; X, 7, 10-11.
(36) Carm. III, 4 à 10.
(37) Carm. XI, 25.
(38) Carm. VIII, 2.
(39) Carm. III, 9.
(40) Carm. VI, 7.
(41) Carm. I, 18.
(42) Carm. VII, 8, 1-32.
(43) Carm. I, 20, 8.
(44) Carm. III, 12, 17; X, 9, 11.
(45) Carm. V, 11, 6; VIII, 7, 1-2; IX, 3, 1-4; XI, 26, 1-12; App. 23, 7-8.
(46) Carm. VI, 10, 5-6; VII, 8, 1-32.
(47) Carm. VI, 1, 1-14.
(48) Carm. III, 9.
(49) Carm. VIII, 7, 3-4; VIII, 10, 5-14; IX, 3, 7-10.
(50) Carm. I, 15, 11.
(51) Carm. I, 6, 13-18; I, 19, 3-6; I, 20, 9-10; V, 7, 8; X, 9, 19.
(52) Carm. X, 9, 11; VM III, 344.
(53) Carm. IV, 12, 18.
(54) Carm. I, 18, 17-18.
(55) Carm. III, 9, 22 et 34; V, 7, 10; VI, 1, 4; IX, 3, 8.
(56) Carm. V, 7, 7; VI, 5, 233 (la Loire). VI, 5, 214 (l’Aude). III, 12, 10-12;
III, 13, 1-4 (la Moselle).
(57) Carm. V, 10 (la Loire ou l’Erdre); III, 12, 37 (la Moselle); I, 19, 11-12
(la Garonne); IX, 9, 27 (le Rhin).
(58) Carm. VII, 4, 7.
(59) Carm. I, 20, 17; III, 12, 11; III, 13, 10; X, 9, 49-50 et 71-74.
328
(60) Carm. I, 19, 1.
(61) Carm. VII, 4, 11.
(62) Carm. VII, 8, 18.
(63) Carm. VI, 1, 12; III, 9, 27-30.
(64) Carm. III, 9, 25-26; VI, 1, 7-8.
(65) Carm. VI, 10, 44-46.
(66) Carm. III, 12, 13-14.
(67) Carm. III, 9, 15.
(68) Carm. I, 20, 15.
(69) Carm. III, 9, 17.
(70) Carm. VI, 1, 5-6.
(71) Carm. I, 20, 16; III, 13, 13; V, 7, 9; VI, 1, 5-6; VII, 4, 7-9; VII, 8, 3.
(72) Carm. X, 9, 30-43.
(73) Carm. I, 18, 2.
(74) Carm. I, 20, 12-14; III, 9, 11.
(75) Carm. III, 9, 13-14.
(76) Carm. VI, 6, 14; VI, 7, 9-10.
(77) Carm. I, 20, 13; VII, 8, 24; X, 9, 32.
(78) Carm., Praef., 5; III, 14, 15; III, 23a, 1; IV, 28, 8; VI, 1, 20, 38, 49 et 60.
(79) Carm. X, 19, 21.
(80) Carm. IX, 7, 74.
(81) Carm. III, 1, 1.
(82) Carm. XI, 26, 13-14 (Gn. 1, 2).
(83) Carm. II, 4, 2 (Gn. 1, 3).
(84) Carm. II, 4, 4 (Gn. 1, 28).
(85) Carm. III, 9, 47.
(86) Carm. III, 9, 69 (Isaïe 40, 12).
(87) Carm. III, 9, 53-54.
(88) Carm. V, 6a, 5.
(89) Carm. II, 4, 9 (Gn. 2, 8).
(90) Carm. V, 6a, 11 (Gn. 1, 28).
(91) Carm. X, 2, 2-4 (Gn. 3, 17).
(92) Carm. X, 2, 5.
(93) Carm. II, 3, 9-10, avec la note 17 de M. Reydellet, p. 182.
(94) Carm. II, 3, 2.
(95) Carm. II, 2, 20-21.
(96) Carm. II, 4, 35.
(97) Claudius Marius Victor, Alethia I, 546-547.
(98) Carm. II, 2, 4-6.
(99) Carm. II, 6, 13-16 (Ps 95, 10).
(100) Carm. II, 4, 16; cf. II, 5.
(101) Carm. II, 2, 25; II, 4, 20; II, 6, 17.
(102) Carm. II, 1, 15 (Ps 1, 3).
(103) Carm. II, 1, 13-14 (Ps 120, 6).
(104) Carm. II, 1, 17-18.
(105) Carm. II, 2, 18 et 27; II, 6, 19.
(106) Carm. II, 6, 29; II, 5.
(107) Carm. II, 1, 9; II, 2, 25.
(108) Carm. II, 3, 7; II, 6, 17-20.
(109) Carm. II, 6, 31.
(110) Carm. II, 1, 9-10.
(111) Carm., App. 9, 5-8.
(112) Carm. II, 4, 20.
(113) Carm. III, 9, 6.
(114) Carm. V, 6a, 23.
(115) Carm. III, 9, 9-10.
(116) Carm. III, 9.
(117) Carm. II, 1, 17-18 (Jn 15, 1).
(118) Carm. II, 1, 4; II, 3, 5-6; III, 9, 84 (Jn 10, 11 et 14).
(119) Carm. III, 4, 11; III, 30, 10 (Mt 13, 37-43).
(120) VM III, 368-387 (Sulpice Sévère, Dial. II, 10).
329
(121) Dans Grégoire de Tours, Hist. IX, 39, MGH srm I, 1, p. 461.
(122) Carm. III, 14, 4.
(123) Carm. III, 30, 10.
(124) Carm. V, 1, 1.
(125) Carm. III, 11, 3.
(126) Carm. III, 11, 19; III, 21, 6; V, 9, 2 …
(127) Carm. III, 3, 27-30; III, 6, 15-16; III, 8, 39-40; III, 13, 25-26.
(128) Carm. III, 11, 3-4; III, 9, 98.
(129) Carm. III, 19, 2.
(130) Carm. III, 15, 27-28.
(131) Carm. V, 2, 41-42.
(132) Carm. III, 4, 11.
(133) Carm. III, 19, 2; IV, 1, 25; V, 2, 23.
(134) Carm. III, 23a, 8.
(135) Carm. III, 9, 63-64 et 106.
(136) Carm. V, 2, 29-30 (Rm 17-24).
(137) Carm. V, 2, 39-40.
(138) Carm. II, 9, 63-64 et 106.
(139) Carm. III, 21, 7; V, 2, 45-48; V, 3, 17-20; V, 9, 5; V, 19, 5; IX, 9, 13-16…
(140) Carm. VIII, 4, 11-12; VIII, 8, 10-12.
330
GUIDO ROSADA
Università degli studi di Padova
Venanzio Fortunato e le vie della devozione
Vere novo, tellus fuerit dum exuta pruinis,
se picturato gramine vestit ager,
longius extendunt frondosa cacumina montes
et renovat virides arbor opaca comas:
promittens gravidas ramis genitalibus uvas
palmite gemmato vitis amoena tumet.
…
Ven. Fort., Carm., VI, 1, 1-6
Ritornare su qualcosa di cui egli stesso si è occupato
quasi dieci anni or sono dovrebbe portare uno studioso a
proporre qualche riflessione in più in relazione alla materia a
suo tempo indagata. Confesso di credere che a riguardo del
nostro tema la principale nuova riflessione, che tuttavia procede da considerazioni già esposte, potrebbe essere in
sostanza riconoscere che Venanzio Fortunato, anche nei
versi da sempre suscettibili di un interesse topografico,
meglio sarebbe letto e spiegato da filologi, da storici della
letteratura e, caso mai, da storici della chiesa, perché semplicemente in lui prevalevano il poeta e l’uomo di cultura.
Si sa che in particolare su Venanzio e il suo viaggio ad
Turones è stato detto e scritto molto, leggendo i versi del IV
libro della sua Vita Sancti Martini attraverso differenti
approcci interpretativi. Di quell’impresa (come è noto, ogni
viaggio nell’antichità, ma anche in tempi assai più vicini a
noi, assumeva spesso le caratteristiche di una pericolosa
avventura) in realtà colpivano l’attenzione e la curiosità del
lettore soprattutto i motivi esplicitati del viaggio e ritenuti tuttavia non completamente convincenti: la partenza in un
momento storicamente epocale, la città da cui egli mosse
verso la Gallia abbandonando definitivamente l’Italia, senza
dubbio il suo strano “itinerario” seguito tra Ravenna e i valichi alpini, nonché le particolari tappe segnalate e i fiumi
superati lungo tutto il cammino percorso, la personalità infi331
ne di Venanzio, per tutta la sua vita letterato e poeta e soltanto negli ultimi anni vescovo di Poitiers1.
Erano questi gli aspetti che in parte sottolineavo già nel
mio lavoro edito nel 1993 negli atti di un convegno tenutosi
tre anni prima (Venanzio Fortunato tra Italia e Francia) di cui
le giornate di studio di oggi riprendono per molti temi il filo2.
Rispetto ad allora è forse necessario precisare meglio alcuni contorni del problema e modificare un poco certe affermazioni troppo nette, ma non mi pare che siano intervenuti
fatti nuovi o nuove scoperte, tali da sovvertire quanto in
quell’occasione si era detto; anzi mi pare che tutta una ulteriore serie di considerazioni, che derivano da riscontri di
ordine storico-topografico, portino a ribadire alcuni punti
fermi, pur nell’attenuazione degli aspetti per così dire “più
ideologici” e “politici” della questione.
Ma andiamo con ordine.
Innazitutto di Venanzio Fortunato, della sua vita e del suo
operare sappiamo in sostanza solo quello che traspare dalle
sue opere e da un breve excursus di Paolo Diacono nella
sua Historia Langobardorum. Per esempio non soltanto non
siamo affatto certi della sua data di nascita, forse intorno al
5353, ma, nonostante la concordia in questo caso degli studiosi, potremmo avanzare qualche dubbio, almeno filologico, anche sul suo preciso luogo natale. Quanto egli stesso
dice, Per Cenetam gradiens et amicos Duplavenenses,/qua
natale solum est mihi sanguine, sede parentum,/prolis origo
patrum, frater, soror, ordo nepotum…4, potrebbe infatti porre
la sottile questione se quel richiamo del nesso relativo qua
sia riferibile al comprensorio tra Ceneta e il Piave nel suo
insieme, piuttosto che unicamente ai Duplavenenses (come
è solitamente inteso), per i quali si deve supporre un rimando ad sensum al sostantivo toponimico Duplavenis. Si spiegherebbe così meglio l’assenza di indicazioni specifiche per
Ceneta, riprese complessivamente nei due versi seguenti a
integrazione anche degli amicos Duplavenenses5. È certo
vero che tale perplessità iniziale è subito superata dall’autorevole testimonianza di Paolo Diacono, che afferma in modo
esplicito che Fortunatus natus quidem in loco qui Duplabilis
dicitur fuit, specificando di seguito che il locus haut longe a
Cenitense castro vel Tarvisana distat civitate6, ma non è neppure da escludere che anche lo storico longobardo sia
incorso in una lectio facillima dei versi della Vita di S.
Martino, da lui ben conosciuti come del resto egli stesso
dice poco più avanti (…ut in suis ipse carminibus refert…)7.
C’è tuttavia un’altra questione assai più importante (per
332
quanto almeno verremo a dire nello svolgere successivo
della presente nota) che va evidenziata circa gli anni giovanili e la formazione culturale del nostro personaggio. Da ultimo la sottolinea Di Brazzano, quando avverte che una certa
communis opinio propenderebbe a vedere Venanzio trasferitosi primaevis…ab annis ad Aquileia presso Paolo (quindi
ancor prima che questi fosse eletto vescovo nel 557), dove
avrebbe acquisito la sua prima educazione8. Giustamente lo
studioso ribadisce che in proposito non abbiamo elementi
per confermare una tale ipotesi, se non la non univoca breve
espressione che appunto ci informa sul …pium Paulum…
/qui me primaevis converti optabat ab annis9. Che ciò significhi una frequentazione aquileiese o non piuttosto la conoscenza di Paolo avvenuta “in uno dei centri urbani del bacino del Piave: Acilum (Asolo), Tarvisium (Treviso), Opitergium
(Oderzo), Altinum” (“tutti erano sedi di vescovati e molto
probabilmente in ognuno di questi era possibile conseguire
una formazione scolastica…”), non lo possiamo dire, con i
dati che abbiamo, con certezza, sebbene la seconda argomentazione ci sembri forse nel merito più ragionevole. In
ogni caso una adeguata formazione di base, diciamo così in
loco, non solo sarebbe stata ben possibile, ma insieme
avrebbe in ugual misura favorito l’acquisizione, sempre in
loco, di quella cultura separatista o scismatica diffusa nelle
chiese dell’Italia nord orientale segnatamente a seguito
della condanna giustinianea nel 543 (e successivamente
confermata a più riprese) delle dottrine sostenute dai Tre
Capitoli circa la natura della figura del Cristo; dottrine che
apparivano in netto contrasto con le tesi monofisite soprattutto condivise dalle chiese d’Oriente10. Ma su questo avremo modo di ritornare.
Quel che conta comunque qui rimarcare è che Venanzio,
già in possesso di una probabile istruzione primaria, ad un
certo punto, secondo le parole di Paolo Diacono, Ravennae
nutritus et doctus, in arte gramatica sive rethorica seu etiam
metrica clarissimus extitit. Di quel periodo vi è un solo
accenno diretto, pur significativo e non fuggevole, nella Vita
Sancti Martini, allorché, dopo aver considerato tutti i luoghi
della città legati alla fede, invita (precor) il libellus a require
sodales… in modo, tra altre cose, da poter dare loro materiam…hanc…, ut ore rotundo/Martini gestis florentia carmina
pangant/et claro ingenio texant spargenda per ortum11. È
evidente che il riferimento è a compagni di studi letterari e
poetici, in grado di comporre ore rotundo, cioè con magistrale capacità formale, florentia carmina e non certo com333
ponimenti dozzinali: si ritrova insomma in queste parole la
consapevolezza di essere cresciuto nel contesto di una
scuola elitaria e di validi sodales, così da diventare, come di
lui si disse, venerabilis et sapientissimus Fortunatus. In questo senso Ravenna poteva appieno soddisfare le esigenze
di formazione dei giovani dotati, offrendo loro, attraverso la
tradizione delle sue numerose scuole, proprio quegli insegnamenti grammatici, retorici e di metrica che erano i principî fondamentali di ogni corretta educazione e che conservavano ancora “le dernier éclat de la culture classique”12.
Come è stato detto, importante fu probabilmente il “curriculum di studi svolto da Venanzio a Ravenna, là dove dovette
maturare in lui la vocazione di poeta di corte (non si dimentichi che egli visse in quella città nel periodo di transizione
dal dominio gotico a quello bizantino, potendone scorgere
le tracce dell’uno e le iniziative dell’altro…)”13, in un ambiente tuttavia che doveva anche coltivare discipline di altra
natura, in primis quelle geografiche, tese attraverso scuole
e circoli soprattutto alla conoscenza degli itinerari legati ai
luoghi santi (ad loca sancta), nonché a “costruire”, appunto
nei secoli tra VI e VII, una descrizione del mondo conosciuto integrata in una visione “teologica” complessiva. Anche di
ciò bisognerà tenere conto tirando infine le fila del nostro
ragionare.
Appare comunque del tutto evidente che già tali questioni, qui solo brevemente accennate, costituiscono temi di
peso e non a caso fanno parte a se stante in alcuni interventi
di questo Convegno. In particolare credo sia proprio la città
di Ravenna che diventa il fulcro e il motore dell’avventura
europea di Venanzio; egli infatti, da poeta, crea i presupposti di un viaggio che proprio lì ha il punto di partenza ed è
direttamente correlato, pur a grande distanza, con la meta
finale. Sono ben note le ragioni, riprese per altro da Paolo
Diacono14, che sono addotte per giustificare la partenza ad
Turones. Nella basilica ravennate di san Giovanni e Paolo si
trovava infatti il Martini loculum, il cui sacellum era ornato da
una pittura parietale con l’immagine del santo (paries retinet
sancti sub imagine formam) che nella seconda metà del IV
secolo era stato vescovo di Tours. Lì convengono, entrambi
afflitti da un forte dolore agli occhi (Hic cum oculorum dolorem vehementissimum pateretur, et nihilominus Felix iste
ipsius socius pari modo oculos doleret), Venanzio e l’inlustris
socius suo Felice (futuro vescovo di Treviso)15 e con l’olio
benedetto di una lucerna dolentia lumina tetigerunt; subito
lumen Martinus reddidit olim ovvero ilico dolore fugato sani334
tatem, quam optabant, adepti sunt. Questo è dunque il motivo, ribadito altre volte16, qua de causa Fortunatus in tantum
beatum Martinum veneratus est, ut, relicta patria, paulo
antequam Langobardi Italiam invaderent, Turonis ad eiusdem beati viri sepulchrum properaret.
Inizia così il “viaggio” per voto che dopo un lungo percorso portò il pellegrino agli Turonum … moenia supplex/
qua Martinus habet veneranda sepulchra sacerdos17, che si
trovavano al di fuori delle mura, dove sorgeva anche una
basilica in onore del santo18. Qui dunque, a Tours, si esaurisce il voto, specularmente alla promessa pronunciata a
Ravenna, qui viene celebrata la vita di Martino, come del
resto il libellus caldeggia si faccia, al suo “ritorno”, presso la
basilica dei santi Giovanni e Paolo, davanti alla sancti sub
imagine formam, da parte degli altrettanto speculari poeti
sodales. Non credo che siano da trascurare questi aspetti e
questi chiasmi per avanzare nella comprensione del testo e
delle intenzioni di Venanzio.
Ora, come si è detto, molto si è discusso, anche di
recente, sulle tappe dell’itinerario fortunatiano, nonché sulla
direttrice scelta per arrivare alla meta dove sciogliere infine
il voto19; non è il caso quindi di riprendere partitamente analisi già note. Vale tuttavia sottolineare con maggiore risalto
piuttosto alcune particolarità che ci possono ulteriormente
aiutare nelle successive considerazioni.
Anzitutto non vi è dubbio alcuno circa l’evidente incongruità del percorso prescelto attraverso le terre orientali
della Venetia: non solo vi era infatti l’alternativa molto più
diretta della valle dell’Adige20 o della via Claudia Augusta21,
ma segnatamente a partire almeno dalla metà del IV secolo
esisteva un itinerarium scriptum devozionale22 redatto da
due o più pellegrini che da Burdigala si erano recati ad loca
sancta, cioè Hierusalem usque e di lì erano poi ritornati ab
Heraclea per Aulonam et per Urbem Romam
Mediolanumque usque23. Ora, si sa che la via indicata in
partenza da Bordeaux si snodava attraverso Tolosa, Narbo
(Narbonne), Arelate (Arles); di qui risaliva il corso del
Rhodanus fino a Valentia (Valence) per poi superare le Alpi
al passo Matrona (Monginevro), proseguire per Segussio
(Susa), civitas Taurinis/Augusta Taurinorum e Mediolanum;
da Milano si utilizzava la cosiddetta via Gallica che toccava
Bergamum, Brixia e infine Verona, da dove si seguivano per
un tratto la Postumia fino a Vincentia e di qui la via per
Patavium e infine, per giungere ad Aquileia, ai confini orientali dell’Italia, la via Annia che a Concordia confluiva in un’u335
nica direttrice con l’ultimo segmento della Postumia24. Al
ritorno, a partire da Costantinopoli, i pellegrini cambiano
strada e, come già recita il titolo dell’Itinerarium, da Eraclea
di Tracia raggiungono Aulona (Valona), si portano in Puglia
dopo aver attraversato (traiectum) il braccio di mare
Adriatico e lungo la via Traiana prima e la via Appia dopo
risalgono fino a Roma; di qui con la Flaminia arrivano ad
Ariminum (Rimini) e poi con la Aemilia e un successivo raccordo da Placentia si ricollegano infine a Milano con il percorso di andata25.
Come si vede le possibilità di arrivare ad Turones con
assai più brevi percorsi e itinerari in ogni caso assai frequentati non mancavano: in sostanza da Ravenna si poteva
giungere comodamente e con diretto cammino fino a
Milano26 seguendo in gran parte la via Aemilia come i pellegrini del Burdigalense e come questi ultimi si poteva poi
attraversare le Alpi al passo del Monginevro e riprendere la
citata direttrice verso Burdigala27; ma ancor meglio da
Milano era possibile avviarsi lungo la strada della Val
d’Aosta, di Augusta Praetoria e del Piccolo S. Bernardo (in
Alpe Graia), oltre il quale si raggiungeva Vienna (Vienne)28 e
da qui Lugdunum (Lyon), Augustodunum (Autun),
Limovicum (Limoges), Lemonum (Poitiers)29 e da ultima la
città dei Turones.
E invece Venanzio, come è noto, opta per un’altra soluzione e si avvia a compiere un giro assai più lungo volgendosi dapprima verso la Venetia orientale per poi risalire a
settentrione ed entrare nelle terre controllate dai Franchi,
attraversare il Noricum, la Baiovaria, l’Austrasia, toccando
infine anche Parisii prima di pervenire alla meta prefissata.
Un “viaggio” senza dubbio possibile in sè, ma altrettanto strano, se non stravagante per le sue scelte di percorso,
tale comunque da porre degli interrogativi che non sono
solo in relazione all’itinerario stradale seguito dal libellus. Per
dare qualche risposta soddisfacente è forse utile riconsiderare quanto Venanzio stesso ci dice circa le tappe del
suo/non suo improbabile itinerario (secondo quanto apparirà ancor più chiaro in seguito), seguendolo passo passo e
mantenendo l’ordine sequenziale che ci forniscono i suoi
versi. Infatti, conta sottolinearlo ancora, non è il movimento
di andata che ci viene descritto, né un vero e proprio “ritorno”, ma solo una proiezione ideale, metaforica di un desiderio che non fu volontà attiva, né un disegno attuato.
Si deve anzitutto ribadire una volta di più che nel IV libro
della Vita Sancti Martini è appunto solo il libellus che viene
336
invitato da Venanzio a muoversi verso l’Italia, ricorrendo a
un’immagine letteraria che, come ho già sottolineato altrove30, si ritrova molti secoli dopo, in pieno “Stil novo”, esemplarmente ripresa nella ballata di Guido Cavalcanti che così
principia: “Perch’io no spero di tornar giammai,/ ballattetta,
in Toscana,/ va’ tu, leggera e piana,/ dritt’a la donna mia,/
che per sua cortesia /ti farà molto onore…”31. La rinnovata
citazione non mi sembra peregrina per quanto diremo da
ultimo.
