1 Avevo quindici anni, o forse venti, quando venni

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1 Avevo quindici anni, o forse venti, quando venni
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Avevo quindici anni, o forse venti, quando venni catapultato sulle scene della storia del mondo1. Me lo ricordo bene. Il problema
è che non ricordo cosa sia successo prima: vedo solo grandi figure
scure uscire dalle tenebre attraverso deserti di fango. Il mio primo
ricordo è quello di una donna, una ragazza. No, non è vero. Il mio
primo ricordo è quello di una farfalla, probabilmente una fritillaria,
che apriva e chiudeva lentamente le ali color cannella, costellate di
macchie, sbavature e puntini neri: un paio di forbici immaginarie
le aveva tagliate come le falde di un frac; di tanto in tanto l’animaletto si stropicciava gli occhi e la proboscide a forma di molla con
le zampette anteriori. Era posata su una rotondità di pelle bianca,
a pochi centimetri dai miei occhi, una spalla di marmo perfetto,
non fosse stato per qualche neo che saliva e scendeva quasi impercettibilmente mentre la donna inspirava ed espirava sotto di me...
e meglio di me, dato che la mia pancia rimaneva schiacciata da
braccia che minacciavano di spremermi la vita.
Maribel era una ragazzona. Nel senso che era molto più grossa
di me. Aveva i denti radi dalla nascita, il naso camuso e occhi nerissimi, dall’aria beffarda. I suoi capelli scuri, tagliati in malo modo,
erano corti e in gran parte nascosti dall’unico indumento che indossava: un foulard rosso a pois bianchi, annodato dietro il collo,
che le copriva quasi tutta la testa. Pochi istanti prima si era tolta
una camicetta ocra, una ruvida gonna nera e un paio di zoccoli di
legno, solo dopo avermi spogliato.
Una prolungata raffica di fucili a circa mezzo miglio di distanza la spinse a muoversi più bruscamente, così la farfalla volò via.
1. In verità – mi si perdoni l’intrusione, tanto più nella nota di un romanzo –,
tenendo conto di quel che sapremo più avanti sul conto di Charlie, all’epoca probabilmente di anni ne aveva venticinque.
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Una spia molto inglese
Il suo volo incerto e ondeggiante la portò a posarsi nuovamente
su di un rovo in fiore, stavolta per succhiare il nettare gustoso al
centro di una corolla di cinque petali imperlati, un minuscolo fiore
di mora. Maribel alzò la testa: un misto di curiosità e preoccupazione le fece serrare le labbra e aggrottare la fronte. Poi mi fece
un sorriso, mormorò qualcosa nel suo rozzo dialetto e si contorse
leggermente, cambiando posizione di modo che il mio membro
rigido potesse penetrarla ancora.
Anch’io mi mossi, e le mie ginocchia si impiastricciarono nel
fango, nello sterco di vacca e nell’arenaria calcarea tra le sue cosce
maestose.
Gli spari di fucile che avevano distratto Maribel erano quelli
dell’esercito britannico intento a schiarirsi la voce: in pratica, per
pulire la canna del proprio moschetto Brown Bess, ogni soldato
aveva scaricato l’arma in aria.
Poco dopo anch’io scaricai la mia arma dentro Maribel, anche
se per lei era troppo presto. Non fece differenza. Era tale il vigore
della giovinezza che i miei appetiti e il mio desiderio ne risentirono
a malapena e solo per poco, e anche lei poté subito riprendere il
suo viaggio verso l’estasi.
Questa si fece attendere a lungo. Il problema era che lei era così
grossa e io così piccolo, fisicamente intendo, non parlo certo del
mio membro; le rotondità e le curve delle sue cosce e del suo pube
erano tali che, anche se il mio membro era, ed è tuttora, grande
rispetto al resto del corpo, non poteva far altro che limitarsi a varcare la soglia di quella porta che lei gli aveva spalancato.
Maribel capovolse le posizioni. Era grande e grossa, ma anche
forte e vigorosa. Cingendomi la vita con entrambe le mani mi sollevò sopra di lei, quasi fossi un gattino o un cagnolino e poi, rotolando grazie alla leggera pendenza del fondo di quel canale, di
quel fosso, mi fece sdraiare sulla schiena e lei fu sopra di me, con
le ginocchia piantate nella terra bagnata e argillosa ai lati del mio
corpo, con le mani molto più in là della mia testa e i seni che ormai mi schiaffeggiavano le guance, oscurando quel poco di cielo
che sarei riuscito a vedere oltre i rami e i fiori di sambuco sopra di
noi. In quella posizione, tentò di avvicinare il fiore del suo segreto
al mio uccello imponente e virile, ancora sull’attenti, dritto come
una Guardia Imperiale con tanto di colbacco. Le foglie di agrifoglio mi si conficcarono nella schiena come una spinosa camicia di
penitenza.
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Capitolo primo
C’erano centomila piedi che battevano il suolo mentre le bande
suonavano, ma non abbastanza vicino da distrarre la mia Maribel.
Le davano più fastidio le mosche, di quelle lucenti e marroni che
pungono voracemente. A neanche un metro dal suo ginocchio sinistro c’era un grosso escremento di vacca che, in un primo momento, aveva attirato gli insetti a succhiare il liquame giallastro formatosi all’interno del suo cratere concavo; ora però, placata la sete,
erano in cerca di roba un po’ più sostanziosa. Maribel si distolse
un attimo dai suoi tentativi per schiacciarne una che le si era posata sulla spalla. Si staccò i resti dell’insetto dalla mano lasciandoli
cadere sulla mia pancia, poi tornò a infilarla, la mano intendo, tra i
nostri corpi, in cerca di ciò che voleva, per infilarselo tanto dentro
che pensai di venir inghiottito per intero da quel buco, cominciando dalle palle per passare poi al resto del corpo.