Il libellus dunque si muove dalla città dei Pictavi, dove
Venanzio aveva conosciuto la regina Radegonda e dove alla
fine diventò vescovo negli ultimi anni della sua vita, e come
prima tappa va contentus e supplex agli Turonum moenia,
all’esterno dei quali si trovava la tomba del santo Martino
(vv. 629-631): si inizia cioè il “viaggio” dalla sua conclusione
e dallo scioglimento del voto (avvenuti tanto tempo prima) e
comunque dalla figura di Martino sacerdos. La tappa di
Parigi è definita da vari aspetti caratterizzanti: il primo di cui
si deve tener conto, perché ricorrente più volte, è l’ipotetica
si tamen urgueris, a cui segue l’invito ad affrettarsi serenamente verso la città (inde Parisiacam placide properabis ad
arcem) che è retta dal vescovo Germano32, erede spirituale
del protovescovo Dionisio (Dionysius olim), martire della
persecuzione di Decio alla metà del III sec. d.C. (249-251
d.C.) (vv. 635-637). I versi 638-639 con la citazione di
Remedio e di Medardo riportano, sebbene i siti non siano
esplicitamente nominati, rispettivamente ai vescovi di
Remus/Reims e dei Suessiones/ abitanti di Soissons: in particolare il primo fu colui che battezzò il re franco Clodoveo33,
mentre del secondo Venanzio celebra in un suo carme la
basilica (templa) costruita in suo onore34. Anche in questo
caso la prosecuzione dell’itinerario è introdotta da un’ipotetica, si pede progrederis, a cui segue con ancora maggiore
risalto quella che introduce la possibilità, si tibi barbaricos
conceditur ire per amnes, di placide Rhenum transcendere…et Histrum (vv. 640-641), dove la sottolineatura di una
qualche incertezza circa il cammino intrapreso prende concretamente corpo nel confrontarsi con la difficoltà di superare non solo corsi d’acqua, ma anche un contesto “barbarico”. Ancora fiumi, il Virdo e il Licca (ora Wertach e Lech),
confluiscono ad Augusta (Vindelicum, ora Augsburg), sede
vescovile già dal III sec. d.C. e città che conserva le venerabili reliquie di Afra, un’altra martire della fede sotto la persecuzione di Diocleziano (vv.642-643)35. Presso il passaggio
delle Alpi36 nuovamente l’incertezza viene espressa da un si
337
vacat ire viam, a cui si aggiungono gli eventuali ostacoli
frapposti dai Baiovari se non anche dai vicini Breoni, prima
di inoltrarsi là dove rapido qua gurgite volvitur Aenus (ora
Inn; vv. 644-646). Superate queste difficoltà si deve Valentini
benedicti templa require (v. 647), che alcuni ragionevolmente vogliono riconoscere in un vescovo del V secolo itinerante nel comprensorio delle Alpi Retiche, morto a Maia/
Merano/Meran e sepolto nella basilica di Passau in Baviera,
sede principale del suo culto37; non escluderei tuttavia che
si potesse riconoscere nel ricordo di questo santo anche
uno tra due altri personaggi con il medesimo nome, un prete
romano decapitato sulla via Flaminia nel corso della persecuzione di Claudio II del 269-270 e il vescovo di Terni decapitato a Roma qualche tempo dopo38. La localizzazione dei
Valentini templa lungo la strada del Resia/Reschenpass e la
Val Venosta/ Vinschgau sembrerebbe avvalorata anche
dalla persistenza toponomastica rilevabile nel paesino di S.
Valentino alla Muta/St.Valentin an dem Haide tra il lago di
Resia/Reschen See e il lago della Muta/Haider See39. Si
entra quindi insieme al libellus nei Norica rura…,ubi Byrrus
vertitur undis e oltre il quale per Drauum itur iter (vv. 648649). Seguendo l’ampia vallata della Drava (Drautal) con i
suoi castella si arriva così ad Aguontus, che sedens in colle
superbit (v. 650). Come ho già chiarito40, l’Aguntum a cui ci
si riferisce nel testo venanziano è certamente quello della
seconda metà del VI secolo e non più dunque la città romana segnalata dall’Itinerarium Antonini sulla sinistra della
Drau/Drava, poco a oriente di Lienz, lungo la strada che collegava la Val Pusteria/Pustertal e Sebatum a Teurnia (St.
Peter im Holz) e a Virunum (Zollfeld), nonché, attraverso il
Passo di Monte Croce Carnico/Plöckenpass, a Iulium
Carnicum (Zuglio) e ad Aquileia41. All’inizio infatti del V secolo il vescovo di Aguntum si era adoperato per far costruire
sul rilievo oggi conosciuto come Kirchbichl di Lavant42 un
primo edificio di culto che, dati i tempi, fu fortificato; successivamente tale iniziale insediamento fu accresciuto con
una chiesa e un battistero e ospitò quindi la nuova sede
vescovile, ivi poi trasferitasi, per ragioni di sicurezza, dal
fondovalle43. Ora, proprio la posizione del complesso del
Kirchbichl, alta e dominante sulla piana della Drava, si attaglia bene a quella sorta di descrizione morfologica che si
può ricavare dal testo della Vita Sancti Martini, dove appunto si dice che “qui superba sul colle si erge Agunto”. In ogni
caso, vale sottolineare che è ancora una volta la sede di un
vescovo, qui come altrove, la tappa prescelta da Venanzio
338
per il libellus, una sede che oltre tutto era subordinata alla
chiesa metropolita di Aquileia. Il “cammino” poi prosegue
salendo al citato Passo di Monte Croce Carnico (la Iulia
Alpes)44 e prendendo pertanto la strada che portava a Iulium
Carnicum, oggi Zuglio (vv. 651-653)45. In realtà il verso riporta Forum Iulii ovvero l’attuale Cividale, ma la letteratura in
proposito46 è univoca nel considerare la citazione come un
errore del poeta, in quanto il centro del primo ducato longobardo è situato molto più a sud est di Zuglio e soprattutto
dopo lo sbocco in pianura del Tagliamento e oltre Osoppo e
Ragogna (citate successivamente nel testo). Anch’io propendo prioritariamente per questa lettura, se non altro considerando il collegamento diretto con il valico che si legge
nella stessa espressione inde Foro Iuli…exi, immediatamente successiva alla segnalazione della Iulia Alpes, e soprattutto pensando al centro episcopale che fu Iulium Carnicum
a partire con ogni probabilità tra la fine del IV e la prima
metà del V secolo47. Tuttavia bisogna anche dire che nella
logica a cui sembra conformarsi, come vedremo, Venanzio,
non si potrebbe neppure escludere, ancora una volta, il riferimento proprio a Cividale, che naturalmente avrebbe comportato dalla valle della Drava un assai più lungo (e si deve
ammettere all’apparenza più improbabile) “percorso” attraverso i valichi di Tarvisio/Saifnitz, di Predil e la Staro
Selo/Sella di Caporetto48. Comunque, ripeto, è un’ipotesi che
nei fatti pare meno proponibile se non altro per l’assenza
allora di una tradizione di particolari “attrattive” (martiri,
vescovi, tombe) a Cividale49 e per “la funzione di controllo su
un’area di confine e di caposaldo avanzato alpino della
stessa Aquileia” che invece era venuta ad assumere
Zuglio50. Che infine il Forum Carnicum che aveva in mente
Venanzio fosse quello dove era ubicato il municipio romano
o fosse piuttosto, come Agunto, in alto sulla collina, presso
l’antica chiesa di S. Pietro che ha fornito resti di strutture
forse cultuali datate tra V e VII secolo, questo non è possibile dire con certezza, sebbene rimanga una possibilità di
indubbia suggestione51.
I centri citati successivamente da Venanzio sono Osopus
(Osoppo)52 e Reunia (Ragogna), ambedue legati dalla presenza vicina delle acque del Tagliamento (vv. 654-655: per
Ragogna si dice che super instat aquis Reunia Teliamenti)53
e dal fatto che si trovano allo sbocco in pianura del fiume,
laddove i possibili percorsi da seguire si moltiplicano.
Del resto una chiara indicazione in questo senso viene dai
versi subito seguenti: Hinc Venetum saltus campestria perge
339
per arva/ submontana…castella per ardua tendens (vv. 656657). In sostanza usciti dalle asperità alpine e dalle vallate fluviali si aprivano all’orizzonte l’ampia estensione planiziare
della Venetia orientale e le direttrici che la attraversavano54.
Una di queste era la strada che correva a ridosso delle
Prealpi Carniche, lungo una linea sin dai tempi più remoti interessata da presenze insediative più o meno organizzate che
dovettero evolversi verso la tarda antichità in forme arroccate
e ancor più caratteristicamente castellane nel Medioevo55.
Ma in aggiunta a questa via campestria per arva, due
altre sono più “pressanti” per il libellus. La prima è di certo
quella che si impone per importanza assoluta ed è ancora
una volta introdotta da un si ipotetico, da una scelta che si è
chiamati a fare: Aquileiensem si forte accesseris urbem (v.
658). Si capisce subito dopo il perché dell’importanza dell’itinerario, dal momento che nei pressi dell’antica colonia
romana Cantianos domini…venereris amicos (v. 659). Ora
noi sappiamo bene chi erano questi Canziani: tre fratelli,
Canzio, Canziano e Canzianilla, che subirono il martirio all’epoca di Diocleziano ed ebbero degna sepoltura e continua
venerazione dove oggi è San Canzian d’Isonzo (non precisamente quindi sulla strada per Aquileia, ma a circa otto chilometri a oriente di questa)56. Nei due versi che seguono vi è
poi l’invito a venerare anche l’ “urna” di Fortunato che, come
è noto, insieme a Felice fu un altro martire dioclezianeo57, ma
soprattutto, si dice, pontificem pium Paulum cupienter adora
(vv. 660-661). Si tratta di Paolo, vescovo di Aquileia dal 557
all’anno della sua morte, nel 569, il vescovo che con l’arrivo
dei Longobardi in Italia trasferì la sede episcopale a Grado
portando con sè il tesoro patriarcale58, ma soprattutto il primo
vescovo eletto dopo lo scisma, in relazione ai cosiddetti Tre
Capitoli, operato dalle chiese metropolite di Milano e Aquileia
nei confronti della sede romana. In particolare Paolo “resistette anche alle minacce di papa Pelagio di ricorrere all’ausilio dell’autorità imperiale” per far recedere Aquileia dalla
scelta scismatica; era pertanto “un fervido sostenitore della
battaglia dottrinaria contro Bisanzio e contro Roma”59.
La scelta successiva della seconda via che si può aprire al libellus giunto in pianura (in verità sarebbe la terza
tenendo conto di quella per submontana castella) è
anch’essa condizionata dalla possibilità del si petis illud iter
e ha come meta Concordia, probabile sede vescovile dalla
fine del IV secolo60, dove l’omaggio è da tributare al pretiosus Augustinus e a Basilius (vv. 663-664). Come è stato giustamente osservato, di tali personaggi non sembra restare
340
traccia nel ciclo santoriale o martirologico concordiese, così
che potrebbero riconoscersi non come martiri, ma come
“due grandi dottori della Chiesa sant’Agostino di Ippona e
san Basilio Magno di Cesarea”61.
Dopo Concordia si apre una sorta di parentesi familiare
perché i punti di riferimento (a partire da Concordia, da
Reunia?, non è chiaro) sono in ordine anzitutto la mea
Tarvisus, alla quale si fa comunque seguire l’ipotetica si molliter intras, e il suo vescovo, quell’inlustrem socium Felicem
che Venanzio raccomanda di cercare (quaeso require) perché è colui con cui condivise gli studi e la grazia di Martino a
Ravenna, ma è anche colui che fu il coraggioso interlocutore
di Alboino sul Piave (vv. 665-667)62. Non distanti da Treviso si
aggiungono poi, come tappe di questo “viaggio nel viaggio”,
Ceneta e Duplavenis, ovvero i luoghi natali del poeta, “dove
è la terra dei miei genitori, da dove trae origine la mia famiglia, dove stanno mio fratello, mia sorella, tutti i nipoti”: lì deve
andare il libellus perché vi sono persone amate, legate da
vincoli saldi di affetto e quindi da salutare con calore (quos
colo corde fide, breviter peto redde salutem: vv. 668-671).
Non sfuggirà che in questo excursus sul filo della memoria e
del ricordo i familiari, su cui pur ci si sofferma per qualche
verso, vengono tenuti per modestia e opportunità da ultimi.
Si “giunge” poi a Padova con una evidente incongruenza
topografica e sequenziale, ma soprattutto con una ulteriore
posizione di dubbio, espressa da si Patavina tibi pateat via,
pergis ad urbem (ancora una volta sottolineando l’incertezza
della via); naturalmente huc sacra Iustinae, rogo, lambe
sepulchra beatae, che in particolare ha sulle pareti del sacello pitture che ricordano la figura di Martino (vv. 672-674).
Giustina63, come si sa, è anch’essa una martire della fede,
decapitata nel corso della persecuzione di Diocleziano, e
insieme a lei è degno di onore pure il vescovo Giovanni con
suis genitis64, che vengono definiti sociis per carmina nostris
(vv. 675-676), poeti quindi, amici per questo di Venanzio.
Potrebbe aver ragione a mio avviso chi ravvisa nel vescovo il
bonus antistes accumunato in un carme a Vitale65, vescovo
probabilmente di Ravenna e non di Altino (il Vitale altinate
ebbe, come diremo più avanti, molte e gravi traversie con
l’avvento dei Bizantini e di Narsete)66.
Da Padova i versi sembrano dare un ritmo più veloce ai
tempi del “viaggio”, favoriti dalla presenza di fiumi come il
Brenta, il Retrone, l’Adige e il Po che con la loro corrente o
con i tratti stradali che seguono il loro corso rendono più
spedito l’avvicinamento alla meta finale: hinc tibi Brinta
341
fluens iter est, Retenone secundo;/ ingrediens Atesim,
Padus excipit inde phaselo,/ mobilis unde tibi rapitur ratis
amne citato (vv. 677-679). Le incertezze delle scelte non ci
sono dunque più e le acque portano direttamente a
Ravenna. Inde Ravennatem placitam pete dulcius urbem (v.
680): come si vede già la fortemente evidenziata aggettivazione, placita, dulcius, crea un clima particolare che pare
ricongiungersi idealmente all’inizio dell’itinerario, quando si
erano utilizzate pressoché le medesime parole nel medesimo ordine (v. 636: Inde Parisiacam placide properabis ad
arcem; cfr. anche I, 487: Inde Parisiacam sacer intrans concite portam). Anche nella città adriatica alfine raggiunta il
ritmo non diminuisce, anzi cresce man mano fino alla conclusione, con gli inviti pressanti per correre (recurrens) ai
luoghi di culto dei santi e soprattutto ad adorare “le tombe
del grande martire Vitale e del mite Ursicino che una sorte
comune rese beati” (vv. 681-683), entrambi vittime di persecuzioni, al tempo di Diocleziano il primo, di Massimino Daia
il secondo, forse un illirico67. “Poi recati al santuario del caro
Apollinare,/ gettati a terra supplice (fusus humi supplex:
ancora si può fare un riscontro con un verso “iniziale” – v.
630 –, contentus tantum Turonum pete moenia supplex) e
affrettati subito dopo a visitare tutte le cappelle” (vv. 684685): qui si è giunti al primo vescovo e missionario del cristianesimo in ambito ravennate, quindi una sorta di archetipo della fede, anch’esso per di più martire68.
Il culmine infine della trama itineraria è naturalmente il
sacello di Martino presso la basilica dei santi Giovanni e
Paolo (Expete Martini loculum…: v. 686) che conclude, come
si è detto, in termini quasi circolari l’avventura del libellus.
Ma non è ancora proprio finita; infatti, secondo quanto si
è già anticipato al principio di questa nota, c’è un ultimo
significativo invito: “Con animo pieno di affetto ti prego di
cercare i miei compagni./Se parlerai con loro, con la tua
devozione ti meriterai la loro indulgenza./A loro io offro questa mia opera, perché con stile perfetto/compongano splendidi carmi sulle gesta di Martino/ e con la loro riconosciuta
capacità ne curino la stesura e li diffondano nell’Oriente”(vv.
702-706). Non vi è dubbio che in questi versi vi è un forte
ricordo della fiorente scuola di retorica ravennate frequentata da Venanzio e dei bravi suoi compagni, capaci di diffondere significativamente un alto messaggio di contenuto e di
poesia nell’Impero d’Oriente.
In sostanza quanto abbiamo detto può riassumersi nel
seguente schema:
342
Turones
Parisii (si)
Remus (si)
Suessiones
Rhenus (si)
Histrus
Augusta
Martino
Vesc. Germano Protovesc. Dionisio, martire
(m. 576 d.C.)
(Decio, 249-251 d.C.)
Vesc. Remedio
(m. 553 d.C.)
(battezza Clodoveo)
Vesc. Medardo
(m. 560 d.C.; basilica in suo onore)
transcendere
Afra
martire
dioclezianea
Sede vescovile (dal III d.C.)
Virdo
Licca
Baiovarii (si)
Aenus
Valentini
Valentino
templa
martire del III d.C.
Byrrus
Dravus
Trasferimento del
Aguontus
vescovo (V d.C.)
Iulia Alpes
Forum
Sede vescovile Edificio di culto presso
Iuli
(tra IV e
S. Pietro (V-VII d.C.)?
V sec. d.C.)
Osopus
Reunia
Teliamentum
Venetum saltus
Fortunato
Aquileia (si) Canziani
martiri dioclez.
martire dioclez.
Vesc. Paolo
(m. 569 d.C.)
scismatico
trasferitosi a
Grado (Longobardi)
Concordia (si) Sede vescovile Agostino di Ippona
(dalla fine
(IV-V sec. d.C.)
del IV d.C.)
Basilio Magno di Cesarea
(IV sec. d.C.)
dottori della chiesa?
343
Tarvisus (si) Vesc. Felice socius
(Alboino)
Ceneta
Famiglia e amici
Duplavenis Famiglia e amici
Patavium (si) Giustina
Vesc. Giovanni con suis
martire dioclez. genitis, sociis per carmina
nostris
Brinta
Hinc tibi iter est
Retenus
Atesis
Padus
Vitale
Ursicino, martire
Ravenna
martire dioclez. (Massimino Daia, 305 d.C.)?
Protovesc.
Apollinare martire
(II-III d.C.)
Martino
Si sociis loqueris …
…ut ore rotundo
…carmina pangant
…spargenda per ortum
Accostiamo ora, per completare il quadro, i riferimenti
geo-topografici contenuti nella Praefatio dell’opera di
Venanzio Fortunato69, riferimenti che ripercorrono sostanzialmente questo “viaggio”, tuttavia in “andata” (mentre nello
schema che si propone la sequenza, per omogeneità con
quella precedente, è in “ritorno”):
Pyrenaei
Maxima fluenta
Aquitaniae
Germania
Alamannia
Baivaria
Breuni
Noricum
344
Garonna (Garonne)
Liger (Loire/Loira)
Sequana (Seine/Senna)
Axona (Aisne)
Mosa (Meuse)
Mosella (Moselle)
Rhenus (Rhein/Reno)
Danuvius (Donau/Danubio)
Licca (Lech)
Oenus (Inn)
Dravus (Drau/Drava)
Transmitto
Transeo
Alpes Iulia
Teliamentum (Tagliamento)
Liquentia (Livenza)
Plavis (Piave)
Brinta (Brenta)
Atesis (Adige)
Padus (Po)
Ravenna (da)
Trano
Progredior
Gli schemi riassuntivi proposti mi sembrano utili per
cogliere subito, guardando al primo di essi, la qualità delle
tappe di “viaggio” proposte al libellus, tappe che si mostrano pressoché tutte legate a particolari presenze. Si contano
infatti nei vari luoghi suggeriti (che sono 17 siti) almeno 11
martiri della fede, vittime delle varie persecuzioni; 8 vescovi
citati a cui si aggiungono quattro sedi vescovili (senza contare Tours e Martino); forse due dottori della chiesa.
Non vi è dubbio a mio parere che tali segnalazioni, che
sembrano configurare chiaramente il percorso di un pellegrino presso santuari martiriali e centri devozionali, nonché
presso personalità di grande prestigio religioso70, siano volute e certo mirate in un momento particolare che stava vivendo al suo interno la chiesa divisa dal cosiddetto e sopra
ricordato scisma dei Tre Capitoli. Pertanto non si possono
ritenere casuali le citazioni dei martiri, in gran parte dioclezianei, né delle sedi vescovili con i loro vescovi (tutte scismatiche), segnatamente quelle di Aquileia e di Paolo: quest’ultimo, oltre all’antica consuetudine con Venanzio, poteva
vantare una doppia resistenza, al papato e all’impero da una
parte, ai Longobardi, dall’altra71. A Concordia, se fosse confermata la proposta di riconoscere il ricordo di sant’
Agostino e di san Basilio Magno, avremmo significativamente due figure che con la loro vita e i loro itinerari di fede
venivano a rappresentare nel cuore della cristianità scismatica due guide spirituali di antica e grande tradizione. Così
come non è certo casuale, in questo contesto di valori, la
preghiera, in chiusura della Vita, affinché gli amici di
Ravenna compongano carmi sulle gesta di Martino e li
diffondano per ortum.
È quindi possibile immaginare, come scrivevo circa dieci
anni or sono, in Venanzio una precisa reazione a quegli
avvenimenti epocali che “trapassano trasversalmente tutta
la società del VI secolo, nella fase cioè di transizione tra
mondo tardoantico e mondo medioevale”, e che culminano
345
negli esiti del concilio di Costantinopoli del 553 e successivamente nelle prime avvisaglie della invasione longobarda72,
se non anche nella morte di Giustiniano (565 d.C.). Ed è
certo che questa scomparsa insieme a quella del papa
Pelagio (561 d.C.), ovvero del papa che aveva cercato di
rendere meno inconciliabili le posizioni circa la questione
dei Tre Capitoli, dovettero portare “nuove incertezze a un
equilibrio politico-religioso che già si presentava instabile”.
Di qui sono venute, come si accennava all’inizio di questa
nota, una consistente e variata serie di ipotesi per giustificare in modo più convicente di un semplice scioglimento di un
voto il “viaggio” ad Turones. Tra le più suggestive e industriosamente articolate sono da annoverare le argomentazioni che portano Šašel a vedere in Venanzio una sorta di
agente bizantino alla corte franca, un politico dall’intuito
esercitato intento a tessere trame politiche di altissimo livello, “creando…contatti con tutte le corti territoriali franche,
con i re e con gli appartenenti alla gerchia sociale…” dove
infine “tutti i fili – in un certo senso – correvano verso il monastero di Radegunda in Poitiers”73. In verità pare assai strana
e di difficile praticabilità una tale lettura74 che si basa su un
nulla di esplicito e su un tutto deduttivo, molto “costruito”
ipotesi su ipotesi. Oltre tutto non si capisce come un filoscismatico quale era Venanzio potesse mettersi al servizio di
una corte che osteggiava fortemente Aquileia e tutto ciò che
questa diocesi rappresentava nella chiesa d’Occidente75.
Con riscontri assai più validi e perciò più condivisibili si
ripropone invece l’interpretazione, già per primo avanzata
da Köbner e, tra gli altri, ripresa di recente anche da Pavan
e da me76, che la scelta di abbandonare Ravenna e l’Italia
sia da configurare “come una sorta di ‘opzione franca’, un
atto di fiducia nei confronti di un regno che aveva avuto
modo di mostrare solidarietà tangibile ai vescovi dell’Italia
settentrionale (in chiave antimperiale)”. D’altra parte
Venanzio doveva conoscere bene, pur non facendo mai riferimento esplicito al fatto, che “ante annos plurimos la morte
di Giustiniano, il vescovo di Altino Vitale aveva trovato rifugio
appunto ad Francorum regnum…, hoc est ad Agonthiensem
civitatem, ovvero presso Aguntum; e ugualmente doveva
essere noto che proprio nello stesso 565 era avvenuta una
forse annunciata ritorsione per mano di Narsete, che addirittura imprigiona Vitale (nel frattempo rientrato) e lo condanna aput Siciliam exilio”77. Per queste ragioni e per l’analisi sopra rappresentata, io affermavo che “il viaggio di
Fortunato” assumeva una valenza “tutta impregnata di una
346
connotazione ideologica assai chiara: ‘la scelta’ potrebbe
significare cioè il rifiuto di un mondo senza più i valori fondamentali di riferimento e il tentativo di acquisirne un altro,
con una spiritualità diversa, ma fedele alla tradizione. Allora”
– aggiungevo – “si capisce anche che l’ ‘opzione franca’ e il
pellegrinaggio attraverso l’Europa centrale diventano… una
sorta di itinerarium in fidem, una progressiva evoluzione spirituale…”.
A quasi dieci anni di distanza, credo di consentire ancora nella sostanza con una simile lettura di quello che giustamente definivo un “itinerario/non itinerario, … simbolico …
un itinerario ‘ideologico’ e poetico…”. Mi pare infatti ragionevole continuare a pensare a una non estraneità di
Fortunato, se non proprio a una sua radicale presa di
coscienza (mai del resto esplicitata con chiarezza) in merito
agli avvenimenti che caratterizzarono in termini epocali la
seconda metà del VI secolo. Solo che oggi io ribadirei con
più forza soprattutto l’aspetto o meglio l’impegno culturale e
poetico del personaggio e pure di conseguenza del suo
“viaggio” ad Turones, che probabilmente può anche rappresentare la sintesi metaforica di un tratto della sua vita, ma
che in ogni caso deve essere più in particolare ricondotto
nei paradigmi e nei moduli della poesia.
Sono in realtà gli stessi aspetti che traspaiono dall’opera
fortunatiana che portano a considerarla come un prodotto di
quel mondo culturale che fiorì nella Ravenna del VI secolo e
che dovette informare di sè gran parte del ceto intellettuale
di quel periodo. Ora è risaputo del ruolo di Ravenna come
erede dei valori di Roma e come “città tramite fra Occidente
e Oriente”: una fisionomia di fondo che la permeò anche in
epoca gota, che segnò “una sicura ripresa della vita civile e
culturale”. Se ai Romani fu lasciato preferibilmente “il culto
delle lettere”, ai Goti “non mancò una spiccata attenzione
verso aspetti tecnici e applicativi” delle conoscenze di tradizione antica. Si spiega così il recupero di molta eredità latina legata a temi di geometria, di agrimensura, di aritmetica
etc. e la costituzione in Ravenna di una sorta di centro di
produzione di manoscritti che copiavano o elaboravano testi
precedenti. Non è un caso quindi, secondo le parole di
Cavallo, che “ancora alla metà del secolo VI a Ravenna studiava grammatica, retorica e diritto il poeta Venanzio
Fortunato acquisendovi…non solo un’agile maestria metrica
ma anche una vasta conoscenza di autori classici”78. Non è
questa naturalmente la sede per discutere su questo fenomeno storico, ma vale tuttavia sottolineare una volta di più
347
l’importanza di queste scuole ravennati di arte della scrittura e dell’insegnamento letterario, alle quali si affiancarono
quelle di stampo più tecnico-scientifico; furono queste ultime inoltre che, una volta abbassatosi decisamente “il tono
degli studi retorico-letterari” nel VII secolo, continuarono a
fiorire e a produrre opere importanti desumendole dalla tradizione precedente. Per quanto ci riguarda fondamentale in
questo quadro risulta la Cosmographia del cosiddetto
Anonimo o Geografo Ravennate, che trae spunto dal grande patrimonio latino degli itineraria scripta vel adnotata,
nonché dagli itineraria picta79, per descrivere il mondo in un’
“opera di informazione geografica d’indole prevalentemente
nozionistica”, ma che tuttavia “trascende il suo stesso carattere compilatorio per porsi, piuttosto, come proiezione di
uno strumento geografico” maturato nel contesto di un
ambiente di scuola e cristiano. Un’opera quella del
Ravennate “che s’inquadra nel vivo dei problemi dell’epoca
in cui è stata composta; problemi di un nuovo dibattito culturale, guidato dalla Chiesa e dal suo clero”, dove il libro e
la cultura in genere diventavano momenti di “edificazione
religiosa o, più semplicemente, come cosa sacra e simbolo
del sacro”80.
Da questo ambiente ravennate tra VI e VII secolo, fervido di scuole a cavaliere di una transizione epocale, è ben
probabile prenda spunto anche la personalità letteraria di
Venanzio Fortunato81 che fa tesoro dell’insegnamento dei più
famosi autori latini e al contempo non manca di essere
influenzato da molti caratteri di quel sapere anche geografico che doveva comunque essere uno dei fondamenti per
una corretta formazione educativa e cristiana. In tal senso a
me pare che a proposito del “viaggio” del libellus si intreccino abilmente proprio questi due momenti della formazione
culturale ravennate: quella dei classici nella sapiente costruzione dei versi e nelle corrispondenze testuali82 e insieme la
tradizione degli itineraria, riciclata e utilizzata nelle descrizioni “ideologiche” cristiane, dove la strada non è più diretta, ma segue i percorsi del nuovo impero celeste. Credo in
sostanza che la medesima scuola che informerà circa un
secolo più tardi la Cosmographia83 sia alla base dell’itinerario/non itinerario84 di Venanzio, che, al di là delle contingenze storiche e politiche che pure sembrano essere sottese
nei suoi versi, mostra i segni culturali e letterari di un poetico itinerarium in fidem.
In sostanza il “viaggio” di cui si è discusso a me pare
oggi l’espressione, prima ancora di una scelta politica (che
348
comunque esiste) in opposizione a Papato e Impero, di un
solido impianto poetico su cui si innestano le forti istanze
delle contingenze storiche e religiose che non potevano non
avere un forte impatto e una conseguente ricaduta in una
personalità acculturata e sensibile.
Ci sono infine due altri aspetti che sembrano rappresentare bene queste diverse urgenze e fisionomie nel testo di
Venanzio che abbiamo considerato. Mi riferisco da una
parte alle molte ipotetiche (che sottointendono una almeno
momentanea incertezza) introdotte dal si con cui è volutamente inframmezzato il percorso, dall’altra alla molta attenzione riservata ai corsi d’acqua che il libellus deve attraversare.
Circa le prime, dallo schema proposto se ne possono
contare ben 9, di cui 8 dislocate in punti precisi e significativi del “viaggio”. Tre infatti sono all’inizio, in corrispondenza
delle tappe di Parigi e di Reims, nonché al momento di attraversare il Reno e il Danubio; una quarta è presente probabilmente lungo la direttrice del passo di Resia, dove i
Baiovarii potrebbero frapporre ostacolo; gli altri quattro si
sono in riferimento ad Aquileia, a Concordia, a Treviso e a
Padova, ovvero alle fasi centrali e conclusive e quindi anche
cruciali del percorso. Da Padova Brenta, Adige e Po favoriscono poi l’arrivo a Ravenna, laddove l’ultima possibilità di
scelta viene infine data per l’incontro con gli amici di poesia
ai quali si può lasciare il compito di propagandare in
Oriente, attraverso splendidi versi, la fama e le gesta di
Martino.
Non vi è dubbio che il messaggio insistito sembra diventare trasparente per il suo significato riferibile verosimilmente al travaglio del cristiano, il cui libero arbitrio è di continuo
messo di fronte a delle scelte per procedere in avanti nel
personale itinerarium in fidem. E che queste scelte necessarie coincidano, oltre che con luoghi specifici, talora allusivi a ostacoli naturali di difficile superamento85, anche con
realtà devozionali fortemente radicate grazie a martiri e
comunque a personaggi emblematici da un punto di vista
delle esperienze di vita, ciò mi pare con chiarezza far intendere una aperta e non dubitabile vena polemica con la
situazione che Venanzio aveva lasciato in Italia. Ma tuttavia
si deve riconoscere insieme che questi stessi segni sono
pur sempre calati all’interno di un’architettura letteraria che
sembra stemperare l’impatto polemico nel contesto più articolato di un intento poetico.
Per quanto riguarda la sottolineatura ugualmente insisti349
ta (per 12 volte) circa l’attraversamento dei fiumi, Reno e
Danubio (transcendere), Wertach, Lech e Inn, Rienza e
Drava, Tagliamento, o in qualche caso la loro navigazione,
Brenta, Retrone, Adige e Po, questa trova un confronto diretto nella stessa Praefatio di Venanzio (cfr. il secondo schema), dove si utilizzano anche verbi diversi per meglio evidenziare questi passaggi: transmittere per Garonna, Loira,
Senna, Aisne, Mosa, Mosella, transire (in luogo di transcendere nella Vita) per Reno, Danubio, Lech, Inn, Drava, tranare per Tagliamento, Livenza, Piave, Brenta, Adige e Po. Ora
questa scrupolosa e attenta segnalazione di tutte queste
presenze idrografiche lungo il percorso (ben 16, se si esclude la Garonna) sembra di fatto un altro marcatore che scandisce le tappe successive di un cammino del tutto particolare. Resto infatti ancora del parere che questi “segni” ripetuti “vadano oltre il puro significato geografico di caratterizzazione territoriale, né siano da ricondurre solo a una sorta
di pietre miliari di riferimento ‘cartografico’, ma siano soprattutto e piuttosto da vedere nel solco della tradizione cristiana delle acque fluenti e purificatrici, a partire dai quattro
fiumi del paradiso terrestre, e di quella, ancora più antica,
che comprende i riti di passaggio e di transizione”86. Anche
questi passaggi si possono intendere in realtà come
momenti di salvazione lungo la strada della fede.
C’è naturalmente da dire che la citazione e la presenza
di corsi d’acqua non sono limitate solo ai versi finali della
Vita Sancti Martini o alla Praefatio, ma sono assai diffuse e
comuni in tutta l’opera venanziana, al punto che Della Corte
lo definisce “il poeta dei fiumi”, ripercorrendo tutte le sue
citazioni “potonomastiche”87: nel caso, questo aspetto sembrerebbe essere in concreto una conferma dell’inserimento
del nostro autore in un filone di tradizione letteraria, dove gli
aspetti naturali e insieme idrografici del paesaggio venivano
segnatamente considerati ed esaltati (basti pensare ad
Ausonio)88. Si potrebbe quindi desumere che è un’ “Europa
dei fiumi …quella che emerge dalla scrittura di Venanzio”,
ma si deve anche aggiungere che “per lui il fiume non è soltanto la massa d’acqua che scorre… È qualcosa di più. Nel
nobile disegno del Creatore è l’elemento fertile di una natura che, senza il fiume, resterebbe arida e infeconda.…crede
nella funzione benigna del fiume che irriga i campi assetati,
alimenta i numerosi pesci, dà frescura e refrigerio e perciò
contribuisce all’amenità del paesaggio.…il regno animale e
quello vegetale non sarebbero vissuti senza questo prezioso elemento. Che è anche salvifico: mentre la distruzione
350
del fuoco è simbolo del peccato, il lavacrum dell’acqua viva
e corrente rappresenta la salvazione. Il valore sacrale dell’acqua non è più di concezione pagana. Come fu quella del
Giordano (X 6, 36; 100; Vita Mart., I 512), ci riporta al battesimo per cui (V 5, 110) virgilianamente può dire: et nova progenies reddita surgit aquis”89.
Come si vede ritorna in queste parole di Della Corte la
fisionomia indissolubile di un uomo colto e certo di parte,
che aveva fortemente sentito i problemi del suo tempo, politici e religiosi, ma che insieme sentiva sostanzialmente di
dare il meglio di sè come letterato e poeta di corte90.
351
Le strade del libellus in Europa (elab. G. Rosada, dis. G. Penello).
352
353
Le strade del libellus nell’Italia settentrionale (elab. G. Rosada, dis. G. Penello).
354
355
Note
(1) Cfr. in generale su Venanzio M. Schuster, s.v. Venantius Fortunatus, in
RE, VIII A, Stuttgart 1881, cc. 677-695; B. Brennan, The Career of Venantius
Fortunatus, «Traditio», XLI (1985), pp. 49-78 e la bibl. citata più oltre nelle note (insieme agli altri contributi di questo volume, si veda poi segnatamente
quello di Di Brazzano, dove si sottolinea “come la presentazione del viaggio
quale pellegrinaggio devozionale non sia pienamente credibile”).
(2) G. Rosada, Il “viaggio” di Venanzio Fortunato ad Turones: il tratto da
Ravenna ai Breunia loca e la strada per submontana castella, in Venanzio
Fortunato tra Italia e Francia, Dosson (Treviso) 1993, pp. 25-57.
(3) S. Di Brazzano, Il “pellegrinaggio” di Venanzio Fortunato da Ravenna
a Tours, in Cammina, cammina… Dalla via dell’ambra alla via della fede, a cura di S. Blason Scarel, Aquileia (Udine) 2000, p. 145 (145-152) e in questo volume.
(4) Vita Sancti Martini, IV, 668-670 (in Opera poetica, MGH, Auct. ant., IV,
pars prior, rec. et emend. F. Leo, Berolini 1881, pp. 292-370). Un ricordo dei
propri cari, che richiama e riproduce in parte il verso citato, si trova anche in
Carm., VII, 9, 7-11, allorché il poeta dice di non aver mai ricevuto lettere da
essi dall’epoca della sua partenza: Exul ab Italia nono, puto, volvor in anno/…/tempora tot fugiunt et adhuc per scripta parentum/ nullus ab exclusis
me recreavit apex./ Quod pater ac genetrix, frater, soror, ordo nepotum,… Da
un altro passo sappiamo che la sorella si chiamava Tiziana (Carm., XI, 6, 8:
…quam soror ex utero Titiana fores,…). In proposito sarebbe suggestivo che
Titiana fosse il nome appartenuto a una martire cenetense.
(5) Un dubbio analogo deve essere venuto anche a Di Brazzano, Il “pellegrinaggio” di Venanzio Fortunato (3), p. 146, se così si esprime in proposito: “Lasciata Duplavenis si diresse alla vicina Cenita, l’odierna Vittorio Veneto,
ove, a quanto par di capire, dimoravano altri suoi parenti e amici” (non così
in questo volume).
(6) Hist. Lang., II, 13 (in MGH, Script. rer. Lang. et Ital., saec. VI-IX, ed. L.
Bethman, G. Waitz, Hannoverae 1878).
(7) Ibid. Bisogna dire tuttavia in proposito che, come noi, probabilmente
“Paolo Diacono non aveva altri elementi per ricostruire la biografia di
Venanzio, se non le sporadiche indicazioni autobiografiche”. Cfr. F. Della
Corte, Venanzio Fortunato, il poeta dei fiumi, in Venanzio Fortunato (2), p. 138
(137-147).
(8) Di Brazzano, Il “pellegrinaggio” di Venanzio Fortunato (3), pp. 145,
147 e in questo volume.
(9) Vita Sancti Martini, IV, 661-662.
(10) Su questo fondamentale tema, si vedano in generale C. Capizzi, I
vescovi illirici e l’affare dei “Tre Capitoli”, «AttiMemSocDalmStPatria», 12,
n.s.1 (1967), pp. 71-117; G. Cuscito, Aquileia e Bisanzio nella controversia
dei Tre Capitoli, «AAAd», XII, 1 (Aquileia e l’Oriente mediterraneo) (1977), pp.
231-262, con bibl. ivi; più in particolare, cfr. G. Fedalto, Organizzazione ecclesiastica e vita religiosa nella “Venetia maritima”, in A. Carile, G. Fedalto, Le
origini di Venezia, Bologna 1978, pp. 303-314 (251-427); S. Tramontin, Le origini del cristianesimo a Treviso, in Storia di Treviso, I, Origini, a cura di E.
Brunetta, Venezia 1988, pp. 319-324 (311-356); M. Pavan, Venanzio
Fortunato tra Venetia, Danubio e Gallia Merovingica, in Venanzio Fortunato
(2), pp. 11-23 e naturalmente il contributo di Rajko Bratož in questi Atti.
(11) Vita Sancti Martini, IV, 702, 704-706.
(12) Tutti aspetti di una scuola che si possono ben rintracciare nell’opera poetica di Venanzio; anzi si è detto addirittura, a proposito della Vita Sancti
Martini, che essa è la testimonianza della “sopravvivenza della tradizione greco-romana in un’epoca di profonda crisi e trasformazione” e, a proposito del
suo autore, che egli fu “un dernier représentant de la poésie latine”. Cfr. D.
Tardi, Fortunat. Étude sur un dernier représentant de la poésie latine dans la
Gaule mérovingienne, Paris 1927; A. Longpré, L’étude de l’examètre de
Venantius Fortunatus, «CahiersÉtAnc», 5 (1976), pp. 45-58; M. Reydellet,
356
Tradition et nouveauté dans les Carmina de Fortunat, in Venanzio Fortunato
(2), pp. 81-98, nonché i contributi di Cristina La Rocca e di Antonio Carile in
questi Atti; più in generale, U. Pizzani, La cultura in Italia e in Gallia nel sesto
secolo, in Venanzio Fortunato (2), pp. 63-79.
(13) N. Scivoletto, Commento conclusivo e proposte, in Venanzio
Fortunato (2), pp. 241-242 (237-243).
(14) Utilizzo qui sia il passo della Vita Sancti Martini, IV, 686-701, sia quello della Hist. Lang., II, 13, che si serve spesso delle medesime espressioni di
Venanzio. Cfr. Rosada, Il “viaggio” (2), p. 26.
(15) È, come si sa, l’episcopus Tarvisianae ecclesiae che si incontrò con
Alboino quando questi ad fluvium Plabem venisset (Paul. Diac., Hist. Lang.,
II, 12). Con Felice Venanzio aveva avuto un sodalizio di studio (…quoniam patriae fuit aula sodalibus una…) e forse continuava ad avere con lui rapporti
epistolari (Carm., VII, 13).
(16) Ven. Fort., Carm., VIII, 1, 21; Vita Sancti Martini, I, 44, oltre che IV, 667.
(17) Ven. Fort., Vita Sancti Martini, IV, 630-631.
(18) Nella Vita Sanctae Radegundis, XIV (in Opera poetica, MGH, Auct.
ant., IV, pars posterior, rec. et emend. B. Krusch, Berolini 1885, pp. 38-49 e
in Fredegarii et aliorum chronica. Vitae sanctorum, MGH, Script. rer.
Meroving., II, ed. B. Krusch, Hannoverae 1888, pp. 358-377), Venanzio cita in
proposito l’esistenza di Sancti Martini atria, templa e appunto di una basilica.
(19) Da ultimi per un’analisi puntuale del percorso, cfr. Rosada, Il “viaggio” (2) e Di Brazzano, Il “pellegrinaggio” di Venanzio Fortunato (3).
(20) Già da me discussa in Rosada, Il “viaggio” (2), pp. 41-43.
(21) Cfr. per questa direttrice W. Czysz, Römische Staatsstraße Via
Claudia Augusta. Der nördliche Streckenabschnitt zwischen Alpenfuß und
Donau, in La Venetia nell’area danubiana. Le vie di comunicazione, Padova
1990, pp. 253-283; G. Rosada, Sessant’anni dopo. Per capire una strada, in
La via Claudia Augusta Altinate, Venezia 2001 (rist. an.dell’opera edita a
Venezia 1938), pp. XI-XXXI e bibl. precedente ivi; Id., … viam Claudia
Augustam quam Drusus pater … derexserat …, in Via Claudia Augusta: un’arteria alle origini dell’Europa: ipotesi, problemi, prospettive, Asolo (Treviso)
2002, pp. 37-68; S. Di Stefano, La via Claudia Augusta attraverso le Alpi: ricostruzione degli itinerari attraverso l’Alto Adige e il Tirolo sulla base delle evidenze archeologiche, ibid., pp. 193-218; E. Walde, G. Grabherr, Neue
Forschungen an der via Claudia Augusta, ibid., pp. 219-240; W. Czysz, Via
Claudia Augusta: der bayerische Streckenabschnitt zwischen FoetibusFüssen und Submontorium an der Donau. Neue Entdeckungen,
Ausgrabungen, Forschungen, ibid., pp. 241-264 e la bibl. contenuta in questi contributi. La Claudia Augusta con il suo percorso, che io ho ricostruito da
Altino attraverso Treviso e la valle del Piave prima che si dirigesse con ogni
probabilità alla volta della Valsugana e successivamente della Val d’Adige,
avrebbe oltre tutto consentito le tappe di Padova (grazie alle vie Popillia e
Annia), di Treviso e di Valdobbiadene-Ceneda, che a Venanzio stavano molto a cuore (presso Valdobbiadene/Duplabilis è da riconoscere inoltre la mansio di ad Cerasias, riportata dall’It. Ant., 280-281, p 42, lungo la direttrice
Opitergium-Tridentum; cfr. L. Bosio, Le strade romane della Venetia e
dell’Histria, Padova 1991, pp. 141-143).
(22) Tra i tanti altri che dovevano allora circolare e di cui conosciamo solo un altro esempio, questo tuttavia “laico”, pervenutoci con il titolo di
Imperatoris Antonini Itinerarium Provinciarum. Cfr. Itineraria Romana, I, ed. O.
Cuntz, Lipsiae 1929.
(23) Il cosiddetto Itinerarium Burdigalense, ibid. A esso fa riferimento anche Di Brazzano in questo volume.
(24) It. Burdig., 549-559,13, pp. 86-88.
(25) Ibid., 601, 6-617, 9, pp. 99-102.
(26) Per giungere a Milano si poteva naturalmente seguire pure la strada
per Patavium, lungo le vie Popillia e Annia o/e risalendo la via endolagunare e
la corrente dei fiumi (quella direttrice cioè che da Padova a Ravenna indica
proprio Ven. Fort., Vita Sancti Martini, IV, 677-680: Hinc tibi Brinta fluens iter est,
Retenone secundo./Ingrediens Atesim, Padus excipit inde phaselo,/…Inde
357
Ravennatem …urbem). Sulle direttrici terrestri, cfr. Bosio, Strade romane (21),
pp. 59-81; su quella endolagunare, cfr. G. Rosada, La direttrice endolagunare
e per acque interne nella decima regio: tra risorsa naturale e organizzazione
antropica, in La Venetia nell’area padano-danubiana (21), pp. 153-182.
(27) Bordeaux si trova a una distanza compatibile da Tours e, secondo
le sue stesse parole, il tragitto tra Ligerem et Garonnam fu praticato da
Venanzio (Praefatio, 4).
(28) It. Ant., 344, 3-346, 9, p. 51 s.
(29) It. Ant., 459, 6-460, 8, p. 71.
(30) Rosada, Il “viaggio” (2), p. 46.
(31) Come si sa, a lungo è stato discusso sulla struggente malinconia che
avrebbe suggerito al poeta, lontano dagli affetti ed esiliato dalla sua Toscana,
questi versi accorati e intrisi di autobiografia. Più recentemente tuttavia si è
messo anche in risalto l’impianto tutto letterario dello spunto ispiratore della
composizione (cfr. G. Cavalcanti, Rime, a cura di D. De Robertis, Torino 1986).
(32) Di Germano Venanzio tesse l’elogio in Carm., II, 9 e VIII, 2 (di lui
scrisse anche la biografia; cfr. Vita Sancti Germani, in MGH, Auct. ant., cit a
nota 18, pp. 11-27).
(33) Fu inoltre ascoltato consigliere del re e creò molte sedi vescovili. Cfr.
la Vita Sancti Remedii, inserita tra gli Opuscula Venantio Fortunato male adtributa, in MGH, Auct. ant. (18), pp. 64-67.
(34) Carm., II, 16. Cfr. la Vita Sancti Medardi, inserita tra gli Opuscula
Venantio Fortunato male adtributa, in MGH, Auct. ant. (18), pp. 67-73.
(35) Cfr. C. Egger, s.v. Afra, Ilaria, Degna …, in Bibl. Sanct., I, Roma 1961,
cc. 283-287; Fr. Prinz, Die heilege Afra, «Bayer. Vorgeschichtsbl.», 46 (1981),
pp. 211-215; cfr. anche L. Bakker, Ausgrabungen bei St. Ulrich und Afra,
Stadt Augsburg, Schwaben, «Das Archäol. Jahr in Bayern», 1983 (1984), pp.
130-133 e W. Czysz, Augusta Vindelicum nell’itinerario di Venanzio Fortunato,
in Venanzio Fortunato (2), pp. 59-61, solo per la bibl.
(36) Su questo passaggio, cfr. in particolare H. Wopfner, Zur Reise des
Venantius Fortunatus durch die Alpen, «Deutsche Gaue», 37 (1937), pp. 2125 e G. Conta, Il viaggio di Venanzio Fortunato attraverso le Alpi, «Rivista per
l’Alto Adige. Rivista di studi alpini», 77 (1983) (I. Corona Alpium. Miscellanea
di Studi in onore del Prof. C.A. Mastrelli), pp. 35-67.
(37) H. Wopfner, Die Reise des Venantius Fortunatus durch die Ostalpen.
Ein Beitrag zur frümittelalterlichen Verkehers-und Siedlungsgeschichte, in
Festschrift zu Ehren E. v. Ottenthals, «Schlernschriften», Heft 9, Innsbruck
1925, pp. 370-371(362-417); K. Kunze, s.v. Valentino di Passau, in Bibl.
Sanct., XII, Roma 1969, cc. 890-896; Di Brazzano, Il “pellegrinaggio” di
Venanzio Fortunato (3), p. 148.
(38) Cfr. A. Amore, s.v. Valentino, presbitero martire, in Bibl. Sanct., XII,
Roma 1969, cc. 896-997; Id., s.v. Valentino, santo, martire di Terni, ibid, c. 899.
(39) Tuttavia per una direttrice e una localizzazione diverse, sulla strada
del Brennero, cfr. tra altri K. Staudacher, Das Reisegedicht des Venantius
Fortunatus, «Der Schlern», 15 (1934), pp. 276-279; Conta, Il viaggio di
Venanzio Fortunato (36). La via per il Brennero, prescindendo dalla questione dei Valentini templa, sarebbe comunque stata la direttrice più naturale per
un viaggio “normale” (dal Brennero si potevano seguire infatti le valli
dell’Isarco prima e dopo dell’Adige fino a Verona).