I finimenti dei cavalli stridevano, tanti finimenti, il ticchettare
e il trottare di zoccoli, molti, moltissimi zoccoli; sentimmo prima
il fruscio e poi il frastuono della segale travolta e calpestata oltre
il cespuglio di agrifoglio, biancospino e sambuco. Spostando per
quanto possibile la testa a sinistra e sbirciando da un triangolo
di luce che filtrava dai peli della sua ascella, vidi gli stendardi in
cima alle lance d’acciaio alzarsi e abbassarsi velocemente, al ritmo
di trotto del destriero che li precedeva. Uno squillo di tromba e,
come una cosa sola, le truppe si allontanarono dal fossato, scomparendo. Ma non prima che il sole avesse dardeggiato sulla parte
posteriore di una corazza, lucida come uno specchio.
Oltre il fossato c’era una collina, un pendio basso; lungo e sinuoso questo serpeggiava tra campi di segale di un verde bluastro, più blu che verde, alti abbastanza da nascondere un uomo,
e che la brezza carezzava con le sue dita. Vi si trovavano fossati
profondi quanto quello in cui eravamo noi, sovrastati da doppie
volte di sambuco, e poi negli avvallamenti più bassi ontano, agrifoglio, biancospino; e infine, ai loro margini, acetosa, acetosella,
ortica, erba cimicina, buglossa e sigilli di Salomone che ricoprivano il pendio. C’erano anche digitali, e nugoli di farfalle, piccole e
azzurre, bianche, scarlatte e scure, alcune di un nero brillante, altre
color cannella. In lontananza un gallo cantava, un merlo chioccolava sopra le nostre teste, mentre a un miglio di distanza le ruote
di cinquecento tra cannoni, pezzi di varia artiglieria e vagoni di
munizioni stridevano in un frastuono dissonante.
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Una spia molto inglese
Maribel sbuffò, o forse sospirò, sollevò poi il ginocchio increspato e la coscia bianca come il latte sopra al mio corpo, come
se stesse scendendo da un cavalluccio a dondolo, mostrando per
un istante il nero della folta peluria tra le gambe, resa viscida dai
suoi umori. Poi, drizzandosi a sedere sulle enormi chiappe, si girò,
alzando una piccola quantità di fanghiglia gelida e salmastra: ora
eravamo l’uno accanto all’altra, fianco a fianco. Per un momento,
da seduta, si protese in avanti con le braccia attorno alle ginocchia
sollevate, girò la testa e la scosse di nuovo facendo ricadere sulle
massicce spalle alabastrine i capelli neri screziati di fango bruno,
prima raccolti sotto il foulard a pois bianchi. Imbronciata, Maribel
aggrottò le sopracciglia aggiustandosi il foulard e si mise a pensare. Poi mi cinse la vita con il suo braccio possente e, spingendo
leggermente e mormorando imprecazioni fino a quando non capii
cosa volesse, mi mise a cavalcioni sopra di lei, ancora una volta
sdraiato; adesso però ero girato dall’altra parte: avevo la schiena
rivolta verso la sua testa e la mia, di testa, sprofondata tra le sue
cosce.
Gli odori di Maribel erano magnifici. Letame di cortile con un
dolce sottofondo muschiato di fiore di biancospino. Stavo per soffocare. Rimasi senza fiato, mi dimenai. Mi sollevavo da quell’aria
fetida per poi rituffarmici. Cominciai a darmi daffare, la terra tremava, il tuono mi ruggiva nelle orecchie. Premetti le spalle e il petto sulle rotondità del suo ventre, allungai la mano sotto e le infilai
due dita nel culo. Funzionò: raggiunse l’orgasmo, e anch’io.
Il tuono continuò a rombare, e la terra a tremare.
Lei mi gettò da un lato, sguazzò nella fanghiglia, e si mise seduta di fronte a me. Il suo volto era circondato da un ovale di luce
proveniente dal fondo del tunnel verde in cui eravamo seduti. Mi
sorrise, fu un sorriso stupido, un po’ timido, un po’ trionfale, con
le guance rosse simili a due quarti di luna. Ansimò per un po’, poi,
con la testa sollevata e piegata di lato, scrutò i fiori e la luce del sole
attraverso le foglie screziate, pronunciando qualche parola. Non
sono sicuro di aver ben capito quel che disse, tuttavia, inglesizzando, fu qualcosa del tipo:
«Che cazzo succede?».
«Una battaglia?» dissi io.
Una sfera, di ferro, dal diametro di trenta centimetri o forse più,
con la miccia accesa e crepitante, lanciata sul tetto di fogliame, cadde sei o sette metri dietro di lei, rotolando giù per il pendio, verso
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Capitolo primo
Maribel, la miccia sibilò e scomparve, e la granata esplose. Frammenti del rivestimento esterno e molti chili di palle da moschetto
sfrecciarono fischiando in aria, strappando via foglie, ramoscelli e
fiori di sambuco. Un pezzo del rivestimento della granata quasi le
staccò la testa, mentre quattro pallettoni le si conficcarono nella
schiena. Cadde in avanti, sulle ginocchia, poi sulla faccia.
Le devo molto. Se, per quanto involontariamente, non mi avesse
fatto scudo nell’esplosione, avrei potuto finire a pezzi.
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