(40) Rosada, Il “viaggio” (2), pp. 32-34.
(41) It. Ant., 279-280, p. 42. Cfr. Bosio, Strade romane (21), pp. 182-183.
Aguntum diventò municipio probabilmente in epoca claudia; in seguito, nel II
secolo fu provvisto di una solida cinta muraria e a partire dal IV secolo fu sede episcopale. Cfr. W. Alzinger, Das Municipium Claudium Aguntum. Von keltischen Oppidum zum frühchristliche Bischofssitz, in ANRW, II, 6, Berlin, New
York 1977, pp. 380-413.
(42) Lavant si trova a non molta distanza dal municipio romano, verso
oriente e in destra Drava.
(43) Cfr. Alzinger, Das Municipium Claudium Aguntum (41), pp. 403-413
e in particolare: F. Miltner, Die Ausgrabungen auf dem Kirchbichl von Lavant
in Osttirol, «ÖJh», XXXVIII (1950), Beibl., cc. 37-102; Id., Die Ausgrabungen
358
in Lavant /Osttirol, ibid., XL (1953), Beibl., cc. 15-92; Id., Die Grabungen auf
dem Kirchbichl von Lavant /Osttirol, ibid., XLI (1954), Beibl., cc. 34-84; Id.,
Die Grabungen auf dem Kirchbichl von Lavant /Osttirol, ibid., XLIII (19561958), Beibl., cc. 89-124; W. Alzinger, Lavant, «Öst.Arch.Inst. Grabungen»
(1966), pp. 64-68; F. Glaser, Frühes Christentum im Alpenraum. Eine archäologische Entdeckungsreise, Graz, Wien, Köln 1997, pp. 141-147; P. Gleischer,
Der Drei-Kapitel-Streit und seine baulichen Auswirkungen auf die
Bischofskirchen im Patriarchat von Aquileia, «Der Schlern», 74 (2000), p. 1114 (9-18). Per qualche altra considerazione e ulteriori riferimenti bibliografici,
cfr. infine Rosada, Il “viaggio” (2), nota 32.
(44) Cfr. An. Rav., IV, 37, 1-2, p. 76 (Itineraria Romana, II, ed. J. Schnetz,
Lipsiae 1940): …iugus Carnium dicebatur (ab) antiquitus Alpis Iulia.
(45) Su Iulium Carnicum, oltre a M. Mirabella Roberti, Iulium Carnicum
centro romano alpino, «AAAd», IX (Aquileia e l’arco alpino orientale) (1976),
pp. 91-101, cfr. il recente Iulium Carnicum. Centro alpino tra Italia e Norico
dalla protostoria all’età imperiale, a cura di G. Bandelli e F. Fontana, Roma
2001, con bibl. precedente ivi.
(46) Tra gli altri, cfr. Wopfner, Die Reise (37), p. 368; Conta, Il viaggio (36),
pp. 29-31 e più di recente Di Brazzano, Il “pellegrinaggio” di Venanzio
Fortunato (3), p. 147 (“Non sarà naturalmente da pensare a Cividale, ormai
lasciata a sud-est, quanto piuttosto a una denominazione poco precisa di
Iulium Carnicum”. Qui non si comprende tuttavia l’espressione “ormai lasciata”, che è nel caso del tutto impropria).
(47) C. G. Mor, Un capitolo sconosciuto della storia del vescovado carnico, in Darte e la Cjargne, Udine 1981, pp. 84-93, segnatamente p. 89;
Glaser, Frühes Christentum (43), pp. 91-93.
(48) Una volta raggiunta Cividale, si sarebbe potuto lungo il tracciato stradale detto “Bariglaria” continuare il percorso fino a Tricesimo e di qui risalire a
Osoppo. Sulla “Bariglaria”, cfr. Bosio, Strade romane (21), pp. 168-171.
(49) L. Bosio, Cividale del Friuli. La storia, Udine 1977, pp. 46, 62; S.
Tavano, Grado e Cividale, in Patriarchi. Quindici secoli di civiltà fra l’Adriatico
e l’Europa Centrale, a cura di S. Tavano e G. Bergamini, Milano 2000, p137138 (137-155). In realtà una possibile riconsiderazione del comprensorio di
Cividale, almeno inteso in senso lato, potrebbe venire dalla recente scoperta
di Tonovcov in Slovenia, a settentrione di Caporetto, di un vasto complesso di
culto caratterizzato da due basiliche parallele, rettangolari e dotate di banco
presbiteriale (che sembrano inserirsi nello schema della basilica doppia “primitiva” di tipo aquileiese) e da una terza chiesa di analoga planimetria (cfr. S.
Ciglenečki, Scavi nell’abitato tardo-antico di Tonovcov Grad presso Caporetto
(Kobarid) Slovenia. Rapporto preliminare, «AqN», LXV (1994), cc. 185-208;
Id., Il sito archeologico di Tonovcov grad presso Kobarid. Guida, Ljubljana
1997. Aveva considerato il sito anche F. Lazzarini, La diffusione della basilica
doppia paleocristiana nell’area altoadriatica e balcanica: una nota topografica, «AttiMemSocIstrArchStPatria», XCIX, n.s. XLVII (1999), p. 33 e nota 19
con bibl. ivi (27-48). Devo la risegnalazione a Sergio Tavano, che ringrazio).
È indubbio che un simile polo avrebbe potuto essere bene inserito in un percorso devozionale.
(50) Rosada, Il “viaggio” (2), p. 35 e nota 42.
(51) Rosada, Il “viaggio” (2), pp. 34-36 e note relative; S. Piussi, Dal IV al
V secolo, in Patriarchi (49), p. 77 (75-95), oltre che Mirabella Roberti, Iulium
Carnicum (45), p. 95.
(52) Per recenti indagini archeologiche su Osoppo, cfr. F. Piuzzi, C. Vouk,
Ricerche archeologiche nella Pieve di San Pietro ad Osoppo, «AqN», LX
(1989), cc. 239-274.
(53) Per recenti indagini su Ragogna, cfr. S. Lusuardi Siena, L. Villa,
Castrum Reunia (Ragogna, Udine): gli scavi nella chiesa di S. Pietro in
Castello, in Scavi Medievali in Italia 1994-1995, a cura di S. Patitucci Uggeri,
Roma 1998, pp. 179-198; L. Villa, Ricerche archeologiche nel castrum
Reunia, in Alle origini dei siti fortificati: oltre l’archeologia e il restauro.
Esperienze a confronto e orientamenti alla ricerca, a cura di F. Piuzzi, Udine
1999, pp. 69-76.
359
(54) Sulla viabilità in ambito friulano, cfr. in generale Bosio, Strade romane (21), passim e più in particolare G. Rosada, Viabilità e centuriazione nel
Friuli romano. L’infrastruttura logistica in una regione di frontiera militare ed
economica, in Dalla Serenissima agli Asburgo. Pordenone-Gemona. L’antica
strada verso l’Austria. Studi e ricerche, Treviso 1997, pp.22-34; Id., Le vie per
il Norico, in Tesori della Postumia. Archeologia e storia intorno a una grande
strada romana alle radici dell’Europa, Milano 1998, pp. 265-266; Id., .…mansi positi in villa de Morsano subtus Stratam altam… Mito e storia di una strada, «QdAV», XV (1999), pp. 194-201; Id., L’agro concordiese come terra di
frontiera, in Antichità e altomedioevo tra Livenza e Tagliamento. Contributo
per una lettura della carta archeologica della Provincia di Pordenone, a cura
di G. Cantino Wataghin, Pordenone 1999, pp. 43-58; Id., Tra mare, fiumi e terra …colonia Concordia, flumen et portus Reatinum… (Plin., Nat. hist., III, 126),
in La Loire et les fleuves de la Gaule romaine et des régions vosines,
«Caesarodunum», XXXIII-XXXIV (1999-2000), pp. 231-155.
(55) Sulla viabilità pedemontana e sulle sue realtà insediative, cfr. A.N.
Rigoni, G. Rosada, Insediamenti pedemontani del Veneto e del Friuli: emergenze archeologiche, continuità e discontinuità tra protostoria e incastellamento medioevale, «AAAd», XXXII (Aquileia e le Venezie nell’Alto Medioevo)
(1988), pp.281-324; G. Rosada, Il territorio in età romana: nota topografica, in
Siti archeologici dell’Alto Livenza, a cura di S. Pettarin e A.N. Rigoni, Fiume
Veneto (Pordenone) 1992, pp.15-19; Id., Il “viaggio”, in Venanzio Fortunato
(2); Id., Dalle civitates ai castella. L’incastellamento lungo la fascia pedemontana tra Veneto e Friuli occidentale. Una nota topografica, in L’incastellamento
nel Nord-est italiano (IX-XII secolo). Stato della ricerca e prospettive d’indagine, a cura di F. Piuzzi, Udine 2000, pp. 9-13.
(56) Cfr. in generale S. Tavano, Aquileia cristiana, «AAAd», III (Aquileia cristiana) (1972) (3-210) e p. 20 ss.; G. Cuscito, Il primo cristianesimo nella
“Venetia et Histria”, Reana del Roiale (Udine) 1986 e p. 14 s.; più in particolare I. Daniele, s.v. Canzio, Canziano e Canzianilla, in Bibl. Sanct., III, Roma 1963,
cc. 758-760; S. Tavano, S. Canzian d’Isonzo-Piccola guida, Trieste 1977; G.
Cuscito, Cristianesimo antico ad Aquileia e in Istria, Trieste 1979 (1977), p. 88
ss.; Id., La societas christiana e le nuove congiunture storiche, in Da Aquileia
a Venezia. Una mediazione tra l’Europa e l’Oriente dal II secolo a.C. al VI secolo d.C., Milano 1980, p. 662 ss. (659-694); R. Bratož, Il cristianesimo aquileiese prima di Costantino fra Aquileia e Poetovio, Ricerche per la Storia della
Chiesa in Friuli, 2, Tavagnacco (Udine) 1999, pp. 366-388; L. Villa, Itinerari devozionali e antichi luoghi di culto lungo le principali direttrici stradali del Friuli:
il contributo dell’archeologia, in Cammina, cammina… (3), pp. 153-154; G.
Cuscito, Culto delle reliquie tra Aquileia e Grado (secc. IV-XIV), in Cammina,
cammina… (3), pp. 209-218; Id., I martiri aquileiesi, in Patriarchi (49), pp. 4967; cfr. anche Di Brazzano, Il “pellegrinaggio” di Venanzio Fortunato (3), p. 147.
(57) Non vi è dubbio, a mio avviso, che in questo riferimento del poeta,
insieme naturalmente al ricordo successivo del vescovo trevigiano, si possa
anche intravvedere un coinvolgimento personale, dal momento che Fortunato
e Felice riproponevano la coppia di socii risanata a Ravenna da Martino
(Venanzio li ricorda insieme in Carm., VIII, 3, 165-167: Felicem meritis Vicetia
laeta refundit/ et Fortunatum fert Aquileia suum). Per Fortunato e Felice martiri, cfr. P. Paschini, G. Lorenzon, s.v. Felice di Vicenza e Fortunato di Aquileia,
in Bibl. Sanct., V, Roma 1964, cc. 588-591; Tavano, Aquileia cristiana, (56), p.
20 ss.; Fedalto, Organizzazione ecclesiastica (10), p. 290 con bibl. ivi;
Cuscito, Primo cristianesimo (56), pp. 15 ss., 22; J.-Ch. Picard, Le souvenir
des évêques. Sépultures, listes épiscopales et culte des évêques en Italie du
Nord des origines au Xe siècle, Roma 1988, pp. 581-583.
(58) Come testimoniano le esplicite parole in proposito di Paolo Diacono:
…beatus Paulus patriarcha…qui Langobardorum barbariem metuens, ex
Aquileia ad Gradus insulam confugiit secumque omnem suae thesaurum ecclesiae deportavit (Hist. Lang., II,10). Cfr. A. Carile, La formazione del ducato veneziano, in A. Carile, G. Fedalto, Le origini di Venezia (10), p. 187 (11237); G. Fedalto, Organizzazione ecclesiastica (10) pp. 309-314.
(59) Cfr. Pavan, Venanzio Fortunato (10), pp. 15, 18-19.
360
(60) Y.M. Duval, Aquilée et la Palestine entre 370 et 420, «AAAd», XII, 1
(Aquileia e l’Oriente mediterraneo), (1977), pp. 315-317 (263-322); Fedalto,
Organizzazione ecclesistica (10), p. 282 ss.; P. Zovatto, La diocesi di
Concordia e il patriarcato di Aquileia, in Patriarchi (49), pp. 253-257.
(61) Di Brazzano, Il “pellegrinaggio” di Venanzio Fortunato (3), p. 147.
(62) Con Felice Venanzio doveva intrattenere qualche rapporto epistolare, almeno secondo quanto si può ricavare da Carm., VII, 13.
(63) Venanzio la nomina ancora, Iustinam Patavi…, in Carm., VIII, 3, 169.
Cfr. Cuscito, Primo cristianesimo (56), pp. 10 s., 22 ss. Di essa non vi è comunque menzione nei martirologi: cfr. A. Amore, s.v. Giustina, in Bibl. Sanct.,
VI, Roma 1965, cc. 1345-1348; Picard, Le souvenir (57), pp. 641-644.
(64) Come sottolinea Bratož in questo volume, appare strano il fatto che
Giovanni abbia dei figli e quindi possa essere sposato. Di questo vescovo tuttavia nulla si sa: cfr. Picard, loc. citato nella nota precedente.
(65) Carm., I, 2, 25: bonus antistes Vitale urguente Iohannes. Cfr. Picard,
Le souvenir (57), p. 489.
(66) Anche Vitale è detto in un altro carme (I, 1, 1) antistes domini.
Sull’accostamento tra Giovanni e Vitale, cfr. Di Brazzano, Il “pellegrinaggio” di
Venanzio Fortunato (3), p. 146. Su Vitale, cfr. anche Bratož in questo volume.
(67) In realtà la tomba di Vitale si trovava a Bologna. Cfr. G.D. Gordini,
s.v. Vitale e Agricola, in Bibl. Sanct., XII, Roma 1969, cc. 1225-1228; G.
Lucchesi, s.v. Ursicino (Ursicio), santo, martire nell’Illirico, ibid., cc. 856-857;
Picard, Le souvenir (57), pp. 294-295, 655-657; Di Brazzano, Il “pellegrinaggio” di Venanzio Fortunato (3), p. 146. È da dire che un altro Ursicino fu anche il vescovo di Ravenna che nella prima metà del VI secolo fece iniziare la
costruzione della basilica di S. Apollinare in Classe (consacrata dal primo arcivescovo ravennate Massimiano nel 549 con la traslazione delle spoglie del
santo). Cfr. ancora Picard, Le souvenir, pp. 116 ss., 130, 161, 166-172, 690.
(68) Cfr. G. Lucchesi, s.v. Apollinare, in Bibl. Sanct., II, Roma 1962, cc.
239-246.
(69) Praef., 4.
(70) Su queste vie dei pellegrini, cfr. G. Cantino Wataghin, L. Pani Ermini,
Santuari martiriali e centri di pellegrinaggio in Italia tra tarda antichità e alto
medioevo, Akten des XII Internationalen Kongresses für Christliche
Archäologie, Münster 1995, pp. 123-151; G. Cantino Wataghin, I percorsi
stradali di età tardoantica, i nuovi itinerari altomedioevali e i percorsi dei pellegrini fino alla via Francigena, in Tesori della Postumia (54), pp. 623-629; L.
Gnesda, Pellegrinaggi ed ospizi nelle terre del patriarcato di Aquileia, in
Cammina, cammina… (3), pp. 174-180; H. Nothdurfter, I valichi alpini in età
altomedievale, in Uso dei valichi alpini orientali dalla preistoria ai pellegrinaggi medievali, a cura di E. Cason, Udine 2001, pp. 131-150. A proposito del
passo della Vita Sancti Martini di cui qui si sta discutendo, è significativa l’espressione di S. Quesnel (Introduction, in Venance Fortunat, Oeuvres, IV, Vie
de Saint Martin, Paris 1996, p. LXII) che lo definisce “… un vrai guide du
voyager-pèlerin au VIe siècle…”. Sul cristianesimo in ambito alpino, le prime
sedi vescovili, i martiri, cfr. Glaser, Frühes Christentum (43), pp. 17-35, 49-55
e anche R. Bratož, I primi vescovi, in Patriarchi (49), pp. 69-73.
(71) La resistenza ai Longobardi lo accomunava a Felice di Treviso. Il trasferimento di sede episcopale da Aquileia a Grado avvicinava il caso a quello di Aguntum (e forse anche a quello di Iulium Carnicum), il cui vescovo si
spostò nel più alto e sicuro sito del Kirchbichl.
(72) Per questa possibile e prossima invasione, che avrebbe cambiato
comunque le realtà politiche della nostra penisola, si doveva pur avere una
qualche preoccupazione, nonostante i Longobardi fossero stati solidali con i
Bizantini, avendo combattuto con Alboino a fianco di Narsete all’epoca della
guerra gota. Cfr. Rosada, Il “viaggio” (2), p. 43 e bibl. ivi.
(73) J. Šašel, Il viaggio di Venanzio Fortunato e la sua attività in ordine alla politica bizantina, «AAAd», XIX (Aquileia e l’Occidente) (1981), pp. 359375; cfr. anche, su questa linea, M. Rouche, Autocensure et diplomatie chez
Fortunat à propos de l’élégie sur Galeswinthe, in Venanzio Fortunato (2), p.
157 (149-159).
361
(74) Del tutto contrario alla tesi di Šašel è più recentemente B. Brennan,
Venantius Fortunatus: Byzantine Agent?, «Byzantion», LXV (1995), pp. 7-16.
(75) Di questa sua posizione fa ulteriormente fede un passo di un carme
(App. carm., II, 21-28), dove il poeta tesse l’elogio motivato di Giustino II succeduto a Giustiniano come imperatore d’Oriente: Gloria summa tibi, rerum sator atque redemptor,/qui das Iustinum iustus in orbe caput./Ecclesiae turbata
fides solidata refulget/ et redit ad priscum lex veneranda locum./ Reddite vota deo, quoniam nova purpura quidquid/ concilium statuit Calchedonense tenet./ Hoc meritis, Auguste, tuis et Gallia cantat,/ hoc Rhodanus, Rhenus,
Hister et Albis agit. Sull’argomento, cfr. anche Bratož in questo volume.
(76) R. Köbner, Venantius Fortunatus. Seine Persönlichkeit und seine
Stellung in der geistigen Kultur des Merowingerreiches, «Beiträge zur
Kulturgeschichte des Mittelalters und der Renaissance», 22, Leipzig, Berlin
1915, in part. pp. 13-14 e 125; Pavan, Venanzio Fortunato (10), pp. 18-22;
Rosada, Il “viaggio” (2), pp. 44-46.
(77) I passi citati sono di Paul Diac., Hist. Lang., II, 4.
(78) G. Cavallo, La cultura a Ravenna tra Corte e Chiesa, in Le sedi della cultura nell’Emilia Romagna. L’Alto Medioevo, Milano 1983, pp. 29, 31, 36
(29-51).
(79) Veg., Epit. rei mil., III, 6.
(80) Cavallo, La cultura a Ravenna (78), p. 38.
(81) Non a caso in Gallia era considerato come Fortunatus ab Ravenna
(De privilegio, 20, in MGH, Poetae Latini medii aevi, IV, 2, ed. K. Strecker,
Berolini 1914, p. 654 s.), sebbene di sè egli dicesse Fortunatus ego … / (Italiae
genitum Gallica rura tenent)/ Pictavis residens …(Carm., VIII, 1, 11-13).
(82) Cfr. la nota 12 e ancora in proposito A.V. Nazzaro, Intertestualità biblico-patristica e classica in testi poetici di Venanzio Fortunato, in Venanzio
Fortunato (2), pp. 99-135. Tra i molti riferimenti possibili (alcuni dei quali già
evidenziati), si ricordi nel testo esaminato il verso 649, dove si legge, per es.,
per Drauum itur iter.
(83) Sull’Anonimo Ravennate e il suo ambiente, cfr. J. Schnetz,
Untersuchungen über die Quellen der Kosmographie des anonymen
Geographen von Ravenna, München 1942; S. Mazzarino, Da Lollianus et
Arbetio al mosaico storico di S. Apollinare in Classe, «Helikon», V, 1 (1965), pp.
45-62 (la Cosmographia è definita “la più notevole documentazione della cultura ravennate del 7° secolo”, p. 47); G.A. Mansuelli, I geografi ravennati, «XX
Corso di cultura sull’arte ravennate e bizantina», Ravenna 1973, pp. 331-346.
(84) Non si ripeterà mai abbastanza che anche la Cosmographia non è
un itinerario, ma solo utilizza la tradizione formale dei veri e propri itinerari.
(85) Si pensi ai fiumi, alle montagne, alle popolazioni ostili via via segnalati.
(86) Rosada, Il “viaggio” (2), p. 47. Cfr. anche, per un accenno
nell’Anonimo Ravennate (I, 8, 12-13, p.8) ai quatuor flumina, id est Geon
Phison Tigris et Euphrates citati pure dalla Genesi (I, 2, 10-14), Mazzarino, Da
Lollianus et Arbetio (82), p. 54.
(87) Della Corte, Venanzio Fortunato (7).
(88) Cfr. L. Navarra, A proposito del “De navigio suo” di Venanzio
Fortunato in rapporto alla Mosella di Ausonio e agli “Itinerari” di Ennodio,
«Studi storico-religiosi», 8 (1979), pp. 80-131. Cfr. anche M.E. Vazquez Bujan,
“Vernat amoenus ager”. Sobre les descripciones de la naturaleza en la poesia de Venancio Fortunatus, «Euphrosyne», 13 (1983), pp. 95-105. Si veda in
proposito anche Luce Pietri in questo volume.
(89) Della Corte, Venanzio Fortunato (7), pp. 145-146.
(90) Come giustamente sembra emergere dai contributi già del Tardi,
Fortunat (12) e di J.W. George, Venantius Fortunatus. A Latin Poet in
Merovingiam Gaul, Oxford 1992; L. Pietri, Venance Fortunat et ses commanditaires: un poète italien dans la société gallo-franque, «CISAM», XXV
(Committenti e produzione artistico-letteraria nell’alto medioevo occidentale)
(1992), pp. 729-758. Cfr. anche nota 12.
362
RAJKO BRATOŽ
Università di Ljubljana
Slovenia
Venanzio Fortunato
e lo scisma dei Tre Capitoli
1. Introduzione
Sui rapporti di Venanzio Fortunato con lo scisma dei Tre
Capitoli sono stati espressi finora diversi pareri. Unica base
per approfondire questo problema è l’opera del poeta1. Una
breve annotazione biografica stilata due secoli più tardi da
Paolo Diacono2 si fonda infatti soltanto sulla conoscenza
della sua produzione letteraria mentre la questione stessa
non vi è trattata nemmeno di sfuggita. Nel cercare una risposta al nostro quesito i singoli studiosi ricorsero sia all’analisi
di singoli frammenti dell’opera poetica sia inserendo tale
opera nel contesto del quadro politico ed ecclesiastico
caratteristico dell’Italia settentrionale e dell’Occidente in
genere nella seconda metà del VI secolo. In questo caso il
rapporto di Venanzio nei confronti dello scisma dei Tre
Capitoli si configurava come parte integrante di una delle
questioni base per la comprensione della vita e della produzione del poeta e dei motivi della sua partenza per la Gallia
nel 5653. Una volta trasferitosi nella nuova patria Venanzio
ebbe pochissimi contatti con l’Italia ed evidentemente smise
di interessarsi allo sviluppo delle vicende italiche; d’altronde
la disputa ecclesiastica era di poca attualità nella Gallia
merovingia. Pertanto il poeta avrebbe potuto definire il suo
rapporto verso lo scisma anteriormente alla partenza per la
Gallia, vale a dire nel periodo della sua giovinezza e maturazione nella Venetia e a Ravenna.
Al momento della partenza dall’Italia, Venanzio Fortunato
avrebbe avuto dai 25 ai 30 anni. La data della sua nascita è
difficile da stabilire (gli studiosi la collocano entro il decennio dal 530 al 540) ma è anche tutt’altro che chiara la ricostruzione cronologica della vita del poeta per il periodo italico, il primo della sua produzione4. Indubbiamente nel periodo dei suoi studi a Ravenna, Venanzio avrà acquisito un’eccellente istruzione e arricchito le sue conoscenze nei più
diversi campi compresa la padronanza almeno elementare
363
del greco5. In qualità di discendente di famiglia benestante
ebbe numerose aderenze nella nativa Venetia, che andavano ben oltre il luogo nativo in alcune città vicine e lontane.
Per il periodo anteriore alla partenza dall’Italia non è da
attendersi una sua particolare notorietà quale poeta visto
che dei 230 componimenti poetici rimastici soltanto i primi
due sono stati prodotti in terra italica ma nessuno della
prosa. E altrettanto non è dimostrabile per il periodo in questione la presenza di suoi eventuali contatti personali o politici con importanti personalità ecclesiatiche e civili che trascendessero il territorio compreso fra Ravenna e Aquileia,
quei contatti che più tardi, nella Gallia merovingia, dovevano segnarne profondamente la vita e le opere. Pare che
nella patria veneta Venanzio coltivasse rapporti (anzitutto)
coi chierici visto che tra i pochi singoli menzionati (se si
eccettuano i parenti stretti) non troviamo laici. Il suo giovanile indirizzo religioso sarebbe suggerito anche dal suo nome
poetico: delle quattro sue componenti (Venantius Honorius
Clementianus Fortunatus) usò di preferenza l’attributo
Fortunatus. Il quale, ripreso dal nome dell’omonimo martire
aquileiese6, manifestava in primo luogo il suo orientamento
spirituale e religioso e non tanto la sua appartenenza a ceti
benestanti. In veste di giovane intellettuale fortemente religioso, Fortunato fu nel decennio anteriore alla partenza per
la Gallia testimone di avvenimenti che dovevano incidere
profondamente sulla sfera spirituale ed ecclesiale.
2. Rapporti di Venanzio riconducibili
allo scisma dei Tre Capitoli
a. Rapporti di Venanzio con Aquileia
e col patriarca Paolo
Lo scisma dei Tre Capitoli, effetto degli sviluppi e dei
risultati del V Concilio Ecumenico ovvero della politica religiosa portata avanti da Giustiniano, si manifestò in forma
acuta nell’Italia nord-orientale nel 557. Al soglio patriarcale di
Aquileia era stato eletto Paolo (o Paolino) che troncò i rapporti con Roma (papa Pelagio I)7. Nel corso di questi avvenimenti di carattere decisivo per la Chiesa nella Venetia,
Venanzio Fortunato avrebbe avuto 20 anni circa. A quest’età
poteva essere semplice testimone oculare di tali vicende
anche se in quanto giovane intellettuale era ben cosciente
364
della loro importanza. Gli eventi legati alla sua fanciullezza, in
primo luogo la guerra gotico-bizantina (535-552) che toccò
almeno una volta Treviso e l’area adiacente8, non lasciano
traccia nella sua opera. Sulla scorta delle sue note autobiografiche non è possibile dimostrare che da fanciullo o da giovane abbia soggiornato mai ad Aquileia. È certo comunque
che con questa città poté avere contatti che si sarebbero
dovuti svolgere in forma di visite o di corrispondenza epistolare9. Allora Aquileia era il centro dell’amministrazione della
provincia e sede metropolitica non solo per la Venetia et
Histria ma anche per tutta l’area del Norico Mediterraneo, i
resti della parte occidentale delle provincie pannoniche e
quella meridionale delle retiche. L’immagine della città alla
metà del VI secolo, a cent’anni dalla sua distruzione ad
opera degli Unni e immediatamente dopo la fine della guerra gotico-bizantina, non era naturalmente paragonabile con
quella del IV secolo quando Aquileia era per grandezza e
importanza la terza città d’Italia e la nona dell’Impero. Dopo
le modeste realizzazioni edilizie del periodo di Odoacre e
Teodorico, la ricostruzione sistematica della città fu avviata
come altrove in Italia appena dopo la conquista bizantina del
552 ovvero, finita la guerra gotica, nel 55510.
Due inserti poetici su Aquileia mostrano che Venanzio
nei componimenti del periodo attorno al 575 (Vita s. Martini)
o degli anni 576-580 circa (Carmina 8,3: De virginitate) si
riferiva alla Aquileia della sua gioventù, del periodo anteriore alla partenza per la Gallia (565). Dalle brevi menzioni non
si ricava l’impressione che il poeta sapesse degli importanti eventi che dopo il 565 avrebbero cambiato l’immagine e
l’importanza della città: nel 568 il centro ecclesiale si rifugia
a Grado, segue la conquista da parte dei Longobardi e una
seconda distruzione della metropoli per quanto non paragonabile a quella di Attila nel 452.
Ambedue le menzioni di Aquileia si riferiscono in primo
luogo alla venerazione nella città dei martiri locali e il libro
del poeta avrebbe diffuso colà anche la fama di s. Martino11.
La città è indicata quale Aquiliensis urbs; la denominazione
di urbs, peraltro rara per il periodo in oggetto, rimandava a
centri cittadini grandi e importanti12. La forma aggettivale di
Aquiliensis (invece della più antica Aquileiensis e della
posteriore medioevale Aquileg(i)ensis) era allora evidentemente abbastanza diffusa se la troviamo spesso in scritti di
provenienza ecclesiastica risalenti al periodo dalla seconda
metà del VI alla fine del VII o primi dell’VIII secolo13. Venanzio
Fortunato in due brani cita i santi aquileiesi le cui tombe
365
erano allora generalmente conosciute fino a rappresentare
mete di pellegrinaggio. Accanto alla unica menzione del
gruppo dei Canzii (Cantianos domini nimium venereris amicos [sc. libellus Vitae s. Martini]) si hanno ben due menzioni della venerazione del martire Fortunato, omonimo del
poeta e uno dei due santi della coppia Felice e Fortunato le
cui spoglie mortali si custodivano allora ad Aquileia14. Sulla
scorta della duplice e pertanto rilevata menzione di
Fortunato, martire di Aquileia15, sembrerebbe che la venerazione di tale santo fosse assai diffusa nella città e particolarmente cara a Venanzio. Il suo concittadino, coetaneo,
amico e compagno di studi a Ravenna, il futuro vescovo di
Treviso Felice16 porta altresì il nome del secondo martire
della coppia di santi. Dato che nella tradizione aquileiese si
hanno più Fortunati si dà la possibilità, peraltro teoricamente piccola, che la menzione di Fortunato nel poema Vita s.
Martini non si riferisse al compagno di martirio di Felice
bensì all’omonimo diacono di Ermacora che troviamo citato
al primo posto (cioè prima del vescovo) nell’elogio del
Martirologio Geronimiano (metà del V sec.), l’unica documentazione scritta di questo gruppo di martiri tramandataci
dall’antichità. Mentre la tomba e le reliquie di Ermacora e
Fortunato prima della loro “scoperta” all’inizio del VII sec.,
non erano note, la benedicta urna del compagno di martirio
di Felice era ormai un noto luogo di pellegrinaggio17.
Un’attenzione particolare meritano i due versi riguardanti il vescovo di Aquileia Paolo (o Paolino). Il vescovo vi è indicato in termini eccezionalmente rispettosi e nel contempo
personali, il che mostra che i due si conoscevano bene.
Paulus (e non Paulinus come menzionato nelle lettere di
papa Pelagio I)18 vi è detto pontifex pius, con un attributo
dunque che ne rileva le virtù personali. Anche il termine
pontifex, se non fosse stato scelto per ragioni di metrica, è
più solenne del comune episcopus e spetta al titolare di diocesi importante19. Il libro che il poeta invia dovrebbe al suo
arrivo ad Aquileia fare in modo particolarmente rispettoso
atto di reverenza al presule di colà (cupienter adora), dove
dall’impiego del verbo adorare non risulta chiaro se il poeta
si riferisse al vescovo ancora attivo (a nostro parere più probabile) o ormai defunto20. Un rapporto personale che si
sarebbe potuto sviluppare in base a un’assidua frequentazione. Il poeta riferisce che Paolo aveva cercato di indirizzarlo fin dai più teneri anni (primaevis ab annis) alla vita spirituale (qui me ... converti optabat). Essendo Paolo stato
monaco prima della consacrazione a vescovo e visto che il
366
poeta per indicare l’opera di persuasione usa il verbo converti, sembrerebbe che cercasse di indurlo a prendere il
saio. Dalla letteratura agiografica del V e VI sec. si sa di vari
casi di asceta adulto che educa il fanciullo nello spirito della
conversione monastica, come ad es. quello descritto da
Ennodio21. Lo scritto peraltro indica solamente l’intimità dei
rapporti di Venanzio Fortunato col monaco aquileiese
Paolo22, futuro patriarca, sotto il cui influsso il fanciullo sarebbe maturato spiritualmente. Il fatto che Venanzio non sperimentasse la conversio per seguire il cammino dell’ascesi
dimostra che tali contatti non erano poi tanto intensi da portare al raggiungimento dello scopo. Cionondimeno il poeta
sentì questo ideale costantemente vicino e lo ebbe tutta la
vita in grande stima.
Il giovane Venanzio crebbe e maturò nel periodo in cui il
dissidio dei Tre Capitoli si faceva sempre più aspro. Finita la
guerra gotico-bizantina (555) con la successiva cacciata dei
Franchi e del resto dei Goti dal Norditalia (561/563)23, la controversia ecclesiale vi diventa il problema politico centrale.
Mentre nelle altre parti dell’Italia bizantina il dissidio si viene
gradualmente mitigando e calmando, il papa e il potere
bizantino in Italia si trovano impegnati a spegnere questo
focolaio di crisi24. Le lettere di papa Pelagio I ai vari dignitari bizantini permettono di farci un’idea circa le forme e l’intensità delle pressioni sul patriarca scismatico soltanto per il
breve periodo che va dal febbraio all’aprile 559. Nella lettera indirizzata al patrizio Giovanni, febbraio 559, Pelagio I
attacca con violenza gli scismatici indicando ironicamente il
vescovo aquileiese come patriarca delle Venezie e dell’Istria
nonché “corifeo” degli scismatici (quispiam Venetiarum, ut
ipsi putant, atque Histryae patriarcha ... eorum princeps ...
non consecratus sed execratus episcopus ...)25. Allorché
Paol(in)o scomunica questo dignitario bizantino, che doveva ovviamente trovarsi ad Aquileia, il papa interviene verso
la fine di marzo inasprendo il tono e ricorrendo a concrete
minacce: nella lettera indirizzata al patrizio Valeriano il pontefice riporta in tono polemico le ragioni del duro intervento26, né manca di sollecitare il patrizio Giovanni a prendere
misure più aspre contro lo scismatico usurpatore della sede
vescovile (Aquileiensis ecclesiae inuasor)27. Di tenore analogo sono anche le altre lettere papali inviate nell’aprile del
559 ai patrizi Valeriano28 e Narsete e ad altri dignitari per
reprimere i vescovi in altre parti dell’Italia29. Negli anni della
pressione sul patriarca aquileiese, Venanzio Fortunato si trovava a Ravenna, allora rivale di Aquileia: il vescovo Agnello
367
stava decisamente dalla parte del papa che inoltre non
mancò di sollecitare i dignitari laici di quella città ad agire
con decisione contro Paolo.
Dopo le lettere del papa del 559, le fonti su Paol(in)o tacciono fino alla calata dei Longobardi nove anni più tardi.
Cosa succedesse al patriarca nel periodo 559-565 quando
Fortunato si trovava a Ravenna non è noto ma è altresi evidente che lo “scismatico” riuscì a resistere alle pressioni di
Ravenna e Roma se è proprio lui quello che di fronte al pericolo longobardo e nell’assenza assoluta del potere laico
presiede al trasferimento del centro ecclesiastico e quindi
anche della maggior parte della popolazione da Aquileia a
Grado30. Tra le reliquie di un notevole numero di martiri che
stando alla tradizione posteriore vennero traslate dopo il ritiro dei Longobardi dalla città abbandonata a Grado, si fa
menzione di quelle dei martiri del gruppo dei Canzii, non
però delle reliquie del martire Fortunato31. Dopo la conquista
e la distruzione da parte dei Longobardi, Aquileia era rimasta deserta, i frutti della parziale ricostruzione cancellati.
L’anno seguente il patriarca Paol(in)o muore a Grado dopo
un pontificato dodecennale in circostanze non chiarite32.
Sembra che dopo la sua partenza per la Gallia il poeta
non avesse notizia alcuna da Aquileia. Nel periodo in cui
furono scritti i due brani su Aquileia Paol(in)o era morto da
vari anni e il centro ecclesiale si trovava a Grado. Qui, e non
più ad Aquileia, sono custodite le reliquie dei martiri del
gruppo dei Canzii mentre per quelle del martire Fortunato si
perde temporaneamente qualsiasi traccia. L’Aquileia longobarda degli anni settanta del VI sec., gravemente danneggiata, non era né avrebbe potuto essere una meta di pellegrinaggio quando la maggior parte delle reliquie dei martiri
del luogo si trovava a Grado.
b. Venanzio e le chiese nella Venetia
Per la Venetia Venanzio riferisce di tre chiese: Concordia,
Treviso e Padova. Quanto a Concordia lo scritto del poeta
riguarda soltanto la venerazione dei santi33 e non riporta
alcuna reminiscenza al periodo contemporaneo per cui è di
scarso interesse per la nostra trattazione tanto più che è
ignoto anche il vescovo di quella sede negli anni sessanta
del VI sec.
Del tutto diversa è la menzione di Treviso, diocesi natale
del Venanzio. Qui il poeta non pensa tanto a riferire sul culto
368
del santo locale quanto del concittadino, amico e compagno di studi a Ravenna, Felice, assieme al quale aveva sperimentato una guarigione miracolosa davanti all’immagine di
s. Martino34. L’inlustris socius del poeta, Felice, sceglie un’altra strada. Non si sa quando, ma quasi di sicuro dopo il loro
commiato alla partenza di Fortunato per la Gallia (565),
diventa vescovo nella natia Treviso. Se era coetaneo di
Fortunato (e quindi nato attorno al 535) aveva raggiunto alla
nomina a vescovo (non molto dopo il 565) i trent’anni (e giù
di lì), ma comunque troppo pochi per poter secondo la legislazione del tempo assumere la dignità vescovile35. Quanto
durasse il suo pontificato non si sa. Dopo la sorprendente
assenza della chiesa trevigiana dal Sinodo di Grado (579),
il successore Rustico è menzionato soltanto per il periodo
del Sinodo di Marano (590), il vescovo successivo, anch’egli Felice, menzionato un anno più tardi nella lettera dei
vescovi veneziani all’imperatore Maurizio, non è ovviamente
da identificare con l’amico di gioventù di Fortunato. Quel
Felice doveva avere una personalità vigorosa e decisa se
nell’estate del 568 all’avvicinarsi dei Longobardi, unico tra i
vescovi italici affronta temerariamente gli invasori andando
personalmente incontro ad Alboino da cui riesce ad ottenere la promessa scritta che i Longobardi avrebbero risparmiato le proprietà ecclesiastiche36. In tal modo riuscì a salvare, almeno per un certo tempo, la propria comunità dal
destino toccato a tante altre al passaggio sotto il dominio
longobardo. Così Felice diventò in effetti il predecessore di
quei vescovi scismatici del VII sec. che con la protezione
del potere longobardo riuscirono a evitare la pressione religiosa dei papi e di Bisanzio e a resistere nello scisma fino al
698. Di lui non riferisce alcuna altra fonte. Visto l’atteggiamento dell’intera chiesa metropolitana aquileiese, Felice
deve aver aderito allo scisma dei Tre Capitoli come tutti gli
altri sodali delle Venezie e come i successivi due vescovi di
Treviso conosciuti, Rustico (590) e Felice [II] (591)37.
Alquanto più ampiamente Venanzio parla della chiesa
padovana dove troviamo come per Aquileia ambedue gli
elementi: venerazione del santo e menzione di un autorevole contemporaneo e conoscente38. Anche questa località era
ovviamente ben nota a Venanzio Fortunato se cita un particolare di quella chiesa oltre a conoscerne il vescovo
Giovanni per cui peraltro usa di rado l’attributo “eccelso”
(celsus Iohannes)39. Data la poca chiarezza dell’espressione
e il fatto che Giovanni non viene menzionato in nessun’altra
fonte, non sappiamo di lui praticamente niente40. Insolito e
369
perciò difficilmente comprensibile è l’ultimo verso: il saluto
del libro di Venanzio vada anche “ai figli di Giovanni, nostri
soci per il tramite della poesia”. Col che un nuovo quesito
resta senza risposta. Affatto insolito e in sostanza contrario
alle leggi in vigore sarebbe per quel tempo il caso di un
vescovo dello stato bizantino che prima di assurgere al
soglio vescovile fosse sposato e con prole41. I versi che si
riferiscono a Padova non forniscono alcun dato riconducibile al rapporto del poeta nei confronti dello scisma dei Tre
Capitoli. Il seguente vescovo padovano conosciuto Virgulus
o Bergullus partecipa al Sinodo di Grado (579) in veste di
vescovo del patriarcato scismatico di Aquileia42. Come pare,
l’elezione dei due nominati vescovi della Venetia nella metropoli scismatica di Aquileia non era conforme alla legislazione giustinianea. I due vescovi sunnominati, il primo dei quali
era (probabilmente) troppo giovane, il secondo invece sposato e con prole, non trascendevano in modo eccessivo i
limiti dell’assetto giuridico. Questi due casi non erano comparabili con il caso del loro collega e coetaneo vescovo
Eufrasio di Parenzo il quale sarebbe stato a detta del papa
Pelagio I colpevole di gravissimi delitti, per i quali la legislazione giustinianea prevedeva la pena di morte43.
c. I vescovi di Venanzio Vitale e Giovanni:
loro provenienza e presa di posizione nella
controversia dei Tre Capitoli
Mentre le menzioni dei vescovi di Aquileia e di Padova
nella Vita s. Martini sono ben definibili quanto al luogo e al
tempo, la presentazione di altri due vescovi italici, Vitale e
Giovanni, è poco chiara e offre il destro a spiegazioni contrastanti. I due vescovi compaiono nelle due poesie della
produzione venanziana, le uniche a essere indubbiamente
scritte in terra italica. La prima è indirizzata al vescovo
“ravennate” Vitale, l’altra descrive la chiesa di s. Andrea da
lui eretta e arricchita dal sodale Giovanni di preziose reliquie. Controversa risulta la spiegazione di quel vescovo
“ravennate”44. Dato che la tradizione della chiesa ravennate
per il periodo in questione non fa menzione di alcun vescovo di nome Vitale – durante il soggiorno di Venanzio nelle
Venezie e a Ravenna la chiesa di quest’ultima era stata retta
da Massimiano (546-557)45 e Agnello (557-569/70)46 – la
menzione di un terzo vescovo diede la stura a varie spiegazioni che si escludevano a vicenda. Ci sia concesso di pre370
sentare brevemente il contenuto dei due componimenti.
Nel primo47 il poeta presenta il citato vescovo al superlativo descrivendone la magnifica impresa, l’erezione della
chiesa di s. Andrea, a detta di Venanzio un edificio di straordinaria bellezza e splendore di mosaici48. Nella costruzione
hanno ben meritato anche due non meglio identificati egregii viri che il vescovo era riuscito a interessare all’impresa: il
comandante militare (dux ... armis) e un alto magistrato o
funzionario dell’amministrazione (praefectus legibus)49. Il
poeta chiude il componimento con toni solenni da inno
esprimendo l’auspicio che Vitale possa erigere altri templi
divini (Dei ... templa).
Il secondo componimento50, che conta come il primo 28
versi, ricorda le iscrizioni in versi sulle chiese del VI sec.
quali si conservano a Parenzo, Grado, Ravenna e altrove
nell’area norditalica51. Dopo i versi introduttivi (1-6) che
ancora celebrano il Vitale costruttore della chiesa di s.
Andrea, sono presentati i santi le cui reliquie (veneranda
viscera, viscera sancta) si custodiscono nella chiesa. Quale
persona che più ha meritato per la loro acquisizione si cita
un “buon vescovo Giovanni” (bonus antistes ... Iohannes)
che queste reliquie su sollecitazione del vescovo Vitale
avrebbe seppellito al posto d’onore (egregio loco), evidentemente nell’altare52. Le reliquie di ben sette santi singoli (tre
apostoli, tre martiri, un asceta e vescovo) e di un gruppo di
martiri (un vescovo-martire coi tre accompagnatori) sono
brevemente presentate dal poeta per provenienza e modalità della morte. Sono: gli apostoli Pietro, Paolo e Andrea, i
martiri romani Lorenzo e Cecilia, il martire bolognese Vitale,
l’asceta e vescovo gallico Martino, il vescovo e martire tridentino Vigilio, i martiri Marturio, Sisinnio e Alessandro53.
L’elenco delle reliquie coincide in notevole misura con quelle di cui disponeva allora la chiesa ravennate e che la tradizione locale vuole traslate nella chiesa di s. Stefano dal
vescovo Massimiano54.
Chi si cela dietro ai quattro contemporanei di Venanzio
(due vescovi e due dignitari laici) che vengono menzionati
nei due componimenti: il vescovo Vitale a cui è indirizzata la
poesia e il suo collega Giovanni nonché i due non meglio
specifiati dignitari, un militare e un civile? Nel cercare la
risposta al quesito il rilievo era ovviamente dato a Vitale,
mentre l’individuazione degli altri personaggi era subordinata alla spiegazione del primo. A quanto ci è dato di sapere,
gli studiosi hanno fornito almeno quattro spiegazioni circa la
sua provenienza e ambedue le possibili spiegazioni sulla
371
sua posizione politico-religiosa (seguace dello scisma dei
Tre Capitoli o suo avversario). Dietro Vitale si celerebbe un
vescovo (1) ravennate, (2) milanese, (3) altino-aguntese o
(4) istriano. Ci sia permesso di presentarli brevemente riservandoci di dedicare più attenzione alle ultime due spiegazioni.
La spiegazione di più antica data dice ovviamente trattarsi di un vescovo ravennate come indicato dal poeta stesso nei due componimenti. Fermo restando che secondo la
tradizione della chiesa ravennate nel periodo in questione
non era noto alcun Vitale, si sono suggerite due possibili
soluzioni al problema. Secondo la prima, dietro questo
nome si celerebbe il vescovo Massimiano (546-557), personalità di spicco della chiesa ravennate, oriundo dalla diocesi di Pola in Istria che Giustiniano aveva elevato alla prestigiosa sede e che ai tempi della controversia sui Tre Capitoli
era considerato personaggio centrale della politica religiosa
dell’imperatore in Italia55. I patrocinatori di questa tesi riportavano a riprova il fatto che la tradizione locale attribuisce
proprio a Massimiano il restauro della chiesa di s. Andrea a
Ravenna. Un’impresa cui avrebbero potuto collaborare le
massime autorità civili e religiose dell’Italia del tempo: così il
dux armis sarebbe Narsete, il “buon vescovo Giovanni”
papa Giovanni III (561-574) in persona56. Un’ipotesi oggi
respinta in quanto fondata su premesse affatto fragili e
improbabili57. Massimiano non appare in nessun luogo con
l’attributo “Vitalis” che non troviamo neanche in nessuna
delle sue iscrizioni edilizie; a Ravenna c’era già la chiesa di
s. Andrea che Massimiano restaurò e a cui fece dono delle
reliquie dell’apostolo Andrea per cui non potrebbe in nessun
caso ricoprire il ruolo di edificatore a fundamentis ad dedicationem bensì, nel migliore dei casi, quello del “buon
vescovo” Giovanni58. Il quale ultimo non è menzionato in
nessuna fonte ravennate del tempo.
Una base più concreta alla tesi secondo cui nel caso di
Vitale si tratterebbe realmente di un vescovo ravennate è
stata data da Ernst Stein59. Dopo ripetute analisi delle fonti
sulla storia della chiesa ravennate della metà del VI sec. in
cui non si fa menzione di alcun Vitale e di fronte al (supposto) iato cronologico di più di due anni tra la morte di
Massimiano (secondo Stein 554 ca.) e la nomina di Agnello
(23 giugno 557) lo Stein suggerisce che in questo periodo
reggesse la sede ravennate proprio il Vitale cantato da
Venanzio Fortunato. Il suo pontificato, peraltro di scarso rilievo e perciò appena avvertito (nella tradizione ravennate
372
“dimenticato”), potrebbe cadere nel periodo successivo a
Massimiano in quanto appena quest’ultimo riesce ad avere
dalla capitale le reliquie dell’apostolo Andrea. Stando a questa spiegazione Vitale sarebbe il vescovo cattolico (antiscismatico), il dux ... armis menzionato da Venanzio invece
Narsete. Tesi che, malgrado l’indiscutibile autorevolezza del
proponente, è accolta nella maggioranza dei casi con varie
riserve quale probabile o almeno possibile soluzione del
problema60.
L’ipotesi secondo cui dietro al Vitale venanziano si
nasconderebbe l’omonimo vescovo scismatico di Milano
(552/3-556/7) è stata data come soluzione possibile senza
essere sufficientemente comprovata61. Benché sia il nome in
oggetto sia la cronologia del pontificato del vescovo milanese Vitale sembrino corroborarla, tale ipotesi a noi pare poco
fondata. Non è noto che Venanzio Fortunato intrattenesse
rapporti con l’area milanese dove inoltre niente si sa dell’erezione della chiesa di s. Andrea.
Una terza supposizione vuole che dietro a questo vescovo si nasconda il presule di Altino Vitale che dopo la vittoria
bizantina sui Goti e la cacciata dei Franchi dall’Italia del
Nord, “molti anni” prima del 565 si rifugiò nel regno franco e
precisamente ad Agonthiensem civitatem (più probabilmente ad Aguntum che a Magonza). Il generale bizantino
Narsete lo avrebbe fatto prigioniero l’anno della morte di
Giustiniano e dell’elevazione di Giustino II al soglio, quindi
nel 565, e punito confinandolo in Sicilia62. Vitale sarebbe stato
un vescovo filofranco e pertanto avversario dei Bizantini e di
conseguenza partigiano dello scisma dei Tre Capitoli. La
fuga di Vitale in territorio franco si potrebbe ricondurre alle
vittorie di Narsete sui Franchi, battuti definitivamente nel
561/3, e alle misure da lui prese contro i vescovi scismatici63.
Dati gli intimi legami fra Vitale e Venanzio, il presule sarebbe
stato persino “primo patrono di Venanzio Fortunato” che l’anno della cattura da parte dei Bizantini e la conseguente punizione del questo vescovo si sarebbe ritirato in Gallia, avrebbe visitato strada facendo Agunto dove sembra avesse soggiornato per “molti anni” il suo patrono e sodale Vitale64.
Come aveva fatto prima il vescovo di Altino, anche il poeta
avrebbe più tardi ripiegato dal territorio bizantino in quello
franco per motivi politico-religiosi, anzi di più: grazie alla frequentazione di Vitale Venanzio avrebbe ricevuto lettere di
raccomandazione che gli aprivano l’accesso alle alte sfere
laiche ed ecclesiastiche del regno merovingio65.
Questa spiegazione trova vari patrocinatori ma nondime373
no, dato e non concesso che il vescovo “ravennate” si
possa identificare con quello di Altino, contiene alcuni punti
dubbi. Così non vi troviamo elementi a sostegno dell’identificazione del secondo vescovo e coetaneo di Vitale,
Giovanni, che alla chiesa aveva fatto dono di molte preziose
reliquie e doveva pertanto avere un qualche rapporto con
qualcuno dei più importanti centri ecclesiali quali Ravenna,
Milano od Aquileia66. Né vi sono elementi affidabili anche per
la spiegazione dei non meglio identifiati dignitari laici (dux ...
armis, praefectus legibus)67. Non si sa neppure di opera
edile ad Altino rapportabile al contesto in questione68. Nella
zona di Agunto in territorio franco dove si rifugiò il presule di
Altino non vi è edificio comparabile con la descrizione di
Venanzio. Nella stessa Agunto (Lienz-Patriasdorf) sono stati
scoperti sotto il pavimento della pieve dedicata all’apostolo
Andrea (!) resti di una chiesa paleocristiana del V-VI sec.,
pur tuttavia non va dimenticato che l’inizio del patrocinio è
da collocarsi con fondatezza appena nel periodo carolingio
e che gli stessi resti della chiesa denotano un edificio sacro
ben più modesto. Inoltre l’Agunto venanziana non è evidentemente identificabile con la città romana di Lienz bensì con
la fortezza alpestre di Kirchbichl a monte di Lavant, a sudest dell’antica città. E ancora: non possiamo immaginare
che Vitale vescovo profugo in veste di ospite del vescovo di
Agunto (di cui le fonti tacciono) abbia potuto erigere in proprio una chiesa così prestigiosa come quella descritta da
Venanzio69.
A conclusioni affatto diverse riconduce l’ipotesi secondo
la quale Vitale sarebbe un vescovo istriano ortodosso, spiegazione che non si fonda sull’identità col nome di un vescovo noto da altre fonti (come il Vitale di Altino o il Vitale di
Milano) ma sulla diffusione sul territorio dell’Istria bizantina di
chiese dedicate all’apostolo Andrea. Tale spiegazione si
basa sulla provenienza istriana del vescovo ravennate
Massimiano e sul tentativo di quella chiesa di allargare la
propria sfera nell’Istria (meridionale).
Su decisione dell’imperatore Giustiniano, papa Vigilio
consacra vescovo di Ravenna Massimiano (546-556), oriundo della diocesi di Pola, nella greca Patrasso, luogo del
martirio di s. Andrea70. Da allora in poi Massimiano sarà un
fedele ancor più assiduo dell’apostolo e nella veste di presule della chiesa ravennate deciso fautore dell’ortodossia.
Da istriano e quale vescovo ortodosso Massimiano si impegna a rafforzare, col sostegno del potere politico bizantino,
la propria posizione in Istria. Nel 548 dopo che fu risolta una
374
controversia circa il possesso di un bosco a Vistro nei pressi di Rovigno (suo presunto luogo natio), ricevette da
Giustiniano tutta l’area in duraturo possesso della chiesa
ravennate71, quindi eresse a Pola l’imponente chiesa di S.
Maria Formosa e il vescovado72. Secondo un atto di donazione di dubbio valore datato 21 febbraio 546 (?),
Massimiano avrebbe fatto preziosi doni al monastero di s.
Andrea sull’isoletta all’imbocco del porto e alla ricordata
chiesa mariana di Pola. La donazione sarebbe stata autenticata dalle firme del vescovo di Aquileia Macedonio, di
Trieste Frugifero, di Pola Isacio, nonché dai vescovi
Germano e Teodoro di ignota provenienza73. L’atto di donazione che si conservò in una copia rinvenuta appena nel
1657 contiene oltre a dati non verificabili anche altri scorretti come ad esempio la data (anno) della scrittura, se
Massimiano fu consacrato appena il 14 ottobre dello stesso
anno. Nondimeno lo scritto riporta anche dati confermati da
altre fonti, specie per quanto riguarda l’impegno della chiesa ravennate ad allargare la propria influenza nell’Istria meridionale. La presenza di un monastero di s. Andrea all’isola
alle porte di Pola è confermata dalle ricerche archeologiche74 e da documenti scritti risalenti al 1000 circa75. Oltre alla
chiesa mariana e al monastero di s. Andrea a Pola,
Massimiano avrebbe eretto un secondo monastero di s.
Andrea sull’isola di Serra presso Rovigno, come confermato
dai reperti archeologici (nelle fonti scritte se ne fa menzione
appena verso la metà del IX secolo)76. Per cui all’impegno
del nostro vescovo ravennate si deve la costruzione di tre
edifici sacri nell’Istria meridionale77.
Un ulteriore elemento di chiarificazione del problema del
ruolo della chiesa ravennate nell’erezione delle chiese istriane dedicate all’apostolo Andrea è stato portato dalle ricerche archeologiche condotte negli anni 1975-1977 nell’area
del complesso monastico di s. Andrea a Betica presso
Barbariga (pressappoco a metà strada fra Pola e Rovigno)
che hanno portato alla luce un centro paleocristiano risalente al periodo dalla metà del V alla fine del VI secolo e da cui
sarebbe sorto un monastero78. Questo centro ecclesiale,
forse identificabile con l’istriana Cissa79, era dedicato a s.
Andrea e si distingue per ricchezza di suppellettili. Nella
cappella trilobata e con altare-tomba erano conservate le
reliquie di santi purtroppo non nominati. Si è scoperta così
una terza chiesa paleocristiana dedicata a s. Andrea e ubicata in un’area relativamente esigua fra ambedue le chiese
isolane, quella sull’isolotto prospiciente Pola e l’altra sull’iso375
la nei pressi di Rovigno. La descrizione fornitaci da
Venanzio Fortunato riporta taluni elementi che si potrebbero
ricollegare con quest’ultima chiesa (ricchi mosaici, reliquie
dei santi nell’altare-tomba) mentre sono presenti anche talune incoerenze: la basilica col pavimento musivo fu costruita
nella prima metà o verso la metà del V secolo, quindi un
intero secolo prima della poesia di Venanzio, il battistero e la
futura eventuale ornamentazione dell’altare-tomba sono
della metà del VI secolo80. L’incoerenza cronologica di un
secolo Branko Marušić cercò di spiegarla con l’ipotesi per
cui Venanzio avrebbe presentato Vitale quale costruttore
dell’intero complesso che andò poi gradualmente trasformandosi nell’arco di più di cent’anni. A suo giudizio, dietro il
costruttore del complesso di Betica si celerebbe il bonus
antistes Johannes, presumibilmente primo vescovo (ortodosso) di Cissa81 mentre il suo supposto successore
Vindemio, che partecipò al sinodo di Grado, sarebbe passato nel campo scismatico.
Nel contesto di ambedue le poesie di Venanzio
Fortunato l’evoluzione delle chiese sudistriane del tempo
acquisterebbe in tal modo un’immagine chiara82. La definizione di “vescovo ravennate” per Vitale potrebbe intendersi
in senso traslato come indicazione di vescovo ortodosso
che attuava una politica ecclesiastica “ravennate” nello spirito dell’impegno del vescovo Massimiano. I due vescovi
cattolici dell’Istria Vitale e Giovanni avrebbero operato quali
esponenti della chiesa di Ravenna concordemente coi rappresentanti della politica ufficiale bizantina come i non
meglio definiti dux armis e praefectus legibus. Loro campo
d’azione sarebbe stata l’Istria meridionale e ambedue
avrebbero dimorato nell’area della diocesi di Pola83.
L’affermazione della chiesa ravennate in Istria sarebbe provata anche da elementi ravennati nella liturgia (nel 559 papa
Pelagio I insistè perché nel canon missae venissero inclusi
su tutto il territorio della chiesa aquileiese soltanto i nomi del
pontefice e del vescovo di Ravenna!)84 nonché dal ruolo
della chiesa ravennate nei decenni successivi, quando la
capitale dell’Italia bizantina diventa il centro della lotta contro lo scisma dei Tre Capitoli. Attorno agli anni 585/6 Pelagio
II impone al patriarca scismatico Elia e ai suoi suffraganei di
venire, se paventassero il lungo viaggio a Roma, a Ravenna
per incontrarvisi con lui85, attorno al 588/590 l’esarca
Smaragdo porta con la forza il patriarca Severo e i suoi tre
suffraganei istriani a Ravenna per costringerli a passare al
cattolicesimo86. Ancora nel 599 Gregorio Magno di fronte ai
376
fatti dell’insula Capritana pone l’isola capodistriana sotto la
giurisdizione della chiesa ravennate dove rimarrà fin quando i vescovi scismatici non saranno ritornati in grembo all’ortodossia87.
Le ricerche archeologiche compiute a Betica aggiungono un nuovo elemento suscettibile di approfondire l’interpretazione delle poesie di Venanzio. La venerazione di s.
Andrea nell’Istria meridionale e la presenza di chiese a lui
dedicate (due monastiche e una presumibilmente diocesana) sono così confermate con molta probabilità su un’area
relativamente piccola della diocesi di Pola già nel VI sec. e
in ben tre casi. Naturalmente le scoperte archeologiche non
sono in grado di rispondere in maniera affidabile al quesito
se si tratta della stessa chiesa menzionata da Venanzio. Se
dietro la descrizione venanziana della chiesa di s. Andrea si
cela una delle chiese istriane (quella sull’isolotto prospiciente Pola o quella di Betica) insorge il problema se Venenzio
sia andato in Istria e abbia visto la costruzione in oggetto,
dato che la descrizione mostra una buona conoscenza dell’edificio. Pertanto ricollegare l’ignoto costruttore del complesso di Betica col vescovo venanziano Giovanni in veste
di primo presule di Cissa (560 ca.) è possibile soltanto a
livello di ipotesi88. Il carattere dubbio di tale conclusione è
ulteriormente rafforzato dal fatto che la traslazione delle reliquie di s. Andrea o la consacrazione all’apostolo delle chiese istriane (quindi nell’area facente capo alla chiesa aquileiese) non possono necessariamente essere rapportate
all’attività del vescovo ravennate Massimiano. Le reliquie
dell’apostolo Andrea erano presenti nell’Aquileiese fin dal
400 ca. quando se ne fa menzione a Concordia ed
Aquileia89, mentre un’altra chiesa dedicata al Santo sarebbe
stata consacrata secondo la tradizione posteriore dal
patriarca scismatico Elia (571-586 ca.)90.
Nello spirito della tesi “istriana” circa il vescovo Vitale e il
suo collega Giovanni quali esponenti dell’arcivescovo
ravennate Massimiano (o del suo successore Agnello), il
rapporto del poeta nei confronti dello scisma dei Tre Capitoli
si presenterebbe in una luce affatto dubbia, se nel menzionare i quattro (o cinque) vescovi italici (Paolo di Aquileia,
Felice di Treviso [divenuto vescovo dopo 565], Giovanni di
Padova nonché Vitale e Giovanni di non definibile provenienza) usa attributi oltremodo rispettosi91 senza peraltro
accennare minimamente alla loro eventuale presa di posizione nella controversia religiosa del tempo provocata dalla
politica giustinianea nel campo religioso. Da altre fonti
377
veniamo a sapere che il primo era un corifeo degli scismatici, i due successivi probabilmente suoi seguaci. Di Vitale e
Giovanni non si sa niente di sicuro: se fosse valida la tesi
“altino-aguntese” risulterebbero vescovi scismatici anche
questi due; nel caso della validità della tesi “istriana” il poeta
esprimerebbe il suo attaccamento ai due vescovi dell’Istria
meridionale, partigiani del vescovo ravennate Massimiano e
di conseguenza anche della politica religiosa di Giustiniano.
Le due ipotesi si escludono a vicenda per il fatto che portano a conclusioni contrastanti sulla personalità del poeta e
sui motivi della sua partenza per il regno franco.
Nel periodo anteriore alla partenza del Venanzio per la
Gallia le tensioni presenti nel Norditalia bizantina si manifestano in primo luogo attraverso le polemiche politico-religiose nella pubblicistica (corrispondenza di papa Pelagio I) e
solo in singoli casi in forma di violenza fisica (intervento di
Narsete contro il vescovo di Altino Vitale rifugiatosi in territorio franco e sua condanna col bando). L’indicazione rispettosa ma ideologicamente “neutra” usata dal poeta per i
vescovi mostra che negli anni successvi allo scoppio aperto del dissidio (557) ci si poteva “distanziare” dai drammatici eventi e dai loro protagonisti92, cosa che più tardi fu sempre più difficile e una generazione dopo (588-591 ca.),
quando la controversia assume forme di violenza fisica93,
assolutamente impossibile.
d. La descrizione di Venanzio del dissidio sui Tre Capitoli
Il rapporto del poeta nei confronti dello scisma dei Tre
Capitoli è presentato nel modo più palese nella poesia di ringraziamento indirizzata al successore di Giustiniano
Giustino II (565-578) e alla sua consorte Sofia dopo che i
sovrani ebbero esaudito la preghiera della protettrice del
poeta Radegonda e le ebbero fatto dono di reliquie della
Santa Croce. I fatti che fanno da sfondo al componimento
(preghiera di Radegonda rivolta ai sovrani bizantini previo
assenso del re Sigiberto, missione e quindi traslazione delle
reliquie e loro solenne arrivo a Poitiers, ringraziamento alla
coppia imperiale) sono collocabili negli anni 569/570 al più
tardi94. Per quanto taluni attribuissero, senza solide basi, la
paternità della poesia in oggetto alla stessa Radegonda,
possiamo senza ombra di dubbio giudicarla opera di
Venanzio95. Nei 100 versi della gratiarum actio il poeta enumera in tono panegirico le virtù della coppia imperiale para378
gonata a quella di Costantino e della madre Elena (v. 65-68).
Il poeta accenna pure al rapporto dell’imperatore nei confronti dell’allora oltremodo attuale controversia sui Tre
Capitoli non mancando di ribadire ripetutamente la propria
assoluta fedeltà al Concilio di Calcedonia e alla posizione
delle chiese d’Occidente. Nei versi introduttivi (vv. 1-10)
dichiara in forma poetica la parte essenziale del proprio
“credo”, il reciproco rapporto fra le persone della SS. Trinità
che concorda con la formula calcedoniana del credo96. Nel
prosieguo (vv. 11-22) esprime il plauso per l’atteggiamento
dell’imperatore “che segue la dottrina promulgata dal trono
di Pietro” (cioè papale).
Alla parte introduttiva succede un’interessantissima
descrizione della controversia ecclesiale che sarebbe stata
eliminata con l’intervento di Giustino II. Il quale avrebbe ribadito la validità delle conclusioni del Concilio di Calcedonia
per cui viene magnificato dal poeta quale restauratore del
credo calcedoniano97, cioè del credo su cui insistevano a
giurare i partigiani dello scisma dei Tre Capitoli98. Per questi
il concilio rappresentava il presupposto ideologico del loro
distacco dalla chiesa cattolica, laddove la revisione parziale
delle sue decisioni ad opera di Giustiniano ne costituiva la
causa immediata99. Il Concilio di Calcedonia ebbe sempre un
posto centrale nella polemica antiscismatica dei papi Pelagio
I, Pelagio II e Gregorio Magno che tornavano a ripetere non
aver Giustiniano in nessun modo fatto violenza al credo calcedoniano, le cui decisioni trovano consenzienti anche loro
stessi100 o, come si espressero direttamente papa Pelagio II e
successivamente Gregorio Magno, le questioni controverse
erano superflue101, il motivo dello scisma dunque futile102. Il
poeta evita di menzionare l’imperatore Giustiniano e la sua
politica religiosa e specialmente le decisioni del V concilio
ecumenico. L’espressa glorificazione del nuovo imperatore
Giustino II con l’accento sulle essenziali novità positive della
sua politica getta già di per sé ombra sulla politica religiosa
del predecessore e fa presupporre al minimo un rapporto critico di Venanzio nei suoi confronti. Per quanto Venanzio fosse
cresciuto, educato e maturato sotto il regno di Giustiniano,
l’imperatore non è da lui mai menzionato come non si fa menzione dei papi suoi contemporanei (Pelagio I, 556-561 e
Giovanni II, 561-574) anch’essi avversari dei Tre Capitoli103.
L’atto più importante del nuovo sovrano, una volta salito
al soglio, fu la revoca della pena del bando per tutta una
serie di vescovi espulsi in base agli editti giustinianei.
Un’azione a cui il poeta attribuisce importanza e portata
379
eccezionali104. A questo proposito va rilevato che le altre fonti
danno al provvedimento un rilievo molto più modesto: la
revoca della pena per i vescovi banditi è menzionata soltanto dal contemporaneo Euagrio e su questa scorta se ne
ha una annotazione posteriore105, mentre la breve nota di un
contemporaneo cronista spagnolo è affatto generica e si
presta alle più svariate interpretazioni106. La tradizione delle
fonti non attribuisce al fatto l’importanza datagli da Venanzio
(le fonti più esaustive del tempo non ne fanno neppure menzione). In effetti la politica religiosa del nuovo imperatore era
moderata e la sua rottura col periodo giustinianeo neanche
lontanamente radicale107.
Il ritorno all’ortodossia sul trono imperiale avrebbe provocato un grande entusiasmo in tutto l’Occidente, entusiasmo che il poeta descrive in due cataloghi, “geografico” il
primo coi nomi dei fiumi, dei paesi e dei popoli
dell’Occidente108, etnografico il secondo in cui sono elencati i popoli che si rallegrano per il cambiamento109. Ambedue
i cataloghi differiscono notevolmente per ambito geografico.
Il primo catalogo è decisamente “occidentale”. I riferimenti riportativi riguardano tre paesi. In primo luogo la Gallia
o meglio l’intero stato merovingio dato che dei quattro fiumi
che segnano questo paese (Rodano, Reno, Danubio ed
Elba)110 gli ultimi due rimandano al territorio degli Alemanni,
dei Bavari e Turingi (presso il fiume Elba) che i Franchi avevano sconfitto più di tre decenni prima (Alemanni già
506/507, Turingi e Bavari 531/534 ca.) e che nella raffigurazione dei contemporanei erano parte integrante della
Germania e non della Gallia111. Il riferimento successivo
riguarda la Galizia spagnola, quindi l’entità statale cattolica
dei Suebi popolata anche da Baschi e Cantabri; l’ultimo
parla della Britannia oltremare. Genericamente parlando
possiamo dire che le misure giustinianee contro i partigiani
dei Tre capitoli, specie il bando dei vescovi, non toccarono
direttamente queste terre che nella controversia restarono o
passive (ad es. la Britannia) o genericamente neutrali; il loro
coinvolgimento nella controversia fu breve, soltanto parziale, fondato sulle informazioni scarse ovvero sulla ignoranza
del contenuto teologico della controversia, e per questo
senza effetti importanti o durevoli (stato franco e chiesa spagnola). In tal caso è evidente l’aver il poeta esagerato nella
maniera della poesia panegirica. Tuttavia il suo parere non
fu del tutto isolato. Un’affermazione similmente esagerata fu
espressa già prima di lui dal vescovo Nicezio di Treviri nella
sua lettera a Giustiniano112 e anche due decenni più tardi
380
nella lettera all’imperatore Maurizio (591) i vescovi scismatici della Venetia supponevano che la condanna dei Tre
Capitoli colpiva le totius mundi ecclesias113.
Il secondo catalogo offre un quadro ben più concreto e
preciso dell’area interessata alla politica religiosa di
Giustiniano: Tracia, Italia, Scizia, Frigia, Dacia, Dalmazia,
Tessaglia e Africa, dunque l’area balcanico-danubiana,
Italia, Africa, in parte anche le terre greche e l’Asia Minore.
In quattro degli otto paesi menzionati (Dacia, Dalmazia,
Italia e Africa) la resistenza alla politica di Giustiniano è forte
e (specie in Africa) vari vescovi del luogo vengono deposti
e banditi per poter farvi ritorno all’ascesa al trono di Giustino
II. Pochissimo o niente si sa della resistenza a tale politica
nella diocesi tracia (Tracia, Scizia) e poi in Tessaglia e Frigia.
L’inserimento di queste terre nell’elenco è possibile soltanto
se il poeta aveva in mente anche altre controversie religiose
del periodo giustinianeo (negli ultimi anni del suo regno specie l’aftartodocetismo che provoca l’intervento imperiale nell’organizazzione ecclesiale) che potevano interessare, almeno parzialmente, anche i paesi citati sopra114. Comunque
possiamo dire che i due “cataloghi” di Venanzio sulle terre e
sui popoli colpiti dalla politica religiosa di Giustiniano non
sono in pieno prodotto della fantasia del poeta ma, esagerazioni a parte, corrispondono in notevole misura alla situazione concreta. Il poeta che al momento in cui stila le poesie si trova da circa cinque anni in Gallia, deve ovviamente
aver conosciuto bene gli effetti della politica religiosa dell’imperatore antecedente. Il suo entusiastico panegirico di
Giustino II è espressione del rifiuto o almeno di una critica
indiretta della politica del predecessore, specie nella parte
di importanza capitale per l’Occidente: la pressione esercitata sui partigiani dei Tre Capitoli.
e. Il “credo” di Venanzio
Le concezioni teologiche di Venanzio, che il poeta espone ripetutamente nelle sue opere in poesia e in prosa, non
sono in grado di fornire alcun dato affidabile sul suo rapporto nei confronti dello scisma aquileiese. Durante il soggiorno
di Venanzio in Italia, dunque fino al 565, la chiesa scismatica aquileiese non sviluppò una sua teologia specifica
donde si potrebbe ricavare la distinzione fra il Concilio di
Calcedonia e il il Concilio di Costantinopoli, né si sono conservati i testi che potrebbero farvi da base. La posteriore e
381
pertanto inaffidabile ricostruzione del credo del Sinodo di
Grado, di cui riferisce appena Dandolo, è per contenuto una
formula alquanto semplificata del Concilio di Nicea, confermata e completata nei successivi concili ecumenici, compreso quello di Calcedonia (451) e quindi priva di tratti originali di sorta115. L’interpretazione dei monumenti materiali
(ad es. la composizione musiva della basilica eufrasiana di
Parenzo o le chiese paleocristiane del Norico del VI sec.) cui
sarebbe affidata l’espressione di un “programma” teologico
degli scismatici è possibile solo in chiave di ipotesi116. Nelle
condizioni di separazione dalla chiesa cattolica e di polemica coi papi relativa alle questioni teologiche allora di attualità, i patriarchi aquileiesi si sforzarono di acquisire la relativa letteratura teologica per approfondire le proprie conoscenze in materia. Gli scritti del VII sec. sul periodo della
controversia monotelita e sull’ultimo periodo dello scisma
aquileiese mostrano, che nel patriarcato di Aquileia erano
diffusi gli scritti dei teologi orientali le cui opere erano all’origine di tali controversie (i teologi pronestoriani o diofisiti
Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Ciro, Iba di Edessa,
forse anche lo scrittore monofisita Severo di Antiochia) e gli
altri scritti di importanza per la chiesa scismatica (Facondo
di Ermiane, atti del concilio di Calcedonia nella versione latina del Rustico Diacono etc.)117. Pur tuttavia per il primo
periodo dello scisma per gli anni anteriori alla partenza di
Venanzio per la Gallia (565) non vi sono conferme della presenza di uno specifico “programma teologico” scismatico.
Non va dimenticato che i contatti del poeta con la patria
dopo la partenza per la Gallia si diradarono118. I testi in cui
Venanzio esprime le proprie convinzioni teologiche furono
scritti in Gallia nel periodo dal 570 ca. (poesia in onore di
Giustino II) fino ai tardi anni della sua produzione (componimento in onore della Vergine, commenti in prosa al credo)119,
per cui non poterono essere stilati sotto l’influsso della situazione nella patria del poeta e per di più non riflettono affatto
il rapporto di Venanzio nei confronti della controversia religiosa. La presentazione della SS. Trinità nell’introduzione
alla poesia di ringraziamento in onore della coppia imperiale bizantina è una sintesi poetica della dottrina della SS.
Trinità120. Anche il componimento in onore della Vergine la
cui paternità restò a lungo controversa, rientra oggi secondo il parere della maggioranza degli studiosi fra le opere
tarde del poeta e anch’essa non denota peculiarità teologiche di sorta121. Tra le interpretazioni ortodosse del credo
sono tre brevi testi in prosa: l’Expositio symboli, il Symbolum
382
Athanasianum e l’Expositio fidei catholicae. In tutti riscontriamo una caratteristica componente del vecchio credo
aquileiese (nonché del credo di alcune altre, dapprima rare,
chiese) come riferisce e spiega verso il 400 Rufino: la raffigurazione di Cristo che scende agli inferi (descendit ad
infernum rispettivamente descendit ad inferos)122. Del credo
aquileiese non si incontrano altre particolarità, va comunque
rilevato che la raffigurazione stessa della discesa di Cristo
negli inferi è notevolmente diffusa in Occidente nel VI sec. Il
credo di Venanzio lo definiamo “aquileiese” pur con riserve123. La suddetta particolarità non ebbe peraltro ruolo alcuno nella controversia dei Tre Capitoli.
3. Conclusione: Lo scisma dei Tre Capitoli
è uno dei motivi della partenza del poeta dall’Italia?
La menzione degli eventi e dei personaggi collegati allo
scisma dei Tre Capitoli permettono di dare almeno un giudizio di massima circa il rapporto del poeta nei confronti dello
scisma. Anzitutto va premesso che Venanzio non fa in nessun luogo espressa menzione dello scisma e soltanto in un
punto si limita a descriverlo per immagine (ecclesiae turbata fides)124. Sulle persone che furono protagoniste dello scisma (il patriarca Paolino) o suoi partigiani (il coetaneo del
poeta e futuro vescovo di Treviso Felice, presumibilmente
anche il vescovo padovano Giovanni) si esprime rispettosamente, il che dimostra che le stimava altamente. Mai il poeta
non fa menzione degli avversari dello scisma quali in primo
luogo papa Pelagio I e l’imperatore Giustiniano, mentre presenta in luce molto positiva Giustino II che, salito al trono,
revoca i più radicali provvedimenti di Giustiniano contro i
fautori dello scisma (... reddis et ipse fidem ...). La cornice
“spaziale” così tracciata mostra, che Venanzio aveva preso
in considerazione l’intero mondo cristiano del tempo e non
esplicitamente le Venezie, l’Istria o il patriarcato di Aquileia
dove il dissidio aveva assunto le forme estreme. Tutte le
menzioni del poeta dei fatti e dei protagonisti dello scisma
risalgono al primo decennio della sua permanenza nel
regno franco. Sulla scorta dei suoi precari contatti con la
patria125 possiamo spiegarci la sua imprecisa informazione
sulle condizioni in cui si trovava. Il poeta non conosce o perlomeno non prende in considerazione tutta una serie di
cambiamenti verificatisi nel periodo 565-575, come gli effetti dell’invasione longobarda i quali avrebbero potuto rappre383
sentare, come i Bavari citati nella Vita s. Martini126, un ostacolo al viaggio fantastico della biografia poetica di s.
Martino da Tours a Ravenna, né tiene conto degli effetti della
seconda caduta di Aquileia, dell’altra sua distruzione e del
precedente trasferimento del centro ecclesiale a Grado. Per
quanto riguarda le sorti dei singoli personaggi, non sa dell’impresa del vescovo trevigiano Felice alla venuta dei
Longobardi nel 568 né molto probabilmente della morte del
patriarca Paol(in)o a Grado nel 569.
Di importanza capitale per un giudizio sul rapporto di
Venanzio nei confronti dello scisma dei Tre Capitoli e in
genere nei confronti dei centri del potere in Italia e in
Occidente è la comprensione delle prime due poesie della
raccolta in cui magnifica l’eccezionale realizzazione edilizia
del vescovo “ravennate” Vitale. Se Vitale era davvero vescovo ravennate (e successore di Massimiano) o se era un
vescovo che in terra istriana attuava la politica religiosa
“ravennate”, allora ci troveremmo di fronte a un vescovo cattolico in linea con la politica religiosa di Giustiniano, in altre
parole uno che, almeno per presa di posizione politico-religiosa, era avversario degli scismatici, assieme al ricordato
Giovanni di cui non conosciamo la provenienza. Se dietro
questo Vitale si nascondesse l’omonimo vescovo scismatico
di Altino che per fuggire ai nemici dello scisma si rifugiò in
territorio franco, la spiegazione dei fatti sarebbe più chiara:
i Bizantini con Narsete sarebbero penetrati in territorio franco e avrebbero punito il vescovo fuggiasco Vitale perché
scismatico filofranco. Il poeta, che non si espone politicamente, sarebbe riparato in Gallia anche per evitare il destino di quel presule.
Il problema dell’identificazione dei personaggi nelle prime
due poesie è di capitale importanza per la spiegazione delle
cause e dei motivi per la partenza di Venanzio per la Gallia.
Tutti gli studiosi moderni convengono che il motivo menzionato dal poeta stesso, il pellegrinaggio alla tomba di s.
Martino per la miracolosa guarigione davanti all’immagine del
santo in una delle chiese ravennati (peregrinatio religiosa), è
di importanza secondaria127. Il poeta si autodefinisce exul128 (e
non peregrinus alla tomba del santo), il che mostra che il
motivo molto importante della partenza non è di natura religiosa, per quanto anche le componenti religiose in un poeta
profondamente religioso e che mantiene rapporti soprattutto
coi dignitari ecclesiastici ed evidentemente era un assiduo
visitatore delle tombe dei santi e veneratore delle loro reliquie,
non sono da minimizzare o persino da escludere.
384
Su quali fossero i principali motivi “profani” si sono date
varie spiegazioni o difficilmente concordabili o che tra loro
letteralmente si escludono. Accanto alla spiegazione generica sui motivi politici129 ne sono state ventilate due altre che
tentano di dare una risposta concreta al quesito: (1) il poeta
avrebbe lasciato l’Italia perché partigiano dello scisma dei
Tre Capitoli130; (2) avrebbe lasciato la patria per agire nel
regno merovingio, come una specie di diplomatico segreto,
per gli interessi dello stato bizantino131. Le due ultime spiegazioni si escludono a vicenda e nell’ultimo decennio sono
state respinte nella forma originale132.
I motivi della partenza del poeta sembra che fossero
tanti. Motivi e cause che reciprocamente si intrecciano e
condizionano per cui è praticamente impossibile enuclearne il principale. In primo luogo va rilevato che la partenza
per l’estero quale peregrinatio religiosa non è tutto sommato un motivo tanto di importanza secondaria da doverlo
necessariamente subordinare a uno concreto scopo “profano”, come illustrato da vari esempi della tarda antichità133.
Judith W. George lo ricollega ai tentativi di Venanzio di trovare un patrono colto e influente, al fatto che nel caso di
Venanzio Fortunato si tratta di un “poeta itinerante” quali ce
n’erano a quei tempi anche altrove (ad es. in Egitto)134. Il
poeta avrebbe collegato il pellegrinaggio alla tomba del
santo con l’impegno a trovare così un patrono. In questo
avrebbe avuto l’appoggio del vescovo di Altino Vitale con le
sue aderenze nel regno franco, che gli avrebbe facilitato
con lettere di raccomandazione l’accesso ai più influenti
presuli della Gallia135. I motivi della partenza dall’Italia erano
anche (o anzi tutto) di carattere personale come la sua
posteriore decisione di restare nella nuova patria136.
Dietro le decisioni del poeta era infine la situazione nel
Norditalia nel periodo dal 560 al 565, situazione oltremodo
complessa tanto in sede politico-militare che ecclesiale, e
ambedue spesso fortemente intrecciate fra loro. Anche
dopo le vittorie nell’Italia del nord di Narsete (tra 560 e 563)
permangono nell’area di confine al nord tensioni che sfociano in saltuari scontri137. Di fronte alla fluida situazione politico-militare si intensificano anche le tensioni religiose per le
pressioni sempre più forti sulla scismatica chiesa aquileiese,
pressioni che da un avvio polemico si vanno via via inasprendo in forma di intervento militar-poliziesco contro quei
vescovi, come dimostra il caso dell’arresto e punizione dello
scismatico e filofranco presule di Altino Vitale nel 565. La
scismatica chiesa di Aquileia retta dal patriarca Paolo, era,
385
per la sua posizione al confine, particolarmente esposta alle
ingerenze sia dei Bizantini che dei Franchi138. In tali condizioni la partenza per la Gallia sembrava garantire, malgrado
i forti rischi, un futuro più tranquillo.
E ancor più della decisione di partire ci sembra comprensibile, vista la situazione nell’Italia nordorientale, la sua
deliberazione di restare in Gallia. Se nella Vita s. Martini
Venanzio descrive il viaggio come relativamente sicuro dato
che come unico elemento di disturbo nei viaggi oltralpe
sono presentati i Bavari, l’invasione dell’Italia da parte dei
Longobardi nel 568 rappresenta un sostanziale peggioramento della situazione. Il formarsi nel vicino est di un khaganato avaro con centro in Pannonia e la calamità delle
scorrerie di Avari e Slavi (anzi temporaneamente indirizzate
verso le terre balcaniche) significò una potenziale minaccia
anche per l’Italia nordorientale139. A confronto con la situazione pericolosa e affatto imprevedibile nel Norditalia dopo
il 568, la situazione politica e religiosa in Gallia si presenta
stabile e migliori erano anche le prospettive di un’attività culturale che nell’Italia longobarda del tempo s’era quasi completamente dissolta ed era in declino anche nell’Italia bizantina140. Assieme a una serie di motivi personali e oggettivi, fra
loro intrecciati, che portano alla decisione di partire per la
Gallia e più tardi di rimanervi, non vanno ignorati, almeno in
via indiretta, quelli legati alle condizioni conflittuali nella
chiesa provocate dallo scisma dei Tre Capitoli.
386
Note
Abbreviazioni:
AAAd
ACO
AMSI
Antichità Altoadriatiche, Udine.
Acta conciliorum oecumenicorum, Berlin (Strassburg, München).
Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria,
Trieste.
Corpus Christianorum. Series Latina, Turnhout.
CCSL
Corpus scriptorum ecclesiae Aquileiensis, Aquileia.
CSEA
Inscriptiones Latinae Christianae veteres (ed. E. Diehl), DublinILCV
Zürich 19703.
The Loeb Classical Library, Cambridge (Massachusetts) - London.
LCL
Monumenta Germaniae Historica, Hannover-Berlin.
MGH
MGH AA Monumenta Germaniae Historica. Auctores antiquissimi, BerlinMünchen.
Patrologia Graeca, Paris.
PG
Patrologia Latina, Paris.
PL
PLRE III The Prosopography of the Later Roman Empire, Vol. IIIa-b A.D.
527-641 (by J.R. Martindale), Cambridge 1992.
Reallexikon für Antike und Christentum, Stuttgart.
RAC
Rerum Italicarum Scriptores (Raccolta degli storici italiani dal cinRIS
quecento al millecinquecento, ordinata da L.A. Muratori. Nuova
edizione riveduta ampliata e corretta), Bologna.
*L’autore ringrazia il prof. Sergio Tavano per la revisione del testo. Con alcune pubblicazioni difficilmente accessibili hanno aiutato: dott. Stefano Di
Brazzano (Trieste), dott. Reinhardt Harreither (Vienna), prof. Peter Štih
(Ljubljana) e prof. Gerhard Waldherr (Regensburg).
(1) I dati riferiti riprendono l’edizione: Venanti Honori Clementiani Fortunati
presbyteri Italici Opera poetica, recensuit et emendavit F. Leo, MGH AA 4,1,
München 19812; Venanti Honori Clementiani Fortunati presbyteri Italici Opera
pedestria, recensuit et emendavit B. Krusch, MGH AA 4,2, München 19952.
Per il commento andrà presa in considerazione anche l’edizione in PL 88, coll.
9-596. Le nuove edizioni bilingui con commento: Venance Fortunat, Poèmes,
Tome 1 (Livres I-IV), ed. M. Reydellet, Paris 1994; Tome II (Livres V-VIII), ed. M.
Reydellet, Paris 1998; Venance Fortunat, Oeuvres, Tome 4: Vie de saint Martin,
ed. S. Quesnel, Paris 1996; Venanti Honori Clementiani Fortunati Opera 1 Venanzio Fortunato, Opere 1 (a cura di S. Di Brazzano), CSEA 8/1, Aquileia
2001. Traduzioni e commenti (di opere a noi accessibili): Venantius Fortunatus:
Personal and Political Poems. Translated with notes and introduction by J.
George, Translated Texts for Historians 23, Liverpool 1995; Venanzio
Fortunato, Vita di san Martino di Tours. Traduzione, introduzione e note a cura
di G. Palermo, Collana di testi patristici 52, Roma 19952.
(2) Paulus Diaconus, Historia Langobardorum 2,13 (ed. L. Capo,
Fondazione Lorenzo Valla 20005, pp. 90-95 e 436-437).
(3) La bibliografia essenziale sul problema in oggetto (in successione
cronologica della pubblicazione): R. Koebner, Venantius Fortunatus. Seine
Persönlichkeit und seine Stellung in der geistigen Kultur des
Merowingerreiches. Beiträge zur Kulturgeschichte des Mittelalters und der
Renaissance 22, Leipzig 1915; H. Wopfner, Die Reise des Venantius
Fortunatus durch die Ostalpen. Ein Beitrag zur frühmittelalterlichen Verkehrsund Siedlungsgeschichte, “Schlern-Schriften” 9 (Festschrift zu Ehren Emil von
Ottenthals), Innsbruck 1925, pp. 362-417, specie p. 365; D. Tardi, Fortunat:
Étude sur un dernier représentant de la poésie latine dans la Gaule mérovingienne, Paris 1927; E. Stein, Histoire du Bas-Empire II, Paris 1949, pp. 833-
387
834 (attaccamento allo schisma); G. Cuscito, Cristianesimo antico ad Aquileia
e in Istria, Trieste 1977, pp. 287-288; Id., Venanzio Fortunato e le chiese istriane. Problemi e ipotesi, AMSI 78 (26 n.s., 1978), pp. 207-225; J. Šašel, Il viaggio di Venanzio Fortunato e la sua attività in ordine alla politica bizantina,
AAAd 19 (1981), 359-375 (= Id., Opera selecta, “Situla” 30, Ljubljana 1992,
pp. 766-782); H. Berg, Bischöfe und Bischofssitze im Ostalpen- und
Donauraum vom 4. bis zum 8. Jahrhundert, in Die Bayern und ihre Nachbarn
I (a cura di H. Wolfram e A. Schwarcz), Wien 1985, pp. 61-108, specie p. 8485; B. Brennan, The Career of Venantius Fortunatus, “Traditio” 41 (1985), pp.
49-78; Id., Venantius Fortunatus: Byzantine agent?, “Byzantion” 65 (1995), pp.
7-16; J.W. George, Venantius Fortunatus. A Latin Poet in Merovingian Gaul,
Oxford 1992; H. Krahwinkler, Friaul im Frühmittelalter, Wien, Köln, Weimar
1992, specie pp. 24-26; L. Pietri, Venance Fortunat et ses commanditaires: un
poète italien dans la société gallo-franque, “Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo” 39 (1992), pp. 729-754; M. Pavan, Venanzio
Fortunato tra Venetia, Danubio e Gallia merovingica, in Venanzio Fortunato tra
Italia e Francia (Atti del Convegno internazionale di Studi), Treviso 1993, pp.
11-23 (= Id., Dall’Adriatico al Danubio, Padova 1991, pp. 331-344; specie l’adesione allo scisma e insieme il voto in seguito alla guarigione); G. Rosada, Il
“viaggio” di Venanzio Fortunato ad Turones: il tratto da Ravenna ai Breonum
loca e la strada per submontana castella, in Venanzio Fortunato tra Italia e
Francia (Atti del Convegno internazionale di Studi), Treviso 1993, pp. 25-57,
specie pp. 43-48 (specie l’adesione allo scisma nelle peraltro difficili condizioni nell’Italia nordorientale negli anni avanti l’invasione longobarda).
(4) Le date proposte per la nascita del poeta: R. Koebner, Venantius
Fortunatus, p. 11 (nell’anno 540); D. Tardi, Fortunat, p. 24 (nell’anno 530); E.
Stein, Histoire II, p. 694 (verso il 535); J.W. George, Venantius Fortunatus, p.
19 (un po’ prima del 540); B. Brennan, The Career, p. 50 nota 11 (propende
per la proposta di J. Szövérffy, che fosse nato nella seconda metà degli anni
trenta, ca. 535-540); G. Palermo, in Venanzio Fortunato (come alla nota 1), p.
5 (forse 535); M. Reydellet in Venance Fortunat (come alla nota 1), p. VII (nascita fra il 530 e il 540, ripulsa degli argomenti del Koebner che data al 540);
R. Düchting, Venantius Fortunatus, “Lexikon des Mittelalters” 8 (1997), col.
1453 (prima del 540); N. Delhey, Venantius Fortunatus, in S. Döpp, W.
Geerlings (ed.), Lexikon der antiken christlichen Literatur, Freiburg, Basel,
Wien 19992, p. 622 (tra 530 e 540); cfr. ultimamente S. Di Brazzano in
Venanzio Fortunato (cit. alla nota 1), p. 15.
(5) Il “giudizio” del poeta sulla propria educazione (Venantius Fortunatus,
Vita Martini 1, 26-35, p. 296; cfr. G. Palermo in: Venanzio Fortunato, Vita ..., p.
51) è un topos letterario (modestia dell’autore) donde è possibile desumere soltanto che studiò la grammatica, la retorica e il diritto. Cfr. anche Paulus
Diaconus, Hist. Lang. 2,13 (ediz. cit. alla nota 2, p. 90): ... Ravennae nutritus et
doctus, in arte gramatica sive rethorica seu etiam metrica clarissimus extitit.
Circa la sua conoscenza almeno elementare del greco cfr. G. Palermo in
Venanzio Fortunato (cit. alla nota 1), pp. 9-10. Le sue opere non riflettono soltanto un’ottima conoscenza della poesia (sia classica che degli autori cristiani)
ma anche dimestichezza con la teologia. Sull’ampiezza e lo spessore della cultura di Venanzio sono stati espressi pareri diversi; cfr. il giudizio in B. Brennan,
The Career, pp. 52-53; J.W. George, Venantius Fortunatus, pp. 21-22.
(6) Sul nome del poeta vedi J. Šašel, Il viaggio (come alla nota 3), pp.
359-361 (= Id., Opera selecta, pp. 766-768); J.W. George, Venantius
Fortunatus, p. 19; B. Brennan, The Career, p. 50; G. Palermo in Venanzio
Fortunato, pp. 3-4. Lo indicano solo col nome di Fortunatus Gregorius
Turonensis, De miraculis s. Martini 1,13-15 (PL 71, col. 926 B; col. 927 C) e
Paulus Diaconus, Hist. Lang. 2,13.
(7) G. Cuscito, Cristianesimo antico, pp. 293-294.; C. Sotinel, Pelagio I,
in Enciclopedia dei papi I, Roma 2000, pp. 529-536, specie pp. 533-534.;
Ead. in Histoire de christianisme (a cura di J.-M. Mayeur, Ch. et L. Pietri, A.
Vauchet, M. Venard), 3: Les Églises d’Orient et d’Occident (432-610) (a cura
di L. Pietri), Paris 1998, pp. 441-442.
(8) Procopio, Bellum Gothicum 3(7),1,35 (ed. H.B. Dewing, LCL, Procop.
388
IV, London 1962, p. 162) menziona la battaglia di Treviso del 540 in cui i Goti
capeggiati da re Ildibado inflissero una dura sconfitta ai Bizantini comandati
dal generale Vitalio nelle cui file si batterono anche numerosi federati eruli; cfr.
H. Wolfram, Die Goten, München 19903, p. 351; PLRE III, p. 614 (s.v. Ildibadus).
(9) L’ipotesi secondo cui il poeta avesse trascorso vari anni della sua giovinezza ad Aquileia dove la famiglia avrebbe riparato di fronte alla campagna
gotico-bizantina, è stata propugnata specie da D. Tardi, Fortunat, pp. 27-28
e pp. 35-37, in tempi più recenti è stata accolta anche da altri autori (G.
Cuscito, Venanzio Fortunato, p. 209). Perché poco fondata la respingono E.
Stein, Histoire II, p. 695 nota 1; B. Brennan, The Career, p. 51-52; J.W.
George, Venantius Fortunatus, pp. 19-20 (cfr. la recensione del J. Gruber,
Gnomon 71, 1999, p. 418).
(10) Ausonius, Ordo urbium nobilium IX (ed. H.G.E. White, LCL, 1968,
Aus. I, p. 274). Circa la conquista e distruzione di Aquileia ad opera degli
Unni e la parziale sua riedificazione ai tempi dei vescovi Niceta e Marcelliano
vedi R. Bratož, La chiesa aquileiese e i barbari (V-VII sec.), in Aquileia e il suo
patriarcato (a cura di S. Tavano, G. Bergamini, S. Cavazza), Udine 2000, pp.
101-149, specie pp. 112-116, 122-128 e 147-149. Sulla ricostruzione generale dopo la vittoria sui Goti delle città italiane distrutte riferisce l’ultima parte
della cronaca di Copenhagen: Auctarii Hauniensis extrema, 3-4 (Chronica minora I, ed. Th. Mommsen, MGH AA IX, 1892, p. 337): (3) Narses patricius ...
Italiam Imperio Romano reddidit urbesque dirutas restauravit ... (4) Narses
patricius cum Italiam florentissime administraret et urbes atque moenia ad pristinum decorem per XII annos restauraret et populos suo iure atque prudentia foveret... L’impegno di Narsete per il restauro delle chiese è menzionato
anche da Paulus Diaconus, Hist. Lang. 2, 3 (... in recuperandis basilicis satis
studiosus ...) e poi da Dandulus, Chronica A. 557-565 (ed. E. Pastorello, RIS
XII/1, Bologna 1939, p. 73,13). Vedi brevemente S. Tavano, Aquileia e Grado,
Trieste 1986, p. 45 e PLRE III, p. 926 (Narses 1).
(11) I versi che si riferiscono ad Aquileia recitano (Vita s. Martini 4,656662, MGH AA 4/1, pp. 368-369): hinc Venetum saltus campestria perge per
arva, / submontana quidem castella per ardua tendens; / aut Aquiliensem si
forte accesseris urbem, / Cantianos domini nimium venereris amicos / ac
Fortunati benedictam martyris urnam / pontificemque pium Paulum cupienter
adora, / qui me primaevis converti optabat ab annis. Cfr. anche Venance
Fortunat, Oeuvres IV (ed. S. Quesnel), pp. 99 e 170 (commento); Venanzio
Fortunato, Vita di san Martino di Tours (ed. G. Palermo), pp. 151-152.
(12) Aquileia compare indicata come urbs già nelle fonti a partire dal IV
sec. in poi (una delle prime menzioni è fatta da Ausonius, Ordo urbium nobilium IX, 2 [nona inter claras Aquileia ... urbes], seguito da altri nelle fonti che
vanno fino al IX sec.), pur tuttavia viene usata anche l’espressione civitas, termine più generalmente usato per indicare una città (cfr. R. Bratož, Il cristianesimo aquileiese prima di Costantino, Udine-Gorizia 1999, p. 44 nota 43).
Evidentemente Venanzio Fortunato si servì dell’espressione urbs più liberamente se nel prosieguo la troviamo nella menzione di Padova (vedi nota 38).
(13) La forma aggettivale Aquiliensis (invece della più antica
Aquileiensis) si trova nelle seguenti fonti: Episcoporum schismaticorum epistula ad Mauricium 9; 17; 18; 19 (Concilium universale Constantinopolitanum
sub Iustiniano habitum, ed. E. Schwartz, ACO IV/2, Argentorate 1914, p.
133,9 [in sancta Aquiliensi ecclesia]; p. 135,4 [in sancta sede Aquiliensi]; p.
135,11 [metropolitana Aquiliensis ecclesia]; p. 135,16 [ad Aquiliensem synodum]; p. 135,25-26 [matris nostrae Aquiliensis ecclesiae]); Concilium universale Constantinopolitanum tertium (ed. R. Riedinger, ACO, series secunda,
I,1, Berlin 1990), Actio quarta (p. 155,7: episcopus sanctae ecclesiae
Aquiliensis); per la nota cfr. R. Bratož, Il patriarcato di Grado e il monotelismo,
“Studi Goriziani” 87-88 (1998), pp. 7-37, specie p. 29 (forma greca Akylía);
cfr. anche la versione tedesca ampliata del saggio in Slovenija in sosednje
dežele med antiko in karolinško dobo - Slowenien und die Nachbarländer zwischen Antike und karolingischer Epoche [a cura di R. Bratož], Situla 39,
Ljubljana 2000, pp. 609-658, specie p. 636).
(14) Carmina 8,3, vv. 165-166 (MGH AA 4/1, p. 185): Felicem meritis
389
Vicetia laeta refundit / et Fortunatum fert Aquileia suum... Circa la venerazione dei due martiri aquileiesi in questo periodo cfr. R. Bratož, Il cristianesimo
aquileiese (cit. alla nota 12), pp. 389-399; ultimamente G. Cuscito, I martiri
aquileiesi, in Aquileia e il suo patriarcato (a cura di S. Tavano, G. Bergamini,
S. Cavazza), Udine 2000, pp. 33-50, specie pp. 43-47.
(15) Nel componimento De virginitate, vv. 137-176 (Carmina 8,3; MGH
AA 4,1, pp. 184-185) il poeta enumera a parte i santi per così dire rappresentativi di ogni singola città o terra, di norma uno ogni menzione geografica
e raramente (come per Roma e Milano) due santi. In questo caso Aquileia è
rappresentata da Fortunato. Analogie dal vicinato: ... dat Siscia clara
Quirinum (v. 153).... Vitalem ac reliquos quos cara Ravenna sepultat, /
Gervasium, Ambrosium, Mediolane, meum: Iustinam Patavi... (vv. 167-169).
(16) Vedi nota 34.
(17) Cfr. G. Cuscito, I martiri aquileiesi, p. 45 e S. Di Brazzano in Venanzio
Fortunato, p. 437 nota 24; poco chiaro per quest’aspetto G. Palermo, in
Venanzio Fortunato (come alla nota 1), p. 152 nota 39 (martire dal tempo di
Numeriano o Diocleziano) e S. Quesnel in Venance Fortunat IV (cit. alla nota
1), p. 170 nota 89 (F. vescovo e martire di Aquileia). Sulla questione dell’identificazione dei vari santi aquileiesi di nome Fortunato cfr. R. Bratož, Il cristianesimo aquileiese, pp. 79-82, pp. 395-396.
(18) Come Paulinus (pseudoepiscopus) è nominato solo da Pelagius I
papa, Epistulae quae supersunt (556-561), Epist. 59,1 (ed. P.M. Gassó - C.M.
Battle, Montserrat 1956, p. 155 rispettivamente Epist. 46 in PL Supplementum
I, Paris 1967, col. 1303) ed Epist. 57 (PL Suppl. IV, col. 1306 ovvero ed. P.M.
Gassó - C.M. Battle, p. 182). Come Paulus è nominato non solo da Venanzio
Fortunato, ma anche due secoli più tardi da Paolo Diacono (vedi note 30 e
32) e successivamente dalle cronache veneziane (vedi G. Monticolo,
Cronache veneziane antichissime, Roma 1890, p. 6, vv. 4 e 7 [Cronica de singulis patriarchis Nove Aquileie]; p. 41, v. 33; p. 42, vv. 4 e 26; p. 49, vv. 1 e 4
[Chronicon Gradense]; p. 62, vv. 9 e 15; p. 68, v. 4 [Iohannes Diaconus,
Chronicon Venetum]); Origo civitatum Italie seu Venetiarum [ed. R. Cessi,
Roma 1933], pp. 40-42, 72-75, 122-123, 128), e da Dandulus, Chronica, a.
557-569 (ed. E. Pastorello, Bologna 1938, pp. 72, 75, 76).
(19) Vedi nota 11. Il titolo pontifex è in questo caso sinonimo di archiepiscopus (titolo usato dai vescovi scismatici per i patriarchi Elia e Severo; vedi
Episcoporum schismaticorum epistula ad Mauricium 6, 8, 9 [ACO IV/2, ed. E.
Schwartz, Strassburg 1914, p. 133]).
(20) Cfr. S. Quesnel, in Venance Fortunat IV, p. 170 nota 90. Vedi anche
J.F. Niermeyer, Mediae latinitatis lexicon minus, Leiden 1976, s.v. adorare.
(21) Ennodius, Vita beati Antoni 8-9 (ed. F. Vogel, MGH AA 7, 19612, p.
186): s. Severino educò Antonio dagli otto anni di età indirizzandolo sulla strada della futura vita ascetica. Cfr. A.N. Nock, Bekehrung, in RAC 2 (1954), coll.
105-118, specie col. 117; M. Rothenhäusler, Conversio morum, in RAC 3
(1957), coll. 422-424.
(22) Pelagius I papa, Epist. 24,5 (ed. P.M. Gassó - C.M. Battle, p. 75,17):
... Quid autem iam de eorum principe loquar, qui et monachum, si tamen aliquando fuit, inuadendi episcopatum ambitu perdidit... Cfr. S. Di Brazzano in
Venanzio Fortunato, 16 (con la supposizione, che Venanzio abbia conosciuto
Paolino in uno dei centri episcopali del bacino di Piave come erano Asolo,
Treviso, Oderzo o Altino).
(23) PLRE III, pp. 923-924 (Narses 1); E. Stein, Histoire II, pp. 610-611.
(24) G. Cuscito, Cristianesimo antico, pp. 293-294; C. Sotinel, Pelagio I
(cit. alla nota 7), pp. 533-534.
(25) Pelagius I papa, Epistulae 24,1;5;7 (ed. P.M. Gassó - C.M. Battle, pp.
73-75). Sul patrizio Giovanni vedi PLRE III, pp. 669-700 (Ioannes 71).
(26) Pelagius I Papa, Epist. 52 (ed. P.M. Gassó - C.M. Battle, pp. 134-139).
(27) Pelagius I papa, Epist. 53 (ed. P.M. Gassó - C.M. Battle, pp. 140142), specie 53,10 (p. 142, 33-36; il papa sollecitò il patrizio a mandare il vescovo aquileiese a difendersi davanti all’imperatore). Cfr. anche Epist. 52,14
(p. 138, vv. 64-65): ... hi qui talia praesumpserunt ad piissimum principem sub
digna custodia dirigantur...
390
(28) Pelagius I papa, Epist. 59 (ed. P.M. Gassó - C.M. Battle, pp. 155158); sul patrizio Valeriano vedi PLRE III, p. 1361 (Valerianus 1).
(29 Pelagius I papa, Epist. 60; 65 (ed. P.M. Gassó - C.M. Battle, pp. 159173; con la domanda, ut ab ecclesiae unitate diuisi, et eius pacem iniquissime perturbantes, a saecularibus etiam potestatibus conprimantur [Epist.
65,5, p. 173,19-21]).
(30) Paulus Diaconus, Hist. Lang. 2, 10 (ed. L. Capo, cit. alla nota 2, p.
88 e p. 433-434): Aquileiensi quoque civitati eiusque populis beatus Paulus
patriarcha praeerat. Qui Langobardorum barbariem metuens, ex Aquileia ad
Gradus insulam confugiit secumque omnem suae thesaurum ecclesiae deportavit. Sul ruolo dei vescovi nella tarda antichità vedi S. Mochi Onory,
Vescovi e città, “Rivista di storia del diritto italiano” 4 (1931), pp. 245-329 e
555-600; 5 (1932), pp. 99-179 e 241-312; 6 (1933), pp. 199-238.
(31) Chronicon Gradense (G. Monticolo, Chronache veneziane antichissime, Roma 1890, pp. 40-41): ... qui sanctissimus patriarcha ... corpora autem sanctorum Cancii, Canciani et Cancianille in ecclesia sancti Johannis
evangeliste celeberrime composuit ... corpora sanctorum Quirini, Illari et
Taciani et ceterorum secum asportaverunt. Stando alla tradizione posteriore,
le reliquie di Felice e Fortunato sarebbero state scoperte solo nel 628 e quindi traslate a Grado; cfr. Cronica de singulis patriarchis Nove Aquileie (G.
Monticolo, Cronache, p. 10; R. Bratož, Il cristianesimo aquileiese, p. 395 nota 141).
(32) Paulus Diaconus, Hist. Lang. 2, 25 (ed. L. Capo, p. 106): Paulus
quoque patriarcha annis duodecim sacerdotium gerens, ab hac luce subtractus est regendamque ecclesiam Probino reliquit.
(33) Vita s. Martini 4, 663-676 (MGH AA 4,1, p. 369): si petis illud iter qua
se Concordia cingit, / Augustinus adest pretiosus Basiliusque. Della venerazione di questi santi a Concordia parla soltanto Venanzio Fortunato. Cfr. S.
Tavano in La chiesa concordiese 389-1989 I. Concordia e la sua cattedrale
(ed. C.G. Mor, P. Nonis), Pordenone 1989, p. 47; vedi anche S. Quesnel in
Venance Fortunat IV, p. 171 nota 91 (che propende per il parere che dietro i
due nomi si celino s. Agostino e Basilio Magno); sulla complessa questione
cfr. anche P. Zovatto, Le origini del cristianesimo a Concordia, Udine 1975, p.
27-28; 82 (che ritiene trattarsi di due martiri locali).
(34) Vita s. Martini 4, 663-676 (MGH AA 4,1, p. 369): Qua mea Tarvisus
residet, si molliter intras, / inlustrem socium Felicem quaeso require, / cui mecum lumen Martinus reddit olim. L’episodio della miracolosa guarigione a
Ravenna, che interessò Venanzio Fortunato e l’ipsius socius Felice, è descritto anche da Paulus Diaconus, Hist. Lang. 2, 13 (ed. L. Capo, pp. 90-92) e da
Gregorius ep. Turonensis, De miraculis s. Martini 1,15 (PL 71, col. 927 C).
(35) Venanzio Fortunato lo indica con l’espressione socius, quindi non fa
cenno del suo titolo vescovile che probabilmente portava nel 575 quando la
poesia fu scritta. Secondo l’assetto ecclesiale della tarda antichità, Felice all’età di trent’anni sarebbe potuto diventare presbyter (Concilium
Neocaesariense, c. 11; Concil. Trullanum, c. 14; vedi C. Kirch, Enchiridion
fontium ecclesiae antiquae, Barcinone etc. 1965, p. 226; P.-P. Joannou, Les
canons des conciles oecuméniques, Grottaferrata [Roma] 1962, p. 143). Con
la legge giustinianea del 546 l’età minima per un vescovo era di non minus
quam triginta quinque aetatis annos (Iustinianus, Novellae 123, 1,1 [Coprus
Iuris civilis III, edd. R. Schoell, G. Kroll, Berlin 19597, p. 594]). Con la
Constitutio pragmatica 11 (Coprus Iuris civilis III, p. 800) dell’anno 554 tutte
le leggi imperiali erano in vigore anche per partes Italiae..., ut una deo volente facta republica legum etiam nostrarum ubique prolatetur auctoritas.
(36) Paulus Diaconus, Hist. Lang. 2, 12 (ed. L. Capo, pp. 90 e 435): Igitur
Alboin cum ad fluvium Plavem venisset, ibi ei Felix episcopus Tarvisianae ecclesiae occurrit. Cui rex, ut erat largissimus, omnes suae ecclesiae facultates
postulanti concessit et per suum pracmaticum postulata firmavit. L’atto di
Felice, che ricorda l’incontro di Attila e di papa Leone Magno nel 452, ha varie analogie nel V e VI sec. quando i vescovi (o uomini in odore di santi) affrontando coraggiosamente i re barbari salvarono la propria comunità religiosa (cfr. alcuni esempi in R. Bratož, Der “heilige Mann” und seine Biographie,
391
in Historiographie im frühen Mittelalter [a cura di A. Scharer e G.
Scheibelreiter], Wien, München 1994, pp. 222-252, specie p. 233 note 44 e
45). L’atto di Felice era oltremodo arrischiato non soltanto per l’incertezza dell’esito quanto perché da parte della propria comunità o del potere profano bizantino poteva essergli mossa l’accusa di tradimento della città.
(37) Paulus Diaconus, Hist. Lang. 3,26 (ed. L. Capo, p. 158: ... Rusticus
de Tarvisio); Episcoporum schismaticorum epistula ad Mauricium, in ACO
IV,2, p. 135 (Felix episcopus sanctae Teruisianae ecclesiae).
(38) Vita s. Martini 4, 672-676 (MGH AA 4,1, p. 369): Si Patavina tibi pateat via, pergis ad urbem: / huc sacra Iustinae, rogo, lambe sepulchra beatae, / cuius habet paries Martini gesta figuris; / quove salutis opus celso depende Iohanni / atque suis genitis, sociis per carmina nostris.
(39) Cfr l’epitafio del papa Felice IV. († 530; ILCV 986,4: ... promeruit ...
celsum locum) e Giovanni II. († 535; ILCV 988,5: celso dignus honore).
(40) I pareri dei commentatori su questo passo: S. Quesnel in Venance
Fortunat IV, p. 171 nota 94: il Giovanni padovano è forse da identificarsi con
vescovo Giovanni che aveva procurato le reliquie per la chiesa di s. Andrea
a “Ravenna” (vedi nota 52); G. Palermo in Venanzio Fortunato, p. 153 nota 47
(vescovo di Padova di cui peraltro nulla si sa).
(41) Stando alle leggi di Giustiniano del 528 (Codex Iustinianus 1,3,41,24 [Corpus iuris civilis II, rec. P. Krüger, Dublin-Zürich 196714, p. 26]) e poi del
531 (Codex Iustinianus 1,3,47 [ivi, p. 34]) non poteva essere nominato vescovo chi avesse moglie e prole; nel caso fosse stato eletto un vescovo così,
la sua elezione era da considerarsi nulla. L’elezione del vescovo Giovanni, di
una generazione più anziano del poeta e pertanto coetaneo del patriarca
aquileiese Paol(in)o (i figli di Giovanni si erano dedicati già prima del 565 alla poesia!) era dunque illegittima. Sulla questione dei chierici del tempo coniugati riferisce brevemente R. Bratož, Ecclesia in gentibus, in Grafenauerjev
zbornik (a cura di V. Rajšp), Ljubljana 1996, 205-225, specie p. 217-218 nota
59. L’unico chierico con prole conosciuto nella metropoli scismatica aquileiese in questo periodo era Claudius arc(hidiaconus) di Parenzo, raffigurato insieme col figlio Eufrasio sul catino absidale della basilica Eufrasiana (M.
Prelog, The basilica of Eufrasius in Poreč, Zagreb 1994, p. 66).
(42) H. Wolff, Die Kontinuität der Kirchenorganisation in Raetien und
Noricum bis an die Schwelle des 7. Jahrhunderts, in Das Christentum im bairischen Raum. Von den Anfängen bis ins 11. Jahrhundert (a cura di E. Boshof
e H. Wolff), Köln, Weimar, Wien 1994, pp. 1-27, specie p. 26; vedi anche G.
Fedalto, Aquileia. Una chiesa due patriarcati, Roma 1999, p. 350.
(43) Pelagius I papa, Epist. 53,7-8 (ed. P.M. Gassó - C.M. Battle, pp. 141142: ... Eufrasii ... scelera ... in homicidio ... incestuoso autem in adulterio ...).
Cfr. Codex Iustinianus 9,9,29(30) (cit. alla nota 41, p. 376).
(44) In una serie dei manoscritti il vescovo Vitale compare con l’attributo
(nell’accusativo) di rauennensem (anche: rauensem, rauenatem), che non
troviamo nell’elenco introduttivo della poesia (cfr. MGH AA 4,1, pp. 3 e 7; M.
Reydellet, in Venance Fortunat I, pp. 19 e 166 [commento]; S. Di Brazzano, in
Venanzio Fortunato, pp. 108-109).
(45) Agnellus (qui et Andreas), Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis 6983 (ed. O. Holder-Egger, MGH Script. rerum Langob. et Ital. s. VI-IX, Hannover
1878, pp. 325-333); vedi le sequenti edizioni commentate: Codex pontificalis
ecclesiae Ravennatis I (ed. A. Testi Rasponi, RIS II/3, Bologna 1924), pp. 186213; D.M. Deliyannis, The Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis: Critical edition and commentary, Ann Arbor (Michigan) 1994, pp. 523-533; Agnellus von
Ravenna, Liber pontificalis - Bischofsbuch. Übersetzt und erläutert von C.
Nauerth, Fontes christiani 21,1-2, Freiburg etc. 1996, pp. 300-337.
(46) Agnellus (qui et Andreas), Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis
84-92 (ed. O. Holder-Egger, pp. 333-336).
(47) Carmina 1,1 (MGH AA 4,1, pp. 7-8); cfr. Venance Fortunat, Poèmes
I (ed. M. Reydellet), Paris 1994, pp. 20-21 e 166-167 (commento); Venanzio
Fortunato (ed. S. Di Brazzano), pp. 108-111.
(48) Cfr. Carm. 1,1,11-12 (p. 7): emicat aula potens, solido perfecta metallo, / quo sine nocte manet continuata dies.
392
(49) Carm. 1,1, 19-22 (p. 8): Prosperitas se vestra probat, quae gaudia
supplens / intulit egregios ad tua vota viros. / dux nitet hinc armis, praefectus
legibus illinc: / venerunt per quos crescere festa solent.
(50) Carm. 1,2 (MGH AA 4,1, pp. 8-9); cfr. Venance Fortunat, Poèmes I
(ed. M. Reydellet), pp. 21-23 e 167-168 [commento]). Dato che Vitale vi è indicato con l’aggettivo di rauennensis soltanto in due manoscritti mentre in tutti gli altri è presentato con l’indicazione del luogo Rauenna o Rauennae, M.
Reydellet (p. 166 nota 1) propende per l’opinione che Rauenna denoti il luogo dove la poesia fu scritta, luogo che gli amanuensi avrebbero poi scambiato con la sede vescovile del protagonista.
(51) G. Cuscito, Venanzio Fortunato (cit. alla nota 3), p. 215, rileva la somiglianza con l’iscrizione eufrasiana di Parenzo (Inscriptiones Italiae X,2, 81).
Cfr. anche: G. Cuscito, Vescovo e cattedrale nella documentazione epigrafica in Occidente. Italia e Dalmazia, in Actes du XIe congrès international d’archéologie chrétienne (a cura di N. Duval, Collection de l’École Française de
Rome 123 - Studi di antichità cristiana 41), Roma 1989, pp. 735-776, specie
pp. 746-753 e 759-765.
(52) Carm. 1,2,25-26 (p. 9): haec bonus antistes Vitale urguente
Iohannes / condidit egregio viscera sancta loco.
(53) Carm. 1,2,7-24 (p. 8). Le reliquie degli apostoli (specie di Andrea)
vennero traslate già verso 400 in Occidente e poi distribuite in varie chiese;
cfr. Y.-M. Duval, Aquilée et la Palestine entre 370 et 420, AAAd 12, 1977, pp.
263-322, specie pp. 309-314. Sulla loro presenza nel Norditalia e nell’area
aquileiese attorno al 400 cfr. anche R. Bratož, Il cristianesimo aquileiese (cit.
alla nota 12), pp. 97-98.
(54) Delle reliquie menzionate di sette singoli santi e di un loro gruppo si
accennò in quel periodo a ben cinque presenti a Ravenna. Il vescovo
Massimiano eresse la chiesa di s. Stefano in cui conservò le reliquie di venti
santi: quelle degli apostoli Pietro, Paolo e Andrea (!), al dodicesimo posto si
menziona Lorenzo (Agnellus, Liber pontificalis, c. 72 [ed. O. Holder-Egger,
come alla nota 45, pp. 327-328; ed. A. Testi Rasponi, p. 191; ed. D.M.
Deliyannis, p. 525]); a Ravenna si trovavano pure le reliquie del martire Vitale,
che secondo Venanzio era ritenuto martire ravennate (cfr. Vita Martini 6, 682),
al quale il vescovo costruì una chiesa a parte (Agnellus, Liber pontificalis, c.
77, ed. O. Holder-Egger, pp. 329-330). Nel citato gruppo di reliquie ravennate mancano s. Martino, il vescovo tridentino Vigilio coi compagni (Marturius,
Sisennus, Alexander; vedi A. Quacquarelli, I. Rogger [ed.], I martiri della Val
di Non e la reazione pagana alla fine del IV secolo, Trento 1985, specie pp.
159-170), manca anche Cicilia (invece di Cecilia), nominata all’ultimo posto.
Quest’ultima appare nello stesso tempo – e nella stessa grafia come in
Venanzio (cioè Cicilia) – tra le raffigurazioni delle dodici sante nella basilica
Eufrasiana di Parenzo (vedi M. Prelog [cit. alla nota 41], p. 19; R. Bratož, Il cristianesimo aquileiese, p. 440 nota 273).
(55) Agnellus, Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis 69-83 (ed. O. HolderEgger, pp. 325-333); Massimiano era un grande veneratore dell’apostolo
Andrea; tra l’altro restaurò la chiesa a lui consacrata (Liber pontificalis eccl.
Ravenn. 76; ed. O. Holder-Egger, p. 329; ed. A. Testi Rasponi, pp. 195-196).
(56) Cfr. Luchi